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Nelle trame di Boetti

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 21, 2013

Alighiero Boetti, mappa -ricamo

Alighiero Boetti, mappa -ricamo

Sapeva ricamare le mappe dell’invisibile. E far incontrare tradizione e  avanguardia. Da Londra a Milano e Roma, un trittico di mostre per riscoprire Alighiero Boetti

di Simona Maggiorelli

Con un certo gusto per la provocazione Alighiero Boetti – nome di punta dell’avanguardia italiana del secondo Novecento – amava fare scelte alquanto inattuali. Come andare a vivere in sperduti villaggi afgani, negli anni Sessanta e Settanta ancora senza elettricità e acqua corrente, per apprendere l’arte antichissima della tessitura di tappeti. E, fatto piuttosto insolito per un uomo nato nel 1940, amava anche tramestare tra antichi testi esoterici e di alchimia. Per ricavarne poi opere d’arte che parlavano in modo sorprendente del tempo in cui viveva e dei suoi più drammatici punti di crisi.

Sono nati così i suoi grandi quadri ricamati che raccontano, in colori vivaci, la trama geopolitica degli anni della guerra fredda, le contrapposte ideologie che facevano a fette il mondo, innalzando muri, confini e cortine di ferro. E già disseminavano cacciabombardieri nei cieli come fossero aeroplanini di carta.

Con sorprendente intuizione nelle sue lievi, vaste, tele azzurre punteggiate dai fari lucenti di aerei stilizzati, Alighiero Boetti già preconizzava un futuro di guerre “chirurgiche”, estetizzate dai mass media e spacciate per innocui videogiochi.In un agghiacciante scambio fra reale e virtuale.

Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo

Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo

Il suo celeberrimo acquerello e spray oro su carta fotografica intelata Aerei-cieli ad alta quota realizzato nel 1989 ed esposto fino al 22 marzo nello Studio Giangaleazzo Visconti di Milano (insieme ad altre trentasei opere di Boetti) ancora oggi ci appare come una folgorante rappresentazione per immagini di questo fatuo e micidiale modo di giocare con le vite umane: quasi fossero banali puntini di un tiro a segno. Come tragicamente è accaduto durante le guerre in Iraq che hanno prodotto immani stragi di civili. Fece in tempo a vederne i primi funesti capitoli l’artista torinese prematuramente scomparso nel 1994.

La retrospettiva che il MAXXI di Roma gli dedica, dal 23 gennaio al 6 ottobre (catalogo Electa), offre l’occasione per approfondire questo filo rosso di denuncia della guerra che attraversa tutta l’opera dell’artista torinese. Ma anche la sua indiretta critica ai processi di “disumanizzazione” che in modo invisibile operano nelle società del capitalismo avanzato: in cui il tempo è denaro e si è costretti a mettere a valore ogni aspetto di sé per sopravvivere.

Nasce da questo sguardo lungo e corrosivo sulla società contemporanea, per esempio, l’installazione che nei mesi scorsi è stata il fulcro della antologica che la Tate di Londra ha dedicato a Boetti. Una strana scultura composta da una semplice scatola e una lampadina che si accende solo per 11 secondi all’anno. In modo casuale. Senza programmazione. Sperperando il tempo, in modo anti funzionale, in attesa di una imprevedibile illuminazione. Un’opera, insomma che, si potrebbe anche leggere come un auto ritratto dell’artista come perdigiorno. Ma a guardare meglio vi si può anche rintracciare un’ allusione a quel gesto rivoluzionario che, nella società dei consumi, è incrociare le braccia per fermarsi a pensare e a sognare. Lui, eccentrico, elegante, instancabile viaggiatore, insofferente verso le etichette – di fatto – non avrebbe mai accettato di realizzare opere di denuncia in senso stretto. Se non, come in questo caso, con una buona dose di ironia. E forse proprio questo atteggiamento, questa polisemia, lo ha salvato dall’usura che invece ha corroso tanta arte “agit prop” anni Settanta.

da left-avvenimenti del 19 gennaio 2 febbraio

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Babilonia, la prima metropoli cosmopolita

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012

di Simona Maggiorelli

Babylon, gate of Ishtar

Culla della civiltà e straordinario melting pot di culture diverse, la Mesopotamia nella storia è stata duramente attaccata dall’Occidente. Tanto che per secoli cronache e dipinti l’hanno raccontata come il Male, come terra di peccato e di perdizione. Negando il valore della civiltà babilonese e le sue straordinarie realizzazioni in campo architettonico e culturale. Ma anche quell’intelligente lavoro di riassorbimento del passato sumerico e di reinvenzione delle altre tradizioni che, invece, aveva permesso a Babilonia di crescere rapidamente, diventando fra il II e  il I millennio a C., la capitale di Hammurabi e faro di tutto il Medio Oriente.

Così, mentre i testi cuneiformi la raccontano come città del bene, della convivenza pacifica fra i popoli, ma anche come luogo delle meraviglie, fucina delle arti, della letteratura, della poesia, della astronomia e della medicina, la tradizione biblica  ne ha  tramandato un’immagine deformata, frutto di una perversa rivisitazione ideologica.

E negli affreschi medievali, ma anche in opere di maestri come Bruegel o Rembrandt, gli svettanti ziqqurrat della capitale pagana appaiono tramutati in diroccate torri di Babele su cui si scaglia la maledizione divina, i ricchi palazzi diventano oscuri harem dove si consuma ogni tipo di violenza, i luminosi giardini pensili appaiono inquietanti e labirintici. E questo è accaduto per un arco di tempo lunghissimo, che va dai Salmi fino a Borges con la sua metafisica Biblioteca di Babele. E ancora oltre.

Ishtar/Inanna

Ishtar/Inanna

Come ricostruisce l’archeologo Paolo Brusasco nel libro Babilonia. All’origine del mito (Raffaello Cortina). Un affascinante lavoro multidisciplinare in cui il docente di storia dell’arte del Vicino Oriente dell’Università di Genova ricostruisce la verità storica di Babilonia, mostrando come il mito che l’Occidente ha costruito sia servito «ad esorcizzare le proprie paure» e continui a gettare ombra sul presente. Non a caso uno dei primi capitoli del libro è dedicato a una «autopsia del disastro in Iraq», dopo un ventennio di guerre e l’invasione anglo-americana.

La missione “civilizzatrice e democratica” targata Usa, come è noto, si è tradotta anche nell’occupazione militare del sito di Babilonia, distruggendo ogni possibilità di leggere filologicamente la stratigrafia. Un po’ come se i talebani fossero sbarcati a Pompei, suggerisce il professore. E senza che da parte degli organismi internazionali ci sia stata adeguata attenzione. E oggi, dopo che le truppe anglo-americane hanno lasciato il Paese, cosa sta realmente accadendo? «La situazione è ancora molto inquietante – denuncia Brusasco – Anche perché è impossibile stimare la reale entità dei danni che migliaia di siti archeologici stanno tuttora subendo. Una mia analisi del commercio telematico di antichità mesopotamiche dimostra la presenza di numerosissimi reperti sumerici e assiro-babilonesi verosimilmente finiti sul web in modo illegale. Anche le contrapposizioni etnico-confessionali (tra curdi, sciiti e sunniti etc.) hanno un peso nella mancata tutela del patrimonio culturale: sia la ricognizione dei Carabinieri del nucleo per la tutela che quelle del British Museum sotto l’egida dell’Unesco hanno messo in luce il perdurante saccheggio dei siti sumerici e babilonesi dell’alluvio meridionale (il biblico Eden) da parte di tribù sciite impoverite da anni di embargo e guerre. Per tacere dell’ennesima riapertura “propagandistica” dell’Iraq Museum, cinque mesi fa, in occasione di una mostra sulla scrittura cuneiforme, senza una preventiva messa in sicurezza delle strutture espositi

Tavoletta di argilla babiloneseNel libro Cultural cleansing in Iraq un gruppo di intellettuali scrive che l’invasione anglo-americana è stata un deliberato attacco all’identità storica dell’Iraq. E ha comportato «l’annientamento del patrimonio iracheno e della sua classe». Ma quale minaccia può mai rappresentare Babilonia oggi?

«Questo ed altri importanti siti antichi del Paese- spiega Brusasco-«sarebbero una minaccia in quanto simboli della grandezza del regime sunnita dell’ex dittatore Saddam Hussein che ne aveva fatto delle icone della sua propaganda politica :la cosiddetta mesopotamizzazione dell’Iraq. Distruggere questi simboli, con una vera e propria operazione di pulizia culturale, permetterebbe una riformulazione del concetto di nazione irachena più in linea con gli interessi Usa, per il petrolio e il controllo geopolitico del Medio Oriente. Una nazione che, privata della fierezza della propria memoria storica, diverrebbe uno stato vassallo, asservito agli interessi anglo-americani; i quali del resto non possono vantare un passato altrettanto straordinario.

