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L’invisibile di Modì

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 14, 2015

Modigliani, Testa rossa

Modigliani, Testa rossa

Fino al 15 febbraio è ancora possibile vedere la bella mostra, Modigliani et ses amis che Jean Michel Bouhours, curatore del dipartimento delle collezioni moderne del Centre Pompidou, ha realizzato in Palazzo Blu a Pisa, riallacciando la formazione dell’artista livornese (cresciuto studiando la profondità di Masaccio e maestri del gotico toscano) agli esiti più originali della sua ricerca maturata a Parigi, tra il 1906 e il 1920, anno della sua prematura morte.
Ripercorrere gli esordi di Modì nell’originario contesto toscano riporta in primo piano le radici trecentesche e arcaiche dei suoi scultorei ritratti, “primitivi”ed essenziali. Ma al contempo permette di cogliere pienamente il coraggioso salto che egli riuscì a compiere, nella ricerca di una propria, personalissima, strada. Distante anni luce dalla attardata pittura figurativa dei macchiaioli. Ma anche diversa dalla scomposizione della figura praticata dall’avanguardia cubista che Modì giudicava troppo fredda e geometrizzante.

Affascinato non tanto dall’idea di Cézanne di dipingere la natura attraverso cubi, cilindri ecc, ma dalla sua visione “onirica” assorbì e rielaborò anche il cromatismo del pittore di Aix. Come racconta qui il misterioso ritratto di impronta cézanniana intitolato Testa rossa (1915).

L’intento era dipingere “l’invisibile”. “Ciò che cerco – diceva – non è il reale né l’irreale, ma l’inconscio”, come si legge nel catalogo Skira. E dal vivo ci parlano di questo suo appassionato tentativo di ricerca artistica sul non cosciente le forme allungate e deformate dei suoi morbidi nudi femminili, l’aspetto longilineo dei suoi soggetti dai volti stilizzati, dai colli affusolati e quegli occhi senza pupille, mutuati forse dalle culture antiche (khmer e yemenite) osservate al Louvre.

In Palazzo Blu il discorso si dipana attraverso un centinaio di opere, fra dipinti e sculture di Modì, di Brnacusi, Gris, Picasso, Soutine e di altri protagonisti della avventurosa stagione di Montparnasse, provenienti dal Pompidou e da altri musei parigini come l’Orangerie, il Musée d’Art Moderne e poi dalla Pinacoteca Agnelli, da Brera e da Villa Mimbelli. In particolare colpisce il dialogo a distanza fra le potenti ed enigmatiche sculture di Brancusi e certi scultorei quadri di Modì come Le cariatidi.

Modì si sentiva intimamente scultore anche quando dipingeva come ben documenta Federica Rovati ne L’arte del primo Novecento, da poco uscito per Einaudi, parlando anche delle forme classiche che Modì seppe ricreare, in chiave anti accademica. Poi prima di uscire lo sguardo torna a posarsi sui magnetici di Guillame, di Soutine della bella e malinconia Jeanne. Ritratti in cui Modì non è fedele alla mimesi, alla fisionomia, ma sa far emergere il mondo interiore del soggetto, qualcosa che forma l’espressione del volto e che viene da dentro. Tratteggiando così personalità individuali, ogni volta diverse. Ma al tempo stesso riuscendo ad astrarre dalla contingenza qualcosa di universale che accomuna tutti gli esseri umani, proprio in quanto tali.

( dal settimanale Left del 7 febbraio 2015)

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Arnaldo Pomodoro, il poeta della scultura

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 16, 2012

Impegno civile e una vitale voglia di ricercare. E poi le esperienze di vita  ,i  viaggi,  gli incontri che hanno alimentato il suo lavoro di artista. Il maestro Arnaldo Pomodoro si  racconta in occasione dell’uscita del libro intervista Vicolo dei lavandai.

di  Simona Maggiorelli

Ho sempre sentito in me la necessità di un coinvolgimento concreto da un punto di vista sociale» racconta Arnaldo Pomodoro a Flaminio Gualdoni che lo intervista nel libro Vicolo dei lavandai, uscito il 7 giugno per le edizioni Con-fine. Poeta della scultura che si è formato nell’antifascismo ha sempre rifiutato l’idea dell’artista chiuso nel suo studio, come torre d’avorio. Dal dopoguerra contribuendo alla rinascita del Paese con la creazione di  opere di grande valore civile in spazi pubblici.

«Sono molto sensibile alla responsabilità dell’arte che, secondo me, ha un carattere etico: esprime non solo un autore e uno stile suo proprio, ma anche i motivi e il senso di una civiltà», commenta il Maestro. Che subito aggiunge: «L’apporto dell’arte allo sviluppo della società è fondamentale e lo è soprattutto in questo periodo di grande incertezza e di profonde trasformazioni: le opere d’arte sono un riferimento decisivo della percezione nello spazio-tempo in cui oggi viviamo. E proprio da questa consapevolezza è nata l’idea della mia Fondazione qui a Milano.
Un artista può aiutare a “curare” la città dal degrado e della perdita di identità?
Certamente, oggi c’è l’esigenza di ritrovare la vitalità e l’entusiasmo per la cultura e per le arti. C’è bisogno di sviluppare un senso di vita in comune e una progettualità armoniosa, globale, proiettata verso il futuro.

