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Studio24, puntata del 13 maggio 2019

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 17, 2019

Liberiamo l’Europa Grazie per l’ospitalità a Roberto Vicaretti conduttore della trasmissione Studio24 su Rainews24 per l’opitalità. Nel corso della puntata abbiamo presentato il nuovo numero di Left e il libro allegato L’Europa rapita

qui l’editoriale https://left.it/2019/05/09/lunico-voto-utile-e-antifascista/

Qui la puntata da rivedere Sorgente: Studio24, puntata del 13 maggio 2019

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Javier Cercas: sono fanaticamente europeista

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2013

Javier Cercas con Bruno Arpaia

Javier Cercas con Bruno Arpaia

In Spagna è da poco uscito il suo nuovo libro Le leggi della frontiera dedicato alla gioventù bruciata del dopo Franco. E con romanzi immaginifici ma anche di forte impatto politico, è diventato negli ultimi vent’anni uno degli autori, non ancora cinquantenni, più letti ed amati in Europa. Tanto che il festival Dedica,  lo scorso marzo, lo ha eletto assoluto protagonista di due settimane di incontri, letture, mostre, convegni a Pordenone. Mentre la rassegna romana Libri Come lo ha invitato a parlare di Europa degli scrittori. «Sono un fiero europeista» racconta di sé lo scrittore e docente di letteratura spagnola all’Università di Girona. «Capisco che la gente sia infuriata oggi, che dica: “Basta, facciamo un referendum sull’Europa!”. Ma penso sia un errore. Beninteso – precisa Cercas ( in arrivo al Salone del libro di Torino) – io non sono d’accordo sulla fisionomia che ha assunto l’Europa come unione di mercati… Io sono per l’austerità, ma non sono per la morte delle persone. Ma l’ Europa è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato. Io non so quanti anni ha lei, ma io sono nato nel 1964 e la mia è la prima generazione europea senza guerra. Abbiamo la possibilità di preservare la democrazia, di preservare il welfare e possiamo farlo solo se siamo uniti a livello europeo mentre avanzano colossi come la Cina, l’India, il Brasile. È troppo facile dire che è tutta colpa di Bruxelles. Non cerchiamo un nemico esterno. La Spagna da sola non può fare niente, non lo può fare l’Italia, neanche la Germania da sola può fare nulla. Per questo sono fanaticamente europeista.

Nel frattempo i populismi crescono in Europa. Che cosa ne pensa?

Il populismo ha preso piede in Francia. In Spagna è latente, c’è in Grecia e in Italia. Non sono così esperto da poter entrare nello specifico, ma mi interessa molto l’Italia e leggo quel che dicono i giornali… Non so come si possa votare Berlusconi dopo gli ultimi vent’anni. Proprio non lo capisco. Posso capire la furia, il malessere di tante persone che hanno votato Cinque stelle. Però se uno è ammalato non credo che vada a cercare uno sciamano, cerca un medico. Assisto a tutto questo con grande inquietudine, vediamo cosa succede. Dopo Soldati di Salamina (Guanda, 2004), che ha avuto una quarantina di edizioni, sono usciti in Spagna molti romanzi sulla guerra civile.

Questo flusso di narrazioni ha aiutato l’elaborazione della memoria collettiva, specie da parte dei più giovani?

E’ difficile per me dirlo. Ma i “saggi” dicono di sì. Prima di Soldati di Salamina era stato scritto molto sulla guerra civile. Ma è vero che in quel romanzo è stato visto l’inizio di un modo diverso di affrontare la vicenda del conflitto. Ha coinciso con l’inizio di un lavoro di elaborazione da parte della nostra generazione che è nata dopo la guerra, che non ne aveva mai parlato. E credo sia vero che da lì è cominciato un movimento di recupero della memoria storica. Che poi ha portato anche ad una legge. Ma il problema è che non è stata fatta bene. Zapatero è partito con belle intenzioni ma non ha portato a compimento il suo lavoro. Alla fine della dittatura franchista in Spagna ci fu un patto dell’oblìo.

Vede delle analogie con quanto è accaduto in Italia dopo Mussolini?

Si possono rintracciare delle analogie. Ma resta il fatto che la dittatura di Franco è durata ben quarant’anni, fino al 1975: un periodo assai più lungo. E poi il fascismo non ha avuto una dimensione davvero internazionale, anche se è stato molto importante, una vera tragedia, per l’Italia. Quanto avete pagato l’amnesia che ha caratterizzato il dopo Franco? Devo ammettere che non ho una cattiva idea della transizione dalla dittatura alla democrazia. Soprattutto dopo aver scritto Anatomia di un istante (Mondadori e poi Guanda) il libro successivo rispetto a Soldati di Salamina.

Il libro in cui raccontava gli istanti drammatici del tentativo di colpo di Stato del 23 febbraio 1981 in Spagna?

Sì quando il colonnello Tejero entrò armato in parlamento a Madrid. Ho cercato di raccontare quel momento cruciale, quando fischiavano le pallottole e tutti cercavano riparo mentre solo il primo ministro Adolfo Suàrez, il tenente generale Gutiérrez Mellado e il segretario del partito comunista Santiago Carillo, rimanevano seduti ai loro posti a sfidare il golpe. Non è stato facile per me scrivere quel libro. Raccontare i “nudi fatti” è sempre darne un’interpretazione. Fino a quel momento sopravviveva un patto politico fra la sinistra e la destra. Il partito comunista guidato da Santiago Carrillo (che era il nostro Berlinguer, come sapete erano amici) decise che era molto più importante costruire la libertà e la democrazia che fare giustizia. Io non giudico quella decisione. Ma ovviamente c’è stato un prezzo da pagare per tutto questo.E che avremmo dovuto pagare, non dico immediatamente dopo il franchismo, ma almeno qualche anno dopo. Ma così non è stato: un Paese civilizzato non può permettersi di avere centomila morti non identificati. Questo non è accettabile. Quando Zapatero è andato al potere doveva cercare una soluzione, rapidamente. Invece disse che non c’erano i soldi. La questione rimase irrisolta per una questione di denaro! Poteva essere l’ultima ferita della guerra da curare. Zapatero non l’ha fatto. E ha voluto utilizzare tutto questo politicamente. Non è corretto. Vicende così tragiche non si usano; si risolvono e basta.

Il suo nuovo romanzo Le leggi della frontiera che uscirà ad aprile in Italia per Guanda affronta un altro momento importante della storia spagnola: il dopo Franco, il periodo della sua generazione. Quanto c’è di autobiografico? E quanta invenzione?

Tutti i romanzi, a mio avviso, sono autobiografici. Ma non in senso stretto. Questo nuovo libro, per esempio, racconta la storia di un giovanotto di estrazione borghese che si unisce ad una banda criminale come ce n’erano tante in quegli anni. Ma io non ho mai fatto parte di una gang di quel tipo. Mi piacerebbe poter dire di aver avuto un passato così “avventuroso”, ma non mi è capitato. Ciò che voglio dire con questo è che non racconti mai direttamente la tua vicenda in un romanzo. Ma scrivi ogni romanzo con la tua esperienza, con le tue ossessioni, con tutto quello che hai letto e vissuto. In questo senso scrivere un romanzo è tradurre la tua esperienza particolare in qualcosa di universale. Scrivere narrativa è fare del particolare l’universale. Questa è la letteratura.

