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L’universo culturale di Aldo Manuzio, rivoluzionario editore umanista

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 30, 2016

Aldo Manuzio

Aldo Manuzio

Per chi è a Venezia, da non perdere,  la nostra dedicato a uno stampatore colto, laico e cosmopolita come Aldo Manuzio.  Chiude il 31 luglio

Aveva la grande ambizione di ampliare la circolazione della cultura. Pubblicando non solo classici in latino, ma anche la nuova letteratura in volgare. Dunque non fu “solo” uno stampatore Aldo Manuzio (1449-1515), ma un editore colto e umanista, che guardava al futuro. Da questa sua visione laica e moderna derivano tutte le sue importanti innovazioni editoriali – dal carattere corsivo ai libri tascabili – che non furono soltanto soluzioni formali ed estetiche ma corrispondevano a un preciso pensiero: allargare il pubblico dei lettori, mantenendo una veste di qualità e la cura filologica dei testi. Come dimostrano gli incunaboli e le eleganti edizioni aldine esposte nelle sale della Galleria dell’Accademia nella mostra Aldo Manuzio il Rinascimento di Venezia. Una esposizione che ha dietro il lavoro scientifico di tre curatori (G. Beltramini, D. Gasperotto, e G. Maneri Elia), in cui il rigore di studio si combina con una raffinata eleganza nell’allestimento.

La Tempesta di Giorgione

La Tempesta di Giorgione

Attorno ad edizioni stampate e miniate di classici della cultura greca, latina e umanista , sono radunati capolavori dell’arte veneta coeva e nordica: dipinti di Giovanni Bellini, di Giorgione, Lorenzo Lotto e Cima da Conegliano, ma anche opere grafiche di Albrecht Dürer che fu a Venezia dal 1494 al 1495 e poi nel 1510 entrando in contatto con ambienti neoplatonici ma anche con i maestri del colorismo veneto, dai quali mutuò una tavolozza più chiara e luminosa, oltre che forme meno rigide.

Interessante è come i curatori siano riusciti a raccontare chi era Manuzio attraverso la selezione di queste straordinarie opere d’arte: Il ritratto di gentiluomo di Tiziano che si ipotizza raffiguri il poeta arcadico Jacopo Sannazzaro ci racconta della passione del marchio contrassegnato con l’ancora per il linguaggio poetico, mentre la misteriosa Tempesta di Giorgione, ci dice dell’interesse di Manuzio per la tradizione pagana e panteista più raffinata e per la filosofia neoplatonica, di cui il pittore veneto si fece raffinato interprete.

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Poco più in là fa bella mostra di sé una delle pubblicazioni di cui lo stampatore veneto andava più orgoglioso: l’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo allegorico di Francesco Colonna che fu pubblicato nel 1499 corredato da 172 xilografie. La narrazione si dipanava come una sorta di viaggio iniziatico alla maniera delle Metamorfosi di Apuleio.

Dietro a pubblicazioni del genere c’era il pubblico delle corti, ma interessante è anche le edizioni aldine diventassero un oggetto del desiderio anche delle dame, come ci racconta qui il Ritratto di Laura di Polo di Lorenzo Lotto. Insieme al Ritratto di uomo con petrarchino di Parmigianino ci dice della rivoluzione rappresentata dalle edizioni tascabili. ( Simona Maggiorelli)

 

 

 

 

 

 

 

 

Conferenza su Aldo Manuzio, i lettori e il mercato internazionale del libro

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Le geniali invenzioni d’immagine di Canova

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 16, 2012

Una mostra a Possagno fino al 30 settembre racconta la passione di Antonio Canova per l’arte tersicorea, con disegni e gessi dedicati alla bellezza e al movimento femminile nella danza.  Con una prima assoluta: il ritorno nel museo della danzatrice con i cembali, finalmente restaurata. Intanto a ai musei capitolini a Roma una ampia mostra raccaonta come la favola di amore e psiche sia stata rappresentata nei secoli, dall’antichità a Canova.

