Posts Tagged ‘Avanguardia’
Posted by Simona Maggiorelli su settembre 19, 2013

Diego Rivera
Quando parliamo della grande svolta dell’arte occidentale che avvenne negli anni Dieci del Novecento ci riferiamo alla Parigi cubista, al genio di Picasso, oppure all’astrattismo del cubo-futurismo russo o al più al Cavaliere Azzurro di Kandinsky in Germania. Raramente pensiamo a un altro tellurico epicentro del cambiamento quale fu il Messico negli stessi anni. Dove l’avanguardia di artisti come Diego Rivera, David Siqueiros e José Clemente Orozco s’incontrava con la rivolta sociale, con la rivoluzione contadina da Zapata in poi.
Il risultato in pittura non fu solo la creazione di giganteschi murales che riuscivano a parlare anche alle persone meno istruite senza scadere nella banale propaganda. Ma furono anche quadri di grande forza espressiva che, in modo originale riuscivano a far incontrare la ricerca più innovativa con la tradizione modernista, talora evocando anche memorie antiche dell’arte pre-colombiana.
Pensiamo a quadri come Ballo a Tehuantepec (1928) dello stesso Rivera, accesi da una tavolozza di terre rosse e toni solari dove campeggiano figure scultoree di donne e uomini che danzano, oppure ai quadri volutamente primitivisti e picareschi di Chavez Morado che rappresentano contadini e lavoratori che lottano per i diritti di tutti in atmosfere senza tempo, quasi da poema antico. Sono straordinarie scene di un’epica messicana e popolare quelle che ci vengono incontro lungo il sorprendente percorso della mostra Messico una rivoluzione nell’arte 1910-1940 aperta fino al 29 settembre alla Royal Academy di Londra.
Una esposizione in cui spiccano perle nere come l’autoritratto di Frida Khalo, la compagna di Rivera, che in pittura seppe fare del suo corpo sfregiato e ferito a causa di un grave incidente una vibrante immagine di bellezza e di selvaggia femminilità.
Ma ecco anche le Donne di Oaxaca (1927) , una teoria di figure colorate e “antiche”, quasi greche, della pittrice Henrietta Shore, flessuose come giunchi sotto il peso delle bottiglie che portano in testa; femminili nel movimento eppure senza volto, come certi contadini anonimi e al tempo stesso “universali” dipinti da Van Gogh.

Mani di Tina Modotti
Particolarmente coinvolgente è anche la parte documentale e fotografica di questa mostra londinese, scandita da locandine e pagine di giornali d’epoca ma anche da celebri scatti di maestri della fotografi come Paul Strand, Robert Capa e Henri Cartier Bresson che attraversò il Messico in lungo e in largo per raccogliere scene di vita in strada. Naturalmente ritroviamo qui anche le ruvide mani dei lavoratori che Tina Modotti seppe immortalare in stampe seppiate e altamente poetiche ma anche la selva di cappelli che caratterizza i suoi celebri Lavoratori che leggono El machete (1929). Meno noti sono invece certi scatti messicani di Edward Weston, allora amante della fotografa italiana, fra i quali un ritratto dello scrittore D.H. Lawrence, dallo sguardo bruciante contro l’immenso cielo messicano. E che ci ricorda la straordinaria fascinazione che la rivoluzione messicana esercitò su un‘ampia cerchia di intellettuali, artisti e scrittori europei. ( Simona Maggiorelli)
Dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2012