La prima parte del suo nuovo romanzo si sviluppa nel 1978, c’è un nesso con Anatomia di un istante?

Comincia nel 1978 e, nella seconda parte, arriva fino ai nostri giorni . Ed è vero che la prima parte si può leggere come “l’altra faccia”di Anatomia di un istante che raccontava la transizione dalla dittatura alla democrazia dal punto di vista della politica alta. Ne Le leggi della frontiera racconto quello stesso passaggio ma dal punto di vista personale e sentimentale. Alla fine potrei dire che questo nuovo romanzo è una lunga e complessa storia d’amore. E potrebbe sembrare autobiografico. Il protagonista del libro è un ragazzotto che assomiglia a me da tutti punti di vista. Lui vive dove vivevo io, nella stessa città, frequenta la stessa scuola dove andavo io. La sua esperienza, almeno nella prime pagine, è simile alla mia, ma come dice Milan Kundera ogni personaggio di un libro è un io ipotetico, una possibilità di me stesso non realizzata. Come Cervantes che un giorno si alzò dal letto e si chiese cosa succederebbe se io invece di trovarmi in mezzo alla battaglia di Lepanto fossi un uomo che non si è mai spostato dal suo paesino e ha passato tutta la vita a leggere libri di cavalleria? Così cominciò ad immaginare Don Chisciotte. Ma Cervantes non è solo Don Chisciotte. Lui è tutti i personaggi del libro. Perché l’autore si dissolve nel romanzo. In questo senso Le leggi della frontiera è un libro autobiografico e tutti i libri sono autobiografici.

Scrivere un romanzo è un po’ come fare uno strip tease al contrario, lei ha scritto in uno dei saggi contenuti nel volume La verità di Agamennone (Guanda, 2012)…

Esattamente. Lo scrittore comincia nudo, ha dalla sua solo la sua esperienza. Pagina dopo pagina poi si veste di immaginazione. Come ha detto, per primo, Mario Vargas Llosa. Nei suoi primi romanzi giocava molto con l’ironia, con la metaletteratura, un aspetto che l’avvicinava a uno scrittore come Roberto Bolaño. Quella fase è terminata? Non avverto una cesura. Quando ero giovane mi ha molto influenzato Italo Calvino. Ancora oggi penso che sia stato un grandissimo scrittore. Ma il mio percorso è opposto. Lui ha cominciato come scrittore realista, attento alla storia e alla fine aveva una narrazione postmoderna, fantastica, giocosa. A me è accaduto l’inverso. Ho cominciato con la metaletteratura, con l’ironia, e poi mi sono interessato alla storia e alla politica. Ma non ci sono in me due scrittori diversi. Sono sempre lo stesso autore. Forse il fatto che io abbia una visione diversa della storia e della politica ha una relazione diretta con quei miei inizi più formalisti, più ludici. Ho sempre pensato che l’ironia sia essenziale al romanzo. Quando non è puro intrattenimento è una forma di conoscenza. Per tornare a Cervantes, Don Chisciotte è in parte comico, ridicolo e in parte tragico. L’ironia può comprendere due cose allo stesso tempo. È straordinaria da questo punto di vista. Tutti i miei romanzi hanno un’ironia che porta a una visione complessa della realtà. Ad una visione antidogmatica.

Per tratteggiare meglio questa realtà polisemica le è necessario il castigliano?

È la mia lingua, non ho potuto scegliere. Ci sono degli autori che scelgono una propria lingua, come fecero Nabokov, Conrad, Beckett ma sono casi speciali. Io posso scrivere in catalano. La tradizione catalana è magnifica, è bellissima, ma al fondo non è la mia lingua. Ma c’è anche altro: quando ho iniziato a scrivere c’era una grande fioritura di autori latinoamericani. La lingua spagnola nella seconda metà del Novecento ha recuperato la centralità nella narrativa internazionale. I miei “padri” sono stati Borges, Garcia Marquez, Vargas Llosa, Rulfo, grandissimi scrittori. Io non sono uno scrittore spagnolo, sono uno scrittore in spagnolo. E poi la lingua è sì importante, ma più importante è il linguaggio. Uno scrittore ha sempre due tradizioni: una è la lingua in cui scrive, il suo strumento, e l’altra è la tradizione universale. Queste sono le due ruote del carro, altrimenti non cammina. Per me ci sono autori italiani importanti, ma anche nordamericani e sudamericani più di tutti. Posso essere più vicino a un autore di qualcuna di queste tradizioni e fare una scelta d’elezione, sentendomi più vicino a un autore svizzero, per dire, che a uno spagnolo. Perché no?

( intervista di Simona Maggiorelli, dal settimanale left)

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La memoria dei classici

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

maurizio bettini

Il senso della memoria per gli antichi Greci e per Romani. Il filologo dell’Università di Siena Maurizio Bettini  – che  sabato 29 settembre 2012 presenta il suo nuovo libro Contro le radici (Il Mulino) alla libreria Amore ePsiche di Roma – ne aveva parlato a Left in  in occasione dell’edizione 2011 del Festival della mente di Sarzana.

di Simona Maggiorelli

mnemosyne

Mentre la storia antica, latina e greca, si studia sempre meno nelle scuole italiane, per non parlare poi di quella assiro-babilonese definitivamente espunta da programmi scolastici grazie all’ultima serie di riforme e controriforme, la proposta che viene da una fortunata kermesse come il Festival della mente di Sarzana si segnala decisamente in controtendenza: nel fitto carnet di incontri dell’ottava edizione, in programma dal 2 al 4 settembre, si legge infatti l’intenzione di aprire un’agorà di riflessione critica sulle radici culturali dell’Europa e sui rapporti che, attraverso il Mediterraneo, abbiamo intessuto nei secoli con la Grecia e con le millenarie culture del Medioriente. Una serie di importanti pubblicazioni apparse di recente, del resto, già riaccendono il dibattito a livello internazionale (ne accenneremo in breve). Anticipando a left alcuni temi della lectio magistralis che terrà il 3 settembre al Festival (alle 10,30 nella Fortezza Firmafede) ce ne parla qui uno studioso di cultura antica come Maurizio Bettini, filologo dell’Università di Siena, autore di importanti monografie sulla mitologia greca, ma anche romanziere.