Quando lei arrivò a Milano la città viveva un momento di straordinaria vivacità sul piano culturale e artistico. Un suo vicino era Lucio Fontana. Come lo ricorda e che memorie ha di quella stagione?
Ho incontrato Lucio Fontana nel 1954 a Milano, dove mi ero appena trasferito da Pesaro: fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico milanese. Per tanti artisti più giovani Fontana è stato maestro nel  comprendere le capacità e i percorsi di ricerca individuali attraverso il suo formidabile senso del nuovo: anche per me è stato come un padre che mi ha stimolato, incoraggiato, sempre seguito. Ricordo il suo sorriso così espressivo ed ironico, quel suo modo di parlare con semplicità, ma sempre con grande acume. Si muoveva con gesti tanto vivaci ed espressivi che potevi vedere idealmente l’intreccio dei suoi segni, gli arabeschi costruiti con il neon, da lui utilizzato come mezzo artistico prima di chiunque altro, a dimostrazione dello spirito inventivo che ha animato tutto il suo lavoro.
Pomodoro, ContinuumLa sua arte è percorsa da un rinnovamento e da una tensione continua. Ad alimentarla è stata la sua esperienza di vita?
Sì, penso ad esempio al mio primo viaggio negli Stati Uniti, dove sono andato nel 1959, grazie ad una borsa di studio del ministero degli Affari esteri. Quell’esperienza ha avuto un’importanza fondamentale. L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava
in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. E’ qui che ho una “folgorazione”: osservando le sculture di Brancusi sento che mi  emozionano al punto di aver voglia di distruggerle e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene così l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale, pura, astratta.
Molto importanti nel suo lavoro sono la memoria, la storia, i segni che hanno lasciato le culture che ci hanno preceduto. Come nacque il suo interesse per le antiche scritture del Vicino Oriente e per le iscrizioni a caratteri cuneiformi che poi lei ha ricreato in alcuni suoi capolavori?
Ho sempre subito il grande fascino di tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti. La ricerca sul segno, d’altra parte, emerge costante in tutto il mio lavoro. Si tratta di diversi elementi modulari, di serie di segni leggeri e ritmici: cerco, nei miei Papiri ad esempio, come nel gruppo di opere recenti intitolate Continuum, di mettere in evidenza la musicalità e la poesia, e forse per questo mi sento vicino ai musicisti e ai poeti.
E quello per le incisioni rupestri dei Camuni? La creatività, l’arte, la capacità di realizzare immagini di valore universale connotano i punti più alti della storia umana fin dal paleolitico?
Senza dubbio. E’ l’espressione artistica la prima e fondamentale forma di comunicazione e relazione tra gli uomini. La forza dell’arte
dipende dalla sua capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche.
Per me “fare arte” è un atto di libertà che si deve compiere in modo semplice e rigoroso senza alcuna visione strumentale. Per me l’ideale
è ambientare le opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni. La scultura supera così il limite di un’arte chiusa
nei musei e nelle collezioni private e diventa dominio di tutti, diventa il modo di inventare un nuovo spazio e mutare il senso di una
piazza, di un ambiente.

 

Arnaldo Pomodoro

Sessant’anni di  ricerca di un maestro
Scavare dentro le forme, scoprirne  i fermenti interni, come a portare alla luce la ricchezza di un universo interno sconosciuto e affascinante. Nascono così le sfere sgranate di Arnaldo Pomodoro, percorse da fessure che ne lasciano intravedere i nuclei vitali. Ma centrali nella poetica dell’artista (classe 1926) sono anche Cippi e Papiri, alveari di segni che alludono a una scrittura misteriosa di cui si è perduto il codice e che evocano una cultura diversa da quella occidentale. Così come l’altera ed elegante serie di stele ispirate all’antico tempio della regina di Saba che colpì la fantasia dello scultore in Yemen. Il viaggio come «metafora della vita», come tensione verso la scoperta del nuovo è sempre stato una fonte di ispirazione per Pomodoro fin da quando, giovanissimo, cercava una via di uscita dall’opprimente autarchia fascista attraverso viaggi
immaginari in America, grazie alla collana di  Cesare Pavese ed Elio Vittorini per Einaudi. Gli anni Cinquanta e Sessanta saranno poi prendono avvio le grandi sculture pubbliche, non solo in Italia: opere nate in rapporto profondo con la storia, con le dinamiche culturali dei contesti in cui oggi vivono come fossero organismi che mutano nel tempo.   s.m

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La primavera araba preconizzata dallo scrittore Lakhous

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 30, 2011

 In Italia è noto soprattutto per il best seller Scontro di civiltà  per un ascensore a piazza Vittorio,ma nel  romanzo di esordio di  Amara Lakhous, censurato in Algeria ( e che per un pelo non gli costò la vita), sono raccontate le radici della protesta mediorentale contro regimi corrotti e autoritari, che sarebbe sfociata nella rivolta di piazza Tahrir. Con il titolo Un pirata piccolo piccolo è ora pubblicato dalle Edizioni e/o. Sarà presentato il primo luglio al meeting antirazzista di Cecina organizzato dall’Arci e il 5 luglio al circolo Elsa Morante di Roma.

di Simona Maggiorelli

Amara Lakhous

La “visionaria” capacità dello scrittore algerino Amara Lakhous di anticipare gli eventi delle attuali rivolte arabe  appare davvero sorprendente leggendo Un pirata piccolo piccolo, il suo romanzo di esordio, che ora torna in libreria grazie alle Edizioni e/o. In questa “commedia nera” dai toni ironici e autoironici, un giovanissimo Lakhous offriva nel 1993 una lucida radiografia del malessere delle società mediorientali sotto regimi autoritari e corrotti. Scavando in profondità nell’insofferenza crescente che già si avvertiva ad Algeri dove giovani, intellettuali, lavoratori erano stati ricacciati ai margini della società ed erano oppressi da uno Stato di emergenza che fingeva di salvare la neonata democrazia.

«Gli ex combattenti della guerra di liberazione si erano impossessati della rivoluzione vinta contro la Francia colonialista. Avevano creato una casta di privilegiati e trasformato l’Algeria in un bottino di guerra», ricorda lo stesso Lakhous nella prefazione della nuova edizione del libro (che sarà presentato il 1 luglio al Meeting antirazzista di Cecina e il 5 luglio a Roma). Nel frattempo la violenza dell’integralismo religioso cominciava ad avvelenare ogni istanza di vero cambiamento: «fondamentalisti, autoinvestitisi di una missione salvifica tentavano di instaurare una teocrazia talebana sulle rive del Mediterraneo » annota lo scrittore noto in Italia soprattutto per il bestseller Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio.

All’epoca Amara Lakhous era uno studente che muoveva i primi passi come giornalista e scrittore. Nella cronaca come nell’arte avendo il coraggio di andare fino in fondo, senza infingimenti. «Forse ero un po’ folle, certamente spregiudicato, e non disposto a piegarmi alla censura e alla autocensura che mi veniva imposta» ci racconta Amara stesso per telefono. Fatto è, che quel suo rifiuto dei compromessi ci regala oggi un libro fortissimo e una speciale chiave di lettura di ciò che sta avvenendo in una vasta area mediorientale che va dall’ Egitto, alla Tunisia allo Yemen.