Matisse Le cirque (1947)
Un’esplosione di colori e di forme gioiose che si librano nell’aria. Torna in libreria jazz il libro del ritorno alla vita dopo la guerra al ritm osincopato del jazz. Quella musica del diavolo che i nazisti avrebbero voluto bandire come musica degenerata
Simona Maggiorelli
Disegnare con le forbici. «Ritagliare nel vivo del colore che mi ricorda lo sbozzare diretto degli scultori» annotava Matisse. Fidandosi sempre della mano che si muove, tracciando linee, senza programmi e pensieri preconcetti.
«La mano non è che il prolungamento della sensibilità e dell’intelligenza più profonda» scriveva il pittore francese. Nacque così, portando al massimo sviluppo l’esperienza dei Papiers découpés, un volume unico nel suo genere come Jazz, che Matisse pubblicò nel 1947 con la complicità di un editore sensibile e colto come Tériade. Quasi fosse un inno alla vita umana che ripende a pulsare dopo l’orrore della guerra. Proprio al ritmo indiavolato del jazz, la musica nuova e sincopata che i nazisti pretendevano di silenziare stigmatizzandola come musica degenerata.
Non un libro illustrato, ma un vero e proprio libro d’arte, come sottolinea giustamente Francesco Poli nella prefazione all’edizione in fac-simile che Electa pubblica come strenna. Un’opera totale, un’esplosione di colore, in cui arte visiva e scrittura trovano una segreta composizione. La nitida calligrafia di Matisse, morbida ed elegante, in queste pagine fluisce come segno pittorico, emulando gli amati modelli cinesi e giapponesi. Un effetto raggiunto senza usare i pennelli, come chiederebbe la tradizione orientale, ma utilizzando solo del semplice inchiostro. La linea della scrittura di Matisse si rivela essere la colonna dorsale di questa opera matura che rivoluzionò il mondo della grafica.
Ed è sempre la linea poi, come segno grafico, a dare movimento alle improvvisazioni cromatiche di figure gioiose che sembrano librarsi dallo sfondo della pagina. Immagini dal timbro forte e vibrante che ricreano memorie infantili del circo, la meraviglia e l’emozione di giocolerie e acrobazie che sfidano la forza di gravità.
In Jazz (più che nelle edizioni di versi di Mallarmé e di altri poeti illustrate di Matisse) incontriamo figure dalle forme semplificate: a un tempo ingenuamente naif e raffinatissime nella loro essenzialità. Lontane da ogni mimesi e descrittività naturalistica sono immagini evocative, oniriche, che rimandano a qualcosa di invisibile che va al di là della loro sagoma deformata ma tutto sommato riconoscibile. Come nel celebre Nudo blu le immagini di Jazz sono bidimensionali eppure per nulla piatte. Matisse le ha liberate dalla griglia geometrizzante della prospettiva rinascimentale, ma anche da certa “razionale” scomposizione cubista alla Braque.
Dare il senso della profondità senza l’aiuto della prospettiva, (tradizionale o multidirezionale che fosse) era una delle “magie” che Matisse sapeva fare meglio. Lasciando che il calore emotivo della sua visione interiore riscaldasse la scena e la profondità della sua fantasia diventasse la profondità stessa del quadro. Basta pensare a un dipinto come La stanza rossa (1908).
«Abbiamo abbandonato il modello, la prospettiva, abbiamo rifiutato tutte le influenze, gli strumenti acquisiti. Ci siamo affidati al colore: il colore ci ha permesso di rendere la nostra emozione senza mescolare e senza reimpiegare i vecchi mezzi costrittivi», scriveva Matisse, che giudicò sempre capziosa la contrapposizione fra arte astratta e figurativa. Non ricalcate dal vero, eppure non del tutto irriconoscibili, i suoi uomini e donne che si tengono per mano e si muovono in cerchio nella Danza (1910) rappresentano un universale umano, quell’ invisibile, quella realtà interiore, che ci caratterizza più profondamente.
dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 25, 2012
Una retrospettiva con molti inediti, in Palazzo Blu a Pisa, invita a rileggere il passaggio epocale compiuto da Kandinsky. Dal realismo magico all’arte astratta

Kandinsky, Cresta azzurra (1917)
Dopo la bella mostra di Aosta che raccontava l’ultimo periodo parigino di Kandinsky (vedi left del 22 maggio 2012), la riflessione sull’artista russo continua ora a livelli alti in Palazzo Blu a Pisa, dove, fino al 3 febbraio, è aperta la mostra Vassili Kandinsky dalla Russia all’Europa. Una antologica, con molti inediti e prestiti da musei e altre istituzioni russe, che ha il merito di concentrarsi sul periodo più fertile della parabola artistica di Kandinsky, quello che va dal 1901 al 1921.
Curata da Eugenia Petrova, direttrice del Museo di San Pietroburgo (che affida alcune stimolanti riflessioni alle pagine del catalogo Giunti Arte) la mostra presenta una cinquantina di opere che permettono di seguire la straordinaria evoluzione che ebbe la pittura di questo protagonista delle avanguardie storiche: dagli esordi sotto il segno del Simbolismo e dell’acceso colorismo fauve, fino ed oltre il grande salto del 1910 quando Kandinsky realizzò il suo primo acquerello astratto. Un’opera in cui non c’è più traccia di figurazione e il colore diventa un veicolo potente di espressione.
Così, dopo i paesaggi magici di una Russia rurale e antica, dopo le figurazioni fiabesche di Amazzone sui monti (1918) e il realismo magico di Nuvola dorata (1918) con i suoi villaggi naif, d’un tratto, in Palazzo Blu ci si trova davanti ad opere totalmente astratte e rivoluzionarie come Composizione su bianco (1920) e Cresta azzurra (1917): niente immagini riconoscibili, niente più rappresentazione dal vero.
Ma la rivendicazione piena e matura da parte dell’artista di poter creare forme ex novo, in libere composizioni di linee e colori.

Kandinsky, Composizione su bianco (1920)
Composizioni astratte, ma capaci di evocare significati profondi ed emozioni. Come la musica che suscita sentimenti e pensieri senza riprodurre nessun dato specifico di realtà. Non a caso molti quadri di Kandinsky s’intitolano “composizione” o “improvvisazione” e nascono nell’ambito di una originale sperimentazione fra arti visive e creazione musicale, alla ricerca di una sempre vagheggiata “opera totale”
. A Pisa documentano questa fase di ricerca quadri fiammeggianti di oro e azzurro come Composizione (Paesaggio) del 1915 e il coevo Composizione (femminile), che raramente il Museo di San Pietroburgo presta. Opere astratte il cui senso pregnante e profondo è trasmesso attraverso forme-colore e ritmi cromatici puri. Si capisce anche da queste tele che Kandinsky aveva apprezzato e rielaborato in modo personale la lezione del Futurismo e del Raggismo russo.
Per tutta la vita, perfino nel periodo apparentemente più freddo della sperimentazione di forme geometriche (negli anni in cui insegnava al Bauhaus), Kandinsky fu sempre dalla parte di un astrattismo lirico, vibrante, denso di emozioni. Lontano anni luce dalla meccanica astrazione del Costruttivismo come dalle metafisiche ricerche del suprematista Malevic intorno alla forma assoluta. Per non parlare poi della distanza abissale che lo separava da Mondrian, che andava alla ricerca delle strutture logiche e impersonali del reale. A riprova del fatto che non si possa parlare di astrattismo se non come una complessa e quanto mai articolata galassia. Simona Maggiorelli
dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 23, 2012