A Sarzana, in particolare, Bettini racconterà le molteplici figurazioni culturali (divine, mitologiche, narrative, metaforiche) della memoria nella Grecia antica confrontandole con il modo di intendere la memoria a Roma, dove la dea Moneta «fa ricordare il proprio dovere a custodi distratti e mette in guardia i cattivi amministratori del pubblico fisco. Rammentando ciò che altrimenti si rischia di dimenticare, alla maniera di un’agenda computerizzata».
Professor Bettini la concezione greca della memoria, al fondo, in cosa differiva da quella romana?
I miti greci parlavano dell’importanza della memoria e nella Teogonia di Esiodo compare la dea Mnemosyne che ha per figlie le Muse. Così i Greci costruivano miticamente il rapporto poesia – memoria, nella loro cultura orale. La scrittura, non va dimenticato, in Grecia comincia ad essere usata non prima del VI a C. Tutta la poesia omerica è produzione orale: c’è un poeta che dice di essere in rapporto con le muse e di ricevere da loro la memoria dei fatti che racconta. A Roma, veri e propri miti di memoria, invece, non ce ne sono. Ma c’è una divinità interessante, che i Romani chiamano Moneta. Come tutte le divinità latine con il suffisso “ta” indica un’attività. Come Tacita è la dea che mi fa tacere, Moneta è quella che mi fa ricordare. Anche che questo pezzo di metallo vale un tot.
Potremmo dire che nell’epos c’era una memoria fantasia, mentre i Romani di distinguevano per un approccio più “razionale”?
Questa è la classica distinzione: i Greci erano quelli della fantasia, dei poemi, mentre i Romani erano quelli pratici che non avevano tempo da perdere perché dovevano conquistare il mondo. Ma la faccenda è più complessa. I Romani non avevano una religione mitologica fatta di racconti. La loro era di carattere rituale. Ciò che contava era eseguire scrupolosamente i riti; si tramandavano le formule. Non esisteva a Roma alcun racconto di cosmogonia, come invece c’era in Grecia e in Mesopotamia. Sembra quasi che i Romani non si fossero mai preoccupati di formulare racconti su come è nato il mondo. La prima cosmogonia che troviamo a Roma è filosofica, comincia con Lucrezio e con Virgilio. Beninteso anche loro avevano i loro miti, per esempio Romolo e Remo, l’arrivo di Enea nel Lazio ecc., ma erano di tipo assai diverso da quelli greci.
Nella Grecia antica qual era il nesso fra immagini e memoria? Nel libro Il ritratto dell’amante (Einaudi) lei racconta che anche il sogno aveva un ruolo prioritario.
Facciamo un esempio: noi diciamo “ho fatto un sogno”. I Greci invece dicevano “ho visto un sogno”. La nostra metafora è piuttosto grossolana, fa pensare che il sogno sia una sorta di funzione corporale. Per i Greci il sogno era una manifestazione che si esplicitava nella visione. Che talora può essere addirittura comune a più persone. Si racconta di sogni multipli in Grecia. Tutta la città può sognare la stessa cosa per una volta. Così il sogno ha conseguenze concrete. Si può trasformare in una realtà a partire dal fatto che c’è un nome per questo. Normalmente il sogno si chiamava “onar”, da cui onirico. Ma c’era un’altra parola per indicare, invece, il sogno che si avvera. Insomma il sogno era un’esperienza molto più reale, più concreta, per i Greci di quanto non lo sia per altri. Detto ciò c’erano anche sogni che in Grecia si dicevano derivati da cattiva digestione, o da eccesso di fatica, per cui uno sogna ciò che ha fatto il giorno prima. Ma è una categoria di sogni diversa da quella che ha una forte componente di realtà tanto da anticipare il futuro, da dare indicazioni di comportamento.

odisseo e sirene

Lo stesso Omero distingueva fra sogni falsi e veritieri.
Due sono le porte dei sogni, diceva, una di corno e una di avorio. Esistono sogni veritieri destinati a durare e sogni che sono degli inganni. Facendo somigliare stranamente i sogni anche alla poesia:  e Muse, incontrando Esiodo nella Teogonia, lo avvertono: noi diciamo molte cose vere ma anche molte cose che sono solo simili al vero, cioè false, perché la divinità – e qui torniamo al tema della memoria – può suggerire cose che non sono vere. Al pari di certi sogni.
Studiosi come Christian Meier in Cultura, libertà, democrazia (Garzanti) e in Italia Gaetano Parmeggiani con Lo scudo di Achille (Sellerio), con percorsi diversi, ora tornano a tratteggiare l’immagine di una Grecia antica in cui gli aedi- cantastorie avevano molto più potere dei sacerdoti. Cosa ne pensa?
Non si può negare che rispetto ad altre culture contemporanee, ma anche successive, quella greca aveva aspetti peculiari assai interessanti. Come l’importanza data ai poeti rispetto ai sacerdoti. In Grecia non c’era un vero e proprio clero. L’idea di una Chiesa o di Chiese era loro totalmente estranea. Quando a noi sembra addirittura normale, dacché il mondo cristiano, ma anche quello ebraico e musulmano, vive in forme di clero organizzate. E in Grecia non esisteva un libro che dicesse come è fatta la religione, come pregare Dio. C’erano varianti infinite di miti, che raccontavano, in modi anche molto diversi fra loro, storie sugli dei. I culti locali si tramandavano con forme di memoria, di tradizione orale, ma non c’era un protocollo ufficiale da rispettare, pena l’eresia. In questo senso quello greco era un mondo profondamente più libero. L’ateismo totale veniva condannato solo perché avrebbe potuto mettere in crisi la polis. Ma non c’era un’ortodossia. Tutto il mondo antico pullulava di culti diversi, legati a quella meravigliosa esperienza che era il politeismo. In cui una divinità non escludeva l’altra. L’esclusione è tipica, invece, dell’ebraismo e delle religioni che ne sono discese.
Nel suo dirompente Black Athena, ora riproposto da Il Saggiatore, Martin Bernal indaga le fortissime radici afroasiatiche della Grecia antica. La memoria di questi debiti verso le culture orientali è stata cancellata?
Sì, ma non tanto dai Greci, quanto da noi. Tra Ottocento  eNovecento esplosero l’eurocentrismo e il colonialismo. L’Inghilterra e la Germania, in particolare. si identificano fortemente con i Greci. Non volevano ammettere che i Greci avessero preso molto da culture che loro sostanzialmente disprezzavano. L’antisemitismo, poi, non poteva accettare che i Greci, “così puri e così santi” avessero debiti con i popoli del Vicino Oriente. Fu una grande mistificazione. Incomprensibile ai nostri occhi: il Mediterraneo è un mare piccolo: le idee hanno sempre viaggiato con le merci, con le persone. Ma si era arrivati al paradosso che, per capire i Greci o anche i Romani, bisognasse paragonarli ai Germani o addirittura agli Indiani, in base alla teoria dell’indoeuropeo. E non con i popoli a loro più vicini. Erodoto, per esempio, parlava moltissimo degli egiziani. Ma lo si negava in nome di una pericolosa idea di purezza dei Greci e degli Indoeuropei.
Con Luigi Spina, per Einaudi, lei ha ripercorso il mito delle sirene. In questo caso come avviene la mitopoiesi?
Il mito era un racconto immaginario ma con significati culturali profondi che toccavano la realtà. Le sirene afferiscono a un mondo di cui fanno parte anche ad altri mostri dell’Odissea come il Ciclope, una sfera in cui rientrano anche gli inquietanti incontri con le ombre dei morti oppure con i lotofagi che si sono drogati di loto e ora non ricordano più. Sono costruzioni simboliche, fantastiche, che poi vogliono semplicemente dire c’è un mondo altro che noi non conosciamo, o che non conosciamo più, ma che Ulisse ha visto.
Nella mitologia e nella cultura greca, più in generale, c’era una forte misoginia. Secondo fonti diverse da Euripide, Medea non era un’infanticida, come ha scritto Christa Wolf. La stessa Circe, come lei ha ricostruito in un libro scritto con la Franco, forse non era così terribile come Omero la dipingeva. L’uomo greco simboleggiato da Ulisse aveva paura del femminile, dell’irrazionale, di tutto ciò che era altro da sé?
La società greca era dominata dai maschi, come quella romana. E questo pregiudizio sociale forte verso la donna entra anche nel racconto mitologico. L’esempio più lampante è Pandora: una specie di automa, di fantoccio animato che raffigura l’ingresso del femminile nel mondo degli uomini come origine di tutti i mali. Di lei si dice anche che è seduttiva e ingannatrice. Non è  molto diversa da  Eva. Sono racconti che nascono per tenere sotto controllo le donne. Gli antichi cercavano di giustificare con innumerevoli motivi la sudditanza delle donne e credo che la principale spinta fosse la paura maschile che la donna gli scappasse di mano rendendo incerta la sua discendenza. A Roma, come in Grecia gli uomini ne avevano un terrore fortissimo. Perciò i padri e i mariti cercavano di tenerle rinchiuse. Perché se le donne sono troppo libere che succede? I figli di chi sono? La mia onorabilità dove va a finire? Credo che questa ”gelosia” come motivo di esclusione della donna dalla sfera pubblica, continui a funzionare in tante società del mondo arabo: la donna è troppo importante perché la si lasci libera. Si venera la figura femminile e ad un tempo la si schiavizza. Sono i due aspetti contraddittori dello stesso problema.
Immagini di donna idealizzate, secondo un’estetica classica, compaiono nel suo romanzo, Per vedere se appena edito dal Melangolo…
Una certa idealizzazione forse deriva dal fatto che vedo una profondità e un’intelligenza nelle donne che negli uomini, perlopiù, non trovo. Magari non sarò così ingenuo da credere che la “salvezza” venga da voi, ma davvero credo che molto spesso voi abbiate un modo diverso di riflettere di vedere il mondo. E i miei personaggi femminili forse risentono di questo pensiero.