Nella storia occidentale affiora l’immagine di un Oriente seducente e misterioso. Più spesso però il pregiudizio è stato violento. Il mito della torre di Babele lo testimonia?

I Greci lo vedevano come esotico, non senza una forte seduzione. Le invettive dei profeti contro Babilonia, «la madre delle prostitute», sono state amplificate a partire dalla cattività babilonese dal 597 al 538 a.C. E Babilonia è stata investita dal mito della confusione delle lingue dei popoli costruttori della torre di Babele, nella realtà la ziqqurrat Etemenanki, la “Casa delle fondamenta del cielo e della terra”. Fu un ribaltamento effettivo della realtà storica: la torre era il simbolo della prima città cosmopolita della storia alla cui costruzione cooperarono le migliori maestranze dell’impero, che, al contrario, si comprendevano grazie alla lingua franca dell’epoca, l’aramaico. Ma per gli esuli ebrei la torre era un idolo pagano dedicato al dio Marduk e un affronto al dio unico Jahvè.

Babilonia era la grande meretrice. E Semiramide era la lussuria. L’Occidente era scandalizzato dall’immagine e dall’identità che la donna aveva nella cultura babilonese, dove la stessa dea Ishtar rappresentava una sessualità femminile più libera e “attiva”?

babilonia secondo Brueguel

La «figlia di Babilonia» dei profeti si materializza in una donna in carne e ossa, «la grande prostituta». Vedere Babilonia come di genere femminile, e come corrotta e peccatrice, è una equazione rivelatrice della mentalità che echeggia nella Bibbia. L’esistenza di donne di grande potere in Mesopotamia doveva avere colpito anche i Greci che costruirono il mito della licenziosa Semiramide, la femme fatale costruttrice di Babilonia. L’eroina è un personaggio leggendario, un concentrato di valenze storiche, ispirato alle regine assire (Shammuramat e Nakija) e mitiche, dietro la quale si cela l’energia sessuale e guerriera della dea Ishtar, assai cara alla tradizione popolare babilonese. I profeti ebrei e i sapienti greci, tra cui anche Erodoto, rimasero scandalizzati anche dal costume babilonese della prostituzione sacra: in realtà si trattava di una unione sessuale (la ierogamia) di carattere apotropaico celebrata a Capodanno per rigenerare le forze stagionali della natura. E sottendeva al potere erotico del femminile come elemento culturale primario, lontano da una semplice valenza istintuale: le prostitute erano considerate le principali educatrici degli uomini non civilizzati, e i miti mostrano una sostanziale simmetria tra i sessi, entrambi emersi dalla terra o da un corpo” androgino” (amilu, “essere umano”).

Che differenziava l’ Afrodite greca, Ishtar/ Inanna sumerico accadica e Astarte fenicia?

Originano tutte da una primigenia divinità madre preistorica, la cui valenza sessuale attiva e procreatrice si unisce ad aspetti distruttivi e ctonii, legati all’oltretomba, man mano che si sviluppano civiltà sempre più complesse. L’Inanna/Ishtar babilonese è l’archetipo da cui si generano tradizioni fenicie, greche, romane ed etrusche indipendenti. L’Astarte fenicia è la trasposizione tout court della Ishtar babilonese, l’Afrodite greca ha una valenza legata alla spuma del mare primigenio, mentre Ishtar è anche la stella del pianeta Venere e ha quindi forti connotazione astrale.

Paolo Brusasco

Nel libro lei si occupa del poema d’Agushaya e della danza sfrenata che le era associato. Alcuni aspetti della cultura babilonese possono aver influenzato, direttamente o indirettamente, regioni del nostro Meridione?

«Il leone di Ishtar si è calmato, il suo cuore si è placato». Così chiude il poema dedicato alla Ishtar guerriera, ovvero Agushaya, dal sovrano babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.), dopo avere conquistato il mondo allora conosciuto. Il rito aveva lo scopo di placare il furore bellico del sovrano, come pure appianare le tensioni sociali esistenti all’interno della comunità, dal momento che prevedeva una danza catartica collettiva del popolo in festa. Non possiamo postulare un collegamento diretto con rituali del nostro meridione quali, per esempio, il tarantolismo pugliese, anche se la forma cristianizzata del tarantolismo richiama l’antichissimo sottofondo pagano della Magna Grecia, probabilmente debitore di influssi orientali. Negli ultimi anni risulta sempre più chiaramente la profonda ricchezza di contatti nel mondo antico. Per non fare che un esempio: la recentissima scoperta nel santuario fenicio di Astarte a Tas-Silg (Malta) di un amuleto babilonese di agata, recante un’iscrizione cuneiforme del 1300 a.C., testimonia di incredibili contatti tra Oriente e Occidente la cui natura e dimensione restano in via di definizione. Certo non si può disconoscere il ruolo giocato dai marinai e mercanti fenici nell’esportazione verso il Mediterraneo occidentale di culti orientali quali quello di Astarte/Ishtar, con tutte le implicazioni culturali che ne derivano.

da left-Avvenimenti

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Avventure di carta

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 5, 2011

di Simona Maggiorelli

Marilyn

Viaggiare con la fantasia, avendo finalmente un po’ di tempo da dedicare ai libri e all’approfondimento. Con l’avvicinarsi delle vacanze arriva anche l’occasione buona per nutrire la mente con buone letture. E se la crisi picchia dura e siete fra quegli italiani (uno su cinque dicono le statistiche) che quest’estate resterà a casa, tanto più vale godersela in poltrona, con un buon romanzo o un saggio illuminante. Ecco dunque un vademecum di proposte per tuffarsi in un limpido mare di storie, di idee, di racconti.

Sulle rotte delle tigri della Malesia. Attenzione, attenzione, le tigri di Mompracem sono tornate. E in chiave decisamente antimperialista. Dopo aver raccontato le gesta del Che e quelle di Zapata, Paco Ignacio Taibo II con il romanzo Ritornano le tigri della Malesia (Marco Tropea) si è messo sulle tracce di Salgari riscrivendo – in omaggio al grande scrittore di cui ricorre il centenario della morte – una delle saghe più famose di Sandokan. In questa spassosa reinvenzione Taibo II ripercorre le lotte di indipendenza del Sud-Est Asiatico dall’oppressore occidentale, viste dalla parte di quei ribelli che la letteratura europea storicamente ha sempre tratteggiato negandone l’identità e la cultura. E sulle tracce di Salgari, in termini biografici, si è messo anche Ernesto Ferrero che per Einaudi ha ripercorso la vita travagliata dello scrittore che “Fin da ragazzo amava disegnare le navi, vascelli alberati, cutter , brigantini e più c’erano alberi e vele e sartie più godeva”, racconta Ferrero nel suo libro Disegnare il vento fra i cinque finalisti del Premio Campiello 2011. Il titolo è mutuato da un autoritratto dello stesso Salgari . “ Di sé diceva che amava disegnare il vento; per lui – aggiunge Ferrero – era un po’ come disegnare la libertà, la forza, la vita. Rendere visibile l’invisibile”. E se poi sarete tentati di riassaggiare il gusto della prosa salgariana che accendeva i nostri pomeriggi d’infanzia Einaudi ha appena ripubblicato l’intero ciclo del Corsaro nero in edizione economica.

Passaggio ad Oriente

Dalla Malesia salgariana al fascino dell’Indonesia, un Paese che conta 240 milioni di islamici, ma che è di fatto una nazione dell’identità poliedrica, complessa, meticcia. Ne ripercorre le molteplici e affascinanti facce – dai quartieri più frenetici e ricchi di Giacarta ad isole sperdute ricche di mitologia – la giovane scrittrice indonesiana Nukila Amal nel romanzo Il drago cala Ibi, uno degli ultimi titoli pubblicati dalla casa editrice Metropoli d’Asia, nata da una costola di Giunti . Da qualche mese Metropoli d’Asia veleggia indipendente nel mercato dell’editoria continuando a proporre freschissimi romanzi e noir che raccontano dall’interno come sta cambiando il Sud-Est Asiatico. Un’altra preziosa guida in questa area del mondo è la casa editrice O barra O che ha appena pubblicato un importante libro testimonianza di Win Tin, braccio destro di Aung San Suu Kyi e coordinatore della Lega nazionale per la democrazia. Nel volume Una vita da dissidente risuona forte e coraggiosa la sua voce contro la la violenza della giunta militare al potere in Birmania. E ancora si può idealmente viaggiare in Asia con il giornalista Claudio Landi, (voce di Radio Radicale e autore della trasmissione “L’ora di Cindia”) che con La nuova via della Seta (O Barra O) ci aiuta a capire i repentini cambiamenti di geopolitica che riguardano quell’ampia zona che va dalla Cina all’India. E ancora: il viaggio può continuare con titoli freschi di stampa come Storia dell’India e dell’Asia del sud (Einaudi) dello storico americano David Ludden , come Il Giappone moderno, una storia politica e sociale (Einaudi) di Elise K. Tipton e, per quanto riguarda la Cina, si può ricorrere alla splendida enciclopedia Einaudi in tre volumi di cui è appena uscita la monografia a cura del sinologo Maurizio Scarpari sulle origini della civiltà cinese. Ma per leggere la storia orientale con occhi nuovi, fuori dal pregiudizio eurocentrico, da non lasciarsi sfuggire è anche l’affascinante e complesso ritratto di Gengis Khan che ha tracciato l’orientalista René Grousset nel libro Il conquistatore del mondo ( Adelphi) ricostruendo l’antico tessuto culturale a cui l’indomabile condottiero mongolo ricorse per ammantare di mistero il proprio regno.