Tintoretto, autoritratto 1548
Artista dal segno inquieto e nervoso, nel secondo Cinquecento aprì una nuova stagione nella pittura emancipata dal razionalismo della propspettiva rinascimentale. Una importante antologica ne ripercorre l’opera alle Scuderie del Quirinale. Colmando una lacuna. Basta dire che l’ultima mostra di Tintoretto in Italia risale al 1937
di Simona Maggiorelli
Bellezza, esattezza, armonia non abitano più qui. Nell’ultimo scorcio di Cinquecento è finita la stagione della aurea classicità raffaellesca.
Lo splendore del colorismo veneto, sotto il vento rigido della Riforma, già si smorza in una tavolozza terrea e austera. Mentre i sensuali impasti di colore e la pagana celebrazione delle forme femminili, nell’ultimo intenso atto dell’arte di Tiziano, lasciano il posto a inquieti notturni
Anche attraverso le maglie strette della fiera indipendenza veneziana, ora che la Serenissima ha perso il primato di porta d’Oriente e di regina del mare, comincia a filtrare tetra l’ombra della Controriforma spalleggiata dal dominio spagnolo.
Così dai vasti orizzonti e dai paesaggi lirici di Bellini, Giorgione e Tiziano (di cui ora racconta la mostra Tiziano e la nascita del paesaggio moderno in Palazzo Reale a Milano) quasi d’un tratto si precipitin una catacomba, in quell’antro oscuro e misterioso dove Tintoretto accende la scena del Ritrovamento del corpo di San Marco. Sotto una fuga di archi appena rischiarati dalle torce, nella tensione che segna i gesti nervosi e concitati dei protagonisti di quest’opera dipinta nel 1563-64 si compie simbolicamente un radicale passaggio di stile e di visione pittorica: dall’armonia e dalla morbidezza di linee del Rinascimento agli scorci arditi, alle contorsioni e ai drammatici chiaro-scuri di un Manierismo che nell’arte di Jacopo Robusti detto Tintoretto (1519-1594) già precipita nel Barocco.

Tintoretto, Il ritrovaento del corpo di San Marco
Per questo è difficile non dar ragione a Vittorio Sgarbi quando dice che in questa sua importante antologica di Tintoretto che si apre il 25 febbraio alle Scuderie del Quirinale (la prima, in Italia dal 1937!) non poteva mancare quest’opera chiave. Che invece Brera non ha voluto concedere. In compenso però, sfidando l’idea che le opere del Robusti risultino poco comprensibili fuori dal loro originario contesto veneziano, Sgarbi ha organizzato un percorso che comprende una quarantina di dipinti di Tintoretto, punteggiato di veri capolavori.
A cominciare dal visionario Trafugamento del corpo di San Marco fino alla poetica e suggestiva Santa Maria Egiziaca. Un percorso e un lavoro di elaborazione critica ( nel catalogo edito da Skira) da cui emerge con forza l’originalità del segno pittorico di Tintoretto, inquieto, dinamico, libero e fugace nel tratteggiare ciò che è essenziale. In modo ficcante e sintetico senza preoccuparsi delle rifiniture. Ma da questa attesa mostra romana emerge anche il suo essere stato un ritrattista ”spietato” nel cogliere la verità più profonda sui volti. E il suo ardito sperimentare scorci, prospettive inusuali e persino vorticose, come nella luminosa ricreazione della leggenda di San Giorgio e il drago con l’eroe retrocesso sullo sfondo e in primo piano una principessa in fuga che sembra precipitarsi verso di noi, fuori dal quadro.

Tintoretto, il trafugamento del corpo di San Marco
Per non dire poi delle grandi macchine teatrali, dei grandi telieri come il Miracolo dello schiavo dove l’episodio sacro è tramutato in dramma umanissimo mentre il punto di vista dello spettatore è lo stesso degli astanti assiepati intorno allo schiavo: una straordinaria summa della capacità di Tintoretto di creare scene dinamiche, in movimento, che sembrano accendersi d’un tratto e altrettanto presto svanire.
Un dinamismo che fa sembrare immediatamente ingessate e inerti molte pale di Raffaello e di altri maestri del Rinascimento. Stigmatizzato da Vasari e dai contemporanei come frettolosità, imperizia o addirittura furore fu proprio quel tratto individuale e originalissimo dello stile di Tintoretto, in seguito, ad accendere l’interesse di molte generazioni di pittori. Guadagnandogli la simpatia e l’interesse di El Greco e di Velazquez, dei Romantici e oltre, arrivando fino alle avanguardie della pittura astratta e all’informale. Non è un caso che un pittore tutto sommato poco attento alla tradizione pittorica come Pollock, giovanissimo, studiò a lungo riproduzioni di opere di Tintoretto interessandosi soprattutto a opere tarde come il Paradiso che sembra realizzata quasi soltanto con filamenti di luce. Un uso della luce (e dell’ombra) che l’artista veneziano emancipò completamente dalla prospettiva rinascimentale. Basta pensare al biancheggiare delle quinte architettoniche nel Trafugamento del corpo di San Marco in vivo contrasto con il cadavere del santo che appare immerso nell’ombra, benché sia in primissimo piano. Un uso completamente irrazionale della luce che, come è stato notato, aprì la strada alla rivoluzione di Caravaggio.
Ma profondamente innovativa fu anche la sua concezione dello spazio. Nell’Ultima cena, per esempio, il tavolo posto di sbieco sembra risucchiare lo spettatore verso la profondità della tela. Liberando la spazialità dalla rigida griglia prospettica, Tintoretto inglobava l’ambiente fuori dal quadro cancellando ogni soluzione di continuità fra spazio della rappresentazione e spazio della fruizione dell’opera. Con un’intuizione che sarebbe piaciuta molto a Lucio Fontana. Così come la forma aperta della sua pittura con molti elementi appena accennati e che stimolano la fantasia dello spettatore.Come tante porte invisibili che chi guarda desidera aprire.
da left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 27, 2011
Al PalaExpo di Roma una grande retrospettiva dedicata ad Aleksander Rodčenko e all’avanguadia russa
di Simona Maggiorelli