«Anche nell’1988, quando ero ancora al liceo – ricorda Lakhous – ci fu in Algeria una forte movimento giovanile; i ragazzi scesero per le strade e distrussero tutti i simboli del Partito unico. Ma la rivolta fu repressa nel sangue e i media internazionali lo scoprirono solo dopo molto tempo. Allora non c’era internet, né i social network…». Ma diversa oltreché la possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione forse era anche la mentalità e la cultura con cui si affrontava la rivolta. La scelta della non violenza, per quanto non sempre facile da attuare, sembra oggi prevalente nella protesta araba. «La non violenza è un dato nuovo, di grande importanza – commenta lo scrittore algerino -. Va di pari passo al rifiuto dell’integralismo religioso, delirante, malato che sul modello talebano vuole distruggere la cultura. Per anni – aggiunge Amara – in Algeria il fondamentalismo è stato usato come spauracchio da parte del governo. Meglio stare sotto una dittatura corrotta che almeno mi permette di leggere qualche libro e di andare al cinema, piuttosto che finire nel buio di uno stato teocratico pensavano molti miei concittadini». Avendo evidentemente perduto ogni fiducia nelle istituzioni e nella politica.

Amara Lakhous lo ha rappresentato in modo graffiante attraverso il personaggio protagonista di Un pirata piccolo piccolo, Hassinu, un quarantenne riottoso a farsi una famiglia come Dio comanda e che, raggiunta l’età in cui Maometto ebbe l’illuminazione profetica, ancora brancola nel buio, fra difficoltà economiche e acrobazie sentimentali che si ci fanno apparire in filigrana la devastante situazione di oppressione sociale delle donne algerine, costrette a sposarsi giovanissime. Usando la lingua sacra del Corano per parlare di tabù come il sesso e l’aborto, Amara Lakhous compiva così anche una sua “rivoluzione linguistica”, innestando sull’arabo dei testi sacri accenti berberi, più liberi e laici, imparati da piccolissimo come lingua materna. Quello che ne esce alla fine è davvero un piccolo miracolo letterario di franchezza e fantasia. Tanto schietto e diretto che nessuno in Algeria volle pubblicarlo. Tanto esplosivo, da fargli rischiare la vita quando nel 1995, infilato il manoscritto nello zaino, fuggì esule in Italia.

da left-avvenimenti

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Il coraggio di Sana’a

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 24, 2011

di Simona Maggiorelli

Sana'a

Sono in contatto con scrittori yemeniti e insegnanti dell’Università di Sana’a, via internet. Ma in questi giorni non sempre riusciamo a mantenere un filo di comunicazione, per quanto esile. Tutti i nostri studenti che erano là sono rientrati. Anche l’ambasciatore italiano non è più nella capitale yemenita perché la situazione nel Paese è davvero difficile, a rischio guerra civile». E’ accorata la voce di Isabella Camera d’Afflitto quando parla di quanto sta accadendo in Yemen, paese amatissimo, in cui l’arabista della Facoltà di Studi Orientali di Roma, negli anni, è tornata spesso, per studi e ricerche. Con libri come Perle dello Yemen (Jouvence) e Storia della letteratura araba contemporanea (Carocci), Camera d’Afllito ha avuto il merito di far conoscere anche in Italia il vivacissimo panorama letterario di quella che fu l’Arabia Felix. Un lavoro che ora prosegue con un importante volume a più mani Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e dagli scrittori da poco uscito per i tipi di Editrice Orentalia.
Professoressa che direzione ha preso la rivolta yemenita dopo la feroce repressione ordinata dal presidente  Saleh e il suo ferimento?
La rivolta in Yemen è partita, proprio come negli altri Paesi arabi, dai giovani, di ogni classe, non solo intellettuali. Anche lo Yemen ha avuto la sua piazza Tahrir, la sua piazza della libertà, che a Sana’a si chiama piazza del cambiamento. Ma se la richiesta di democrazia è partita dai  ragazzi poi è stata “monopolizzata” dai capi tribù che chiedono al governo centrale di Sana’a  il riconoscimento di alcuni diritti  fondamentali  ma anche infrastrutture e ospedali nei villaggi. Parliamo di zone dello Yemen dove vivono i beduini, aree poverissime, di cui i media si occupano solo quando ci sono dei rapimenti. Un mezzo ricattatorio a cui i capi tribù ricorrono proprio per accendere l’attenzione del Governo. In genere senza altri intenti. Chiedono giustizia perché le forze dell’ordine yemenite proteggono  e riconoscono solo i clan vicini al presidente Saleh.
In  Yemen le donne sono solo presenze velate sulla scena pubblica.  Ma loro voce si è fatta sentire nella protesta…
Nell’ambito di una rivolta studentesca che è stata forte e netta, la presenza femminile ha assunto un grande significato. Ho raccolto la testimonianza di quattro scrittrici, che sono diventate delle “eroine” per il coraggio che hanno avuto di scendere in piazza. Arwa Abduh Uthmàn (classe 1965) è una di queste, lavora come ricercatrice presso il Centro di Studi Yemeniti e da tempo porta avanti una sua battaglia anche rifiutandosi di indossare il velo. Per questo è stata  duramente attaccata dagli integralisti. Per scrittrici come Arwa  è una doppia rivolta: al fianco degli studenti e contro chi vorrebbe rimandarle di nuovo in casa.
Nelle opere di scrittori yemeniti di differenti generazioni traspare una forte consapevolezza riguardo alla “questione femminile”. L’emancipazione delle donne nei loro romanzi simboleggia la liberazione del Paese?
E’ proprio così. La letteratura non è affatto marginale se vuole capire il presente. Offre una porta speciale per entrare nella realtà di certe regioni, più di un libro di storia, che aridamente ripercorre i fatti. E qui ne abbiamo la riprova. La centralità della questione femminile in Yemen è segnalata in primis dagli scrittori. E da scrittici laureate, con un dottorato,  ma figlie di donne analfabete e, anche attraverso il romanzo, cercano di elaborare questo epocale iato. In Yemen le donne lavorano, fanno ricerca, guidano la macchina. Alcune sono divorziate e in prima linea nelle battaglie per poter tenere con sé i figli. Altre si battono contro la piaga delle spose bambine. Ci sono donne avvocato che difendono i diritti di queste giovanissime fuggite da situazioni di segregazione, ragazzine che si sono viste negare l’infanzia e l’adolescenza.
ll codice di famiglia, dopo la riunificazione del Paese, ha segnato un passo indietro riguardo ai diritti delle donne. Paradossalmente queste giovani si trovano oggi a rifare battaglie che le generazioni precedenti avevano già fatto nello Yemen del Sud?
Il Sud, che era sotto l’ala sovietica, aveva una legislazione più avanzata per quanto riguarda i diritti civili delle donne. Poi con la riunificazione, lo Yemen ha risentito dell’arretratezza delle regioni del Nord finite sotto l’ala saudita. Un fatto macroscopico è la pratica diffusa di masticare il qat (un vegetale dagli effetti narcotici ndr). Nello Yemen sovietico era andato quasi in disuso, mentre oggi è una piaga sociale diffusissima. Ma c’è anche un altro fatto evidente: nello Yemen sovietico non si vedevano quasi più donne velate. Guardando le foto di Aden degli anni Cinquanta  e Sessanta sembra quasi un’altra città rispetto ad oggi.
Tornando alla letteratura, che tipo di lingua araba è quella  dei nuovi scrittori yemeniti?
L’arabo yemenita è quello classico. Per l’isolamento in cui il Paese ha vissuto a lungo, la lingua e la letteratura si sono molto preservate. Non sono andate incontro a quel certo “decadimento” e impoverimento, che invece ha subito la lingua in altre aree del mondo arabo. Inoltre in Yemen la letteratura russa – quella dei grandi autori come Dostoevskij – ha esercitato una forte influenza.  Molti autori giovani ancora oggi sono “impregnati” di classici russi. Ma va detto anche che la letteratura yemenita, per quanto vanti una tradizione antichissima, è stata a lungo respinta ai margini dal resto dei Paesi arabi. Solo di recente si segnala una  apertura, come se gli arabi stessi si fossero finalmente resi conto della presenza letteraria yemenita e della sua importanza. Prima guardavano con sospetto verso tutto ciò che veniva dalle popolazioni yemenite ritenute ingiustamente retrograde, religiose, bacchettone. Anche dentro il mondo arabo , che al suo interno è percorso da forti differenze, esistono visioni stereotipate e pregiudizi.
Fra i temi che percorrono la letteratura yemenita quello dell’emigrazione e della durezza dell’esilio è molto presente.
Molti yemeniti sono venuti in Europa, ma tanti  sono finiti a lavorare come schiavi in Arabia Saudita. E questo ha determinato il fenomeno delle donne che, rimaste sole, sono messe sotto tutela  dalla famiglie del marito. Poi magari il marito torna in Yemen con un’altra moglie… Un realtà  denunciata nei libri di molte scrittrici yemenite.
Colpisce il fatto che le scrittrici che affrontano questo tipo di tematiche siano anche molto critiche verso il femminismo occidentale: rivendicano di voler fare una rivolta con gli uomini.
Non crediate di aver inventato voi che il femminismo, ci dicono indirettamente. “Certo per noi è più difficile metterlo in atto, ma – avvertono – non crediate che non abbiamo idee”. Nella stessa città di Sana’a ci sono più associazioni che difendono i diritti delle donne, non una sola. Ognuna con una propria identità e in lotta con le altre. C’è quella governativa, quella indipendente, quella di opposizione. C’è anche un dipartimento di studi di genere all’Università nella capitale. Ad unire questa miriade di associazioni è la lotta contro la tradizione del clan familiare che in Yemen è ancora molto forte… In questi giorni quando in tv vedo la città di Sana’a in fiamme, mi si stringe il cuore, penso agli sforzi immani che una parte viva della società stava facendo per uscire dal medioevo. Spero  non siano vanificati dalla repressione militare.
Lo Yemen viene dipinto dai media come  un Paese tout court  fondamentalista. Cellule di Al-Qaeda, con sostegno saudita si sono annidate in alcune zone desertiche del Paese. Ma chiunque abbia viaggiato in questo bellissimo Paese difficilmente dimentica il calore umano e l’attenzione che si incontra per strada, anche nei villaggi più isolati. Come legge questa discrasia?
Personalmente, in tanti anni di viaggi  in Yemen, ho trovato grande apertura , interesse verso l’altro , accoglienza verso gli stranieri; quello yemenita è una popolo straordinario. Ci vorrebbe un governo che lo aiutasse davvero ad uscire dalla povertà e dalla fame. Intanto è cresciuta una classe di intellettuali che lavora per un cambiamento culturale. Per averne un’idea basta vedere la ricognizione  che ha fatto  Francesco De Angelis sulla “rivoluzione” yemenita letta attraverso i bloggers. Chi voglia continuare la ricerca può trovarlo on line sulla rivista ww.arablit.it.