Dopo la rivolta del Medioriente

Percorrendo quelle vie che dall’estremo Oriente, fin dall’antichità, arrivavano in Turkemenistan e in Turchia, arriviamo così – pagina dopo pagina – in una delle zone politicamente più calde del momento: il Medioriente delle rivoluzioni giovanili che chiedono maggiori diritti e democrazia. Accade non di rado che le intuizioni degli scrittori precedano gli eventi. E’ il caso dello scrittore algerino Amara Lakhous, conosciuto in Italia per il bestseller Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, che ora ha deciso di ripubblicare per le Edizioni e/o Un pirata piccolo piccolo, quel suo primo e sorprendente romanzo che negli anni Novanta non trovò un editore in Algeria disposto a pubblicarlo perché giudicato troppo franco ( e per questo pericoloso) nel raccontare il malessere della gioventù algerina delusa dalle false promesse del Fronte di liberazione nazionale. Scritto con piglio sagace, da commedia nera, il libro di Lakhous preconizza le rivolte a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. E’ un coraggioso affondo, invece, nella mancanza di giustizia sociale che attanaglia la Siria il potente romanzo dello scrittore dissidente siriano Khaled Khalifa. Un libro dal titolo provocatorio, Elogio dell’odio (Bompiani), e che affresca la dura realtà siriana con gli occhi di una giovane studentessa universitaria cresciuta in una famiglia tradizionale e alla ricerca di una via di fuga dalla violenza dei fondamentalisti. Dalla fiction alla cronaca che talora va crudelmente oltre la fantasia. E’ un messaggio di denuncia fortissimo contro la violenza della teocrazia di Ahmadinejad il libro dell’iraniano Arash Hejazi il giovane medico che il 20 giugno del 2009 cercò inutilmente di rianimare Neda colpita a morte dai cecchini del regime durante la rivolta di piazza contro i brogli elettorali. Con il titolo Negli occhi della gazzella il libro (che è uscito in Italia per Piemme), è stato scritto in Inghilterra dove Hejazi vive da rifugiato, anche grazie all’appoggio dello scrittore Paolo Coelho. Da un medico a un altro medico, autore di un libro-testimonianza toccante e di grande peso politico: Parliamo del ginecologo palestinese Izzeldin Abuelaish che nel suo Non odierò (Piemme) racconta l’attacco dell’esercito israeliano alla popolazione civile palestinese. In un raid, non molto tempo fa, hanno perso la vita anche le sue figlie adolescenti. In queste pagine ripercorre le ragioni che lo spingono a continuare il suo lavoro di medico in quelle zone martoriate cercando di contribuire a un futuro di pace. E ancora due libri pensando all’Iraq devastato dalla guerra americana: il viaggio racconto di un giovane scrittore italiano, Luigi Farrauto, in Senza passare per Baghdad (Voland) e , soprattutto, Addio Babilonia, il romanzo scritto negli anni Settanta dallo scrittore iracheno Naim Kattan e ora pubblicato in Italia da Manni, un libro in cui riaffiora tutto il fascino di una città dalla tradizione antichissima, così come era prima che fosse oppressa dal regime di Saddam e dalle guerre. E , prima di voltare pagina, per chi volesse continuare ad approfondire, il nostro consiglio non riguarda un solo libro, ma una intera collana, la nuova RX di Castelvecchi dove di recente sono usciti titoli come Mediterraneo in rivolta di Franco Rizzi (con la prefazione di Lucio Caracciolo) e L’età dell’inganno del Nobel egiziano Mohamed El Baradei, sulle minacce nucleari e l’ipocrisia delle nazioni.

Se la letteratura si scopre green

Da un po’ di tempo non è più solo la saggistica ad aiutarci a capire i danni che questo sistema di produzione e di consumo sta producendo al pianeta. Di fatto le tematiche ambientali colpiscono sempre più la fantasia degli scrittori. Grandi e piccoli. Da Ian Mc Ewan che con Solar (Einaudi) ha affrontato il tema di una scienza applicata che non sa affrancarsi dalle pressioni di mercato fino a esordienti di talento come la francese Elisabeth Filhol che nel suo romanzo La centrale, (Fazi editore) con stile affilato e lucido, affronta la minaccia che viene dalle centrali nucleari. Un tema che ha ispirato anche il nostro Francesco Cataluccio che nel romanzo Chernobyl (Sellerio) torna idealmente nella cittadina russa dove avvenne uno dei più grandi disastri nucleari e dove la vita, da quel 26 aprile del 1986 , non è più tornata normale. E ancora, è un romanzo di formazione, che si compie drammaticamente sullo sfondo di una discarica il romanzo Corpi di scarto di Elisabetta Bucciarelli pubblicato da Edizione Ambiente. Racconta la storia di un ragazzino cresciuto troppo in fretta fra sacchi di immondizia, acqua sporca e cumuli di ferro rugginoso.

Accanto alla letteratura di denuncia, e quasi in parallelo, per fortuna, fiorisce anche quella che ci invita alla scoperta di angoli ancora miracolosamente intonsi del nostro pianeta, come il libro Luoghi selvaggi (Einaudi) dell’alpinista, docente di Cambridge e collaboratore della BBC Robert MacFarlane che ritrovando il piacere che aveva da bambino nel fantasticare sui luoghi selvaggi della letteratura, ha scritto questo avvincente diario dei suoi viaggi dalle isole Skelligs alle vette di Ben Hope, fra Scozia Inghilterra e Irlanda. E’ un viaggio di esplorazione nella giungla africana, alla scoperta di antichi miti e riti di stregoneria invece Spiriti guerrieri, mappa nell’Africa nera (Corbaccio) del giornalista inglese e inviato di guerra Tim Butcher. Infine, passando dietro lo specchio, con un rocambolesco salto dalla realtà all’immaginazione più visionaria, torna un vecchio sciamano della letteratura sudamericana come Alejandro Jodorowsky tracciando ne Il pappagallo dalle sette lingue (Giunti) un alchemico viaggio nel Cile degli anni Quaranta. E se quel vecchio lupo di mare di Jodorowsky ci invita a guardare a un passato magico e onirico, all’opposto, è un salto nel futuro quello che ci invita a compiere il docente di scienze della terra dell’Università della California , Laurence C. Smith, nel volume 2050 (Einaudi) dove indaga come potrà essere la Terra fra quarant’anni, sotto la spinta demografica, del cambiamento climatico e della globalizzazione.

Intanto, per cominciare a vedere i segni di questi cambiamenti nel nostro presente, Adriano Labbucci in un delizioso pamphlet scritto per Donzelli, invita a fare una cosa semplicissima e alla portata di tutti i portafogli: camminare. Tenendo svegli i cinque sensi, lasciandosi andare, anche se meta come insegnava, da flâneur, Walter Benjamin, lasciando che sia la realtà ad emozionarvi e sorprendervi.Camminare. Una rivoluzione. Promette Labbucci fin dal titolo.

