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Abbecedario Cattelan

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 6, 2014

Maurizio Cattelan

Maurizio Cattelan

Provocatorio, spiazzante, Maurizio Cattelan, l’artista italiano più noto all’estero, torna alla ribalta con Shit and die, un nuovo progetto per One Torino. E racconta la sua trentennale ricerca a caccia del significato nascosto delle immagini

 di Simona Maggiorelli

Dopo la grande mostra antologica al Guggenheim di New York, nel 2011 Maurizio Cattelan aveva annunciato il suo ritiro. Ma ora, a sorpresa, ricompare a Torino, dove sta preparando un nuovo progetto espositivo per Artissima, in programma dal 6 al 9 novembre 2014. Con il provocatorio titolo Shit and die (citazione ironica di un’opera di Bruce Nauman) questa nuova mostra allestita in Palazzo Cavour e aperta fino al 25 gennaio 2015 promette un insolito viaggio nella storia torinese, costruito attraverso oggetti insoliti, desueti, dimenticati. «Buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria, reperti di archeologia industriale, pezzi di avanguardia e ombre lombrosiane.

«Forse non le definirei ombre» precisa l’artista, senza rivelare troppo del progetto nel suo concreto. «Anche Lombroso era all’avanguardia su alcune cose. Oggi sappiamo che ha completamente sbagliato il tiro, ma era comunque un uomo di scienza. Per esempio- racconta Cattelan – il museo ha una collezione sterminata e meticolosissima di riproduzioni su carta dei tatuaggi dei detenuti, con tanto di legenda e racconto biografico di ogni prigioniero. Sono documenti davvero interessanti, solo su quello ci si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film».

Cattelan, la Nona ora

Cattelan, la Nona ora

Mentre Cattelan si diverte a frugare in polverosi archivi, mentre si occupa di storia locale e nel Museo Lombroso si dedica all’esame critico delle tassonomie di una psichiatria positivistica e al fondo razzista, dall’altra parte dell’Oceano, una grande mostra mercato vende le sue opere più famose per cifre che oscillano dai 30mila dollari e 20 milioni.

«Si tratta di una mostra di mercato secondario di cui so poco io stesso. Non più di quello che c’è scritto sui giornali», confessa l’artista. «Quando il lavoro è venduto una prima volta se ne perde il controllo. Fa parte del patto con se stessi. È come dare un figlio in adozione, poi non puoi pretendere di decidere cosa farà da grande». Certo, sembrano passati anni luce da quando Cattelan, lasciata Padova, si aggirava per New York senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Riuscendo tuttavia a farsi strada nel mondo dell’arte. «New York è sicuramente cambiata, come il resto del mondo, ma ancora oggi – racconta – anche se stai chiuso in casa, puoi sentire l’energia della città. A soli due isolati di distanza puoi trovare 150 gallerie d’arte. 150 giovani teste che pensano, e basta una passeggiata per incontrarle. Sembra un cliché ma – sottolinea Cattelan – credo che New York possa essere un punto di svolta, come è stato per me anni fa».

Michelangelo Pistoletto dice che «ad un certo punto l’artista deve andare oltre il proprio ego e creare una costellazione». Con un atteggiamento maieutico verso i giovani talenti. Lei non ha mai fatto parte di gruppi, di movimenti precisi. Non ama le parrocchie?

Non amo le etichette, nemmeno quella di solitario: ho sempre sostenuto i giovani artisti nel modo che mi veniva più spontaneo, creando un dialogo, e lavorando in team; come in quest’ultimo caso, con Shit and die, una mostra collettiva in cui non mancano di certo i giovani artisti. Semplicemente non ho mai sentito l’esigenza di fondare una scuola, temo che avrei davvero poco da insegnare.

Da dove trae ispirazione per le sue opere? Come sono nate opere come La nona ora (1999) con papa Wojtyla o Him (2001) che mostra Hitler devoto, che prega?

Cattelam, Him

Cattelam, Him

Qualcuno ha detto che per avere delle idee ci vuole una buona immaginazione e un mucchio di spazzatura: probabilmente non ho abbastanza immaginazione, ma di sicuro ho un sacco di spazzatura! Scherzi a parte, credo che avere idee sia una questione di permettere alla propria mente di distrarsi a sufficienza dall’ovvio: si tratta di un compito rischioso, perché si possono scoprire cose su se stessi che forse era meglio non scoprire.

Mentre il Postmoderno produceva architetture impazzite e gadget, usando quello stesso linguaggio pubblicitario, lei denunciava il vuoto e la violenza di un certo modo di vivere metropolitano (Bidibidodidiboo 1996), additava la cultura che crocifigge la donna (Untitled 2007) e impicca la fantasia dei bambini (Untitled 2004), smascherava ideologia o religione (Ave Maria, 2007). Però non si è mai definito artista politico. Perché?

Non mi sono mai posto la questione in questi termini perché non mi ha mai interessato definirmi a priori, o prendere impegni che non potevo mantenere. Quello che ho fatto è semplicemente ricercare immagini che, in mezzo alla montagna di informazioni inutili da cui siamo sommersi ogni giorno, suscitassero una reazione a livello dello stomaco. Penso che possa essere un ottimo modo per portare in superficie la rabbia, privata della violenza.

«Il mio lavoro è sempre stato quello di prendere i pensieri miei degli altri e di farli vedere a tutti», lei dice nell’Autobiografia non autorizzata (Mondadori, 2011) firmata da Bonami. E poco prima: «Facevo l’incorniciatore di sentimenti, di stati d’animo». Rivelare il lato latente, invisibile, può essere rivoluzionario?

Nessun discorso è neutrale, l’arte non fa eccezione. Ognuno di noi è “impegnato” e rivoluzionario a modo suo, e non è detto che dichiararlo a voce alta lo renda più vero. Il mio impegno è creare immagini che rimangano impresse per più di due secondi… le assicuro che se non è “impegnato” è comunque molto impegnativo.

Cattelan Untitled 2008

Cattelan Untitled 2008

Nel 1993 lei debuttò in Biennale con Bonami. Più di recente è tornato a Venezia con una installazione che ricreava Tourists (1997). Guardando i piccioni impagliati dal sotto in su, standosene lì a naso per aria, ci si sentiva “piccionescamente” complici di un mercato che spaccia per arte qualunque cosa. Una pizzicotto al pubblico perché apra gli occhi?

Credo che ogni commento e ogni interpretazione siano legittimi, ma non penso che stia a me realizzarli. Credo che non si dovrebbe pensare a chi si sta rivolgendo: nel momento in cui un lavoro viene presentato attraverso i media diventa di patrimonio pubblico e se ne perde inevitabilmente il controllo. Questo accade sia dentro sia fuori dall’istituzione: io ho sempre preferito perdere il controllo da subito, è molto più semplice che dover accettare a posteriori di averlo perso.

Al MoMa, al Pompidou, alla Tate ma anche alla Biennale di Istanbul s’incontrano quasi gli stessi artisti, una medesima estetica e modo di concepire le arti visive. Il mercato internazionale dell’arte nell’ultima ventina di anni ha imposto una sorta di pensiero unico? C’è spazio per chi voglia proporre una diversa ricerca?