IL LIBRO

Forti di una tradizione antichissima di poesia e letteratura , gli scrittori yemeniti di oggi sperimentano a 360 gradi fra i generi letterari, spaziando dal romanzo dalla forte impronta politica e sociale, all’avanguardia letteraria, alla fantascienza. Offre un viaggio in questo interessante panorama in continua evoluzione  la raccolta di saggi Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e agli scrittori curata da Isabella Camera d’Afflitto e pubblicato da Editrice Orientalia. In un paese come lo Yemen in cui il 41,8 % della popolazione vive sotto la soglia della povertà (2 dollari al giorno) ed è ancora  altissimo  il tasso di analfabetismo, la letteratura, specie quella engagé, sta conoscendo una straordinaria fioritura. Al centro il tema dell’emigrazione, dell’esilio, ma anche e soprattutto il  superamento del tribalismo e la lotta per una maggiore democrazia. Ma tema forte è anche l’emancipazione della donna in un  Paese dove oltre il 50% delle spose ha meno di 15 anni.

dal settimanale left-avvenimenti

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La nuova letteratura viene dall’Africa. E ha voce di donna

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2010

Al suo esordio nella narrativa l’etiope Maaza Mengiste si segnala come uno dei talenti emergenti della scena newyorkese. In Europa, invece, la somala Nadifa Mohamed compone il nuovo epos dei migranti

di Simona Maggiorelli

Lo sguardo del leone è quello di chi, pur barcollando, si rialza con fierezza dopo aver subito un attacco micidiale. Per questo, a mo’ di metafora di un intero Paese, la scrittrice etiope Maaza Mengiste l’ha scelto come titolo per il suo romanzo d’esordio, appena pubblicato in Italia da Neri Pozza.

Con una lingua tersa, incisiva, senza ombre di retorica,in questo libro la giovane scrittrice (che oggi vive e insegna a New York) racconta di un’Etiopia che, dopo essersi liberata dalla violenta occupazione italiana vede le speranze della Resistenza tradite da militari etiopi che torturano, sfregiano, uccidono. Un golpe militare che il protagonista della narrazione, l’anziano medico Hailu, un giorno del 1974 vede annunciato da una pioggia di volantini. Dicono che l’imperatore Hailè Selassiè è stato arrestato e che il suo governo è stato destituito. Fra il 26 e il 27 agosto del 1975, il re, “il leone di Giuda” che aveva combattuto Mussolini venne soffocato e sepolto sotto le assi di una latrina, davanti all’ufficio del nuovo dittatore Menghistu. Intanto, per le strade di Addis Abeba, scorreva a fiumi l’entusiasmo di operai e povera gente che sognava una rivoluzione socialista. L”illusione durò poco. Al medico che ha aveva lavorato trent’anni all’ospedale Prince Mekonnen Hospital, ribattezzato Black lion Hospital dal nuovo regime, basterà che qualcuno bussi alla sua porta per lasciargli un sacco di plastica in cui è avvolta una ragazza in fin di vita, stuprata e torturata, per capire quanto violenta sia la mano del regime militare. Lui, “il medico che fa rivivere i morti”, si sente per la prima volta infinitamente stanco e impotente.