Alla riscoperta del Belpaese

Cammina, cammina, si possono riscoprire le bellezze paesaggiste e artistiche di questa maltratta Italia. Che in barba a cartolarizzazioni e svendite da finanza creativa tremoniana e non, miracolosamente continuano a resistere. Così se quest’estate decideste di calzare un cappello da turista e di avventurarvi fra monumenti e musei avremmo da suggerirvi come suggestivo Baedeker i volumi ( leggerissimi, da portare in tasca) della ottima collana di storia dell’arte “sms” varata da Skira, ma anche l’insolita serie di romanzi brevi ispirati a grandi artisti del passato che sempre Skira ha varato da qualche tempo e in cui si s’incontrano Vita allegra di un genio sventurato, la biografia romanzata di Benvenuto Cellini, carnale e ribollente di passioni, scritta dall’attore Marco Messeri, ma anche il libro, raffinatissimo che Anna Banti dedicò a Lorenzo Lotto e che da tempo era fuori catalogo. Ma anche l’esordio nella narrativa dell’ex soprintendente Pietro Marani che ne Le calze rosa di Salaì immagina Francesco Melzi, allievo di Leonardo da Vinci alla ricerca di un quadro perduto del grande maestro del Rinascimento. E quanto più si apprezzeranno le superstiti bellezze del Belpaese, tanto più si potrà capire l’importanza politica e civile di pamphlet come A che serve Michelangelo?(Einaudi) in cui lo storico dell’arte Tomaso Montanari denuncia l’uso politico e truffaldino che questo governo di centrodestra ha fatto del nostro patrimonio e di libri come Paesaggio Costituzione cemento (Einaudi) in cui l’ex direttore della Normale di Pisa, Salvatore Settis traccia il quadro drammatico dello scempio che si sta compiendo in Italia.

Quel pasticciaccio brutto del Paese Italia

Mentre l’informazione libera è sempre più sotto attacco in Italia molti giornalisti di vaglia si sono dati a scrivere la storia politica dell’Italia dei nostri giorni, offrendo strumenti indispensabili per ripensare episodi bui della nostra storia. Come ad esempio l’assassinio di Carlo Giuliani da parte dalle forze dell’ordine, dieci anni fa al G8 di Genova di cui sono tornati ad occuparsi Guadagnucci e Agnoletto con il libro L’eclisse della democrazia Feltrinelli, ma anche scrittori e letterati di diversa estrazione ( da Carlotto a Balestrini, da Ravera a Voce) nel volume a più mani Per sempre ragazzo, racconti e poesie a dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani edito da Marco Tropea. Per provare a capire qualcosa di più nella sciarada dei poteri forti e deviati che- non da ora – intossicano il Belpaese. Scritto con stile avvincente, quasi da romanzo il libro di Fedetico Varese Mafie in movimento (Einaudi) aiuta a capire come il crimine organizzato in Italia stia conquistando nuovi e inaspettati territori. Ma per capire l’oggi delle lobbies segrete e dei comitati affaristici infiltrati nello Stato una lettura importante, per molti versi sconvolgente, è quella del libro di Anna Vinci La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi: un libro che ricostruisce i taccuini tenuti minuziosamente dalla parlamentare democristiana che ebbe l’incarico di guidare la commissione di inchiesta sulla P2. Ne escono pagine che parlano senza infingimenti del conivolgimento di personalità di spicco della politica italiana e la Anselmi ebbe il coraggio e l’onestà di non tacere anche quando si trattava di esponenti del suo partito , la Dc. Fatto curioso ma non troppo, i risultati di quella indagine furono praticamente insabbiati e solo oggi quelle importanti carte vedono la luce grazie al coraggio di Chiarelettere. Per i tipi della casa editrice milanese di recente è uscito un altro bel libro che ci invita a rileggere pagine ancora importanti e valorose della nostra storia, come la Resistenza. In concomitanta con l’uscita del pamphlet Indignatevi dell’ex partigiano francese Stephan Hassel (di cui Salani editore ora pubblica anche il nuovo Impegnatevi!) , Chiarelettere ha mandato alle stampe la toccante memoria, Ribellarsi è giusto di un altro ex partigiano oggi ultranovantenne, l’avvocato torinese Massimo Ottolenghi. Un libro in cui l’ex militante del partito d’azione, nato da una famiglia di origini ebraiche, ripercorre la vicenda che lo portò ad essere ostracizzato dall’università e costretto a far passare le figlie per pazze per salvarle dal lager, ma anche le battaglie poi da magistrato per la ricostruzione dell’Italia, lanciando un messaggio appassionato ai giovani di oggi perché non rinuncino a lottare per un Paese migliore. E come una lettera aperta ai giovani è scritto lo stringente ed essenziale libro di Stefano Rodotà , Diritti e libertà nella storia d’Italia (Donzelli) editore in cui il giurista ripercorre la vicenda di uno Stato italian nato sotto il segno di un forte dibattito sulla laicità e culminato nella scrittura di una Carta costituzionale fra le più avanzate in Europa e che, dopo straordinarie conquiste come la legge sul divorzio e quella sull’aborto, oggi si vede preda di una politica genuflessa e – per compiacere i diktat vaticani, disposta a fare leggi come quella sul testamento biologico appena passata alla Camera e che lede profondamente i diritti di autodeterminazione dei cittadini. Curiosamente proprio nell’anno in cui si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia fioccano provvedimenti iniqui e liberticidi. Fare la differenza con le passioni che mossero i nostri avi nel Risorgimento può allora essere un sano choc. Andatevi a vedere per esempio, la bella e romanzesca biografia L’isola e il sogno (Fazi) in cui Paolo Ruffilli ripercorre la breve vita di Ippolito Nievo, giovane avvocato e scrittore colto e appassionato, ma anche militante garibaldino, scomparso ahinoi troppo presto nell’impresa dei mille del 1861 poco prima che fosse proclamata l’Unità d’Italia, ma appassionante – fuori da ogni accento agiografico – è anche la raccolta di ritratti di personaggi messa a punto da Lorenzo del Boca in Risorgimento disonorato (Utet), in cui affiora un mosaico di personaggi straordinari che lottarono per rendere l’Italia indipendente dalla tirannide austriaca, ma anche per liberare il Paese dai tanti “tirannelli austriacanti”. Fra questi s’incontra anche un un patriota di Forlì noto come strozzapreti!

( ha collaborato Federico Tulli)

dal quotidiano Terra 2011

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Se l’obiettivo coglie l’invisibile

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 4, 2011

Immagini politiche, incisive, che svelano significati latenti. Nel volume “Decade” Nel volume “Decade” cinquecento
immagini per fare la vera storia dell’ultimo decennio

di Simona Maggiorelli

La cultura delle immagini che va per la maggiore oggi in musei, in mostre e nelle gallerie va letta nell’ambito dell’arte o piuttosto nel contesto dei media edell’informazione?

È la domanda che nasce guardando le fotografie di fortissimo impatto emotivo che sono state selezionate da esperti internazionali per il volume Decade appena uscito, anche in edizione italiana, per i tipi della casa editrice inglese Phaidon. Frutto di una lunga selezione, queste cinquecento immagini squarciano l’ indifferenza e le cautele del politically correct.

Davanti ai nostri occhi scorrono flash, schegge incisive, capaci di andare al cuore di episodi cruciali accaduti nell’ultimo decennio. Benché scattate in situazioni e luoghi lontanissimi fra loro, hanno un tratto in comune: sono immagini fortemente partecipate. Chi ha fotografato o filmato eventi come l’uccisione di civili in Afghanistan o l’attacco alle Torri gemelle, in questo caso, non era certamente uno spettatore passivo.

E non si è limitato a documentare, registrare, riprodurre la realtà meccanicamente. Scorrendo queste potenti sequenze fotografiche colpisce che sia proprio il mezzo nato per ricalcare la realtà a farci vedere al di là del percepito e del visibile. Talora cogliendo anche l’invisibile, ovvero il vissuto profondo di esseri umani che si si sono trovati d’un tratto, loro malgrado,protagonisti di eventi che hanno segnato la storia. In un
momento in cui l’arte contemporanea è perlopiù freddamente concettuale, asettica, o insulsamente decorativa, in un curioso scambio delle parti, sembra essere la fotografia a permetterci di ricomporre, per frammenti, il puzzle intero: un universo di significati nascosti.
Cogliendo in rapida sintesi e con bruciante immediatezza, il senso più profondo delle cose. Così una vicenda criminale come quella dei preti pedofili scandalosamente coperta da Joseph Ratzinger, in “Dacade” è sintetizzata in un ritratto frontale del portavoce vaticano Padre Lombardi che, di fronte all’obiettivo puntato di un fotoreporter,alza le mani come un delinquente colto sul fatto. I curatori di questa monumentale summa del decennio che ci stiamo lasciando alle spalle forse non potevano scegliere una istantanea di chiusura più pregnante.

Ma sfogliando questo volume a ritroso, sono tante le immagini che restano nella mente; come la presenza viva e vibrante di un monaco birmano vestito di rosso che, a mani nude, affronta una fila di militari di regime. Poi, vista con gli occhi di oggi, sapendo della carneficina di civili causata in Iraq dalla strategia Usa “shock and awe” (colpisci e terrorizza), appare agghiacciante il doppio ritratto di Bush e Blair che, forse non pensando di essere immortalati, giocano a fare i duri da film di guerra. Così mentre l’arte si depoliticizza, sono la fotografia , il video e il web a farsi mezzi scomodi, politici, a denunciare il presente con bella ribellione.