Le mostre, le istituzioni e il mercato dell’arte e anche la ricerca sono inevitabilmente collegati tra loro, in quanto costituiscono una catena indissolubile che permette al meccanismo di andare avanti. Sono tutti lati di una stessa medaglia, che non credo possano essere separati. Per quanto riguarda me, ho sempre avuto bisogno di progetti paralleli su cui lavorare, un tempo erano degli intermezzi dal solito lavoro. Adesso una rivista come Toiletpaper, o curare una mostra come Shit and die, o qualsiasi altro progetto futuro sono un buon modo per continuare a lavorare. Il problema è che ci illudiamo di avere tempo e invece non ne abbiamo poi così tanto: qualsiasi cosa verrà dopo, farò del mio meglio perché non sia tempo sprecato.

dal settimnale left  primo -7 novembre

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Arnaldo Pomodoro, il poeta della scultura

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 16, 2012

Impegno civile e una vitale voglia di ricercare. E poi le esperienze di vita  ,i  viaggi,  gli incontri che hanno alimentato il suo lavoro di artista. Il maestro Arnaldo Pomodoro si  racconta in occasione dell’uscita del libro intervista Vicolo dei lavandai.

di  Simona Maggiorelli

Ho sempre sentito in me la necessità di un coinvolgimento concreto da un punto di vista sociale» racconta Arnaldo Pomodoro a Flaminio Gualdoni che lo intervista nel libro Vicolo dei lavandai, uscito il 7 giugno per le edizioni Con-fine. Poeta della scultura che si è formato nell’antifascismo ha sempre rifiutato l’idea dell’artista chiuso nel suo studio, come torre d’avorio. Dal dopoguerra contribuendo alla rinascita del Paese con la creazione di  opere di grande valore civile in spazi pubblici.

«Sono molto sensibile alla responsabilità dell’arte che, secondo me, ha un carattere etico: esprime non solo un autore e uno stile suo proprio, ma anche i motivi e il senso di una civiltà», commenta il Maestro. Che subito aggiunge: «L’apporto dell’arte allo sviluppo della società è fondamentale e lo è soprattutto in questo periodo di grande incertezza e di profonde trasformazioni: le opere d’arte sono un riferimento decisivo della percezione nello spazio-tempo in cui oggi viviamo. E proprio da questa consapevolezza è nata l’idea della mia Fondazione qui a Milano.
Un artista può aiutare a “curare” la città dal degrado e della perdita di identità?
Certamente, oggi c’è l’esigenza di ritrovare la vitalità e l’entusiasmo per la cultura e per le arti. C’è bisogno di sviluppare un senso di vita in comune e una progettualità armoniosa, globale, proiettata verso il futuro.

Quando lei arrivò a Milano la città viveva un momento di straordinaria vivacità sul piano culturale e artistico. Un suo vicino era Lucio Fontana. Come lo ricorda e che memorie ha di quella stagione?
Ho incontrato Lucio Fontana nel 1954 a Milano, dove mi ero appena trasferito da Pesaro: fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico milanese. Per tanti artisti più giovani Fontana è stato maestro nel  comprendere le capacità e i percorsi di ricerca individuali attraverso il suo formidabile senso del nuovo: anche per me è stato come un padre che mi ha stimolato, incoraggiato, sempre seguito. Ricordo il suo sorriso così espressivo ed ironico, quel suo modo di parlare con semplicità, ma sempre con grande acume. Si muoveva con gesti tanto vivaci ed espressivi che potevi vedere idealmente l’intreccio dei suoi segni, gli arabeschi costruiti con il neon, da lui utilizzato come mezzo artistico prima di chiunque altro, a dimostrazione dello spirito inventivo che ha animato tutto il suo lavoro.
Pomodoro, ContinuumLa sua arte è percorsa da un rinnovamento e da una tensione continua. Ad alimentarla è stata la sua esperienza di vita?
Sì, penso ad esempio al mio primo viaggio negli Stati Uniti, dove sono andato nel 1959, grazie ad una borsa di studio del ministero degli Affari esteri. Quell’esperienza ha avuto un’importanza fondamentale. L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava
in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. E’ qui che ho una “folgorazione”: osservando le sculture di Brancusi sento che mi  emozionano al punto di aver voglia di distruggerle e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene così l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale, pura, astratta.
Molto importanti nel suo lavoro sono la memoria, la storia, i segni che hanno lasciato le culture che ci hanno preceduto. Come nacque il suo interesse per le antiche scritture del Vicino Oriente e per le iscrizioni a caratteri cuneiformi che poi lei ha ricreato in alcuni suoi capolavori?
Ho sempre subito il grande fascino di tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti. La ricerca sul segno, d’altra parte, emerge costante in tutto il mio lavoro. Si tratta di diversi elementi modulari, di serie di segni leggeri e ritmici: cerco, nei miei Papiri ad esempio, come nel gruppo di opere recenti intitolate Continuum, di mettere in evidenza la musicalità e la poesia, e forse per questo mi sento vicino ai musicisti e ai poeti.
E quello per le incisioni rupestri dei Camuni? La creatività, l’arte, la capacità di realizzare immagini di valore universale connotano i punti più alti della storia umana fin dal paleolitico?
Senza dubbio. E’ l’espressione artistica la prima e fondamentale forma di comunicazione e relazione tra gli uomini. La forza dell’arte
dipende dalla sua capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche.
Per me “fare arte” è un atto di libertà che si deve compiere in modo semplice e rigoroso senza alcuna visione strumentale. Per me l’ideale
è ambientare le opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni. La scultura supera così il limite di un’arte chiusa
nei musei e nelle collezioni private e diventa dominio di tutti, diventa il modo di inventare un nuovo spazio e mutare il senso di una
piazza, di un ambiente.

 

Arnaldo Pomodoro

Sessant’anni di  ricerca di un maestro
Scavare dentro le forme, scoprirne  i fermenti interni, come a portare alla luce la ricchezza di un universo interno sconosciuto e affascinante. Nascono così le sfere sgranate di Arnaldo Pomodoro, percorse da fessure che ne lasciano intravedere i nuclei vitali. Ma centrali nella poetica dell’artista (classe 1926) sono anche Cippi e Papiri, alveari di segni che alludono a una scrittura misteriosa di cui si è perduto il codice e che evocano una cultura diversa da quella occidentale. Così come l’altera ed elegante serie di stele ispirate all’antico tempio della regina di Saba che colpì la fantasia dello scultore in Yemen. Il viaggio come «metafora della vita», come tensione verso la scoperta del nuovo è sempre stato una fonte di ispirazione per Pomodoro fin da quando, giovanissimo, cercava una via di uscita dall’opprimente autarchia fascista attraverso viaggi
immaginari in America, grazie alla collana di  Cesare Pavese ed Elio Vittorini per Einaudi. Gli anni Cinquanta e Sessanta saranno poi prendono avvio le grandi sculture pubbliche, non solo in Italia: opere nate in rapporto profondo con la storia, con le dinamiche culturali dei contesti in cui oggi vivono come fossero organismi che mutano nel tempo.   s.m

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Postmoderno addio

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 23, 2011

Una grande mostra a Londra ( e dal 25 febbraio al Mart di Rovereto)  indaga vent’anni di Postmodernismo. Ma fu vera sovversione lo stile teorizzato da Lyotard e che aveva le sue radici pià antiche nel Sessantotto?

di Simona Maggiorelli

Fred and Ginger Building, Praga

Architetture come giganteschi oggetti di design e opere d’arte come luccicanti gadget. La storia usata come un enorme serbatoio di stili da cui pescare citazioni da riusare poi del tutto decontestualizzate. Arrivando, in architettura, fino ai più bizzarri e dissonanti assemblaggi di colonne doriche, verticalità gotiche, e ornamenti neobarocchi.