di Simona Maggiorelli

Canova, bozzetto di Amore e Psiche

Non sono più monche le braccia della Danzatrice con i cembali di Antonio Canova (1757-1822) una delle tre statue “gemelle” che l’artista dedicò al fascino dell’arte tersicorea. Era dalla prima guerra mondiale, quando il gesso finì sotto le granate austroungariche, che si attendeva un suo adeguato restauro. Grazie alla collaborazione fra la Fondazione Canova e il Museo Bode di Berlino, che ha permesso il ricorso a tecniche avanzatissime di rilievo in 3D e di «modellizzazione tattile», ora l’originale di mano di Canova (che suoi collaboratori nel 1812 tradussero in marmo) ha recuperato la sua integrità. Ritrovando l’armonia di forme, il movimento delle linee e l’eleganza originarie. Come si può apprezzare ora in una mostra, aperta fino al 30 settembre, nelle sale della Gipsoteca Museo Canova di Possagno; in una esposizione che presenta non poche sorprese. Attorno alla Danzatrice con i cembali, infatti, sfilano una cinquantina di disegni, acquerelli e studi di Canova dedicati al tema della figura femminile in movimento; una serie di scene di ballo con muse e divinità, rappresentate come fanciulle vive e vitali e dalla grazia straordinaria. Specie se paragonate alla inerte e pesante statuaria romana esemplata su modello greco che Canova, appassionato di studio dell’antico, aveva avuto modo di studiare a Roma e ad Ercolano e che, nel secolo del neoclassicismo, non poteva non prendere a modello.

Canova, danzatrice con i cembali

Canova, danzatrice con i cembali

Ma se i delicati disegni canoviani di “bellezze in movimento” colpiscono per la leggerezza e la musicalità che esprimono e se le sue statue, finemente modellate (al punto da conferire al gesso e al marmo la morbidezza della carne), seducono per la somma sprezzatura e la naturalezza del risultato finale, i bozzetti in argilla di Canova catturano lo sguardo per lo straordinario pathos e per il dinamismo che li anima. Impulsivi e non finiti, i bozzetti di Possagno evocano forme sfuggenti, in divenire. In questi grezzi modellati appare dirompente l’invenzione d’immagine ma anche la sensibilità tattile con cui Canova la realizzava. Mentre l’assenza di rifiniture e di superfici levigate regala effetti pittorici e drammatici chiaro-scuri. Che fecero la fortuna di Canova presso i Romantici. Ma anche del tutto insoliti per la poetica più complessiva dell’artista.

Come si può verificare anche a Roma, confrontando dal vivo un bozzetto di Canova dedicato ad Amore e Psiche e un suo gesso che rappresenta Amore e Psiche stanti. Le due opere fanno parte di un ampio percorso espositivo dedicato alla favola di Amore e Psiche dall’antichità a Canova. Una ampia esposizione a tema, dal 16 marzo in Castel Sant’Angelo e che raccoglie una settantina di opere, dal III secolo a.C. fino alla metà dell’Ottocento; opere in cui pittori e scultori hanno rappresentato e ricreato questa favola antichissima che ci parla ancora oggi e in modo poetico e profondo del rapporto fra uomo e donna. Un mito – come ha ricostruito puntalmente la studiosa Anna Maria Zesi  nel libro Storie di Amore e psiche, l’Asino d’oro edizioni – di cui si possono trovare varianti nella cultura orale di popoli diversi e lontani, dall’India al Medio Oriente e che ci regala una storia assai diversa e ben più rivoluzionaria di quella di Edipo, che consegnerebbe a un destino  di odio, assassinio   e  cecità.