E’ così che, con lo sguardo del maturo medico e seguendo le vicende della sua famiglia, Mengiste tratteggia un appassionato affresco di storia dell’Etiopia del Novecento, “rievocando- annota lei stessa- l’essenza di quegli anni tumultuosi attraverso l’immaginazione”. Senza lasciare mai che la cronaca dei fatti, aridamente, prenda il sopravvento.

E una scrittura assolata, ricca di immagini e di echi di favole e miti della tradizione africana è quella che sceglie un’altra giovane scrittrice, la somala Nadifa Mohamed per mettersi sulle orme di un ragazzo che dalle terre occupate dai Ferengi (così venivano chiamati in Somalia i cattolici occupanti fin fai tempi delle crociate), dal golfo yemenita di Aden negli anni ’30 intraprese un disperato viaggio che lo poterà ad attraversare le vie desertiche degli attuali Libia e Israele fino a raggiungere poi, rocambolescamente, le coste dell’Inghilterra.

In Mamba boy (Neri Pozza) Nadifa racconta, in filigrana, la storia vera di suo nonno e di suo padre. “Volevo percorre a ritroso il loro viaggio – racconta a Terra la scrittrice che vive da molti anni in Gran Bretagna-. Anche perché lungo quella stessa rotta oggi si muove un’inarrestabile onda di persone. Non si tratta più di pochi intrepidi come nel secolo scorso, ma i pericoli che devono affrontare per sfuggire alla miseria e potersi costruire un futuro migliore, non sono affatto minori. Vanno avvertiti di questo,ma fermare questo flusso è impossibile e – aggiunge Nadifa- sarebbe un vero delitto. Senza contare che l”immigrazione arricchisce chi parte ma anche chi ospita, nel dialogo, anche se non sempre facile, con nuove culture”.

Ed è un canto d’amore per tutti i migranti quello che Nadifa ha composto in questo libro, scritto in un raffinato inglese ( “la lingua in cui sogno”, dice). Un romanzo che potentemente prende avvio con l’immagine di una donna incinta che nella Savana si assopisce sotto un’antica acacia. Un enorme serpente nero, un Mamba, le sale sulla pancia, ma al suo risveglio l’animale è già sparito nella sabbia. Da questo episodio, o forse sogno, della nonna di Nadifa si dipana la storia di questo coraggioso Mamba boy fra due continenti. E anche questo libro, intrecciando verità e invenzione, si legge come vivido spaccato di storia africana del Novecento. Di una Somalia che è stata violentata dalla colonizzazione e che, ci ricorda Nadifa porta ancora i segni delle ferite lasciate da italiani brava gente . “La cultura italiana da noi si è imposta con maggior violenza di quella inglese che ha avuto più tempo per una lenta penetrazione. E ancora oggi, nonostante la globalizzazione abbia internazionalizzato le rotte e accorciato sensibilmente le distanze, il rapporto fra Africa e Occidente non è cambiato. E’ sempre di sfruttamento. Oggi là uoi lavorare in un’industria americana, inglese o italiana, ma come si evince dalla storia degli anni 80 e 90, la mano d’opera africana, di fatto, è ancora schiavizzata.

dal quotidiano Terra 3 giugno 2010

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Nel mare della storia

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 21, 2009

Festivaletteratura di mantova dedica una retrospettiva allo scrittore indiano Amitav Ghosh, l’autore di Cromosoma Calcutta.

di Simona Maggiorelli

mare_di_papaveri_amitav_gosh_neri_pozzaIl battito di ali di una farfalla qui e ora, si dice, possa determinare un cataclisma in una lontanissima parte del globo. Come effetto domino di una lunga catena di cause e conseguenze, perlopiù imprevedibili. Di questi fili “invisibili” che corrono sotterranei nella storia si occupa lo scrittore indiano Amitav Ghosh, autore di Cromosoma Calcutta (Einaudi) di molti altri importanti romanzi, come il recente Mare di papaveri (Neri Pozza), straordinario affresco delle drammatiche conseguenze della guerra dell’oppio, viste da Paesi come l’India che fu schiacciata nella morsa del colonialismo inglese.

Da romanziere ma anche da antropologo, storico e giornalista, fondendo una molteplicità di competenze diverse, Ghosh punta la propria attenzione sulla lunga durata,osservando continuità e rotture che i processi storici incontrano nel passaggio di generazione in generazione. In questo modo riuscendo a ricreare un genere, quello del romanzo storico, che sembrava aver esaurito il suo corso con i grandi romanzieri dell’Ottocento. Ghosh si mette sulle orme di Melville, per la scelta dei grandi temi degni dell’epos e sulla strada di Dickens per la precisa descrizione sociale degli ambienti. Ma senza nessun gusto antiquario. Anzi, con uno sguardo costante sull’oggi: andando a caccia delle radici più remote delle contraddizioni che i processi di globalizzazione squadernano. Così ne Lo schiavo del manoscritto (che dopo l’edizione Einaudi del ’92 a fine agosto uscirà in nuova edizione italiana per Neri Pozza), con un meticoloso lavoro di archivio compiuto fra l’Egitto e l’Inghilterra, Ghosh rintraccia una lettera scritta nel 1148 da un mercante di Aden, un certo Khalaf ibn Ishaq; una lettera contenuta nel manoscritto H.6 conservato nella biblioteca nazionale di Gerusalemme e inviata a un grande viaggiatore di nome Abrahm Ben Yiju (più importante di Marco Polo e Ibn Battuta, anche se meno noto in Occidente). Quella lettera, ricostruisce Ghosh, non solo testimonia la fiorente cultura del porto yemenita di Aden intorno all’anno mille, ma è un documento unico perché vi si accenna alla storia di uno schiavo, probabilmente accolto come collaboratore da Ben Yijiu, del quale- visto il rango sociale- la storia ufficiale altrimenti nulla ci avrebbe tramandato. Un fatto che nel romanzo diventa il grimaldello per ricomporre una fitta trama di rapporti fra India ed Egitto a partire dal medioevo, per arrivare fino al Novecento. Fra similitudini dovute alla comune dominazione occidentale e rotture di dialogo, nella contrapposizione via via sempre più spiccata fra le differenti simbologie religiose dei due Paesi a partire dalla prima diffusione della religione di Maometto.