Il pastiche è stato il linguaggio per antonomasia del Postmoderno, che ha imperversato per oltre un ventennio nell’Occidente globalizzato. In arte come in letteratura. Basta pensare ai romanzi di DeLillo, di Pynchon o di Foster Wallace. E oltre.

Come documenta la mostra Postmodernism 1970-1990 che, dopo Londra, dal 25 febbraio arriverà al Mart di Rovereto, il Postmoderno ha visto l’esplosione della contaminazione fra i linguaggi con spettacoli multimediali e videoclip caratterizzati da ibridazioni, eclettismo senza limiti, giustapposizioni ossimoriche, ricerca dell’effetto choc, in modi derivati dal Dada e dal Surrealismo. Ma anche mutuati dalla Pop art, per quanto riguarda l’estetizzazione della merce e il riuso di meccanismi di comunicazione pubblicitaria tipici del capitalismo Usa.

Arti-star come Jeff Koons o Damien Hirst, come è noto, hanno perfezionato questa tecnica lucidamente, arrivando con i loro Bunnies gonfiabili e gli squali in formalina a toccare quotazioni d’asta miliardarie. E se Andy Warhol come scrive Marc Fumaroli nel suo caustico Parigi-New York e ritorno (Adelphi) «era un guardone, spinto da un arrivismo e da un’avidità divoranti», gli artisti del Postmoderno lo hanno superato diventando indefessi «plastificatori», artefici di «un’arte parassitaria», che usa il plagio come strategia principe. Un esempio per tutti: le celebrate quanto sovraestimate opere cartellonistiche di Richard Prince, diventato famoso per aver ripreso una pubblicità della Malboro in cui campeggia un americanissimo cowboy a cavallo. Eclatante esempio di Postmoderno plagiario con cui Prince ha sbancato, avendo avuto l’astuzia di depositare il copyright della sua “variazione sul tema”, in modo da mettersi al riparo dalle rimostranze del negletto fotografo autore della foto clonata.

Richard Prince cowboys

Un sistema di specchi, di citazioni che disconoscono la fonte e poi ricombinate in modo da creare nello spettatore un senso di spaesamento e l’impressione di un “nuovo” che invece non c’è. «A questo stadio di cinismo – scrive Fumaroli – la riproducibilità meccanica delle opere d’arte dicui si lamentava Benjamin negli anni Trenta raggiunge proporzioni alla Borges».

Ma da dove nasce questo micidiale attacco che il Postmoderno ha sferrato nei confronti dell’arte, svuotando le immagini di senso, rendendole piatte, iperrealiste come sogni lucidi? Secondo Fumaroli, nello spaccio generale di prodotti di consumo globale contrabbandati per arte molta responsabilità hanno avuto quei critici e quei pensatori che, a partire dalla celebrazione degli orinatoi di Duchamp sono arrivati a legittimare la trasfigurazione del banale operata da Warhol.«I pratical jokes di Duchamp – scrive Fumaroli – sono diventati, grazie ad una esegesi consecutiva alla valutazione commerciale, un sistema universale di legittimazione, di autorizzazione e di omologazione adatta a qualsiasi cosa». Ma forse non basta per comprendere la deriva che le arti visive stanno vivendo oggi in Occidente. Di recente denunciata in un appassionato pamphlet anche da un altro critico francese di spessore, l’ex direttore del Museo Picasso, Jean Clair che ne L’inverno della cultura (Skira) stigmatizza il gusto perverso per il raccapricciante, per l’immondo e l’ostentata distruzione dell’umano che esprimono artisti di grido come Paul McCarthy con le sue “sculture di escrementi” e rappresentazioni di uomini e donne obesi e in disfacimento. Ma questo non è che l’aspetto più di superficie del coraggioso J’accuse di Clair contro la totale perdita di fantasia che connota le arti visive che vanno per la maggiore nei circuiti internazionali dell’arte, dal MoMa alla Tate, al Pompidou.

Venturi, Postmodernism

Un J’accuse che, curiosamente, gli è costato pesanti controaccuse di conservatorismo da parte di una critica di sinistra (da Dorfles a Bonami in Italia) che ancora si ostina a non voler vedere nel Postmoderno e nei suoi epigoni l’insana miscela di istanze ribellistiche e insieme apologetiche del tardo capitalismo che ne costituisce la base. Una intellettualità di sinistra che ancora non vuol vedere «la confusione ideologica del Postmodernismo che mescola la pulsioni del ’68 con l’età di Reagan». Come ha scritto sul Corsera un architetto come Vittorio Gregotti che da trent’anni si oppone al caos sessantottino di quel Postmoderno, teorizzato da Lyotard ne La condizione postmoderna (1979), ma che ha radici nel pensiero di Foucault, di Deleuze, di Derrida.

Un Postmoderno che, in consonanza con la protesta antiautoritaria e antidentitaria di Foucault, ha portato a una suicidaria «liberazione dai vincoli della realtà», alla rinuncia del potere conoscitivo dell’arte, al decostruzionismo più nihilista, all’estetizzazione della menzogna. E nelle arti performative all’esaltazione euforica del transgender e del cyborg mutante. Mentre nelle arti visive ha favorito un micidiale svuotamento delle immagini, del tutto annullate poi dall’iperrazionalismo dell’arte concettuale. «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione», chiosa su Repubblica Maurizio Ferraris, riprendendo i fili della querelle fra Postmodernismo e nuovo Realismo che il filosofo torinese ha lanciato la scorsa estate e che ora si riaccende su Alfabeta 2. «Solo che – aggiunge – riguarda solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale, mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove». La cosa interessante a questo punto sottolinea Ferraris, e noi con lui, «è chiedersi cosa ci sarà dopo e se il dopo è già qui».

da leeft-avvenimenti

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Macro in movimento

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 25, 2010

Per la prima volta in Italia le “sculture”disegnate dell’inglese Antony Gormely

di Simona Maggiorelli

Gormerly, Macro

Nel nuovo millennio, l’arte del disegno , specie quello figurativo, sembra essere scomparsa. Non ne incontriamo traccia, o quasi, nei musei che più fanno tendenza, dal MoMa di New York al Pompidou di Parigi. In queste sale internazionali (tutte quante stranamente appiattite su uno stesso tipo di estetica tardo pop o concettuale) primeggiano le installazioni multimediali, le opere di videoarte e le sculture polimateriche di grandi dimensioni: realizzazioni diversissime ma che in comune hanno un forte impatto visivo e altamente spettacolari.