Alle radici del mito di Amore e Psiche . Una mostra ripercorre la storia dell’iconografia

annamaria zesi,storie di amore e psiche

Una ampia  mostra in Castel Sant’Angelo a Roma  ripercorre attraverso un’ottantina di opere di reperti la storia del mito di Amore e Psiche, così come nel corso di una storia millenaria l’ hanno riletto gli artisti a partire della versione del mito codificata da Apuleio che certamente, ( come intuì molti anni fa lo psichiatra Massimo Fagioli) rielaborò materiali e tradizioni greche ma anche antecedenti.

Fra le molte rielaborazioni, come accennavamo, spiccano le geniali invenzioni di immagini di Antonio Canova, a cui in occasione della mostra Mario Guderzo dedica un interessante  saggio, contenuto nel catalogo edito da L’erma di Bretschneider che accompagna la mostra .

“Canova fu scultore, pittore ed architetto- ricorda lo studioso -. Bozzetti di argilla, modelli in gesso, sculture in marmo, ma anche dipinti, documenti, lettere, attraverso questi straordinari materiali oggi si può comprendere la complessità della sua arte e leggere ” a tutto tondo” la personalità di questo straordinario artista”. Senza dimenticare  i grandi della letteratura, da Foscolo a Leopardi, ma anche Stendhal che annotava nei suoi diari: ” A casa della signora Tambroni ci è capitato spesso di discutere con il Canova della necessità in cui si trovava la scultura, di imitareil gestire degli attori, cioé di imitare un’imitazione.  Ma per quanto fossimo brillanti, Canova non ci ascoltava affatto: le discussioni estetiche non lo interessavano, egli comprendeva solo i discorsi per immagini, gli unici che sollecitassero la sua fantasia….”.

E ancora, scrieva l’autore de Il Rosso e il nero e de La Certosa di Parma: ” Canova era figlio di un semplice operaio e la felice ignoranza in cui  era vissuto per tutta la giovinezza l’aveva preservato dal contagio delle teorie estetiche, da Lessing a Winckelmann, dalla loro retorica sul mito apollineo e infine dallo Schlegel che gli avrebbe insegnato che la tragedia greca altro non è che scultura”.

In  mostra fino al 1o giungno nel museo di Castel Sant’Angelo, fra molte altre opere , si possono vedere come  testimonianze iconografiche come Amore e Psiche degli Uffizi e la Psiche alata dei Musei Capitolini, una serie di terracotte, vasi e avori provenienti da musei italiani e greci, la serie completa delle incisioni del Maestro del Dado della prima metà del Cinquecento e, ancora, due disegni di Raffaello e bottega preparatori per la Loggia di Psiche della Farnesina, Amore e Psiche di Jacopo Zucchi,   Ma anche un richiamo virtuale realizzato dall’Enea – tramite una ripresa in 3D – alla Loggia di Psiche di Raffaello.

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Amore e psiche, storyboard

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 1, 2009

Amore e psiche M. Barney

Amore e psiche M. Barney

Dalle favole berbere del VI secolo a.C. alle opere di videoarte di Matthew Barney, passando per quel grande traghettatore del mito di Amore e Psiche verso l’Occidente che fu l’africano Apuleio. Idealmente la mostra pensata e curata da Miriam Mirolla che si apre oggi a Spoleto ripercorre questo lungo viaggio, raccontandolo soprattutto dal punto di vista di artisti contemporanei. «Studiando la storia dell’arte mi sono imbattuta spesso in personaggi che si sono innamorati follemente di questo mito commissionando più opere a esso ispirate come fecero Scipione Borghese e Agostino Chigi con Raffaello» racconta Mirolla che ha realizzato questa rassegna sulla traccia del suo libro Amore e Psiche, storyboard di un mito uscito l’anno scorso per Electa. «Il tema era così forte – spiega la curatrice – da appassionare intere generazioni di artisti. Nel Rinascimento da parte della committenza alta c’era il desiderio di farlo entrare nella propria vita: quasi che avere opere che lo narrano fosse sentito come un buon viatico, un’ispirazione etica per la vita privata». L’artista che meglio ha saputo rappresentare il senso profondo di questo mito che mette al centro la donna e il rapporto più profondo con il maschile «è stato Canova – dice Mirolla -, perché seppe dare corpo a quel momento in cui Amore salva Psiche dal sonno. Amore tira fuori dal regno dei morti un essere umano: è un’invenzione fortissima che da artista seppe cogliere». Perciò la sua opera è un capolavoro. «Non solo per il talento nell’esecuzione. Ma proprio per la scelta di questo e di altri momenti narrativi clou come in Amore e Psiche stanti e nelle bellissime terrecotte».