Armato di taccuino

Con lo Schiavo del manoscritto Ghosh inventa un particolare genere di romanzo, che Festivaletteratura battezza “romanzo di indagine”, dedicandogli il 13 settembre una giornata di studi. All’interno di una ampia retrospettiva sull’opera dello scrittore indiano, che oggi vive fra New York e Calcutta. Dal 9 settembre a Mantova ci saranno incontri e tavole rotonde sulla sua attività di romanziere ma anche sul suo lavoro di giornalista raccolto in volumi come Estremi Orienti (Einaudi) e Circostanze incendiarie.(Neri Pozza). Autore di numerosi reportage per The Nation, The New York Times, The New Republic, Granta, The NewYorker, Gosh ama fare il lavoro del vero cronista: cammina, parla, curiosa fra la gente ma anche negli archivi. “Andare a consultare i documenti- dice- fa parte del piacere del mio lavoro di scrittore. Mi piace andare a verificare come stanno davvero le cose”. Così, Amitav Ghosh era sul posto per raccontare l’esplosione di violenza seguita all’attentato contro Indira Gandhi, nel 1984. Ha raccontato la pazzia di quei giorni di violenza a New Delhi e ha scritto pezzi come “Danzando in Cambogia” documentando il genocidio perpetrato dai khmer rossi in Cambogia. Mentre in un romanzo come Il palazzo degli specchi (Neri Pozza) ha documentato il presente della coraggiosa battaglia di Aung San Suukyi per la liberazione della Birmania. “L’ho incontrata durante il mio primo viaggio a Rangoon – ricorda lo scrittore – e ne ho ancora un ricordo fortissimo. Che ora si rinnova dolorosamente pensando che le hanno dato altri 18 mesi di arresti domiciliari”.

I disastri del colonialismo

Amitav GhoshAmitav GhoshLo sguardo di Ghosh, come romanziere ora è soprattutto rivolto ai prodromi della mancanza di libertà che schiaccia la Birmania, così come alle conseguenze che eventi internazionali hanno avuto sull’India e su altri Paesi asiatici. Viste dal punto di vista delle storie personali. “ La mia stessa famiglia- racconta lo scrittore- mi ha aperto gli occhi su questo. Fu divisa non solo dalla separazione fra India e Pakistan, ma anche dalla conquista della Birmania da parte dei giapponesi nel 1942”. Da qui, a partire da un intreccio di biografia individuale e storia collettiva, Ghosh va costruendo quella che si annuncia come la sua opera più importante: una trilogia sulle conseguenze della guerra dell’oppio. Di questo lo scrittore parlerà l’11 settembre in Palazzo Ducale raccontando come è nato il primo volume, Mare di papaveri . Un romanzo che si presenta come una sorta di opera mondo, di indagine su fenomeni sociali che anticiparono negli anni 40 dell’800 alcuni processi di globalizzazione e in cui si racconta il processo di produzione dell’oppio come già perfettamente industrializzato, organizzato e comandato dall’Inghilterra mentre operai indiani e lascari venivano sfruttati come manodopera sotto pagata. Proprio come negli attuali processi di delocalizzazione. “Quando ho cominciato a scrivere Mare di papaveri, in realtà- spiega Ghosh – non pensavo esattamente alla guerra dell’oppio. Mi interessava il tema della migrazione, volevo rintracciare alcune radici della diaspora degli indiani nel mondo. Ma un’ondata massiccia, mi resi subito conto, partì intorno al 1830 dalla cosiddetta India britannica, il nord della regione detta Bihar: sotto il comando dell’Est India Company fu l’area più coinvolta direttamente nella guerra dell’oppio. Dunque, non c’era modo di evitare questo argomento. In quel periodo India, Inghilterra e Cina furono collegate da un mare di oppio”.

I personaggi prima di tutto

Indubbiamente Mare di oppio si presenta come un grande affresco di storia della prima metà del XIX secolo, quando l’India pur fra mille contrasti e di contraddizioni partoriva i primi moti di rivolta contro la dominazione britannica. Una storia che attraversa tre continenti e l’arco di duecento anni,“ma non faccio di mestiere lo storico, il motore della narrazione – rivendica Ghosh- sono le vicende di una manciata di personaggi che si ritrovano in una situazione del tutto fuori dall’ordinario, a bordo della Ibis in mezzo al mare”. La goletta a due vele, lontano dalla terraferma, diventa un microcosmo a parte aprendo una parentesi speciale nella vita di Deeti e degli altri personaggi. Analogamente alla peste per la brigata del Decameron le disavventure vissute a bordo dell’Ibis, compreso un ammutinamento dei lascari, fanno uscire i personaggi dall’isolamento e dalle consuetudini. Tanto che una donna dei villaggi indiani come Deeti si trova “a incespicare sulla parola che per prima le era salita alle labbra: il nome della sua casta era per lei qualcosa di altrettanto intimo del ricordo del viso di sua figlia, ma adesso sembrava appartenere anche esso alla vita precedente, quando era un’altra persona”. Quasi fosse una sorta di trattato di antropologia sociale dei primi dell’800 Ghosh include nel romanzo anche un potente ritratto dei lascari, la ciurma di leggendari marinai di tutte le razze possibili che in comune avevano solo l’oceano indiano e una condizione di sfruttamento. Come in altri suoi romanzi, Ghosh restituisce la loro storia anche attraverso un complesso impasto linguistico che qui va dall’urdu, all’hindi e al bengalese, con alcuni tratti tipici dell’inglese dell’epoca ma anche termini di slang nautico.“Per me il romanzo come genere ha la capacità di inglobare molti aspetti della vita, della storia, della politica. Il romanzo- spiega Ghosh- è una sorta di meta genere, che trascende i confini dei singoli generi”. Quanto al secondo episodio di questa saga a cui sta lavorando, Ghosh accenna: “ Ho qualche idea su dove la narrazione potrebbe andare a parare, ma è un po’ come andare per mare di notte: si intravedono le luci, ma non si sa ancora dove si arriverà e che cosa c’è nel mezzo. L’esperienza mi dice che i libri hanno testa per conto proprio”.