Quanto di più lontano, insomma, da un’arte artigianale, sensibile e discreta come quella che richiede il disegno, che geni del Rinascimento come Leonardo e Michelangelo ancora consideravano indispensabile. Così, con questa consapevolezza e questa inevitabile retroterra culturale, entrando nelle sale del nuovo Macro di Roma dove l’inglese Antony Gormley ha allestito la mostra Drawing space, non si può che rimanere sorpresi e colpiti.

Niente bigness trionfante, niente “opere mondo” che per dimensioni e gusto difficilmente potremmo immaginare in una abitazione privata, ma solo il fluire continuo e danzante di una vitale linea nera con cui Gormley crea originali sculture disegnate. Vorticosi gomitoli di linee che fanno pensare a mondi immaginifici e giocosi. Oppure sculture “elastiche”, dinamiche, che tratteggiano esseri umani in movimento.

Sono le immagini “in movimento” di ottanta tavole che l’artista inglese ha realizzato dal 1991 ad oggi e che, con bella scelta in controtendenza, il direttore del museo Macro Luca Massimo Barbero ha deciso di esporre per la prima volta in Italia, in un grappolo di iniziative espositive che proseguono fino al 6 febbraio 2011.

da left-avvenimenti , 12 novembre 2010

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Van Gogh e i colori della notte

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 1, 2010

seminatoreDopo l’anteprima al MoMa di New York, dal 13 febbraio ad Amsterdam una mostra racconta la ricerca sul “buio” del genio olandese

 

di Simona Maggiorelli

 

«Ho passeggiato di notte lungo il mare sulla spiaggia deserta, non era ridente, ma neppure triste… era bello…». L’orizzonte ha tutti i toni del blu, fino al viola e un movimento continuo di riflessi. «Mi sembra – scrive Van Gogh dalla Provenza al fratello Theo – che la notte sia più vivae piena di colori del giorno». Il buio non cela, ma avvolge e rende visibile l’invisibile. In modo più calmo, più dolce. Per Van Gogh la notte ha altrettanti e forse più toni e sfumature del giorno. E la esplora senza timore, per le immagini più calde e umane che schiude. Lo fa ad Arles ma anche a Saint Rémy dipingendo all’aperto la celebre Notte stellata (1889); il cavalletto piazzato en plein air senza che il risultato finale poi abbia nulla della piattezza di un quadro naturalistico. Ma anche senza naufragare nelle atmosfere nebbiose e nelle dissolvenze di Monet e del post impressionismo. La rapprsentazione di tramonti, di crepuscoli e di scene notturne, inquiete e solitarie, ha nella pittura Van Gogh la forza di una presa immediata sul senso più profondo del vissuto. Che si esprime nella potenza di immagini percorse da vortici di blu oltremare, innervate di linee di colore. Come se chiese, case e persone, dalle forme sghembe, poeticamente deformate, fossero animate dal sentire dell’artista. Così in capolavori come Notte stellata la struttura interna del quadro (che durante gli anni di apprendistato in Olanda traccia meticolosamente) magicamente svanisce agli occhi di chi guarda l’opera finita. «Per quanto questa tela rappresenti un apice assoluto nell’arte di Vincent Van Gogh curiosamente lui non ne era soddisfatto» ci racconta Joachim Pissarro (discendente di Camille) e curatore, insieme a Sjraar van Heugten e Jennifer Field, della mostra Van Gogh e i colori della notte che si è aperta  il 13 febbraio al Museo Van Gogh di Amsterdam, dopo un’anteprima al MoMa di New York. «Nel settembre del 1889 Vincent descrive questo quadro a Theo come un semplice studio sulla notte. E il fratello condivide da subito la sua insoddisfazione» nota Pissarro. Theo apprendeva dagli scritti di Vincent che cercava di rappresentare “il reale sentimento delle cose” ma non ne capiva il senso più profondo. Nelle sue lettere Vincent Van Gogh cercava di “ammorbidire” il fratello Theo prima che i quadri fossero sottoposti al suo giudizio critico di mercante. vangogh-starry_night_ballance1Ben sapendo che isuoi quadri non potevano essere spiegati a parole, Van Gogh non poteva o non voleva capire che dall’occhio invidioso (o forse addirittura lucido e freddo) di Theo, che gli dava uno stipendio per sentirsi “sano”, non gli sarebbe mai potuto arrivare nessun vero riconoscimento. Ma per fortuna o sfortuna di Vincent il suo modo di scendere a compromesso nelle lettere e nei rapporti non era quello che usava nell’arte. E già molto prima di Notte stellata e forse prima ancora del più “romantico” Cielo stellato sul Rodano del 1888 Van Gogh aveva già completamente superato la pittura degli impressionisti,che pure a un primo incontro a Parigi era stata di stimolo per queltotale rinnovamento che il pittore olandese fece nel 1886: d’un tratto realizzando una nuova immagine e rinnovando del tutto la tavolozza, sostituendo ai toni scuri e terragni del notturno ritratto in un interno di Mangiatori di patate (1885) un arcobaleno di riflessi brillanti. Nella casa gialla di Arles dove poi l’avrebbe raggiunto Gauguin per una breve e difficile convivenza, Van Gogh aveva maturato pienamente la consapevolezza che quella degli impressionisti era una strada troppo arida e che era tempo di riprendere a sperimentare sulla scorta delle suggestioni vive dalla vita del Sud e studiando il geniale uso di luci e colori di Delacroix. «Non mi stupirei molto – annotava Van Gogh in quegli anni – se tra un po’ gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di fare, che deve alle idee di Delacroix molto più che alle loro. Infatti – aggiungeva il pittore olandese – invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo del colore in modo più arbitrario di loro, per l’intensità dell’espressione». Da qui concretamente parte il lungo viaggio nella notte di Van Gogh studiato da Joachim Pissarro e al centro della mostra di Amsterdam; una ricerca che, dormendo di giorno, in poco più di 48 ore, per esempio, portò il genio olandese a realizzare opere come Caffè di notte (1888 ) in una ridda di gialli, rossi sangue e acidi verdi. E poi il ritratto del poeta Eugène Bloch che si staglia contro la “speranza” di un cielo infinito di stelle. E ancora Paesaggio con coppia che cammina e luna nascente del 1890, l’“onirica” e vibrante Chiesa di Auvers (1890), ma anche l’astratto e violaceo seminatore del quadro intitolato Notte (da Millet) del 1889 che racconta tutta l’enorme distanza che c’è fra le prime opere di Van Gogh (in cui ancora studiava forsennatamente la tecnica del disegno e “copiava” dai maestri del realismo come Millet e Corot) e quelle dell’ultimo periodo, che paiono aver subito una imprevista torsione fantastica; distanza fra l’inizio e la fine della parabola artistica di Van Gogh che si bruciò nell’arco di pochissimi anni e che è stata documentata dalla mostra curata da Marco Goldin Van Gogh, disegni e dipinti nel complesso di Santa Giulia a Brescia, con una nutrita serie di schizzi, bozzetti, acquerelli, litografie dalla collezione del Kröller-Müller museum. «Di solito si pensa che Van Gogh ia stato un pittore audace, istintivo, un po’ naif – commenta Joachim Pissarro – ma anche nei quadri dell’ultimissimo periodo, quelli che appaiono più febbrili e visionari, si vede la sua intelligenza al lavoro. Nonostante l’angoscia e le crisi mentali che lo attanagliavano, Van Gogh non smise mai di avere piena consapevolezza del suo lavoro. E la sua fantasia, nei momenti in cui riusciva a dipingere, non ne fu intaccata». Lo dimostrano, insieme agli accecanti ritratti di contadini che sembrano soccombere alla luce mentre la campagna arde e impazza di gialli, di turchese e di neri, anche le ultime inquietanti e vertiginose visioni di campi di grano solcate sinistramente da corvi neri. «Ma ancor più a mio giudizio lo dimostrano le umbratili e più delicate scene notturne – conclude Pissarro – costruite su una vastissima conoscenza letteraria, sullo studio di Rembrandt e Delacroix, ma anche e soprattutto misurate su una non comune sensibilità d’artista». Left Avvenimenti 4/09