Proprio con questo pensiero Germano Celant ha curato la mostra Immagini inquietanti alla Triennale di Milano.Diversamente dall’operazione culturale realizzata da Phaidon con opere di fotografi poco conosciuti o del tutto anonimi (valorizzando l’immagine in sé più che l’autorialità) nella esposizione e nel catalogo Skira che accompagnano questa mostra aperta fino al 9 gennaio, Celant ha scelto di puntare su maestri della fotografia come Alfredo Jaar. E alla fine, a ben vedere, le due iniziative accendono una stessa domanda cruciale: e se la fotografia oggi non fosse più solo riproduzione della realtà ma avesse assunto alcuni aspetti della rappresentazione artistica?

dal left -avvenimenti del 23  dicembre 2010

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Vargas Llosa, un Nobel al Sudamerica liberale

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 9, 2010

di Simona Maggiorelli

 

Mario Vargas Llosa

 

Nel Sudamerica la letteratura è una presenza concreta nella società, un elemento di stimolo alla riflessione pubblica. Da noi il mito della letteratura è molto importante nella vita pubblica e privata. E mi colpisce che qui da voi, invece, la cultura sia scaduta a livello di intrattenimento. C’è una deriva frivola, preoccupante”: così lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa raccontava della sua idea alta di letteratura a margine del Festival Anteprime, in Versilia, dove pochi mesi fa è stato chiamato per parlare del nuovo libro Il sogno del Celta che uscirà a novembre per Einaudi ( che sta ripubblicando tutta la sua opera, e che racconta la storia del diplomatico britannico David Casement che fu amico di dello scrittore Joseph Conrad.

Scrittore raffinato che ha cercato una propria strada fuori dal solco già tracciato del realismo magico sudamericano, giornalista e polemista, capace di interventi spiazzanti e scomodi, sperimentatore di generi assai diversi – dal noir al teatro, dal romanzo storico al cinema- Mario Vargas Llosa (classe 1936) fin dai suoi primi romanzi ha rivelato una vena di impegno civile nella lotta contro il totalirismo e la violenza, suscitando non di rado reazioni forti. Tanto che La città e i cani, fu bruciato sulla pubblica piazza in Perù. Proseguendo per la propria strada senza lasciarsi intimorire, il liberale Vargas Llosa mise la denuncia dell’autoritarismo al centro di un altro suo capolavoro Conversazione nella cattedrale (1969), ambientato negli otto anni di regime del generale Odría (1948-1956), la dittatura che ha segnato lo scrittore, allora adolescente. E poi ancora coraggiosa satira di denuncia nella Festa del Caprone ,incentrato sugli ultimi giorni di vita di Rafael Leonidas Trujillo Molina, dittatore della Repubblica Dominicana, assassinato nel 1961 da un gruppo di uomini di sua fiducia appoggiati dalla Cia.

Intanto,  nel romanzo Chi ha ucciso Palomino Molero?Vargas Llosa narrava del tenente Silva e della guardia Lituma, un soldatino, ucciso per aver osato corteggiare una giovane bianca e altolocata. La violenza militare, lo strapotere del colonialismo, il machismo sono il filo rosso che lega molti suoi romanzi. Senza dimenticare il tema dell’eros, esplorato non certo nella chiave conformista e prevedibile della letteratura erotica ma in romanzi che descrivono i percorsi mentali tortuosi, se non malati, di una certa alta borghesia peruviana.

L’opera letteraria di Vargas Llosa ha il merito anche di ricuperare voci che raramente troveremo nei manuali di storia, come quella di Flora Tristan, attivista dei diritti delle donne nella Francia del primo Ottocento la cui vicenda scorre in parallelo a quella della fuga del pittore Paul Gaguin verso i mari del Sud nel “Il paradiso è altrove” . La cultura e la storia francese, va detto, hanno sempre giocato un ruolo da protagonista nell’orizzonte di Vargas Llosa che, oggi rivendica di sentirsi ancora vicino a Camus ma non più a Sartre. ” Si potrebbe dire di lui che contribuì con più talento di chiunque altro alla confusione contemporanea. Era troppo cerebrale” ha scritto in Sartre e Camus uscito in Italia nel maggio scorso per Scheiwiller.Aggiungendo poi ” L’invenzione letteraria in Sartre manca di mistero: tutto è sottomesso al governo della ragione”.

Raccogliere le “sfide alla libertà” (come recita il titolo di una sua raccolta di articoli) è sempre stato l’impegno dello scrittore peruviano. Anche se leggendo le motivazioni dell’Accademia di Svezia per l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Vargas Llosa ( “ per aver tracciato una cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini taglienti della resistenza dell’individuo”) viene da ricordare che questa sua strenua difesa della libertà dell’individuo non è stata sempre senza ombre. Difficile dimenticare, per esempio, il suo attacco a Morales a Chàvez dalle colonne del giornale argentino conservatore la Nación, tacciati, in quanto indios, di ordire governi razzisti contro i bianchi.

E se è da apprezzare la sua condanna della violenza israeliana contro i palestinesi (in Israele e Palestina, Pace o guerra santa, Scheiwiller) che dire del Diario di bordo sulla guerra irachena che Vargas Llosa disse di voler scrivere dal punto di vista degli iracheni? Terminava dicendo: “ la distruzione della dittatura di Saddam Hussein, una delle più crudeli, corrotte e furibonde della storia moderna, era una ragione di per sé sufficiente a giustificare l’intervento Usa”.

dal quotidiano Terra 8 ottobre 2010

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Dipingere con la poesia

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 11, 2010

Lacerti di antico persiano innervano la pittura di Forouhar. E’ una delle rivelazioni iraniane della Biennale Donna di Ferrara che si apre il 18 aprile

di Simona Maggiorelli

Parastou Forouhar, Written Room (Berlin_2008)

Segni di un’antica lingua riemergono alla memoria. E diventano arabeschi, tracce liriche evocative che profanano il bianco del pavimento e delle pareti di una stanza. Sono lacerti di quella lingua farsi in cui i poeti persiani componevano i loro versi. E che l’artista iraniana Parastou Forouhar ha ricreato non conoscendone più il significato preciso. «Sono schegge di un linguaggio che ormai ha perso la sua funzione più importante, quella di avere un suo significato, un suo ruolo». Un linguaggio, dunque, che non serve più per comunicare al grado zero con gli altri. Ma che sulla “tela” diventa «ornamento», segno di un vocabolario sconosciuto per la libera espressione dell’artista. E che in chi guarda l’opera finita, curiosamente, crea una risonanza emotiva profonda. Indipendentemente dalla propria nazionalità e lingua madre.

Con queste scritte dalle morbide curve nere, Forouhar compone immagini universali che indirettamente raccontano e continuamente rielaborano la sua storia. Sulla quale ancora si addensa il dolore per la scomparsa di Dariush e Parwane Forouhar, i genitori dell’artista, torturati e uccisi nel 1998 per la loro opposizione al regime e senza che gli assassini siano mai stati puniti. Una sorte che nell’Iran degli ayatollah è toccata a molti intellettuali e artisti dissidenti.

Nella Written room che Forouhar ha realizzato per la Biennale Donna di Ferrara (dal 18 aprile, nel Padiglione di arte contemporanea) non si raccontano direttamente questi fatti ma si sente il sapore emotivo di una cultura che, sgradita al regime, doveva essere cancellata dalla storia. L’esigenza di testimoniare, la necessità di far rivivere in forme nuove una memoria viva del passato è anche quella che ispira molta parte del lavoro di un’altra artista iraniana selezionata per la XIV Biennale Donna, parliamo di Mandana Moghaddam che nel suo Sara’s paradise rievoca la guerra fra Iran e Iraq del 1980-1988. Ottocentomila giovani furono mandati a morire predicando un aldilà pieno di vergini e miele. Moghaddam li ricorda con una fontana paradisiaca da cui sgorga incessantemente acqua rossa come il sangue. Tutt’intorno verdeggiano barili di plastica vuoti, corpi svuotati di ogni linfa vitale.