BOX SU FESTIVALETTERATURA

Dal 9 al 13 settembre le strade di Mantova torneranno a riempirsi di lettori e di appassionati di letteratura. L’edizione 2009 di Festivaletteratura si annuncia particolarmente densa di incontri con autori internazionali, di primo piano. A cominciare dal Premio Nobel Nadine Gordimer che sarà in Italia per parlare della sua scrittura, del suo lungo impegno contro l’apartheid, ma anche del futuro della letteratura africana, che sta acquistando sempre più forza e autonomia sulla scena globale. Fra gli ospiti più attesi, poi, oltre all’indiano Amitav Gosh, lo scrittore sudamericano Louis Sepulveda e il francese Georges Didi Huberman con una riflessione fra storia dell’arte e filosofia dal titolo “le immagini accadono”. E ancora in prima nazionale il film che racconta l’opera e l’impegno pacifista dell’israeliano Amos Oz e una tavola rotonda dedicata allo scrittore David Foster Wallace prematuramente scomparso. Fra le nuove proposte di letteratura, da segnalare, la presenza di Anne Marie Garat autrice de Il quaderno ungherese ( Il Saggiatore), un romanzo che, con un pizzico di romanticismo, racconta vicende di una Parigi di inizi Novecento. Fra i momenti di spettacolo, invece, il recital di Lella Costa dedicato ai diritti delle donne e al comizio della rivoluzionaria francese Olympe de Gouges. Per la saggistica Stefano Rodotà presenta a Mantova un nuovo libro targato Feltrinelli, mentre Ignazio Marino, dopo Credere e curare, presenta Nelle tue mani, medicina, fede, etica e diritti, in uscita il 7 settembre per Einaudi. Il programma completo sul sito www.festivaletteratura.it.

da left-avvenimenti 25 agosto 2009

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Lungo la via dell’incenso

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 26, 2009

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Alla scoperta della nuova Petra e delle testimonianze dell’antico popolo preislamico dei Nabatei

di Simona Maggiorelli

Lungo la via caravaniera dell’incenso proveniente dalle regioni dell’Arabia felix (oggi Yemen) nasceva Petra, la città scavata nella roccia del deserto, capitale nabatea dal IV secolo a.C. e oggi universalmente conosciuta come la perla del patrimonio artistico giordano. Ma a venticinque chilometri più a Nord fonti arabe raccontavano fin dall’antichità di una città nabatea fortificata, altrettanto meravigliosa, ricca di giardini e di palazzi.«Per secoli-chiosa l’archeologo Guido Vannini- si è creduto che si trattasse solo di leggende. Ora le ricerche archeologiche hanno dimostrato che quell’insediamento incastellato, poi divenuto città straordinariamente cosmopolita, era esistito davvero». La città di cui parliamo è Shawbak e ai recenti importanti ritrovamenti delle spedizioni archeologiche dell’Università di Firenze e internazionli è dedicata la mostra Da Petra a Shawbak nella Limonaia del Giardino dei Boboli che sarà inaugurata il 13 luglio, per poi essere trasferita in autunno in Giordania. «Nel corso del tempo Shawbak ha più volte cambiato pelle– spiega Vannini- maturando sul più antico substrato nabateo, uno strato romano-bizantino e poi islamico, fino a diventare durante il medioevo avamposto crociato e poi ancora città militare in epoca ayyubide», E, fatto abbastanza straordinario,senza che le differenti culture si elidessero l’un’altra, ci spiega lo studioso, anticipandoci alcuni risultati delle sue ricerche che saranno presentati in mostra. Pur essendo nata come città di frontiera, Shawbak di fatto non segnò mai una cesura netta nella regione. Al contrario seppe farsi zona osmotica di passaggio fra il Nord “siriano” e il Sud “egiziano”, Ma anche fra Mediterraneo e Arabia, sussumendo e intrecciando differenti culture in una identità nuova e originale.

Petra

Petra

Qualche segnale di questo complesso processo si può leggere anche nelle decorazioni di alcun vasi che accanto a decorazioni islamiche conservano figurazioni di stampo latino. Alcuni di questi reperti, mai prima presentati al pubblico, saranno in mostra a Firenze accanto a reperti che raffigurano divinità del pantheon nabateo, perlopiù legate ai riti della fertilità e insieme a ceramiche nabatee cosiddette a “pelle di uovo”, per la loro delicata consistenza. «le radici culturali nabatee sono l’origine nobile di Shawbak e di Petra, un po’come lo sono quelle etrusche per certa Toscana, ma la cultura di cui poi è rimasta maggiore traccia nei secoli è quella medievale. Così oggi- conclude Vannini- quella che appare agli occhi del visitatore che magari abbia visitato Petra quindici anni fa è una città enormemente arricchita di monumenti riportati alla luce, ma anche sempre più tipicamente medievale».

da left-Avvenimenti aprile 2009

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Il vero volto della regina di Saba

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 10, 2009

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in alto sculture yemenite III millennio a.C

Donna di leggendaria bellezza secondo la cultura araba preislamica.

La tradizione ebraico-cristiana la degradò a demone dal piede caprino.

di Simona Maggiorelli

Una lunghissima e feroce storia di alterazione dell’immagine perseguita la Regina di Saba: donna di leggendaria bellezza e sapienza secondo la cultura preislamica araba, che la tradizione ebraico-cristiana degradò a demone dal piede caprino. Mentre i Vangeli di Matteo e Luca ne fecero addirittura un’astratta allegoria della Chiesa in cerca di Cristo. Una storia feroce e millenaria, più subdola di una damnatio memorie. Tanto che se ne possono ancora cogliere segni nella mostra veneziana Nigra sum sed formosa che, presentando in Ca’ Foscari reperti archeologici e testi antichi provenienti dall’Etiopia, ascrive tout court la regina di Saba alla tradizione copta, facendone la “madre santa” della stirpe salomonide che sarebbe arrivata fino al Negus.
«Di lei non sappiamo con piena certezza né il nome né l’epoca in cui visse, anche se la comunità scientifica oggi è concorde nel dire che la leggendaria regina di Saba sia esistita davvero» scrive Daniela Magnetti nel volume La regina di Saba, arte e leggenda dallo Yemen (Electa). Conosciuta come Bilqis in Yemen, Makeda in Etiopia e Nikaulis in Palestina, gli storici collocano il regno della regina di Saba in quell’Arabia felix che i Romani tentarono invano di conquistare; e più precisamente in quella città di Marib, che nel Nord dello Yemen fu abbandonata intorno al 570 d. C, dopo il crollo della diga che la preservava dal deserto. Non a caso nelle storie della tradizione orale yemenita Bilqis è la regina adoratrice del Sole, signora di una terra fertile di giardini e fontane. E un autorevole studioso come Alessandro de Maigret oggi conferma: “In base alle campagne di scavo, condotte fin dal 1980 in Yemen, si può datare il regno di Saba al decimo secolo avanti Cristo”: la regina Bilqis, spiega l’archeologo italiano, probabilmente favorì la trasformazione dell’altopiano in terre fertili grazie a complessi sistemi di irrigazione.
Oggi dell’antichissima città di Marib dove sorgeva il palazzo reale dei sabei non restano che suggestivi ruderi. Una città fantasma alle soglie del deserto, terra di beduini ma anche, purtroppo, di sequestri di turisti. Per percorrere i 120 km che separano la capitale Sana’a da Marib serve la scorta di militari armati e un faticoso percorso a tappe fra i posti di blocco. Anche per questo, forse, vedere d’un tratto le svettanti colonne del tempio del Sole, su cui si arrampicano ragazzini che sembrano usciti dal nulla, è un’emozione che difficilmente si dimentica.