Ma se gli artisti hanno saputo irrazionalmente cogliere il senso di Amore e Psiche e rappresentarlo, non altrettanto hanno saputo fare alcuni studiosi. «Le femministe, per esempio, lo hanno rifiutato dicendo che Psiche era una masochista», nota Mirolla.

amore e psiche Kounellis

amore e psiche Kounellis

Non così la studiosa americana Karol Gilligan e con lei una certa corrente degli women stadies. Mentre la cultura occidentale si è basata sul mito di Edipo, ovvero sulla tragedia, «il mito di Amore e Psiche dà una via d’uscita dal tragico. è un mito – dice Mirolla sulla scorta di Gilligan – che non fonda le relazioni sul dolore, ma su una interazione. E questo è un nuovo modo di vedere il mondo certamente più fertile e fecondo».

L’evento. Nella Rocca Albornoziana di Spoleto  fino  al 30 agosto la mostra Amore e Psiche. Story- board di un mito con opere, tra gli altri, di Duchamp, Barney, Beecroft, De Dominicis, Tracey Emin, Robin Heidi Kennedy, Kou- nellis, Richard Long, Fabio Mauri, Kiki Smith, Cy Twombly.

dal quotidiano Terra 27 giugno 2009

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Psiche, la ragazza berbera

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 1, 2009

particolare-di-amore-e-psiche-di-canova

Amore epsiche stanti di canova

Una mostra e un libro dedicati al mito di Amore e Psiche. Con un’affascinante chiave di lettura del racconto di Apuleio che ha profondamente ispirato migliaia di artisti nei secoli.  In primis Canova di Simona Maggiorelli


«Ho letto per la prima volta la favola di Amore e Psiche in piena adolescenza. Uno di quei racconti che si leggono d’un fiato e che toccano nel profondo» annota a incipit del suo Amore e Psiche storyboard di un mito (Electa) Miram Mirolla. Un incontro e una fascinazione che poi si sarebbero ripresentate più volte nel suo lavoro di curatrice e di studio: «Durante gli studi di storia dell’arte – scrive – il tema di Amore e Psiche continuava a riemergere autonomamente, come l’acqua del fiume in un letto prosciugato». Un primo incontro, quasi inevitabile, è con la loggia di Amore e Psiche affrescata da Raffaello. Con la voglia di scoprire, fra biografia e arte, se dietro le bellezze femminili dipinte nel 1518 a Villa Farnese si celi il volto della donna che, come suggerisce il Vasari, occupava tutti i pensieri di Raffaello o piuttosto un’immagine interiore, un ideale dell’artista, come ci piace leggere nelle righe che lui stesso scriveva al Castiglione («Io mi servo di una certa idea che mi viene dalla mente»), anche se forse si trattava solo di una professione di “fede” neoplatonica.

Ma assai più potente è l’incontro con Canova: l’artista che forse più di ogni altro ha saputo rappresentare e reinterpretare il mito di Amore e Psiche in una iconografia originale . Come si evince ora anche dalla mostra che dal 25 gennaio 2009 gli dedicano i musei di San Domenico a Forlì e dove, fra molti capolavori,è ospitata la scultura conoviana Amore e Psiche stanti della foto e proveniente dal Museo russo di San pietroburgo.