Ghazel, Urgent

Insieme con le foto di Wanted (urgent) con cui Ghazel cercava marito per ottenere il passaporto francese, insieme col vaso prezioso di Shirin Kakhim da cui escono gambe di donna recise (simboleggiano quelle delle prostitute costrette a vendersi), insieme alle figure velate di Shadi Ghadirian che al posto del volto hanno utensili da cucina, insieme con i manichini dai seni recisi con cui Firouzeh Khosrovani denuncia la violenza psichica e fisica esercitata dai fondamentalisti, sono le immagini dirompenti con cui una nuova generazione di artiste iraniane sta facendo sentire nel mondo la propria voce di protesta.

da left-avvenimenti del 9 aprile 2010

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Le maghe di Babilonia

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 6, 2009

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Ishtar

Alla scoperta dell’antica Mesopotamia dove la donna aveva una libertà che poi Cristianesimo e Islam le avrebbero negato. Una mostra al British Museum e nuove campagne di recupero delle rovine per ricostruire l’antico splendore della città di Hammurabi. «In Iraq c’è ancora la guerra civile. E’ impossibile per gli archeologi occidentali andare a visitare i siti» racconta l’archeologo Paolo Brusasco di Simona Maggiorelli

Babilonia “culla della civiltà” si studiava da piccolissimi. In questa area del mondo, si leggeva nei libri di scuola c’erano stati i primi grandi risultati nelle scienze umane, l’invenzione della scrittura cuneiforme, il primo codice di leggi di Hammurabi. Ma anche l’arte degli aruspici e degli interpreti di sogni. Un mondo favoloso, fino allo controriforma Moratti, sfuggito miracolosamente alle maglie della scuola gentiliana improntata sugli anatemi biblici contro la torre di Babele. Ma poi sul quel sogno infantile di civiltà antica fatto di giardini pensili su inespugnabili ziqqurrat sono piombate d’un tratto le agghiaccianti distruzioni della Guerra del Golfo. “Operazioni chirurgiche” come venivano raccontate dalla Cnn, dalla Bbc e dalla Rai nel 1991. A cui si sono sommate le missioni angloamericane contro le presunte armi atomiche del dittatore iracheno Saddam Hussein. Un’operazione pretestuosa, del tutto folle che “ha lascito sul campo più di 4mila soldati occidentali uccisi. E un numero ancora incalcolabile di morti fra i civili iracheni”, come ricorda l’archeologo e docente dell’Università di Genova Paolo Brusasco ad incipit del suo libro La Mesopotamia prima dell’Islam (Bruno Mondadori). Di pari passo, come è noto, sono stati distrutti centinaia di importanti siti archeologici, mentre dal museo di Bagdad sono andati dispersi- distrutti o trafugati -più di ventimila reperti importanti (che datano dal 7mila a. C al mille d. C) di arte dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi. an00404485_001-map-of-world-da-scontCome ricostruisce puntualmente l’archeologo Friederick Mario Fales nella recente riedizione del suo Saccheggio in Mesopotamia uscito nel 2003 per la casa editrice Forum di Udine. “Ancora oggi non abbiamo una stima esaustiva e definitiva, i danni potrebbero essere di molto superiori- rilancia Brusasco-. In Iraq è in corso una guerra civile ed è ancora impossibile per la maggior parte di noi occidentali andare a visitare i siti archeologici”. A cominciare da quello dell’antichissima città di Babilonia, la capitale del regno di Hammurabi del II millennio a. C, insieme a Uruk ,una delle città simbolo della Mesopotamia. Nonché una delle più segnate dalla presenza di soldati. “Del tutto incuranti delle raccomandazioni preventive dell’Unesco le truppe angloamericane – racconta a left Paolo Brusasco – hanno scavato trincee in siti archeologici di primaria importanza e buona parte dei danni causati, purtroppo, saranno purtroppo irrecuperabili”. Non solo è stata danneggiata la porta istoriata di Ishtar,installando una base di elicotteri a ridosso delle antiche e friabili mura in terra cruda, ma sono andate in rovina anche le ricostruzioni anni 70 che Saddam Hussein aveva fatto fare in mattoni cotti. “Certamente restauri che non avevano nulla di scientifico e confezionati a misura della propaganda di regime -sottolinea Brusasco – ma alcuni sostengono che almeno sommariamente potessero dare l’idea dello splendore antico di Babilonia”. Così dopo aver raso al suolo centinai di siti, dopo aver trafugato e rivenduto su internet reperti preziosissimi di arte sumera, assira e babilonese, oggi l’occidente sembra voler cercare di correre ai ripari. Per senso di colpa ma anche perché la ricostruzione può essere un buon business . Fatto è che da più parti. si annunciano campagne internazionali di scavo e di recupero dell’antica città della Mesopotamia. Una, dal titolo “Il futuro di Babilonia” e con la partecipazione economica di importanti organismi internazionali, secondo l’agenzia Reuters, partirà a giorni.oldest-lovers

Professore sarà davvero possibile un recupero delle rovine dell’antica Babilonia e in quanto tempo?
In realtà ancora siamo solo alle operazioni preventive di studio e di messa a punto organizzativa di possibili campagne. Il direttore del dipartimento del Vicino Oriente del British Museum, John Curtis, ha fatto già una serie di ispezioni portando alla luce alcuni danni, purtroppo irreversibili. Una base militare anglo americana è stata costruita, per esempio, proprio sulle rovine attigue al palazzo di Nabucodonosor, il sovrano della deportazione ebraica del 597 a. C. I soldati hanno coperto le rovine archeologiche di ghiaia e le hanno cosparse di spray chimico per non sollevare la polvere. S’immagini i danni che un esercito potrebbe fare se domani si installasi a Pompei. A Babilonia addirittura molti container sono stati riempiti di terra prelevando materiali da siti diversi, la stratigrafia è irreversibilmente danneggiata. Gesti che la popolazione irachena ha letto come una volontà di appropriarsi in modo neocolonialista del passato e della storia di queste aree. Se un giorno si faranno nuovi scavi in queste zone sempre bisognerà sempre tener presente che esiste uno strato dell’invasione anglo-americana. Hanno creato un disastro inimmaginabile dal punto di vista della lettura del sito.

La mostra londinese ora al British esplora il mito di Babilonia, quanto certo “orientalismo” ha oscurato il nostro sguardo occidentale? Babilonia è città delle prime leggi di Hammurabi, di questa città che poi fu governata Nabucodonosor ne hanno parlato in termini favolosi gli autori classici, ma soprattutto la Bibbia. Nell’immaginario occidentale è sempre stata una città simbolo di tirannia ma anche di meraviglia e di stupore. I racconti dei profeti ebrei che hanno scritto in cattività a Babilonia ce l’hanno sempre raffigurata in termini negativi e fino agli scavi del 1800 non si è mai conosciuta in Occidente la vera Babilonia.

Babilonia la grande meretrice, Babilonia che verrà distrutta dal castigo di dio sono le immagini anche dantesche…
Una parte della mostra ora al British Museum di Londra si occupa appunto del mito di Babilonia e punta a metterne in luce gli aspetti fasulli, quelli su cui si è basata la visione distorta dell’occidente. Basta pensare al mito della torre di Babele, alla minaccia della confusione delle lingue. Alle leggende che dipingevano la città come regno del vizio. In realtà la famigerata torre non era che lo ziqqurrat del dio Marduk a cui si rifacevano più colture diverse. Babilonia era una città dove convivano in modo pacifico diverse etnie. L’ interpretazione che ne ha dato l’Occidente non corrisponde in nulla ai reperti scavati.terracotta

Il fatto che lo sguardo deformante della tradizione biblica si sia accanito soprattutto su figure femminili ( basta pensare a Semiramide) farebbe pensare che le donne in Mesopotamia godessero di una certa libertà. E’ così?
Io l’ho scritto, ma non sono il solo. In Mesopotamia la donna non aveva la posizione sociale che poi ritroviamo nella tradizione cristiana o nell’islam. Soprattutto nel terzo millennio, nel periodo sumerico, i codici di leggi trovati ci raccontano di tantissime regine, donne che avevano realmente potere. Poi nel codice di Hammurabi troviamo che la donna può intraprendere attività commerciali come imprenditrice e avere libero rapporto con l’esterno. C’era anche una specifica categoria di cosiddette sacerdotesse imprenditrici che avevano delle grandi proprietà fondiarie e le gestivano autonomamente. Ovviamente non c’era una vera parità fra uomo e donna, però possiamo dire che in Mesopotamia, dal III al I millennio a C. non c’è prova che esistessero degli Harem. Solo intorno al 900 a. C. fra gli Assiri compaiono, in concomitanza con l’emergere della propaganda maschile legata alla guerra e che determinò una serie di leggi che per la prima volta relegavano la donna in aree specifiche della casa e del palazzo.