 

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ABO e i portatori di tempo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

di Simona Maggiorelli

Picasso, disegni di luce

E’ dedicato a tutti i grandi «portatori del tempo» il nuovo progetto editoriale del curatore e critico d’arte Achille Bonito Oliva. Ovvero a tutti quegli artisti, scienziati, filosofi, registi, compositori e scrittori che nel corso del Novecento hanno inaugurato un modo nuovo di sperimentare la dimensione del tempo. Che per le avanguardie storiche, per esempio, diventò d’un tratto simultaneità, sinestesia, improvvisa connessione di senso, alla velocità fulminea dell’intuizione. E questo non solo nel dinamismo della pittura futurista e nei primi esperimenti cinematografici di Balla e Bragaglia. O nelle danzanti composizioni astratte di Kandinsky.

Ma anche in settori come la musica che, con la dodecafonia, rompe la linearità di una partitura classica iscritta in un movimento ritornante e prevedibile. Per non dire poi del romanzo che, da Kafka a Joyce, abbandona la grande narrazione descrittiva ottocentesca per aprirsi a improvvise epifanie, per farsi torrenziale racconto interiore (il cosiddetto stream of consciousness). E molto oltre.  Andando ancora più a fondo con la visionarietà potente di prose liriche che trascolorano i contorni intagliati e secchi della percezione razionale.

Proprio ricercando i segni di una diversa dimensione del tempo nelle arti del XX secolo,  Achille Bonito Oliva ha ideato per Electa una Enciclopedia delle arti contemporanee, di cui il 3 settembre al festival della mente di Sarzana presenta il primo libro, dedicato al tempo comico; un volume a più mani (tutta l’opera si avvale di un team di giovani esperti) sulla cui copertina campeggia il celebre telefono di Dalì con una rossa aragosta al posto della cornetta. Un lavoro letteralmente sconfinato dacché studia come sono mutate la letteratura, la musica, la pittura, l’architettura, la videoarte, il cinema, la musica, il teatro in base «all’incursione di una nuova temporalità nel processo creativo e nella fruizione dell’opera».

Ma non è un’enciclopedia di tutto lo scibile, mette le mani avanti ABO. «Piuttosto è un progetto direzionato – dice – concepito seguendo il filo di un pensiero elaborato in vent’anni di studi che mi hanno fatto rendere conto di quanto il tempo sia il “frullatore” di ogni specificità linguistica, producendo una rivoluzione non solo linguistica, direi proprio antropologica nel contemporaneo». A questo si intreccia l’analisi dei cambiamenti apportati dallo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie nel Novecento e che, nelle mani degli artisti, sono diventate mezzi per dilatare e accorciare la sensazione del tempo. E più in generale strumenti per allargare le potenzialità espressive «facilitando – ricorda ABO – l’avvicinamento fra discipline umanistiche e scientifiche ma anche esperimenti di commistione dei linguaggi».

Fra le sue declinazioni della temporalità spicca «il tempo interiore» affermato da alcuni artisti, ribelli alla mimesi. Picasso ne fu “il campione”?
Certamente ma anche alcuni surrealisti hanno esplorato questo ambito, evocando una fantasia che promana dal profondo. Ma nel caso di Picasso senz’altro ci troviamo davanti a una soggettività molto forte. In lui c’è quasi un furor, una straordinaria capacità scompositiva e compositiva – pensi al periodo del cubismo analitico -. Il suo è un modo personalissimo di rappresentare il tempo interiore.

Un modo di rappresentare che obbliga lo spettatore a un cambiamento?
L’irruzione del tempo interiore elimina ogni elemento di contemplazione, spinge al movimento, favorisce “una guardata curva”. C’è una voluta incompiutezza nell’arte contemporanea. Che non ha nulla a che vedere con il non finito di Michelangelo (dovuto al pensiero che l’uomo è un demiurgo terreno che non ha la forza del divino). L’arte contemporanea chiede allo spettatore una partecipazione attiva, nel creare  la sua visione completa.

Per questo primo volume sul tempo comico dice di aver preso spunto da Nietzsche.  In che modo?
Nietzsche parlava di un tempo comico come tempo dell’irrilevanza, della fine del valore della cosa in sé, come tempo della vita immediata, opposto allo spirito assoluto. Da qui ho ricavato lo spunto per l’esplorazione di alcune figure del tempo comico.

Cita anche Giordano Bruno come anticipatore di molti di questi temi.
Tornando a leggerlo mi sono reso conto che, pur nella sua concezione neoplatonica, dà importanza alla vita. C’è un forte privilegio della materia. è una strana figura Bruno, di santo e di eversore. Il suo linguaggio ha una nota di erotismo. Ama trasfigurare. E poi Bruno è caparbio. Finì al rogo per non voler dire una parolina che Galileo, invece, si lasciò sfuggire subito. Bruno ricorre alla follia per uscire dal logos occidentale.