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Yves Klein, Venere blu, 1957

Ma l’autrice di questo libro, che unisce le parole del racconto di Apuleio alle immagini che gli artisti gli hanno dedicato nei secoli, ha il coraggio di avventurarsi anche oltre, lungo i sentieri più freddi del contemporaneo, arrivando fino al pranzo vegetariano delle top model sorelle invidiose di Vanessa Beecroft, al letto sfatto di Amore e Psiche di Tracey Emin e scovando fra i lavori di Kounellis una fiamma della lanterna di Psiche che arde solitaria perché la sua luce razionale ha messo in fuga il “sentire”, uccidendo il rapporto più profondo con l’altro, con il diverso da sé. Modi di rappresentazione e stile diversissimi fra loro ma che straordinariamente trovano una radice comune nella materia pagana di Amore e Psiche. «Sembra che alcuni episodi della favola raccontata da Apuleio siano oggetto di un’attrazione fatale per gli artisti», spiega Mirolla. Come frammenti di un affascinante discorso amoroso che continua a emergere al di là delle delle mode e dei repertori iconografici: nel magnetico busto intinto di blu oltremare della Venere di Yves Klein ( in foto), nelle ceramiche di  Lucio Fontana ma, dice la studiosa, a suo modo anche dietro la “Nuvola” dell’archietetto Massimiliano Fuksas.

E se il grande traghettatore di questo mito precristiano verso l’Occidente fu quell’«attento e colto avvocato nordafricano di nome Apuleio che dopo averla trascritta in latino la imbarcò sulle navi dei romani», le radici del mito sono da ricercare con ogni probabilità nella tradizione orale di uno dei più antichi popoli preislamici: i berberi. Lo hanno sostenuto scrittori come Mouloud Mammeri, ma – ricorda Mirolla – anche studiose come Eva Cantarella e Carol Gilligan. Ma è grazie alla sensibilità di artisti e letterati (fra i primi Boccaccio) se questo mito, che parla della «potenzialità eversiva» del desiderio fra uomo e donna è sopravvissuto alle bugie di mitografi cristiani come  che nel IV e V secolo imposero l’interpretazione di Psiche come allegoria dell’anima. Molti secoli più tardi Freud avrebbe dato man forte ai padri della Chiesa parlando di controllo razionale sull’inconscio (per lui sempre malato) e di una pretesa universalità del complesso di Edipo. Lo scopo, alla fine, era sempre lo stesso: imporre un controllo sul desiderio, annullare l’immagine e l’identità della donna. Left 3/09

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Quei supermaschi dei Romani

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

cantarella

eva cantarella

di Simona Maggiorelli

Dopo aver guidato il lettore in un viaggio colto e appassionato all’interno della polis raccontandoci come i greci vivevano i rapporti sessuali e le passioni, con il suo nuovo libro, Dammi mille baci (Feltrinelli, dal 23 aprile in libreria), Eva Cantarella ci fa scoprire i lati meno noti della vita dei Romani.

E se in Passato prossimo (Feltrinelli) con personaggi come Tacita Muta aveva messo a fuoco l’assoluto silenzio a cui le donne erano condannate nei primi secoli della romanità, in questo nuovo lavoro racconta come le matrone apparentemente acquisirono nuovi diritti durante gli anni della Repubblica e dell’Impero, guadagnandosi un posto nella sfera pubblica. Ma pagando un prezzo altissimo. «Consapevoli dei premi, dei vantaggi e degli onori che sarebbero derivati loro dall’adempimento dei propri compiti – scrive la studiosa – le donne romane di regola condividevano i ruoli maschili. Esse accettavano, profondamente convinte della sua importanza, la costruzione maschile della loro immagine e del loro ruolo».