Rodchenko 1930
“Il nostro dovere è sperimentare”, “Dobbiamo rivoluzionare il nostro pensiero visivo” annotava Aleksander Rodčenko ancora, nel 1928. La ricerca continua, intesa come sperimentazione di linguaggi e forme espressive sempre nuove, è il messaggio forte che ci ha lasciato come pittore, fotografo, grafico, illustratore e inventore di nuove discipline artistiche fra cinema e fotomontaggio, ma anche come straordinario testimone di un’epoca nelle pagine del suo coraggiosissimo diario. Ed è questo filo rosso di appassionata ricerca di una visione nuova e di una fantasia diversa e più profonda a dare, ancora oggi, una grande energia alle sue opere. Anche perché, per lui, come per l’amico Majakovskij e per gli altri giovani artisti che aderirono alla rivoluzione russa e alla rivista LEF, il nuovo non era una categoria astratta, ma aveva a che fare con il sogno del socialismo, di una società più giusta in cui la tecnica potesse servire a emancipare l’uomo dalla fatica e dallo sfruttamento, mentre l’arte e la letteratura aprivano la strada all’Uomo nuovo.
Un sogno, un’utopia che – come la stessa tribolata biografia di Rodčenko (1891 -1956) ci racconta – si sarebbe presto infranto contro il muro del regime stalinista. Una parabola tragica che l’artista russo percorse per intero, passando dal medioevo della Russia zarista, ai concitati e fertili anni della rivoluzione, fino alle purghe di regime di cui fu una delle tante vittime. Ma, come ci fa vedere e quasi toccare con mano la bella retrospettiva Aleksander Rodčenko aperta fino all’8 gennaio nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma, senza mai perdere del tutto la speranza di una svolta, senza mai piegarsi alle circostanze, cercando semmai quei rari interstizi dove potersi ancora esprimere pienamente come artista. Come quando negli ultimi anni, ingabbiato dalla censura sovietica Rodčenko scovò l’area franca del circo e si mise a fotografare maschere da clown, realizzando opere insieme poetiche e altamente tragiche nel farsi metafora di un socialismo reale che dei valori della rivoluzione aveva fatto una maschera inquietante.

Rodchenko, Ragazza con Leica
Ma la mostra romana che ha il pregio di essere una retrospettiva quasi completa del lavoro fotografico di Rodčenko (e che resterà documentata da un catalogo Skira) senza trascurare queste ultime fasi del suo lavoro, ha il merito soprattutto di riportarci, d’un tratto, al centro di quella esplosione creativa, in quella ribollente fucina di idee che fu la Russia nei primi anni del Novecento e fino alla rivoluzione. Riesce a farlo in un percorso che squaderna sequenze straordinarie di scatti, dedicate alla città, al lavoro, allo sport e, soprattutto, al cinema. Così ecco le visioni ripidissime, dal basso all’alto, che catapultano lo spettatore verso un immaginario futuro; ecco gli scorci verticali e aguzzi che fanno sembrare le povere città sovietiche capitali in frenetico movimento e punteggiate da architetture immaginifiche, costruite solo con l’obiettivo. Accanto a queste elegantissime sequenze in bianco e nero, spiccano immagini più note: i colorati montaggi, le locandine e i manifesti come quello celeberrimo che ritrae Lilija Brik che porta la mano alla bocca come fosse un megafono. Un’immagine presto diventata icona e poi riprodotta in centinaia di manifesti pubblicitari. Insieme alle geniali locandine realizzate per il cinema d’avanguardia di Eisenstein. Che ora Antonio Somaini rilegge in una importante monografia Einaudi dedicata al grande cineasta dell’avanguardia russa e al gruppo di artisti che collaborò ai suoi capolavori.
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Posted by Simona Maggiorelli su marzo 19, 2010
La sua ricerca, fra tradizione e avanguardia, è ripercorsa in una mostra al meonato museo Maga di Gallarate
di Simona Maggiorelli