Alla follia dell’arte, intesa come coraggio creativo, lei dedica una mostra a Ravello. In questo sistema globalizzato dell’arte dominato da un’estetica occidentale che lei stigmatizza come «puritana, razionale, asettica» c’è ancora spazio per chi fa ricerca?
Sì, ma a prezzo di una inevitabile solitudine. In questo senso parlo di follia. Come capacità di un artista di prodursi in nuove forme che intercettano e bucano l’immaginario collettivo, oggi, sempre più anestetizzato, votato a una sensibilità superficiale. Viviamo ancora in tempi di post modernità. Sono cadute le vecchie ideologie ma domina il sistema dell’arte delle sette sorelle (il circuito che va dal MoMa alla Tate, al Centre Pompidou ndr). E tutti aspirano ad andare a esporre in quei sancta sanctorum, secondo quegli standard. Con le mostre, con questa enciclopedia, da parte mia, non smetterò di massaggiare i muscoli  atrofizzati della sensibilità del pubblico.

da left-avvenimenti del 26 agosto 2010

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Gli anni zero dell’arte

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 26, 2010

di Simona Maggiorelli

Punta della dogana, venezia

Jeff Koons, tulips

Nell’ultima decina d’anni il mondo dell’arte ha conosciuto una vita frenetica. Una crescita esorbitante del mercato, che ha risentito relativamente della bolla economica perché l’arte è stata vista dalle élite come bene rifugio.

Ma al tempo stesso- ecco il fatto positivo- con le nuove biennali del Sudest asiatico e africane, (che hanno rafforzato la tendenza glocal delle Biennali di Venezia e di Berlino)  il circuito delle proposte si è internazionalizzato e molte frontiere sono cadute. Così molti artisti di talento provenienti da Paesi poveri hanno potuto farsi conoscere all’estero: dalle Filippine all’Africa nera.

Un fenomeno di allargamento del canone internazionale dell’arte che ha coinvolto grandemente anche un paese in ascesa economica come la Cina, anche se  in questo orizzonte globalizzato del nuovo millennio  l’Impero celeste si è limitato a riversare sul mercato occidentale e orientale una piatta e seriale produzione new pop.

E non pare un fatto  causale. Se è vero, infatti, che il mondo dell’arte si è allargato geograficamente è altrettanto vero che il pensiero egemone nel mondo dell’arte degli ultimi dieci anni è stato, pervasivamente, quello anglo-americano: fra assordanti riedizioni della pop art e nuove ondate di razionalismo puritano dal Nord Europa in veste di minimalismo concettuale. Curiosamente…. come opposte facce di una stessa medaglia.

 

Biennale Venezia diretta da Birnbaum

Le sette sorelle. Nell’orizzonte globalizzato- nota Achille Bonito Oliva – Metropolitan, Whitney, MoMa, Guggenheim, Tate Modern, Centre Pompidou e Ludwig in Germania, le cosiddette sette sorelle impongono il pensiero unico dell’arte degli anni duemila. “I curatori di queste istituzioni – prosegue Abo- si passano gli artisti e stabilizzano così un movimento senza movimento… di fondo il prodotto che emerge in questa circolazione bloccata è sempre analitico, astratto, tecnologico, legato alla cultura puritana anglosassone, ad una sensibilità per cui il genius loci è azzerato e ad emergere è sempre il segno forte dell’arte e della cultura americana”. L’ultima Biennale di Venezia curata nel 2009 dallo svedese Daniel Birnbaum, nonostante le migliori intenzioni che emergevano fin dal titolo Fare mondi,ne è stata un esempio lampante: negli spazi della Biennale il respiro bloccato di una esposizione politically correct, quanto anemica, ecumenica quanto frutto di una raggelata e spinoziana geometria delle passioni. Mentre negli spazi di punta della Dogana andava in scena il volto glamourous, sprezzante delle misure e dei costi, dell’arte -gadget  di marca anglo americana.

 

Marc Queen Kate Moss as Syren

Ma, al fondo, che cosa è davvero accaduto in questo primo decennio degli anni zero del nuovo millennio?

Se l’angelo di Klee, mentre è rapinosamente trascinato verso il futuro, guardasse alle macerie che gli ultimi anni hanno lasciato dietro di sé vedrebbe soprattutto cumuli di cadaveri e  scene di distruzione. Dalle bombe “intelligenti” di Bush, all’11 settembre, dalla guerra Usa in Afghanistan agli attentati di Mumbay e di Londra… Uno scenario tragico che l’arte contemporanea che ha dominato le scene delle gallerie, delle riviste e delle aste negli ultimi dieci anni (abdicando a se stessa) perlopiù ha bellamente ignorato – e non parliamo di cronaca che non pertiene all’arte – ma  nella rappresentazione allegorica e traslata. E nelle gallerie che fanno tendenza e poi al Moma come da Christie’s è stato tutto un tripudio di grandeur, di cieca euforia, di scelte estetizzanti e sorde alla complessità e alla drammaticità del reale. Così, eccezion fatta per alcuni artisti giovani o provenienti da aree di crisi del mondo (dall’iraniana Shirin Neshat alla serba Marina Abramovic, all’albanese Adrian Paci, solo per fare qualche esempio) a tenere la scena dal Duemila a oggi sono stati una manciata di ricchi artisti globtrotter come Damien Hirst, Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Marc Queen. A loro è andata pressoché tutta l’attenzione dei media.

E il teschio tempestato di diamanti ideato da Hirst  ( ancora nell’anno 2011 celebrato in Palazzo Vecchio a Firenze) è andato sulle copertine delle riviste patinate, così come un decennio prima le foto delle top model Naomi Campbell e Cindy Crawford. Per tutta risposta, in questo gioco di specchi, Marc Queen ha “incartato” in foglia d’oro zecchino la sua statua-ritratto della modella Kate Moss. Compiacere il pubblico con icone a uso e consumo del nuovo millennio oppure cercare lo scandalo. Il vecchio e consunto Andy Wharol ancora docet. E soprattutto fa vendere.

 

Damien Hirst

Questa è la new religion di Hirst e degli ex Young british artists (YBAs) scoperti alla fine del secolo scorso dal pubblicitario Charles Saatchi, nel frattempo, diventato potente gallerista. E se Hirst si spaccia per il cantore moderno della britannica triade letteraria «la morte, la carne, il diavolo», alla resa dei conti, appare piuttosto come un abile confezionatore di scintillanti oggetti “taumaturgici” per placare la paura di morire di tycoon e finanzieri di alto bordo. La sua, più che arte è “artefattualità”, annota Gillo Dorfles in Fatti e fattoidi (Castelvecchi). «Nei nostri tempi adulterati e massmedializzati – scrive il grande decano della critica – l’importante non è più il vero ma il verosimile. Se guardiamo all’arte degli ultimi anni scorgiamo una quantità di pratiche che sono dubbie». Evidente, sottolinea Dorfles, il camuffamento operato dalla body art (da quella anni Settanta e Ottanta di Orlan a quella cyborg): ci si fanno incisioni sul corpo oppure ci si munisce di elettrodi «per alterare la vera personalità senza acquisirne una nuova». E poi riguardo alle «strategie simulazionali» di Hirst o di Koons, Dorfles sbotta: «Dobbiamo avere il coraggio di dire che si tratta di feticci più che opere d’arte». Del resto come altro giudicare lo squalo in formaldeide di Hirst? «Per coprire un deficit di iniziativa personale – spiega Dorfles – l’arte si fa massimamente spettacolare». E oggi richiede che l’artista sia anche e soprattutto un abile mercante. Il giapponese Murakami in questo caso surclassa tutti con opere come The oval Buddha, una scultura di cinque metri in platino e costata quanto un film hollywoodiano indipendente. Ma per entrare nel gotha degli artisti-re mida della prima decade del XXI secolo, non servono tanto le idee quanto avere fiuto da finanziere. Per cui il solito Hirst ha direttamente venduto all’asta le sue opere (prima che le sue pecore sotto spirito si squaglino) saltando il sistema dei galleristi. Feticizzazione dell’oggetto, il mercato che prende il posto della critica d’arte nel decretare ciò che vale e da parte degli artisti degli anni zero dell’arte perfetta conoscenza di quel processo di mitizzazione che fa di un oggetto uno status symbol. Ma per questo urgono collezionisti con portafoglio “a organetto”.