Tanto che, riempite di gioielli e onorate pubblicamente come matrone, mogli e madri modello, azzarderemmo, se la passavano perfino peggio delle donne greche, stigmatizzate dal sommo Aristotele come esseri inferiori, irrazionali, incapaci di ragionare. Pienamente sussunte nel modello maschile sulla scena pubblica e violentate in privato da mariti che concepivano solo una «sessualità per stupro» non facendo alcuna differenza fra uomini e donne, purché avessero un ruolo passivo, le donne dell’Urbe ci appaiono catturate in una situazione di annullamento totale della propria immagine e identità. Senza contare che presto sarebbe stato il Cristianesimo a dar loro il colpo finale. «Studiando la condizione femminile a Roma ci si trova davvero di fronte a un quadro agghiacciante – ammette Eva Canterella -. E la cosa ci tocca da vicino perché ha lasciato tracce durevoli e pesanti su di noi. La grande abilità politica dei Romani e la loro astuzia determinò questa situazione. A differenza dei Greci che discriminavano le donne tanto da costringerle a vivere appartate, le Romane stipularono questo tacito patto con gli uomini, che vige ancora oggi, nelle ricompense, nei piccoli vantaggi.

Purché fossero mogli e madri modello…

Solamente se diventavano delle madri modello, mogli o vedove potevano ottenere qualcosa. Quanto alla lunga durata di una certa mentalità mi impressiona quello che si sente dire oggi riguardo alla necessità di aumentare le pene nei casi di stupro. Per carità, aumentino pure gli anni di carcere, ma il punto è che molto spesso i responsabili non vengono nemmeno individuati perché gli stupri avvengono in famiglia. Soprattutto non si ferma con il mero istituto della pena un fatto psicologico culturale di questa portata che ha radici così profonde. Ci vuole veramente una rivoluzione culturale.

affresco_romano_-_pompei_-_eros_e_psiche2Nel saggio Essere diverse contenuto nel libro Donna m’apparve curato da Nicla Vassallo per Codice edizioni lei scrive che la diversità della donna è una teoria elaborata dai Greci.

Sì, ma il fatto è che i filosofi greci elaborano un’idea di differenza che significa inferiorità della donna. E Aristotele, lo sappiamo, ha avuto un peso enorme sulla cultura occidentale. Il suo pensiero ha resistito fino a quando le femministe hanno elaborato una nuova teoria della differenza. Che poi sia riuscita o  meno, questo è un altro discorso. Ma non c’è dubbio che fino a quel momento la “differenza” è stata solo una sciagura per le donne.

Fra i Romani, come fra i Greci, l’omosessualità era pratica comune. Ma quello che più colpisce è che per i primi essere uomini voleva dire avere un ruolo sessualmente attivo. Poco importava se poi il partner era una donna o un uomo.

Questo accadeva anche in Grecia. Con una differenza tuttavia: Aristofane usa tutta una serie di aggettivi per indicare gli omosessuali passivi, usa parole che poco si adattano a un’intervista. Ma se si trattava di un giovane da educare ai valori della polis, il rapporto omosessuale veniva considerato un mezzo nobilissimo, in ogni caso. I Romani erano portatori – per capirsi – di un “celodurismo” alla Bossi, si pensavano supermaschi, ma se certi ragazzi romani di buona famiglia erano intoccabili, gli adulti non esitavano a ficcarlo in quel posto ai nemici e agli schiavetti. Perfino il dolce Catullo rivendicava l’io te lo metto lì e lo scriveva nei messaggi che indirizzava ai giovani uomini.

A Pompei i fanciulli che si prostituivano erano più ricercati e pagati delle donne?

Accadeva anche a Roma dove c’erano molti ragazzini viziati che dagli uomini si facevano pagare moltissimo. L’etica cittadina diceva no a tutto questo, ma la pratica quotidiana era cosa diversa. Come sempre.

E il Cristianesimo che tipo di cesura segnò nella cultura romana?