Nuovi Studi

Affascinante quanto schiva figura di medico e studioso dell’ellenismo, Gaetano Parmeggiani, ne Lo scudo di Achille ci parla di un mondo greco antico dalla lunga e raffinata civiltà artistica, articolato come una società antropocentrica, «affrancata dal trascendente». Al punto che «la stessa religione non trova un equivalente nel greco arcaico». Questo suo pamphlet, riproposto da Sellerio, si legge dunque come un appassionato invito a tornare a leggere l’Odissea e soprattutto l’Iliade, di cui La lepre edizioni ha appena pubblicato una nuova e fresca traduzione di Dora Marinari (con la prefazione di Eva Cantarella). Per Carocci, invece, esce Donne e società nella Grecia antica di Nadine Bernard, che ricostruisce, fra l’altro, la pratica greca dell’infanticidio, specie delle femmine. In Grecia, scrive la storica francese «gli anni dell’infanzia erano concepiti come la parte selvaggia della vita, quella in cui l’anima è ancora primitivamente folle, per usare le parole di Platone. E per questo non erano tenuti in alcuna considerazione».

da left-avvenimenti 31 agosto 2011

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Saccheggio in Mesopotamia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 3, 2009

fales-nuovoCercando di fare capolino oltre la cronaca più spiccia. Oltre lo stillicidio di notizie che, a singhiozzo, dopo i giorni feroci del saccheggio sono comparse sui giornali. Puntando a ricostruire passo dopo passo la storia di uno dei più importanti musei dell’area dell’antica Mesopotamia: il museo di Baghdad. Dalla nascita nel 1923 sotto l’egida degli inglesi, alla nazionalizzazione del 1974, ai saccheggi avvenuti durante la Guerra del Golfo, fino al clamoroso sfascio dei primi giorni del dopo Saddam.

Con più di 15mila pezzi trafugati in una manciata di giorni, dall’ 8 al 12 aprile 2003, al termine della rapida invasione dell’Iraq da parte delle forze angloamericane, con migliaia di reperti poi rivenduti al mercato nero e via internet. Oggetti d’arte, che in parte poi sono comparsi in Siria, in Giordania, in Arabia Saudita, ma anche nelle botteghe antiquarie di mezza Europa e degli Stati Uniti.

A ripercorrere da vicino queste vicende in un prezioso volume di 470 pagine, Saccheggio in Mesopotamia, edito dalla casa editrice universitaria Forum di Udine è l’archeologo Frederick Mario Fales, uno dei primi italiani ad andare, più di vent’anni fa a scavare, insieme a colleghi tedeschi e inglesi, i siti archeologici dell’antica Mesopotamia, luoghi dai nomi mitici come Selucia, Babilonia, Ninive.

Lavoravamo negli scavi mentre sopra di noi volavano gli aerei della guerra Iran Iraq, che andavano a bombardare i Curdi” racconta l’archeologo. “Sotto il regime di Saddam – ricorda Fales – ho conosciuto il museo nel suo fulgore”: una teoria di oltre ventotto gallerie dedicate alla cultura sumera, babilonese, assira, arrivando fino all’età achemenide, ellenistico romana, e poi islamica. Con reperti che risalgono fino a 10mila anni fa.

Tra questi anche la famosa Dama di Uruk, misterioso e unico volto femminile scolpito prima dell’età del bronzo, molto prima che la civiltà di Uruk, raccontano gli studiosi, consegnasse all’umanità l’invenzione della scrittura. Un reperto che, per fortuna, compare oggi nella lista dei beni in salvo (alcuni dei pezzi più preziosi, racconta Fales nel suo libro, erano stati depositati prima della guerra in località segrete). Diversa la sorte toccata, invece, ad altri pezzi come, ad esempio, il vaso di alabastro del tempio di Uruk che risale a tremila anni prima di Cristo: è stato ritrovato sì, ma gravemente danneggiato.
E, se nel caos del 2003, il dramma era stato soprattutto la spoliazione del museo di Baghdad, nel 2004 i danni maggiori sono venuti dagli scavi calndestini dei siti archeologici : l’epicentro del racket dei furti, nel Dhi Qar, nei centri a nord di Nassiriya, come Ash Shatrah e Ar Rifa’i. I ladri hanno depredato con violenza, specie attorno a Nassiriya, dove non c’era sorveglianza.

Una strage su commissione, denunciano gli archeologi. E un danno gravissimo, irreparabile. Perché gli scavi fatti da incompetenti distruggono il contesto, separano il reperto dal suo tempo, dal suo significato. E in questo modo si finisce per perdere una quantità immensa di dati e informazioni. Ma chi c’è dietro quest’evento che si è ripetuto ogni giorno quasi inalterato dal 1991 si domanda Fales.” Purtroppo, per miseria,cercando di sopravvivere alla guerra – dice Fales  – soprattutto iracheni impoveriti che si recano ogni giorno al loro ‘lavoro’ di sterrare le aree archeologiche a caccia di reperti di pregio per poi cederli a ricettatori locali, dietro i quali ci sono organizzazioni internazionali dedite al commercio di reperti antichi. Un traffico – aggiunge – che spesso serve a riciclare denaro sporco”.