Nodigliani, Nudo disteso, 1918
Fu un anno denso di eventi quel 1906 in cui Amedeo Modigliani arrivò a Parigi con l’idea di dedicarsi totalmente all’arte. Un anno di separazione e di svolta. Non solo per la vita del provinciale Modì che nella capitale francese poté fondere il suo amore per le linee pure dei maestri del Trecento italiano con una nuova passione per l’Arte Negre conosciuta al Musée de l’Homme. Maschere evocative anche quando appena sbozzate. Fino al punto da sembrare opere astratte. Scultoree figure di donna e idola dal fascino magnetico da cui Modì trasse nuova linfa per le sue flessuose donne dal collo lungo e per i ritratti di amici, artisti, intellettuali e compagni di bevute. Via da una Livorno asfittica e macchiaiola, Modì trovò un suo nuovo respiro scoprendo la forza dei colori inventati di Matisse e le aspre scomposizioni di Picasso che nel 1907, a un anno dalla scomparsa di Cézanne , dipinse un’opera dirompente come Les demoiselles d’Avignon, entrata nella storia come l’inizio del cubismo. A Parigi, come ricostruisce Beatrice Buscaroli nella biografia Ricordi via Roma. Vita e arte di Amedeo Modigliani appena uscita per Il Saggiatore, Modigliani trovò la sua strada sul crinale impervio fra tradizione e avanguardia.
Ma non smise mai di cercare. Spinto dall’urgenza di un “sogno” di bellezza che lo accompagnava fin da ragazzino. Dalla potenza di un’immagine interiore da realizzare in forme e colori. («Io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho bisogno dell’opera» scriveva all’amico Oscar Ghiglia). Sostenuto da un’idea tirannica che l’arte fosse al di sopra di ogni cosa e che lo rese “spietato “con chi aveva accanto. (« Noi – scriveva ancora a Ghiglia – abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra della loro morale»). Un percorso breve e folgorante quello di Modì. Che si interruppe precocemente nel 1920. Nel gennaio di quell’anno l’artista morì di leucemia e la sua giovane compagna, incinta, si gettò dalla finestra. E proprio sul filo di questo drammatico intreccio di tensioni fra biografia e arte si snoda la mostra Il mistico profano, omaggio a Modigliani. Una rassegna che, fino al 19 giugno, raduna nel neonato museo Maga di Gallarate una messe considerevole di documenti, fotografie e lettere autografe a partire da quel fatidico 1906 che segnò l’inizio dell’avventura parigina di Modì. Documenti provenienti da Casa Modigliani e che fanno da tessuto connettivo ai venti dipinti di Modì prestati da musei e collezioni italiane e a una cinquantina di disegni, fra i quali «le fantasie disegnate» ispirate all’amata Commedia dantesca di cui l’artista recitava a memoria interi canti. Proprio alcuni schizzi preparatori ritrovati sono la maggiore novità di questo omaggio a Modì curato da un team guidato da Claudio Strinati. L’importanza di questa scoperta è ricostruita in alcuni saggi contenuti nel catalogo edito da Electa.
daleft-avvenimenti del 19 marzo 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 31, 2009
Fra luci e ombre è cominciato il count down per l’attesa 53esima edizione curata da Daniel Birnbaum che aprirà il 7 giugno
di Simona Maggiorelli

Xu Tan per la Biennale di Venezia
Immagini che parlano di un incontro fra architettura e arte nel segno di asciutta e disincarnata geometria, in controtendenza con la dichiarata spettacolarità dell’ultima Biennale di architettura , ma fino al punto da rintanarsi nel segno di un ordinato e strenuo razionalismo. Ci consoliamo solo pensando che l’assaggio di Biennale che ci è stato offerto di certo non rappresenta l’insieme. E di certo non vogliamo procedere a una stroncatura preventiva, ma solo accennare a qualche stilla di delusione per quello che abbiamo visto della ristrutturazione degli spazi del padiglione italiano realizzata dal nostro amatissimo Massimo Bartolini e da Tobias Rehberger.

Michelangelo Pistoletto per la Biennale 53
E più ancora riguardo alle opere scelte da Daniel Birnbaum di Pistoletto, Roccasalva, Berti, Mir, Starling, Zholud, Fahlstrom, Hefuna, Yongping, fra le più fredde delle rispettive produzioni. Lo diciamo con rammarico, sperando davvero di qui a due mesi di doverci ricredere. Perché dalla prossima Biennale del giovane e talentuoso Birnbaum- dopo la pesante Biennale stelle e strisce di Roberto Storr – ci aspettiamo molto. Sperando, dal prossimo 7 giugno, di poter trovare nei settantasette padiglioni nazionali e nelle trentotto manifestazioni collaterali della 52esima Biennale di Venezia una vivace visione del mondo dell’arte di oggi che ci permetta di dimenticarci all’istante del Padiglione Italia, che già si annuncia celebrativo al massimo grado del protofascismo marinettiano. Alle Tese delle Vergini dell’Arsenale ,infatti, i curatori Beatrice Buscaroli e Luca Beatrice ( scelti dal Ministro Bondi) promettono un inattuale “ritorno alla cosalità dell’opera e al suo essere oggetto”. “La nostra quindicina di artisti italiani capeggiati da Sandro Chia proporrà un omaggio a Marinetti, il maggiore genio del Novecento, italiano e europeo”: Ipse dixit Beatrice Buscaroli, pupilla di Marcello Dell’Utri.
da Left-Avvenimenti del 27 marzo 2009
LA NUOVA GEOPOLITICA DELL’ARTE