Una cesura radicale. Per il Cristianesimo l’unico rapporto secondo natura è quello che porta alla procreazione. E condannava ogni relazione omosessuale. Le conseguenze si possono leggere nelle costituzioni di epoca imperiale. Anche allora vigeva questo vizio dei politici di imporre a chicchessia quanto affermato dalle gerarchie ecclesiastiche. Gli imperatori cristiani cercarono di adeguare la legislazione, ma non potevano bruciare vivi gli omosessuali attivi che erano “approvati” dall’etica pagana. Quindi per secoli si punirono solo gli omosessuali passivi.

affresco-romanoLei scrive che nella società romana il parricidio era un’ossessione diffusa. E non di rado si passava all’atto.

Non lo dico solo io, ma anche un grande storico come Paul Veyne. E devo ammettere che se si vanno a leggere direttamente le fonti il fenomeno appare impressionante. A Roma, di fatto, non si smetteva mai di essere figli. Capitava così che un individuo a 40 oppure a 50 anni, sposato o console che fosse, dipendesse ancora dal padre, il quale poteva tagliargli i viveri o diseredarlo. L’usura, anche per questa causa, era molto praticata e c’era chi arrivava, per questo, ad uccidere il padre. E che non fosse un fatto straordinario, lo  si capisce dalle leggi ad hoc che furono emanate.

Dunque la famiglia romana produceva crimini e pazzia?

Di sicuro produceva rapporti difficili e contorti. Certo che il problema del parricidio era un affar serio, è documentato da molte fonti. Andrebbe ricordato a quanti ancora oggi esaltano la famiglia dipingendola in ogni epoca come un paradiso.

Il parricidio veniva punito con una pena efferata: la morte in un sacco con un cane, un gallo, una scimmia e una vipera

La pena del sacco, che a noi  sembra assolutamente primitiva, rimane in vigore anche nell’Impero. La si comminava anche agli adulteri, ma forse senza animali.

In questa romanità incentrata sul pater familias, in cui si imponevano modelli culturali anche attraverso la letteratura e la scelta dei miti e delle divinità, Apuleio come riuscì a introdurre la favola di Amore e Psiche?

In effetti fu un bel salto. Quello che sappiamo è che la favola di Amore e Psiche probabilmente era di origine orientale e arrivò in occidente attraverso percorsi sui quali si discute moltissimo.

Di questo lei si è occupata per una nuova edizione della favola di Apuleio che uscirà a giugno per Rizzoli. A che conclusione è giunta?

Ho scritto, appunto, che le radici della storia di Amore e Psiche affondano in luogo diverso da Roma e in un tempo probabilmente molto lontano da quello in cui visse Apuleio. Secondo alcuni studiosi il mito viene dalla Siria, secondo altri ancora sarebbe l’elaborazione greca di un mito iraniano. L’ipotesi sulle origini sono incerte. Ma quali che siano, la storia viene ripresa e rielaborata da Apuleio per adattarla alla società in cui viveva.

Da cosa lo deduce?

Apuleio, come sappiamo, era un avvocato e nel suo testo ci sono molti riferimenti ad istituti romani. Per esempio le donne a cui Psiche chiede aiuto le rispondono: non posso perché altrimenti sarei punita. La legge effettivamente sanzionava chi aiutava gli schiavi fuggitivi. Lo stesso Giove, a un certo punto dice: «Per colpa tua, io ho più volte violato la lex Iulia.

Il fatto che Apuleio fosse di origini berbere non potrebbe anche far pensare che la materia del mito provenisse proprio da quell’area dove le donne fin dalle epoche più antiche hanno sempre goduto di una certa libertà?

Non è da escludere, ma non abbiamo prove certe. Quello che possiamo dire è che il mito è sicuramente orientale, berbero o persiano che sia. Il mio lavoro su Amore e Psiche in realtà origina da alcune lezioni che tenni a New York con Karol Gilligan. Nel libro In a different voice, la Gilligan scrive che la favola di Amore e Psiche racconta una storia di resistenza femminile. Un’interpretazione affascinante, anche se mi convince fino a certo punto.  Il mito si offre a molte letture. In ogni caso particolarmente eversivo nella cultura classica romana, razionale, impostata sull’autorità paterna e la sottomissione totale della donna e dei figli.