L’embrago americano  ha fatto le fortune della classe dirigente irachena – spiega Fales – ma il resto della popolazione irachena ha subito una severa proletarizzazione per un decennio, e le depredazioni di pezzi d’arte non hanno certo cambiato la loro situazione”. Ad arricchirsi, semmai, sono stati altri: antiquari, collezionisti, multinazionali. “Sul campo – prosegue l’archeologo – non sono rientrati soldi, è rimasta solo la ferita aperta di un mnemocidio, un assassinio della memoria storica”. E l’angoscia, per questa vertiginosa perdita non si placa, neanche oggi che arrivano notizie incoraggianti sui ritrovamenti e nonostante gli aiuti internazionali tesi alla ricostruzione del museo di Baghdad con l’ausilio  di metodologie ammodernate. Anche perché, denuncia Fales, in questi lunghi anni di guerra non si sono perse solo ricchezze artistiche ma si è interrotta quella crescita di nuove generazioni di esperti, studiosi e archeologi iracheni che aveva cominciato a produrre risultati importanti fino agli inizi degli anni Novanta. “A causa della  pauperizzazione degli statali causata dall’embargo – spiega – con conseguente impennata dell’inflazione c’è stata nell’ultima decina di anni una massiccia serie di abbandoni con migrazioni verso il settore privato e, soprattutto, verso altri paesi del Medio Oriente”.

“Oggi è urgente aiutare gli archeologi iracheni a difendere con dignità la propria reputazione professionale rispetto ai nuovi amministratori occidentali, che tendono ad epurare chi aveva un precedente ‘ tesseramento’ nel Baath,  è urgente -conclude Fales – cercare di aiutarli perché possano riprendere le redini dell’attività archeologica del paese riportando l’Iraq nella rete moderna dell’archeologia scientifica”

Da articoli del settimanale  Avvenimenti e del quotidiano Europa pubblicati  nel 2004

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Cézanne, genio schivo

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 1, 2007

Cezanne, 1897

Cezanne, 1897

1 marzo 2007, dal quotidiano Europa

L’universo domestico, appartato, solitario sulle tele dell’artista si trasformava in qualcosa di altro, diventava una sorta di visione interiore. In Palazzo Strozzi, a Firenze, una mostra curata da Carlo Sisi

di Simona Maggiorelli

«Sulla parete dell’ultima sala bisognava fare a botte per entrare. Claude, rimasto indietro udiva sempre le risate, un clamore crescente… Era del suo quadro che ridevano… Guarda che saponata: la pelle è azzurra, gli alberi azzurri, senza dubbio l’ha intinto nell’azzurro il suo quadro. Quelli che non ridevano erano infuriati: tutto quell’azzurro, quella nuova percezione della luce sembravano un insulto». Chi scrive queste parole è lo scrittore francese Emile Zola nel suo romanzo L’Opera. E nel personaggio Claude Lantier non è difficile riconoscere il genio di Paul Cézanne, amico di gioventù di Zola.

L’azzurro di cui si racconta il pubblico si faccia scherno, è il tono brillante della sua splendida visione delle Bagnanti nel sole. Proprio
la celebre tela, nella versione del 1874-75 conservata al Metropolitan Museum di New York, è uno dei punti di forza della mostra Paul Cézanne a Firenze che si inaugura domani a Palazzo Strozzi (catalogo Electa), squadernando una ventinadi capolavori del maestro di Aix-en Provence, insieme ad alcune opere di Vincent Van Gogh e Camille Pissarro e di altri contemporanei.

Per fortuna non tutti la pensavano come l’“invidioso” Emile Zola, che legava la sua poetica a un assoluto verismo, e forse – proprio per questo – era incapace di accettare la novità che la pittura di Paul Cézanne rappresentava. Tanto da farne nel romanzo L’opera un pittore fallito che finisce per suicidarsi. In barba a Zola, in Francia il successo, anche se tardivo, di Cézanne, si deve all’intuito di alcuni fini conoscitori. Ma anche in Italia ci fu chi seppe cogliere la genialità della rivoluzione del colore che Cézanne stava compiendo. Qui a introdurre la sua pittura e a farla conoscere all’intellighentia della Penisola furono due collezionisti, il pittore Egisto Paolo Fabbri, ricco fiorentino emigrato Oltreoceano, e Charles Alexander Loeser, conoscitore d’arte e collezionista di origini americane che alla fine dell’Ottocento viveva a Firenze. Di fatto furono tra i primi collezionisti in Italia a intuire pienamente la portata del genio di Cézanne, innamorandosi della sua ricerca, di quel suo originalissimo modo di dipingere le figure, i paesaggi, le nature morte. Soggetti apparentemente normali, comuni, quotidiani. Ma a cui Cézanne sapeva regalare la forza della sua visione interiore, del suo sentire. Così ecco il ritratto della moglie Madame Cézanne, come figura incomente sembra pronta a rovesciarsi addosso allo spettatore. Ed ecco il figlio del pittore, vestito da Arlecchino, le braccia straordinariamente allungate, come in una immagine onirica in cui tutto appare aver subito una trasformazione fantastica. Ed ecco La montagna, la Saint Victoire, che ogni giorno Cézanne scorgeva all’orizzonte, dal suo studio.Insieme a spicchi di campagna dell’amata Provenza. Insieme a quelle straordinarie pesche costruite come forma–colore senza affidarsi a linee nette di contorno. L’universo domestico, appartato, solitario, sulle tele di Cézanne così si trasformava in qualcosa di “altro”, diventava una sorta di visione interiore e insieme immagine di invenzione dal valore universale. L’evidenza con cui le figure, costruite con il solo colore, emergono dalla tela, non ha nulla di realistico. Così come non ha nulla di realistico quella rappresentazione della Saint Victoire che emerge da macchie di colore che, sulla tela, si compongono in una visione via via sempre più certa. Quasi il pittore ci riproponesse il processo del primo vedere il mondo da neonati, come suggeriva il filosofo Maurice Merleau-Ponty nel celebre saggio “Il dubbio di Cézanne”.

cezanneplayersGli stessi colori caldi, i marroni, i verdi, i rossi, gli ocra tipici della Provenza, vanno a formare una rappresentazione del paesaggio che non ha nulla di naturalistico, né tanto meno di accademico. E non è banalmente realistico il ritratto de La signora Cézanne sulla poltrona rossa, capolavoro assoluto del maestro di Aix che i curatori di questa mostra fiorentina, Carlo Sisi e Francesca Bardazzi, sono riusciti ad avere in prestito dal Museum of fine arts di Boston, insieme con La casa sulla Marna, Il frutteto e altri capolavori provenienti da Aix e dai principali musei d’Europa e d’Oltreoceano.

Ma lungo il percorso della mostra allestito in Palazzo Strozzi e strutturato in cinque sezioni, in mezzo a opere note e meno note, si scopre anche una chicca inaspettata: una “copia” della Cena in casa di Simone di Paolo Veronese, che Cézanne dipinse da giovane quando andava a esercitarsi al Louvre e di cui, dal 1945, se ne erano perse le tracce. La tela è stata da poco ritrovata dalla storica dell’arte Francesca Bardazzi in una collezione privata insieme ad alcuni documenti autografi, fra cui una lettera di Cézanne indirizzata a Fabbri. E proprio dalle lettere che corredano la mostra, in particolare quelle di Egisto Fabbri a amici e conoscenti, emerge in filigrana un intenso ritratto intimo di Cézanne, del suo proverbiale schermirsi, della sua timidezza, del suo isolamento, che qualcuno volle stigmatizzare come malattia.