Daniel Birnbaum
di Simona Maggiorelli

L'installazione di Massimo Bartolini
Settantasette Paesi rappresentati e un ventaglio di manifestazioni collaterali per dare voce a quelle regioni, come la Catalogna, il Galles, la Scozia, che non si riconoscono nei propri padiglioni nazionali. E poi la compresenza del padiglione israeliano e di quello iraniano. La Biennale di arte numero 53 ridisegna la mappa geopolitica dell’arte. Anche se il giovane e quotatissimo direttore Daniel Birnbaum si schermisce: “Quando mi chiedono se la Palestina sarà rappresentata come area regionale o come Stato nazionale rispondo che la mia aspirazione è raccontare ciò che più di interessante si muove nel mondo dell’arte. E il linguaggio delle immagini non conosce nazionalità e confini”. Così l’attesa rassegna in programma dal 7 giugno al 22 novembre a Venezia, sotto il titolo bandiera “Fare mondi” promette di raccontare il presente, con slanci di apertura verso il futuro, utopico e di speranza. “ Il passato invece – prosegue Birnbaum- sarà rappresentato in mostra attraverso l’opera di alcuni artisti che già negli anni Sessanta hanno preconizzato il fenomeno della globalizzazione e i problemi connessi. Ma in chiave poetica e imprevista, Mi riferisco, per esempio ad artisti come l’austriaco Friedensreich Hundertwasser che per un periodo, incarnando il racconto di Italo Calvino, ha vissuto su un albero documentando questa esperienza”. E se la Biennale del direttore sarà una biennale aperta ad artisti proveniente da ogni parte del mondo e in questa chiave di attenzione ai temi che riguardano l’ambiente, il vivere civile, e, per così dire, un nuovo umanesimo, a farle da pesante controcanto sarà il Padiglione Italia, che si annuncia celebrativo al massimo grado del protofascismo marinettiano. Il nuovo Padiglione Italia alle Tese delle Vergini dell’Arsenale a cura di Beatrice Buscaroli e Luca Beatrice ( scelti dal Ministro Bondi), in controtendenza con il mondo internazionale dell’arte proporrà “ un ritorno alla cosalità dell’opera” dice Beatrice, al suo essere oggetto. Mentre Buscaroli aggiunge: “la quindicina di artisti italiani da noi selezionati, da Basilé a Bertozzi&Casoni, da Nicola Bolla, a Sandro Chia, propongono un omaggio a Marinetti, il maggiore genio del nostro Novecento e di quello europeo”.
da Terra, 24 marzo 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 31, 2009
di Simona Maggiorelli

Francesco Clemente, Tandori Satori
Della Transavanguardia, brand coniato sorprendentemente da un critico progressista come Achille Bonito Oliva, si è molto discusso: tenebrismo, nuovi selvaggi,furbesca caduta in un finto irrazionale intriso di icone cattoliche (che sul versante di croci e merletti poi, via Basquiat, avrebbe portato alla pop star Madonna). Ma tant’è, oggi la Transavanguardia figura non solo nei musei statunitensi, ma anche nei più seri e attenti musei del contemporaneo europei. A cominciare dal Castello di Rivoli.
Ma forse è vero anche che, a trent’anni di distanza dal suo esordio, potrebbe essere fare qualche distinguo riguardo al differente esito artistico del nucleo storico della Transavanguardia: da un lato c’è la maniera figurativa di Sandro Chia (diventato nel frattempo viticoltore di alto bordo) con il neo ascetismo seriale e miliardario di Sandro Cucchi. Dall’altro ci sono le desolate montagne di sale di Mimmo Paladino da cui spuntano resti di cavalli inerti a rappresentare, drammaticamente ,l’assenza di vitalità di ogni tentativo di trasporre l’antico nel moderno.
Ma forse anche certe inquiete figurazioni di Francesco Clemente hanno il coraggio di rappresentare questo irricomponibile iato. Tanto che, riprendendo una felice titolo del filosofo Hans Blumenberg, la curatrice Pamela Kort ha intitolato “Naufragio con spettattore” l’antologica che il Madre di Napoli dedica a Clemente fino al 12 ottobre ( catalogo Electa). Il riferimento chiaramente è al naufragio dell’avanguardia anni Settanta, che ha creduto di potersi tenere a galla aggrappandosi a lacerti di repertorio iconocrafico antico. Che per Clemente è stato prima greco-romano poi indiano come raaconta la recente collaborazione con lo scrittore Salman Rushdie.
Un naufragio di cui Clemente non ha mai occultato la drammaticità, evitando – questa è la tesi della curatrice – di fare della storia dell’arte un serbatoio di citazioni stereotipate per abbellire una pittura moderna di tipo convenzionale. L’impegno di Kort è proprio quello di fare emergere gli elementi progressisti che ci sarebbero nella sua arte. Un bell’impegno.
dal quotidiano Terra del 30 maggio
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 29, 2009
A Lugano una mostra dedicata all’inventore dei monocromi blu. In dialogo con l’opera della sua compagna Rotraut. Mentre esce un suo testo inedito in Italia
di Simona Maggiorelli