Questo rapporto con l’Oriente è stato problematico. In Dammi mille baci, per esempio, lei racconta che la leggenda di Cleopatra con il naso lungo fu inventata da Pascal. Ma sono tante le storie di donne di culture mediorientali che la tradizione ebraico-cristiana ha deformato e alterato.

È comprensibile che Cleopatra fosse vista malissimo dai Romani, ma è vero che si potrebbero fare molti altri esempi di cattiveria occidentale. Uno dei pochi casi opposti è quello di Zenobia, la regina di Palmira. Di lei le fonti occidentali dicono che conosceva non so quante lingue e che cavalcava alla testa dei suoi soldati. Se ne parlava con rispetto. Se il nostro sguardo si fosse liberato dal pregiudizio si sarebbe accorto già molti secoli fa che nella storia e nella letteratura orientale emergono figure femminili veramente straordinarie.

da left-Avvenimenti 27 aprile 2009

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Le metamorfosi nella fantasia di Klinger

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2003

di Simona Maggiorelli

Sirena di Max Klinger

Una natura idealizzata e possente. Scene di passione sulla spiaggia. Di amanti senza nome. Nell’abbraccio, la donna rivela una sfuggente natura da sirena. Sono le figure immaginifiche, fantastiche, spesso mutuate dall’epos e dal mito, della pittura di Max Klinger, l’artista che contrassegnato con un proprio segno originale il passaggio dalla pittura romantica a quella simbolista nell’orizzonte europeo.

In un periodo in cui le varie discipline erano sempre più compartimentizzate, Klinger lavora a fondere i confini tra i generi inseguendo un’idea di arte totale in cui disegno e pittura non rinunciano a un effetto plastico e visionario. Allievo di Boecklin, soprattutto nel regalare sensualità alle figure, sciogliendo il rigido rigore della pittura tedesca.

Instancabile sperimentatore fra pittura, scultura e grafica, Klinger nasce a Lipsia nel 1857 e muore a Grossjena nel 1920. Dopo la prima importante antologica italiana che gli dedicò sei anni fa Ferrara in palazzo de’ Diamanti, ora una grossa scelta dalle sue opere – circa un centinaio fra olii, incisioni, a cqueforti, bulini e litografie – è in mostra a Trento, in palazzo delle Albere fino al 25 settembre . La curatrice Alessandra Tiddia, per rendere accessibile da subito il percorso della mostra, ha scelto di partire dall’opera più popolare di Klinger, il ciclo Parafrasi sul ritrovamento di un guanto, dove a dare il la alla pittura è un episodio di cronaca, in parte vero, in parte inventato. Nel quadro più famoso della serie, intitolato L’Azione (che piacque molto ai surrealisti) Klinger ritrae un uomo su una pista di pattinaggio, mentre si china per raccogliere il guanto che una pattinatrice ha lasciato cadere. Il pittore tedesco raccontò di aver vissuto davvero questo piccolo episodio e di essersi portato a casa quel guanto. Klinger lasciava intendere di averlo messo sul cuscino, generando un sogno in cui l’oggetto si animava di vita propria diventando protagonista di infinite avventure romanzesche e trasformazioni, fonte di ispirazione per altrettante opere su tela e su carta. Uno dei testi più cari a Klinger fu non, a caso, la favola di Apuleio. Da Amore e Psiche e dalle Metamorfosi, il pittore tedesco ricavò un ciclo di quadri che contenevano il movimento di una perenne trasmutazione degli elementi. Passaggio che poi troverà il suo apice ne Le fantasie per Brahms del 1894, la tela in cui Klinger tenta di dare musicalità silenziosa alle immagini. Brahms stesso, si dice, apprezzò moltissimo l’esperimento.

Da Europa quotidiano, 2003

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