Lo stesso Fabbri, che gli aveva scritto per incontrarlo di persona, dicendo di apprezzare molto la sua pittura e di aver acquistato alcune sue opere, ebbe da Cézanne la risposta quasi meravigliata di un pittore che quasi stentava a credere che qualcuno potesse davvero interessarsi al suo lavoro. Tanto più quando seppe che il giovane collezionista aveva deciso di acquistare ben sedici dipinti che portavano la sua firma. (La mostra resta aperta fino al 29 luglio)

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Raffaello torna nell’urbe dove diventò divino

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 20, 2006

Raffaello, La fornarina

Raffaello, La fornarina

di Simona Maggiorelli

Le stanze affrescate di Villa Borghese si offrono, fino al 27 agosto, alla prima monografica che Roma, dopo tanti anni, dedica a Raffaello.

Pare abbastanza curioso che Roma abbia trascurato per così tanti anni l’opera di Raffaello,  visto che proprio nella città papale del primo decennio del ’500, il pittore urbinate, lasciatosi alle spalle una formazione attardata in provincia  e sulle tracce del Perugino, diventò il “divino Raffello”, conquistando uno status e un’aurea che fino a quel momento nessun pittore aveva avuto essendo fin lì anche i più geniali artisti considerati alla stregua di artigiani o al più servitori di corte.

Con Raffaello, ci hanno insegnato gli storici dell’arte, dallo Hauser in poi, il pittore acquisisce insieme allo status di artista, libertà creativa dal repertorio iconografico sacro e dai suoi più rigidi dettami di osservanza. La mostra curata da Anna Coliva nella Galleria Borghese di Roma ce lo racconta a partire da un’opera nodale di Raffaello come Il trasporto di Cristo morto, ovvero la Pala Baglioni che Raffaello dipinse nel 1507 per la perugina Atalanta Baglioni. Riscostruita, per la prima volta in tutta la sua articolazione, e restaurata (in loco, perché fragilissima) campeggia sotto i soffitti affrescati del secondo piano della Villa museo. La tavolozza brillante di colori acidi a cui, come si è scoperto dopo aver tolto la patina di colore aggiunta negli anni ’70, Raffaello dava intensità cromatica mescolando all’impasto polvere di vetro. L’articolazione delle figure e il movimento mutuati da Michelangelo. L’espressività dei volti che risente della lezione di Leonardo, mentre tutta l’impaginazione della vicenda appare improntata a un forte pathos. La Pala Baglioni è l’opera in cui, dopo il periodo di formazione fiorentina (in cui Raffaello aveva avuto modo di studiare da vicino le opere di Leonardo e Michelangelo), il pittore umbro tenta una nuova complessità linguistica. Provando ad amalgamare le novità di inizio Cinquecento con riferimenti alla statuaria antica. Il Laocoonte era stato ritrovato a Roma nel 1506, ma la fonte, ricorda Settis in un saggio contenuto nel catalogo Skira che accompagna la mostra, era anche un sarcofago romano col trasporto funebre di Meleagro sul tipo di quello conservato nei Musei Vaticani. Fatto è che con questa opera, in cui non tutto appare risolto, in cui i due gruppi, quello del Cristo morto e l’altro incentrato sullo svenimento della Vergine non appaiono del tutto integrati, Raffaello si lascia alle spalle una volta per sempre i modi perugineschi, l’impaginato paratattico, la statuaria fissità dei volti.

Lo sposalizio della Vergine è di appena tre anni precedente alla Pala Baglioni, ma artisticamente sembrano passati secoli.Nella tela che Atalanta Baglioni gli aveva commissionato per la scomparsa del figlio Raffaello si misura già con la riscoperta dell’antico e con i contenuti della raffinata renovatio dei programmi papali, che di lì a poco lo avrebbero portato a dipingere le Stanze vaticane. Il tormento di questo passaggio nella mostra Raffaello da Firenze a Roma è testimoniato dai molti disegni preparatori che accompagnarono la realizzazione della Pala Baglioni, mentre la maggiore raffinatezza di stile passa per una serie straordinaria di ritratti che, al primo piano di Villa Borghese, catturano in un gioco di sguardi e di rimandi. Volti maschili, enigmatici, di forte penetrazione psicologica. Oppure ragazzi, di tre quarti, sfuggenti e seducenti, contro fondali naturali e atmosfere leonardesche. E poi la serie dei ritratti femminili stagliati su fondo nero o verde scuro, in cui le figure di giovani donne, dalla Fornarina di Palazzo Barberini alla Dama col Liocorno, appaiono come icone dalla forza statuaria. Dabbasso, con la luce già estiva che illumina la penombra della sala è la radiosa enigmaticità della Dama della Galleria Borghese a catturare l’attenzione, non solo per l’irrisolta sciarada filologica che l’accompagna da secoli (non si conosce con certezza né la data dell’esecuzione né la committenza) ma per la luminosità che irradia, quasi fosse composta di sola luce.

Dalla Galleria Palatina di Firenze, poi, ecco il ritratto detto La Gravida, mentre dall’estero, provengono opere celebri come Belle Jardiniere del Louvre (che esce dalla Francia per la prima volta) e la Madonna Esterhazy (da Budapest). E poi la Madonna Aldobrandini e la Madonna dai Candelabri che circondano il Cristo Benedicente di Brescia, in una collana di cinquantuno capolavori, per metà tele, composta da ventiquattro tavole e ventisei disegni.

da Europa 20 maggio 2006

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Arte: critici e storici all’Unione

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 25, 2006

Ormai è fatta. La legislatura è finita. E i danni lasciati sul campo sono palesi. Quello che una volta, sciaguratamente, Gianni De Michelis indicava come il petrolio d’Italia, ovvero i beni culturali, sono stati abbondantemente saccheggiati e svenduti. Grazie a invenzioni di “finanza creativa” come la Patrimonio spa, ai condoni, ma anche grazie al famigerato Codice dei beni culturali varato dal ministro Urbani. Senza dimenticare i danni prodotti dai tagli dei finanziamenti pubblici. Tagli drastici perfino del settanta per cento dei trasferimenti nell’ultima finanziaria di Tremonti che hanno colpito gli anelli più deboli del sistema dell’arte: gli archivi, le soprintendenze territoriali, i centri d’arte contemporanea. Portando molti enti sull’orlo della chiusura, mentre il ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione minacciava le dimissioni, guardandosi bene dall’attuarle. Di fronte al sacco, poche le voci limoide che si siano levate contro. Pochissime fra i politici. Molte fra gli intellettuali e storici dell’arte, voci competenti, ma rimaste a lungo inascoltate e che, ora – chiamate a dare consigli al centrosinistra in vista delle elezioni – si levano qualche sassolino dalle scarpe. Le politiche per i beni culturali del centrosinistra, «un disastro», denuncia Lea Vergine, firma di spicco della critica d’arte più engagé. «La “sinistra” – dice – continua a preferire politici e burocrati a studiosi e intellettuali alla guida delle istituzioni pubbliche. Con il risultato che tutto il sistema dell’arte italiano è andato ingessandosi, perdendo di vitalità di slancio». Basta mostre (in testa Monet e la Senna, la Biennale di Venezia e I capolavori del Guggenheim) con più di 100mila visitatori. «In questo proliferare di mostre locali, piccole e di scarsa rilevanza culturale – commenta Achille Bonito Oliva — la tecnica è quella di utilizzare un grosso nome, ad esempio Caravaggio per squadernare poi solo opere molto minori». Ma la colpa non è rutta dei politici, secondo il più eccentrico, ma anche il più prolifico dei critici italiani, da sempre riottoso a chiudersi nella torre d’avorio di studi separati dalla realtà. «Accanto a enti che praticano una politica culturale miope e appiattita sul già esistente – dice – ci sono anche amministrazioni sensibili che investono in progetti produttivi di arte pubblica». Qualche esempio? «Tanti, Gibellina, Napoli, città con molti problemi, ma che svolgono un’importante ruolo di committenza pubblica chiamando critici e artisti a intervenire in zone degradate, in quartieri anonimi». Come quello di Napoli dove è sorto “Il museo necessario”, un grande museo nella metropolitana che con un centinaio di opere di artisti emergenti da una nuova identità a un “non luogo” di passaggio. Ma di esempi di strutture per l’arte contemporanea nate con molto coraggio e che potrebbero funzionare da esempio, rilancia, Achille Bonito Oliva ce ne sono sempre di più in Italia. «Dal Castello di Rivoli, al Mart di Rovereto, al Macro di Roma – dice -, senza dimenticare una rete di gallerie e di Kunsthalle giovani che vanno dalla GameC di Bergamo a Quarter di Firenze, al Man di Nuoro e che, in assenza di politiche statali a supporto delle nuove generazioni svolgono un lavoro culturale importantissimo nel lanciare e sostenere i giovani artisti». «La politica dovrebbe tornare a riflettere sul valore civile e sociale che ha l’arte e la ricerca in genere – rilancia Sergio Risaliti, direttore del Quarter di Firenze -, Settori strategici per la formazione, per lo sviluppo del paese. Anche per costruire una nuova e più aperta cittadinanza. Perché i progetti d’arte oggi sono sempre più internazionali e studiare l’arte da una grande lezione di tolleranza, aiutando ad abbattere barriere culturali e pregiudizi. Per questo – conclude il curatore del più importante centro d’arte contemporanea fiorentino – la missione di chi lavora in questo settore è sempre eminentemente pubblica. E una seria politica di centrosinistra non può e non deve dimenticarlo.