La libertà sessuale della donna in Mesopotamia, lei scrive, “non è affatto associata a un’istintualità primitiva o animale”.
Sì la sessualità e la figura femminile non sono viste in accezione negativa. Il desiderio femminile non è represso ma è considerato un elemento di vita, un aspetto culturale. Per esempio nel mito di Gilgamesh, l’eroe di Uruk, che si narra sia vissuto intorno al 2675 a. C aveva un nemico, Enkidu, che viveva nella foresta ed detto un incivile. Prima di scontrarsi con Gilgamesh, però, Enkidu viene “civilizzato” da una prostituta. In Mesopotamia il fatto che le prostitute fossero immerse nella vita urbana ne faceva delle detentrici di cultura e conoscenza. Anche da altri testi antichi si comprende che la sessualità era un mezzo per conoscere i rapporti umani di cui la società viveva. Non si trova mai in questo contesto una caratterizzazione in negativo della donna come si trova nella Bibbia. E il desiderio non è qualcosa di immediato da sfogare o da reprimere. La sessualità viene inserita in un ordine di idee urbano e civile non animale.

Non c’è un senso del peccato come nella tradizione giudaico cristiana?
No in Mesopotamia non c’è qualcosa di simile.

VA Bab 4431In un modellino di un letto conservato al British Museum si coglie uno scambio di sguardi fortissimo fra un uomo e una donna. Una rappresentazione ben diversa dalle fredde anatomie di Pompei.
Nelle abitazioni in Mesopotamia si trovano placche sessuali come amuleti di fecondità. Si rifacevano a miti del matrimonio sacro fra due divinità. In Mesopotamia l’accoppiamento fra esseri umani e divinità era considerata all’origine del mondo. Anche per questo la sessualità veniva vista in modo positivo. Ma sessualità era anche l’intimità fra uomo e donna è vista in senso sentimentale, romantico. Questo abbraccio, questo letto che rappresenta il simbolo della vita di coppia, soprattutto in epoca sumerica, nel periodo più antico è molto legato a situazioni sentimentali più profonde.

Nella cultura della Mesopotamia il Logos, inteso come ragione non arriva a schiacciare un mondo di immagini e di passioni come accade a un certo punto nella Grecia antica?
La ragione in Mesopotamia è secondaria rispetto a una concezione del mondo e anche della scienza sempre divinatoria. Per l’uomo della Mesopotamia il rapporto con il mondo non è logico ma è in qualche modo illogico, talvolta legato ai presagi. Grande importanza aveva l’astronomia ma anche l’astrologia. La divinazione era considerata una scienza. C’erano indovini, esorcisti, scienziati, specializzati nella lettura dei pianeti e delle stelle, maghi, interpreti di sogni. C’è un approccio completamente diverso da quello della logica greca.

Lei scrive anche che è un pregiudizio pensare che solo la lingua e la scrittura siano sistemi altamente simbolici. Anche l’arte in Mesopotamia tende ad essere rappresentazione simbolica, talvolta quasi astratta?
In Mesopotamia l’arte non è mai mimetica della realtà alla maniera greca. Parte da un altro presupposto. Non c’è l’umanesimo greco. L’arte mesopotamica è un’arte sempre simbolica, tanto che anche quanto raffigura la realtà, come nelle stele o nei rilievi assiri che pur narrando di guerre, le traspongono sempre con elementi astratti su un piano simbolico. Si parte da un fatto, da un azione singola, ma si arriva poi a trasporla su un piano universale. Sono scene che non tendono a una prospettiva precisa, ma puntano a a un’evidenza viva, alla drammaticità del racconto. All’arte mesopotamica non interessa raffigurare la realtà per ciò che è.

da Left-Avvenimenti 7/2009 del 20 febbraio

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il museo del XXI secolo? Curve e movimento

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 17, 2009

di Simona Maggiorelli

MAXXI, Roma foto di Richard Bryant

Piani inclinati, superfici ondulate e inserti di vetro nel pavimento. L’archistar Zaha Hadid ha creato un edificio dalle forme fluide e di straordinaria eleganza
n orizzonte fluido di linee che corrono verso inaspettati punti di fuga. Spazi che si schiudono l’uno sull’altro senza soluzione di continuità. Agili scale e poi percorsi lungo ballatoi con la sensazione di una morbida salita fino alla vista mozzafiato del piano alto dalla grande vetrata, affacciato sui palazzi dello storico quartiere dove sorge il MAXXI di Roma. Il museo del ventunesimo secolo costruito dall’architetto anglo- irachena Zaha Hadid sabato e domenica prossime, a dieci anni dalla sua ideazione (e dopo non poche traversie economiche e burocratiche), apre finalmente le porte al pubblico. Anche se non è stata ancora allestita all’interno la collezione permanente di oltre 350 opere di arte contemporanea destinata a questi spazi. Nel fine settimana una coreografia creata ad hoc da Sasha Waltz accenderà di musica e danza questa grande “nave-museo”, ma chi abbia già percorso questi spazi nella breve anteprima di ieri può testimoniare che anche l’esperienza che offrono le sue sale nude e vuote non è indifferente. I piani inclinati dei pavimenti, le superfici ondulate, l’assenza di barriere e confini danno il senso di un luogo aperto alla fantasia e all’immaginazione. «Fin dagli inizi la mia idea è stata quella di costruire un campus d’arte, piuttosto che un museo in senso stretto» ha detto la stessa Hadid presentando in conferenza stampa la sua opera. «Ho progettato il MAXXI- ha spiegato- in modo che i curatori delle mostre, in futuro, possano organizzare i loro percorsi espositivi sviluppandoli narrativamente lungo i piani dell’edificio, oppure sfruttando gli spazi laterali». Un pensiero progettuale che poi ha preso concretamente forma nel lavoro con Patrik Schumacher, da oltre trent’anni socio e stretto collaboratore dell’archistar di Baghdad. «Con lui ricorderemo sempre ogni linea tracciata e le notti trascorse a disegnare il complesso» ha sottolineato Hadid, ringraziando poi il presidente della Fondazione MAXXI Pio Baldi per il sostegno, ma anche scherzosamente minacciando il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi e l’assessore alla cultura del Comune di Umberto Croppi di tornare sovente per vegliare sul buon uso della sua creazione. Originale interprete di un nuovo modo di pensare le superfici, Hadid di fatto ha decomposto lo spazio del vecchio edificio militare di via Guido Reni per aggiungere fluidità e bellezza ma anche un funzionalità più duttile all’edificio. Un lavoro di scomposizione e ricomposizione delle forme qui realizzato usando materiali diversi, dal cemento, al ferro al vetro (con inserti anche nei pavimenti), mentre un ruolo di primo piano gioca il complesso sistema di illuminazione, che di giorno filtra o amplifica la luce naturale e di sera offre una raffinata regia di luci artificiali.

dal quotidiano Terra  del 13 febbraio 2009

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Non è più tempo di disincanto

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 17, 2009

Dal 18 al 20 settembre 2009 torna la più importante kermesse italiana dedicata alla filosofia. A Modena, Carpi e Sassuolo oltre duecento incontri e  50 lezioni magistrali dei maggiori pensatori europei sul tema del rapporto fra io e l’altro e i nuovi orizzonti dell’idea di comunità in un orizzonte globalizzato.

di Simona Maggiorelli

festivalfilosofia di Modena

festivalfilosofia di Modena

Tramontata rapidamente la stagione in cui i filosofi, di fronte al palese fallimento della psicoanalisi, sembravano volersi riciclare come consiglieri di vita e districatori di dilemmi esistenziali, oggi i più noti pensatori sembrano tornare a sentire l’urgenza del presente e di una dimensione di riflessione pubblica e collettiva. Lo provano le numerose uscite editoriali degli ultimi mesi che riguardano i temi della democrazia, della laicità e della bioetica, dei nuovi diritti. Ma anche l’accendersi del dibattito sui giornali su temi come  l’immigrazione e sulle conseguenze dei processi di globalizzazione. Così, dopo edizioni dedicate ai “sensi” e alle “passioni”, il festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – dal 18 al 20 settembre – punta l’attenzione sul sociale, invitando filosofi di primo piano, soprattutto europei, a riflettere sulle forme del vivere collettivo e a proporre riflessioni politiche sulla polis del futuro. Da Savater a Severino, da Rodotà a Marramao, da Nancy a Balibar ad Augé, a Bodei e a molti altri, tutti invitati a pensare nuove forme di “comunità”.