Ed è qui, in uno dei due templi della regina di Saba che Omar, un po’ guida un po’ cantastorie della tradizione yemenita, ci ha fatto conoscere la storia di Bilqis secondo una delle versioni islamiche più suggestive, quella di Ta’labi, commentatore del Corano, vissuto intorno al 1053. Come nelle storie tramandate oralmente dai beduini, la sua Bilqis nasce dalle nozze del re Hadhad con la figlia del re dei Jiinn, che nelle credenze arabe popolari erano creature dai poteri soprannaturali. Secondo questa versione l’incontro fra la regina e Salomone sarebbe stato un gioco di inviti attraverso un upupa messaggera e di seduzioni da parte della bella regina. Ma, diversamente da quanto racconta la Bibbia, per la tradizione araba, quello fra Bilqis e Salomone sarebbe stato un confronto alto fra due diverse identità e due diverse culture e sapienze. “Bilquis – racconta il nostro Omar sulla scorta di Ta’labi – sfidò la sapienza leggendaria di Salomone, il re di Gerusalemme,mettendosi in viaggio verso la sua reggia con una carovana di cammelli che portavano oro, pietre preziose e gioielli poi donati al re da ragazzi vestiti come fanciulle e viceversa. Ma – avverte Omar – c’era un enigma che, agli occhi di Bilqis, Salomone doveva sapere sciogliere: per raggiungere il suo cuore doveva distinguere le ancelle femmine dai maschi, forare una splendida perla e infilare un fio d’oro nella conchiglia». Una storia che avrebbe affascinato nei secoli poeti e artisti, non solo nei Paesi arabi. Anche in Occidente. Basta pensare ai ritratti della regina di Saba che ci hanno lasciato pittori come Piero della Francesca, Tintoretto e Moreau (nella foto in basso) . «Una vicenda affascinante- conclude de Maigret – anche se sul piano della storia quell’incontro probabilmente non avvenne mai dal momento che il regno del re di Gerusalemme fu tra 961 e il 922 a.C ,mentre quello della regina di Saba fu assai più antico».

da left-Avvenimenti del 3 aprile 2009

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La battaglia di Arnaldo

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2008

Dall’opera dedicata alla lotta dei partigiani alle colonne che sfidano il cielo, come nello Yemen della regina di Saba. Le grandi sculture di Arnaldo Pomodoro reinterpretano lo spazio pubblico. Con passione civile
di Simona Maggiorelli

Un pilastro di acciaio inossidabile è conficcato nel cuore di una piramide tronca. Come se fosse stato fatto cadere da un’altezza vertiginosa. E i segni che si irradiano dalle fessure del bronzo dicono tutta la violenza di un colpo mortale. Ma il monumento nel suo insieme non racconta solo il dramma di una cieca violenza, ma anche di uno sforzo immane nel cercare di resistere. Con questa scultura nel 1971 Arnaldo Pomodoro rendeva un appassionato omaggio alla resistenza e alla lotta dei partigiani. Un’immagine imponente, ma che non ha aloni di retorica. Così come tutti i monumenti dell’artista marchigiano che, possenti, si stagliano in cima ad alture o in mezzo a piazze, riuscendo ad apparire sempre del tutto antimonumentali. Svettano eleganti a sfidare il cielo le sue colonne intessute di misteriose figure geometriche. Come quelle del Tempio di Saba – che colpirono profondamente la fantasia dell’artista durante un viaggio in Yemen nel 1996 – sono senza capitello e, ritmiche ed eleganti, appaiono come intarsiate di affascinanti iscrizioni pagane. Mentre il suo Disco in forma di rosa del deserto sembra evocare l’immagine di quelle formazioni minerali di cristalli che emergono misteriosamente dalle sabbie dei deserti africani. Anche qui Pomodoro riesce a dare un movimento interno alla materia portando alla luce le nervature del bronzo grazie all’uso sapiente di un’antica tecnica di fusione. E il “miracolo” di grandi opere concepite per spazi pubblici ma che riescono a inserirsi perfettamente nell’ambiente, regalandogli un nuovo significato, si ripete con opere come Il labirinto che, quasi fosse creatura viva e pulsante, cresce di giorno in giorno negli spazi della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano dove è allestita, per la prima volta, una mostra dedicata alle grandi opere realizzate dall’artista dal 1972 a oggi (catalogo Skira). A gennaio 2009, quando questa retrospettiva chiuderà, il labirinto ispirato alla saga di Gilgameš (il più antico poema epico a noi pervenuto) sarà completato e resterà come installazione permanente nella cavea del teatrino della Fondazione. Ma ancora in questi giorni di dicembre si può continuare a seguire il suo affascinante prendere forma attraverso la continua aggiunta di nuove tavolette che evocano quelle antichissime di argilla su cui era incisa la saga in caratteri cuneiformi. Ma il viaggio nell’immaginario artistico di Arnaldo Pomodoro non potrebbe dirsi concluso se, usciti da questo affascinante ex capannone industriale abitato da steli, monumentali papiri e sfere sgranate che lasciano intravedere l’interno, non ci rimettessimo in viaggio per andare a Orta San Giuliano, il paese del novarese dove, fino al 12 gennaio, sono esposte altre importanti opere di Pomodoro. Nelle vie e nelle piazze del borgo affacciato sul lago sono disseminate sedici sculture monumentali. Ed è qui che s’incontrano opere chiave del percorso artistico di Pomodoro come Le due colonne del viaggiatore; una delle due sotto la “pelle” lucida e riflettente fa trapelare la bellezza della sua struttura più intima e nascosta.
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