da Europa 25 marzo 2006

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Biennale dell’anno del dragone

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 11, 2005

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Il boom dell’arte cinese. Dopo le collettive di Roma e Bologna , l’epicentro è Venezia

di Simona Maggiorelli

caiguoqiangQualcuno l’ha già ribattezzata “Biennale dell’anno del dragone”. Di certo, al di là dei risultati della collettiva organizzata in laguna dall’artista cinese Cai Guo Quiang, è storico lo sbarco della Repubblica popolare alla Biennale di Venezia. Dopo la ventina di artisti cinesi dell’edizione del ’99 diretta da Szeemann e, dopo il successo della sezione cinese intitolata “zona di urgenza”, dell’ultima Biennale di Francesco Bonami, da oggi per la prima volta la Cina ha un suo padiglione permanente nel Giardino delle Vergini. Uno spazio all’aperto dedicato all’arte e all’architettura cinese e che – il direttore della Fondazione Biennale David Croff lo ha già annunciato – sarà allargato negli anni a venire. L’ingresso in Biennale della Cina suona come un riconoscimento ufficiale alla multiforme creatività degli artisti cinesi delle ultime generazioni. Pittori, performers, videomakers che anche in Italia cominciano a interessare un pubblico non più solo di nicchia. In un moltiplicarsi di mostre e iniziative. Dopo la collettiva al Macro di Roma e a Bologna e dopo varie rassegne di fotografia, due mostre aprono i battenti, quasi in contemporanea, a Torino e a Milano. Il torinese palazzo Bricherasio, dal 23 giugno al 28 agosto, ospita le opere di 13 artisti di quella avanguardia cinese che alla fine degli anni Settanta segnò un distacco dallo stile accademico maoista, scegliendo un modo di rappresentazione della realtà spesso ironico, libero, spiazzante. Dal 29 giugno al 2 ottobre, invece, nello spazio Oberdan di Milano, Daniela Palazzoli presenta la mostra La Cina: prospettive d’arte contemporanea: attraverso le opere di 70 artisti emersi fra gli anni Ottanti e Novanta, un articolato tentativo di cogliere e raccontare il movimento che attraversa, da una trentina di anni a questa parte, il panorama dell’arte contemporanea cinese. «Un panorama estremamente multiforme e variegato», racconta Filippo Salviati, docente di storia dell’arte dell’Estremo Oriente alla Sapienza. «Anche se – stigmatizza – arriviamo buon ultimi». Buoni ultimi nell’interesse verso l’arte contemporanea cinese dopo almeno un decennio di importanti mostre e retrospettive promosse dal MoMa di New York, dal Centre Pompidou, ma anche dalle gallerie di Londra e di Amburgo.

woon-kar-wai-in-the-mood_loveCon un interesse crescente, anche sul piano commerciale. Che ha toccato l’acme nelle aste del dicembre scorso con quotazioni di opere cinesi contemporanee da capogiro. Una crescente attenzione verso la Cina che si misura anche in termini di spazi sui giornali. «Negli ultimi anni la Cina è diventata la prima potenza sul piano economico e commerciale – dice il sinologo Federico Masini, preside della Facoltà di studi orientali della Sapienza –. Ora la scommessa riguarda la cultura. Si tratta di vedere se la Cina riuscirà anche ad esportare modelli culturali». Nonostante il cinema di Zhang Yimou o di Kar Wai, il pianeta Cina, sul piano dell’arte e della letteratura, è ancora in buona parte da scoprire in Occidente. «Ma in futuro – spiega Masini – anche attraverso la diffusione di arte giovane e d’avanguardia le cose potrebbero cambiare». E chissà – avverte – forse potrebbe anche risultare imbarazzante per la vecchia Europa, «dal momento che la Cina, come il Giappone mette in circolazione modelli culturali senza un’ideologia religiosa retrostante ». Una cultura quella cinese libera da vincoli ideologici, ma insieme con nessi strettissimi con una tradizione millenaria. «La sperimentazione artistica cinese, negli anni dopo Tiananmen, ha avuto uno sviluppo fortissimo», racconta Filippo Salviati. Una ricerca che ha riguardato un po’ tutti i generi e gli stili: dalla calligra fia alla videoarte. «Dal punto di vista dell’arte il panorama cinese si presenta estremamente sfaccettato – dice lo storico dell’arte che per Electa sta scrivendo il primo manuale guida all’arte cinese contemporanea –, ma con alcune costanti e specificità fortissime. A partire dal nesso scrittura pittura che in Cina affonda le proprie radici nell’antica arte della calligrafia, che oggi si trova declinata e riproposta in forme nuove e di avanguardia». Il rapporto con le immagini è un aspetto fondamentale della cultura cinese, anche a partire dalla scrittura fatta di ideogrammi. «Al di là del fatto che in questo momento favorevole qualcuno provi a cavalcare la tigre producendo opere facili da vendere ma di dubbio valore, la grande arte cinese – spiega Salviati – non è quasi mai ludica, non conosce la decorazione fine a stessa. Spesso gli artisti realizzano immagini così dense di significati da apparire dei rebus agli occhi occidentali». Il segreto per comprenderle? «Bisogna coglierne il nesso con il retroterra culturale – conclude –. Ma se non si hanno le basi linguistiche sfugge moltissimo del messaggio. Per questo credo sia importante che comincino ad uscire, anche in Italia, strumenti di seria divulgazione».