 

Cattelan, Hitler

I collezionisti di zeri. «Oggi ai collezionisti d’arte non interessa tanto l’opera ma il suo valore» scrive Francesco Bonami in Irrazionalpopolare (Einaudi). E questo non riguarda solo un tycoon come Pinault proprietario di marchi come Gucci e Ysl, nonché patron di Punta della dogana e di Palazzo Grassi a Venezia (dove espone la sua collezione privata fatta di opere monumentali, impossibili da mettere in casa). E non si tratta di un caso isolato nel ristretto quanto facoltoso mondo del collezionismo anni duemila.«Lo spirito di emulazione dilaga» avverte Bonami. Per cui due oligarchi ucraini si sono contesi la tela di un giovane pittore canadese sconosciuto, fino a 13 milioni di dollari «solo per dimostrare chi fra i due era più ricco e idiota». Ecco la logica dei ricchissimi happy few che hanno tenuto in piedi il drogato sistema dell’arte degli anni zero: «Se Pinault ce l’ha, lo voglio anch’io».

 

Cattelan, l'amore salva la vita

Il cattelanesimo, ci spiega ancora Bonami, è stata l’altra religione che ha contribuito al gioco degli art addicted degli anni zero. Il suo idolo è Maurizio Cattelan, quello che si è fatto conoscere con l’asino all’università di Padova per la sua laurea honoris causa e con i fantocci di bambini impiccati in piazza a Milano. Grande provocatore, sapiente manager di se stesso, Cattelan ha riportato l’arte italiana sulla scena internazionale (a ruota sono emersi poi i più giovani Francesco Vezzoli e Vanessa Beecroft). «Maestro indiscusso nel dragare e risputare immaginari», ricorda Andrea Lissoni ne Gli anni zero 2001-2009 (Isbn edizioni) ha diretto con Massimiliano Gioni la Biennale di Berlino del 2006, caposaldo d’invenzione e innovazione. «Il Fiorello delle arti plastiche» sarà il guru dell’arte anche della prossima decade? Gratta gratta, in questo quadro rischia che ci sia da augurarselo dal momento che, in questo circo barnum di nuovo millennio è, stando a Bonami, uno dei pochi «che sa rompere le scatole a una società che dà molto per scontato, violenza ai minori compresa, ma che si ribella quando la rappresentazione di quella violenza gli arriva sotto casa, disturba il traffico e fa rabbrividire le mamme e i babbi con le tasche piene di ovetti kinder e videogiochi dove più se ne ammazzano meglio è».

da left-avvenimenti

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Un artista sulle rotte dei migranti

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 28, 2008

Con mezzi multimediali l’albanese Adrian Paci racconta l’odissea di chi è costretto a emigrare: un epos per immagini. Ad alto tasso di poesia di Simona Maggiorelli

La luce è quella accecante del deserto. Una fila di persone scruta l’orizzonte con speranza. Ma l’atmosfera è immobile. Nessun aereo solca quel tratto di cielo che le separa dal miraggio dell’Occidente. Cambio di scena. Un’imprecisata pista da atterraggio. Come se noi stessi fossimo dentro quel bramato aereo. Attraverso l’obiettivo della macchina da presa vediamo ragazzi, uomini e donne dalla pelle scura che aspettano di salire. Cogliamo ogni piccolo movimento, ogni espressione che si disegna sul loro volto. La fila lentamente avanza. Poi, d’un tratto, tutto si blocca. Il campo si allarga. Al centro della scena, un carrello aereo carico di gente. Ma il velivolo non c’è. Forse non c’è mai stato. Con questo video Centro di permanenza temporanea Adrian Paci ha vinto l’edizione 2008 della Quadriennale di Roma. Un premio che va ad aggiungersi a una lunga serie di riconoscimenti, da quando, appena trentenne, Paci debuttò sulla scena internazionale esponendo nel padiglione Albania della Biennale di Venezia del ’99. Poi sarebbero venute le altre mostre in Italia (vedi la bella monografia Adrian Paci edita da Charta), al MoMa e in giro per il mondo. L’ultima si è aperta il 25 novembre scorso a Tel Aviv. Mentre le sue foto che si fanno pitture e disegno, le sue sculture “viventi” e le sue struggenti opere di videoarte sono sempre più contese dalle gallerie. Dalla sua Adrian Paci ha una pluralità di linguaggi artistici che ha imparato a padroneggiare con destrezza già quando studiava in accademia in Albania. E una tessitura di immagini ricca di riferimenti colti alla storia dell’arte, non solo d’Occidente. Ma l’effetto finale è, spesso, di somma sprezzatura. Semplicità folgorante e una straordinaria intensità poetica sono le cifre del suo epos per immagini che ha per protagonisti i migranti di oggi.