blue klein
Della «meteora» Yves Klein che ha attraversato fulminea l’avanguardia del Novecento è stato detto pressoché di tutto. E il contrario di tutto. Sussunto tout court nel Nouveau réalisme dal critico Restany, che fu suo primo mentore, è stato poi ascritto all’astrattismo per i suoi monocromi di intenso blu Oltremare, un vibrante tono di colore, passato alla storia come “blu Klein”.
Ma c’è stato anche chi lo ha etichettato «artista zen», per la sua passione per le arti orientali e per certe sue enigmatiche «ricerche sul vuoto». Per non parlare poi di quella critica che, alla fine degli anni Sessanta lo ridusse a mero anticipatore delle performance dell’action painting e della pop art americana. Definizioni queste (ma se ne potrebbero citare molte altre) che, anche quando non alterano del tutto il contenuto della ricerca di Yves Klein, bloccano la sua poliedrica avventura nell’arte in un singolo “fotogramma”. Una parabola artistica che nell’arco di pochi anni (Klein era nato nel 1928 e morì prematuramente nel 1962) si sviluppò fra tecniche e generi diversi, passando dai monocromi ai monogold, dai rilievi planetari alle fontane di acqua, alle sculture con il fuoco, alle architetture di aria, alle antropometrie, in un continuo tentativo di fondere arte e vita. Non in senso meramente estetizzante alla Oscar Wilde. Ma facendo dell’arte e della ricerca la propria vita. E al tempo stesso tentando di non far fuori la creatività dalla vita quotidiana. Elementi della biografia e della poetica di Yves Klein che, fuori da ogni mitizzazione, emergono con chiarezza dalla mostra che il direttore del Museo d’arte di Lugano, Bruno Corà, ha voluto dedicare alla sua opera, facendola “dialogare” con quella di Rotraut, la scultrice tedesca che fu sua compagna di arte e di vita. Un paso doble che porta nelle sale del museo svizzero (fino al 13 settembre, catalogo bilingue Silvana editoriale) un centinaio di opere di Klein e 22 sculture di Rotraut: forme essenziali in ferro e colore che evocano immagini stilizzate di donne che danzano, cavalli in corsa, forme giocose e vitali che Rotraut pensa per spazi en plain air. Nella parte dedicata a Klein e realizzata in collaborazione con Daniel Moquay dell’archivio Klein di Parigi, di fatto, sono ripercorsi tutti i cicli più importanti della sua opera. A cominciare dai suoi magnetici monocromi frutto di una originale ricerca sul colore puro, lontana dalla marmorea fissità dei monocromi di Malevich e tanto più dalle razionalissime campiture di colore tipiche di Mondrian.

Yves Klein
Nella conferenza tenuta alla Sorbona nel 1959 – che ora l’editore O barra O edizioni pubblica in italiano insieme ad altri scritti nel volume Verso l’immateriale dell’arte, Klein mette in relazione i suoi monocromi con la ricerca sulla luce e sul colore di Delacroix, ma soprattutto con il blu di Giotto. «Considero Giotto come il vero precursore della monocromia» annota Klein in questo suo illuminante testo trascritto dalla registrazione, chiamando in causa certi “ritagli di cielo” degli affreschi di Assisi definiti «affreschi monocromi uniformi». Ma in questo prezioso volumetto si incontrano anche suggestivi frammenti di autobiografia. In uno scritto del 1960, intitolato con autoironia Yves il monocromo, Klein ricorda i giochi che faceva da bambino con il colore, il gusto di inzuppare le mani nella tinta e stamparle sulle pareti, come facevano gli uomini preistorici nelle grotte francesi che conservano straordinarie pitture rupestri. «Poi, però – ammette Klein – ho perso l’infanzia… e, adolescente, ho incontrato il nulla. Non mi è piaciuto. Ed è così che ho fatto la conoscenza del vuoto, il vuoto profondo, la profondità blu!». è l’inizio della sua avventura nell’arte. «La pittura non è più per me in funzione dell’occhio… – scrive Klein – la vera qualità del quadro, il suo essere, una volta creato, si trova oltre il visibile, nella sensibilità pittorica allo stato della materia prima». Klein detesta il rozzo materialismo, contro il quale scrive frasi fulminanti. Ma avverte anche i pericoli di una ricerca che rischiava di diventare assoluta, troppo astratta. «Monocromizzavo le mie tele con accanimento, poi si liberò il blu onnipotente che regna ancora e per sempre – scrive -. È a quel punto che non mi sono più fidato. Ho ingaggiato delle modelle nel mio studio, per dipingere non davanti a loro, ma con loro. Passavo troppo tempo in studio, non volevo restare così, solo soletto, nel meraviglioso vuoto blu che vi stava crescendo…». Parole in parte autocritiche, in parte rivelatrici di altro, che lasciano intendere che la dittatura del blu cominciava ad andargli stretta. E nella ricerca di Klein si aprì d’un tratto un nuovo ciclo, quello delle antropometrie, ricreando i giochi infantili con modelle spalmate di colore, che si muovevano «come pennelli umani». Un divertissment, ma anche una ricerca sul tema della presenza-assenza, dell’impronta, della traccia, in cui contavano, dice Klein, «non solo la forma del corpo e le sue linee» ma anche «il clima affettivo» di chi si prestava al gioco. «Quei segni pagani nella mia religione dell’assoluto monocromo – ammette Klein – mi hanno subito ipnotizzato». Opere che, al pari dei monocromi della prima ora, non mancarono di suscitare scandalo fra i benpensanti.
Nel libro di O barra O edizioni compare anche una spassosa recensione firmata da Dino Buzzati della mostra che Klein fece a Milano nel 1957. Con il titolo Blu Blu Blu fu pubblicata sul Corriere d’Informazione. Buzzati, in calce alla cronaca degli sghignazzi del pubblico, racconta che Klein a Milano vendette due opere al «modestissimo prezzo di 25mila lire al quadro». Uno dei due acquirenti era Lucio Fontana.
Quando molti anni dopo, nel 1968, la rivista Art et Création chiese a Fontana un ricordo di Yves Klein, l’artista italo-argentino ripose di getto: «Klein era una cosa incredibile. Non era solo una simpatia epidermica, ma tutta la sua personalità mi interessava». E alla domanda fatidica: che cosa rappresentava la sua opera? «Yves Klein rappresentava lo spirito nuovo. Diverso dai pittori espressionisti come Rothko, che si occupa della vibrazione luminosa dello spazio. Diverso da Pollock che vuole distruggere lo spazio, farlo esplodere, rompere il quadro. Diverso da me che cerco uno spazio altro. Lui era per l’infinito». Una riflessione che meriterebbe un intero saggio.
dal left- Avvenimenti 22 maggio 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 8, 2009