Da Europa 11 giugno 2005

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Biennale Zapatera

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 4, 2005


Il 12 giugno a Venezia la 51. edizione della grande kermesse dell’arte «La sua funzione – per la curatrice Rosa Martinez – non è preservare il passato ma inventare il presente ed esplorare i confini dell’arte. Qualcosa di mutante, che si costruisce attraverso la contaminazione con la vita». Perciò aggiunge la cocuratrice Maria de Corral:«A Venezia non solo “stili”, ma artisti che rappresentano una qualche rivoluzione».

di Simona Maggiorelli

maria-de-corral-e-rosa-martinez1Difficile, a volte, commisurare progetti e pensieri: mentre in laguna c’è chi pensa in grande e allarga lo sguardo dell’arte al Mediterraneo e oltre, cercando di dare alla Biennale di Venezia un respiro veramente internazionale, i quotidiani più conservatori – Il Giornale in primis – sembrano voler fare di tutto per riportare la riflessione sull’arte a misura del nostro italico particulare.


Da un lato le due curatrici spagnole di questa cinquantunesima edizione che apre le porte il 12 giugno, Rosa Martinez e Maria De Corral, impegnate far emergere ciò che di più nuovo e vitale si muove nelle arti visive tra Occidente e Oriente. Dall’altro, un manipolo di critici e di giornalisti nostrani che continuano a fare e a rifare la conta di quanti artisti italiani figurano nelle due sedi ufficiali della mostra, all’Arsenale e ai Giardini. Con una raccolta firme vorrebbero costringere il presidente della Fondazione Biennale David Croff e il vicepresidente, il sindaco Massimo Cacciari, a fare marcia indietro e a ripristinare una lettura del panorama dell’arte ricondotta nei confini nazionali, più domestica e normalizzata. Prospettiva che, del resto, all’orizzonte già prende forma concreta, con la nomina dell’americano Robert Storr alla direzione della Biennale del 2007, allargata a progetto triennale. Da “curator” del MoMa, e in Italia da direttore della Biennale internazionale dell’arte contemporanea di Firenze, Storr non ha lasciato molti dubbi sulla sua propensione verso un tipo di arte figurativa d’antan che piace a un mercato dei grandi numeri e verso una statuaria di stampo neoclassico e di gusto molto americano, sostenendo le opere di Gina Lollobrigida. Ma tant’è. L’orizzonte del 2007 è, per fortuna, ancora molto lontano, e molto nel frattempo si agita in laguna: dallo sbarco nei giorni scorsi del magnate francese François Pinault a Palazzo Grassi (nuova sede della sua collezione privata), al progetto di Croff di creare, forse a Ca’Corner della Regina, una sede della Biennale delle arti visive da vivere e abitare tutto l’anno, con archivi, librerie, caffetterie, sul modello della Tate Modern di Londra.
Nel frattempo resta ancora tutta da scoprire e da godere questa Biennale 2005, già battezzata dalla stampa “Biennale Zapatera”, per la forte impronta di passione e di impegno civile che le due blasonate curatrici hanno voluto darle, allargando il cerchio dei paesi a 73, con il recente ingresso di Afghanistan, Albania, Marocco, Repubblica del Belarus, Kazakhistan e Uzbekistan, ospitando per la prima volta un padiglione cinese, ma soprattutto andando a caccia, ognuna con il proprio stile, di opere che raccontano il presente.


Con gusto elegante, estetizzante, più decantato, nel padiglione italiano ai Giardini, Maria De Corral presenta la sua rassegna intitolata: L’esperienza dell’arte.Con scelte più sanguigne, concrete, legate alla vita e alla mescolanza dei linguaggi all’Arsenale Rosa Martinez, in omaggio al veneziano Hugo Pratt e al suo Corto Maltese ha voluto intitolare la propria mostra: Sempre un po’ più lontano. Per entrambe, lo stesso proposito:  proposito: far vedere concretamente quanto l’equazione: Occidente uguale civilizzazione sia ormai superata. «L’utopia della democrazia – ha dichiarato la Martinez – si concretizza in una Biennale ideale che per me significa soprattutto un evento politico e spirituale». Per poi aggiungere con una esplicita dichiarazione d’intenti: «La Biennale, con la sua energia e fluidità, deve essere un modello che si rinnova ad ogni esposizione. La sua funzione non è preservare il passato ma inventare il presente e esplorare i confini dell’arte.


È qualcosa di mutante, che non si costruisce con i nomi dei big di turno ma attraverso la contaminazione con la vita, esplorando territori transnazionali e transgenerazionali». Parola di chi, come lei, Rosa Martinez, dopo essersi formata nella casba degli stili di Barcellona, ha diretto nel 1996 Manifesta 1 e l’anno dopo la Biennale di Instanbul intitolata, non a caso, On Life, Beauty, Translations per approdare poi, dopo le esperienze di Site di Santa Fé e della Biennale di Pusan in Corea, alla cura del padiglione spagnolo e alla rassegna veneziana del 2003. Nella Biennale diretta da Francesco Bonami, quella della Martinez, era una delle sezioni di più forte impatto, con l’ingresso letteralmente murato dall’artista Qui Santiago Sierra per far sperimentare allo spettatore il senso di una respingente frontiera. Evitando i rischi della vertiginosa proposta di Bonami e dei suoi 12 coautori che, nel 2003, seducevano e insieme procuravano un senso di spaesamento nel pubblico, all’Arsenale quest’anno si vedranno le proposte solo di una cinquantina di artisti, giovani ma già emersi; nomi con i quali Rosa Martinez ha già lavorato in passato (da Olafur Eliasson a Mona Hatoum, da Mariko Mori a Pascale Marthine Tayo) e che a Venezia la curatrice catalana ripropone attraverso le loro opere più dirompenti. A cominciare da quelle dichiaratamente femministe del collettivo americano Guerrilla Girls, che armate di video, foto, installazioni si sono date l’obiettivo di mandare a gambe all’aria ogni sorta di pregiudizio che riguardi il sesso o la razza. Più orientata verso uno sguardo più femminile che femminista, la madrilena Maria de Corral, direttrice dall’ ’81 al ’91 del Caixa di Barcellona e poi del programma mostre del Reina Sofia di Madrid (nonché, nel 1986, curatrice del padiglione spagnolo della Biennale con la mostra De varia commensuraciòn) ai Giardini tenta un percorso anche retrospettivo sulle novità più importanti che hanno segnato la scena dell’arte internazionale a partire dagli anni Settanta, scegliendo autori già “classici”,da Francis Bacon a Dan Graham, da Donald Judd a William Kentridge, fino a Antoni Tàpies e a Bruce Nauman. Artisti che nell’ultimo scorcio del Novecento, nel bene e nel male, sono stati presi a modello dalle generazioni più giovani.


«Indipendentemente dalle tecniche e dagli stili – scrive Maria De Corral, – mi interessa proporre alla Biennale quegli artisti che rappresentano una qualche rivoluzione». «Nulla di definitivo – avverte – ma i miei criteri sono rigorosi, anche se inseguono le emozioni ». Da parte di entrambe è proprio questa la promessa: esplorare i territori dell’intimo, i desideri, le passioni, ma anche le contraddizioni e i drammi che oggi attraversano il globo. Senza mai perdere di vista ciò che è più profondamente umano.

Da Europa 4 giugno 2005

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