Left 48/2008

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I musei del nuovo millennio

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 15, 2006

Ormai sembrava che il sogno del contemporaneo, a Roma, fosse destinato a svanire. Nonostante la seducente macchina del MAXXI, progettato dall’anglo-iraniana Zaha Hadid, nonostante i grossi annunci, a cui però non sono mai seguiti i necessari investimenti. Progettato nel ’99 il museo del XXI secolo, a agosto, era un cantiere deserto: gli operai in ferie, si diceva, non sarebbero tornati. Ma il ministro Rutelli (ora alle prese con la protesta del suo miglior consulente, il professor Settis, contro il ripristino del silenzio-assenso) almeno una buona cosa l’ha fatta: mettersi in cerca dei circa 60 milioni di euro per completare i lavori. Segnali di disgelo, di ripartita che si leggono anche nel programma di iniziative del direttore del Darc (la sezione architettura del MAXXI) Pio Baldi. In primis l’apertura il 21 settembre, nelle sale di via Reni, della mostra Museums proveniente da Dusseldorf e che, a partire dalla rivoluzione compiuta da Piano e Rogers nel ’77 a Parigi con il Centre Pompidou, racconta il cambiamento radicale del modo di intendere i musei contemporanei nel mondo: non più semplici cubi bianchi, minimalisti, neutri, ma architetture avveniristiche, immagini di fantasia che ridisegnano tutto il paesaggio attorno. Paradigma di questa novità, il Guggenheim progettato da Franck O.Gehry, vorticosa creatura dì titanio che con le sue spirali decostruttiviste è diventata presto un’icona. Tanto da far parlare di “effetto Bilbao”. Ma accanto a progetti come questo, apparentabile per ricchezza di materiali utilizzati al museo del XXI secolo di Dusseldorf, sono nati, più di recente, anche musei capaci di integrarsi nel paesaggio diventando un elemento quasi naturale. È il caso dell’elegante Mart di Rovereto di Mario Botta che ha sconfessato in Italia vecchi pregiudizi sul contemporaneo diventando a tempo di record meta di un turismo culturale attento e che si rinnova di continuo. Seguendo un’ispirazione analoga, accanto alle “grandi cattedrali” come il nuovo Moma newyorkese di Taniguchi e accanto all’astronave in acciaio e cristallo pensata da Coop Himmelb(l)au per Lione, ecco la costruzione “naturale”, con materiali e colori caldi della Catalogna, realizzato da Richard Meir nel ’92 per Barcellona e che è diventata in pochi anni un polo importante di vita culturale e un fòrte centro di attrazione turistica. Attraverso schizzi, bozzetti, plastici e video la mostra Museums racconta questa metamorfosi dei musei, da semplici contenitori, funzionali a spazi d’invenzione, di fantasia, dove il segno degli architetti si fa sempre più forte e originale. Portando i visitatori in un immaginario viaggio intorno al globo, ma anche proiettandoli nell’orizzonte futuro del MAXXI di Hadid, con le sue linee morbide e sinuose, per scoprire, poi, oltre al futuro dei musei più all’avanguardia, anche alcune piccole perle “hyperlocal” che a sorpresa si scovano qua e là in Italia, come il Man, spazio d’arte d’eccellenza del tutto inaspettato in un paesaggio urbano di una piccola cittadina come Nuoro.

Simona Maggiorelli Left

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Biennale dell’anno del dragone

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 11, 2005

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Il boom dell’arte cinese. Dopo le collettive di Roma e Bologna , l’epicentro è Venezia

di Simona Maggiorelli

caiguoqiangQualcuno l’ha già ribattezzata “Biennale dell’anno del dragone”. Di certo, al di là dei risultati della collettiva organizzata in laguna dall’artista cinese Cai Guo Quiang, è storico lo sbarco della Repubblica popolare alla Biennale di Venezia. Dopo la ventina di artisti cinesi dell’edizione del ’99 diretta da Szeemann e, dopo il successo della sezione cinese intitolata “zona di urgenza”, dell’ultima Biennale di Francesco Bonami, da oggi per la prima volta la Cina ha un suo padiglione permanente nel Giardino delle Vergini. Uno spazio all’aperto dedicato all’arte e all’architettura cinese e che – il direttore della Fondazione Biennale David Croff lo ha già annunciato – sarà allargato negli anni a venire. L’ingresso in Biennale della Cina suona come un riconoscimento ufficiale alla multiforme creatività degli artisti cinesi delle ultime generazioni. Pittori, performers, videomakers che anche in Italia cominciano a interessare un pubblico non più solo di nicchia. In un moltiplicarsi di mostre e iniziative. Dopo la collettiva al Macro di Roma e a Bologna e dopo varie rassegne di fotografia, due mostre aprono i battenti, quasi in contemporanea, a Torino e a Milano. Il torinese palazzo Bricherasio, dal 23 giugno al 28 agosto, ospita le opere di 13 artisti di quella avanguardia cinese che alla fine degli anni Settanta segnò un distacco dallo stile accademico maoista, scegliendo un modo di rappresentazione della realtà spesso ironico, libero, spiazzante. Dal 29 giugno al 2 ottobre, invece, nello spazio Oberdan di Milano, Daniela Palazzoli presenta la mostra La Cina: prospettive d’arte contemporanea: attraverso le opere di 70 artisti emersi fra gli anni Ottanti e Novanta, un articolato tentativo di cogliere e raccontare il movimento che attraversa, da una trentina di anni a questa parte, il panorama dell’arte contemporanea cinese. «Un panorama estremamente multiforme e variegato», racconta Filippo Salviati, docente di storia dell’arte dell’Estremo Oriente alla Sapienza. «Anche se – stigmatizza – arriviamo buon ultimi». Buoni ultimi nell’interesse verso l’arte contemporanea cinese dopo almeno un decennio di importanti mostre e retrospettive promosse dal MoMa di New York, dal Centre Pompidou, ma anche dalle gallerie di Londra e di Amburgo.

woon-kar-wai-in-the-mood_loveCon un interesse crescente, anche sul piano commerciale. Che ha toccato l’acme nelle aste del dicembre scorso con quotazioni di opere cinesi contemporanee da capogiro. Una crescente attenzione verso la Cina che si misura anche in termini di spazi sui giornali. «Negli ultimi anni la Cina è diventata la prima potenza sul piano economico e commerciale – dice il sinologo Federico Masini, preside della Facoltà di studi orientali della Sapienza –. Ora la scommessa riguarda la cultura. Si tratta di vedere se la Cina riuscirà anche ad esportare modelli culturali». Nonostante il cinema di Zhang Yimou o di Kar Wai, il pianeta Cina, sul piano dell’arte e della letteratura, è ancora in buona parte da scoprire in Occidente. «Ma in futuro – spiega Masini – anche attraverso la diffusione di arte giovane e d’avanguardia le cose potrebbero cambiare». E chissà – avverte – forse potrebbe anche risultare imbarazzante per la vecchia Europa, «dal momento che la Cina, come il Giappone mette in circolazione modelli culturali senza un’ideologia religiosa retrostante ». Una cultura quella cinese libera da vincoli ideologici, ma insieme con nessi strettissimi con una tradizione millenaria. «La sperimentazione artistica cinese, negli anni dopo Tiananmen, ha avuto uno sviluppo fortissimo», racconta Filippo Salviati. Una ricerca che ha riguardato un po’ tutti i generi e gli stili: dalla calligra fia alla videoarte. «Dal punto di vista dell’arte il panorama cinese si presenta estremamente sfaccettato – dice lo storico dell’arte che per Electa sta scrivendo il primo manuale guida all’arte cinese contemporanea –, ma con alcune costanti e specificità fortissime. A partire dal nesso scrittura pittura che in Cina affonda le proprie radici nell’antica arte della calligrafia, che oggi si trova declinata e riproposta in forme nuove e di avanguardia». Il rapporto con le immagini è un aspetto fondamentale della cultura cinese, anche a partire dalla scrittura fatta di ideogrammi. «Al di là del fatto che in questo momento favorevole qualcuno provi a cavalcare la tigre producendo opere facili da vendere ma di dubbio valore, la grande arte cinese – spiega Salviati – non è quasi mai ludica, non conosce la decorazione fine a stessa. Spesso gli artisti realizzano immagini così dense di significati da apparire dei rebus agli occhi occidentali». Il segreto per comprenderle? «Bisogna coglierne il nesso con il retroterra culturale – conclude –. Ma se non si hanno le basi linguistiche sfugge moltissimo del messaggio. Per questo credo sia importante che comincino ad uscire, anche in Italia, strumenti di seria divulgazione».

Da Europa 11 giugno 2005

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