Malevich
di Simona Maggiorelli
A Como una grande mostra indaga il milieu da cui nacque la ricerca del Novento in Germania e in Russia con artisti come Kandinsky e Malevich
È costruita come un viaggio immaginario attraverso le avanguardie russe del primoNovecento (ma anche come un affondo nel retroterra filosofico che le ispirò) la mostra Maestri dell’avanguardia russa aperta nella settecentesca Villa Olmo di Como fino al 26 luglio (catalogo Silvana editrice). Una mostra – curata da Evgenia Petrova e Sergio Gatti – che attraverso un’ottantina di opere provenienti dal museo di San Pietroburgo riporta in primo piano il lavoro di artisti dai percorsi diversissimi come Casimir Malevic, Marc Chagall e Vassily Kandinskij (al quale proprio in questi giorni il Centre Pompidou di Parigi dedica una importante retrospettiva) e il meno noto in Italia, Pavel Filonov. La stagione delle avanguardie storiche in Russia, come del resto gran parte della ricerca europea del primissimo Novecento, ci racconta questa mostra, traeva linfa dalla corrente filosofica antipositivistica che si era diffusa a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, durante la stagione simbolista.
Negli ambienti artistici si leggeva Nietzsche, ma l’elite più sensibile faceva spazio anche le ricerche di un filosofo creativo e antiaccademico come Greog Simmel che metteva al centro della riflessione filosofica l’Erlebnis, intesa in senso pieno come vita e esperienza vissuta. L’esplorazione di una fantasia libera dalle categorie razionali intrigò da subito un artista come Kandinskij, fondatore del gruppo Cavaliere azzurro insieme a Franz Marc. Già con i suoi primi acquerelli astratti Kandinskij aprì la strada a un’arte fatta di colori e linee, che non si proponeva più di raffigurare il reale, ma voleva realizzare un vocabolario creativo fuori da ogni cliché imitativo della realtà. Nel frattempo (e in parte influenzato dal medesimo contesto culturale) nasce il cubo-futurismo in Russia. Intorno al 1911-1912 in Germania e in Russia si moltiplicarono le interpretazioni eretiche del cubismo, come quella orfica, sensibile alla dimensione lirica del colore.

Malevich due
Fu quest’ultima tendenza, per altro di breve durata, a coinvolgere Kandinskij, come raccontano le primissime opere dell’artista esposte a Villa Olmo che presentano case e paesaggi fiabeschi fatti di solo colore. Ma poco dopo ecco le prime innovative composizioni su variazione musicale: qui i significati sono espressi solo dai colori, dalle linee e dalle forme compositive. Come una musica può evocare sentimenti e pensieri senza per questo riprodurre nessun dato realistico, così la pittura, suggerisce Kandinskij, non ha bisogno di copiare fatti oggettivi e fotografici. «L’arte deve rendere visibile ciò che non sempre lo è» annota in uno dei suoi scritti più famosi, Lo spirituale nell’arte. Intanto in Russia, raccontano i due curatori della mostra, la ricerca dell’arte astratta aveva seguito strade diverse con Casimir Malevich «che mescolava un primitivismo fiabesco tipicamente russo con le conquiste del cubismo» ma lette attraverso le composizioni razionali di Léger. Tra il 1913-1914 Malevich dipinge opere cubo-futuriste dalla composizione a-logica, affollate di lettere collages. E intanto comincia a pensare la svolta suprematista intesa, sulla carta, come supremazia della sensibilità pura. Ma già dopo la rivoluzione russa Malevic abbandonò l’arte per l’insegnamento. Dopo la condanna dell’arte astratta da parte di Stalin, poi l’approdo finale per Malevich sarà una emblematica composizione geometrica di bianco su bianco, drammatico annuncio di una caduta nel vuoto di un nihilismo assoluto.
da Left-Avvenimenti 10 aprile 2009
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