Reincantare la politica. La proposta di Giacomo Marramao:

Oggi è il compito del filosofo per una nuova civitas, come società aperta, basata su un universalismo non astratto e sulla differenza fra uomo e donna e il confronto con differenti culture. è la proposta che Giacomo Marramao il 19 settembre farà all’agorà del Festivalfilosofia, quest’anno dedicato al tema della comunità.
Professor Marramao, ma lei non era il teorico del disincanto?
Lo ero nell’epoca delle ideologie. Allora il disincanto di Max Weber era uno strumento fondamentale. Oggi, invece, insistere sul disincanto significa portare acqua al mulino dell’esistente, dei poteri consolidati. Penso anche che non si possa più parlare di comunità in termini impolitici, paradossali, heideggeriani come fanno ancora Jean Luc Nancy o Roberto Esposito. Reincantamento della politica non significa neanche cercare simboli e feticci come lo erano la razza, la famiglia, la patria per la destra del Novecento. O il successo, il guadagno e l’uso del corpo femminile per la neo destra di Berlusconi. Reincantare la politica, all’opposto, significa praticare la concreta esperienza delle passioni, del desiderio, degli amori, dei legami. Politica è l’agire in comune che ha a che fare con la dimensione dell’identità personale più profonda. Certa ideologia intesa come promessa di futuro palingenetico ha fallito. Prendendo il 1989 come data simbolica, con la caduta del muro di Berlino è diventato evidente che quella politica produceva solo un “futuro passato” in cui era tutto era già predeterminato, senza creatività, senza invenzione. Nel ’68 tentammo di operare una rottura con quei partiti ormai burocratizzati ma anche noi eravamo intrisi di ideologia, anche se più futurista. E non fu vera liberazione. Un futuro vero si apre quando è legato alla potenza dei progetti di donne e uomini che operano nella realtà concreta.
L’accelerazione dei processi di globalizzazione sta cambiando gli assetti globali. Paesi giovani, per esempio nel Sudest asiatico, sono in rapida crescita e propongono culture diverse. Ma aumentano anche i migranti dai Paesi poveri. Risposte violente, come quella italiana verso chi sbarca pacificamente alla ricerca di un lavoro sono già, di per sé, un segno del “tramonto dell’Occidente”?
L’Occidente deve cominciare a considerarsi una parte del mondo e non la storia del mondo. è una zona ricca e per ora egemonica dal punto di vista economico, ma come ho scritto in Passaggio a Occidente (che ora Bollati Boringhieri pubblica in nuova edizione, accresciuta ndr) sta diventando terra di passaggio. L’Occidente non puòpiù pensare di controllare il mondo con la Coca cola, come se le merci potessero creare una connessione di senso, una dimensione simbolica forte in cui gli umani si possano riconoscere e unificare, omologandosi. Sì, tutti usano i jeans e internet ma non hanno rinunciato alle proprie identità. Anzi accentuano le proprie identità differenziali rispetto all’Occidente. Tendendo a radicalizzarle. Questo significa che se vogliamo trovare una dimensione simbolica che possa unificare il genere umano non può essere quella del mercato.

Il problema, lei dice, è l’indifferenza, in che senso?

Prendiamo la violenza fondamentalista, ad esempio. Non è dovuta come nelle epoche passate a odio fra gruppi differenti ma a una mancata conoscenza, a un meccanismo securitario di indifferenziazione. I kamikaze delle twin towers hanno ucciso non sapendolo anche individui di etnie arabe. Con la stessa indifferenziazione dei bombardieri Usa in Vietnam ieri e oggi in Iraq e Afghanistan. è una violenza indifferenziata che nasce dalla chiusura pregiudiziale a qualunque forma di esperienza sull’alterità e non da una ostilità determinata.

«Violenza indotta dall’indifferenza» ma anche dovuta a un incontro con l’altro basato su un fondamento religioso. Dunque astratto e disumano?
Accade quando si trova nelle religioni un elemento di identificazione. Se si chiede alla Lega di dare una cifra culturale la risposta è: noi siamo cristiani. Non è neanche un fatto di fede, ma di appartenenza.
La parola stessa comunità ha uno sfondo religioso poco progressista…
Ha una ambivalenza molto forte. Oggi possiamo recuperare questa categoria solo in un senso che la proietti al di là di questa dimensione: pensare a un essere in comune di individui, donne e uomini liberi, che partendo non da astratti progetti razionali ma dalle proprie esperienze di desiderio e di legami effettivi riescono a stabilire una forma di incontro che possa proiettare l’umanità nel futuro.

da left-avvenimenti  11settembre 2009

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I nuovi tesori di Ebla

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 9, 2009

img1-da-scontLa scoperta di due templi nell’antica città siriana. E l’uscita del libro che ripercorre 40 anni di storia di scavi. Una doppia occasione per raccontare le straordinarie avventure dello studioso Paolo Matthiae  di Simona Maggiorelli

Dopo sei anni riapre il museo di Baghdad, tra i musei più importanti al mondo, pesantemente colpito dall’invasione militare anglo-americana. “Un avvenimento importante ma non senza ombre”, avverte il grande archeologo Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla, l’antichissima metropoli della Siria. Ragioni di sicurezza impongono di tenere aperto il museo della capitale irachena solo alcune ore al giorno, mentre i curatori del Metropolitan Museum di New York in una lettera appello scrivono: “riaprire un museo non significa solo togliere il lucchetto a una porta. I musei non dovrebbero essere vittime del capriccio politico del momento, e venire sacrificati nell’interesse di una campagna di pubbliche relazioni per conto del governo”.

Da parte sua l’accademico dei Lincei Paolo Matthiae ammette: “Verificare quale sia la situazione reale in Iraq è difficile da qua, ma una cosa è certa: non solo il museo di Baghdad ma anche e, soprattutto, molti siti hanno subito uno scempio irreparabile”. E poi in accordo con quanto apparso nelle settimane scorse sul nostro settimanale, Matthiae aggiunge: “Neanche durante la seconda guerra mondale si è assistito a saccheggi intenzionali del panorama culturale di un Paese come è accaduto in Iraq”.

Già nel 2004, del resto, l’archeologo aveva lanciato un appello accorato in difesa del patrimonio della Mesopotamia e del Vicino Oriente a cui il professore si dedica da molti anni. Insieme al lavoro di tutela, Matthiae di pari passo è sempre andato avanti sulla strada di nuove scoperte. L’ultima in ordine di tempo sarà presentata sul numero di marzo de Il Giornale dell’arte e riguarda il ritrovamento di due templi descritti in un testo di 4500 anni fa, conservato negli Archivi Reali di Ebla; un testo in scrittura cuneiforme in cui si parla della cerimonia sacra eblaita di tre settimane che aveva come scopo il rinnovamento della regalità e con essa della fertilità universale.

img2-da-scont“Durante l’ultima campagna – racconta Matthiae- abbiamo scoperto il tempo del dio Kura sull’acropoli di Ebla e un altro nella periferia della città. Sono gli unici templi del terzo millennio che si conoscano nella Siria interna”. E mentre già il professore si sta “mettendo in caccia”del palazzo reale di Ebla risalente al secondo millennio, la recente uscita del suo libro Gli archivi reali di Ebla per la nuova collana Mondadori- La Sapienza, Università di Roma ci offre lo spunto per ripercorrere la straordinaria avventura di scavi in Siria: un vero primato nel panorama internazionale dell’archeologia.

Nell’ottobre del 2008 abbiamo fatto la nostra 45° campagna di scavo – conferma Matthiae – senza mai nemmeno un anno di interruzione dagli inizi ”. La missione archeologica ad Ebla dell’Università di Roma La Sapienza cominciò nel 1964. Undici anni dopo furono scoperti gli Archivi Reali: un tesoro di 17mila numeri di inventario di testi cuneiformi del 2350-2300 a. C , il repertorio testuale che ha aperto le porte della conoscenza su questa antichissima città situata a 60 km a Sud di Aleppo. Ma anche un evento archeologico che ha tutto il sapore delle grandi scoperte ottocentesche degli archivi di Ninive. E che ha fatto entrare Ebla, oltreché nella storia, nella leggenda dell’archeologia orientale.

“La città divenne importante poco dopo il 2500 a. C e fu distrutta intorno al 1600 a. C- ci ricorda Matthiae -. Si parla di un millennio di storia particolarmente importante non solo per la Siria, ma anche per la storia del Vicino Oriente”.  E se la civiltà urbana è nata in Mesopotamia alla fine del IV millennio, nel III millennio Ebla realizza per la prima volta un modello urbano in un territorio del tutto diverso da quello delle valli alluvionali. Ma non solo. Il fascino della scoperta di Ebla sta anche nel modo in cui avvenne.

Allora, nel 1964, Matthie era un giovanissimo laureato, ma già fra i massimi esperti di Siria del II millennio a.C, di cui allora si sapeva ben poco. flickrE fu questa sua approfondita conoscenza, insieme a mix di intuizione e deduzione, che nel 1964, davanti alla particolare sagoma di un sito vicino ad Aleppo, gli fece scattare l’immagine che là sotto doveva esserci qualcosa di molto importante: “Il sito anche per me che allora avevo 22 anni era assolutamente impressionante, dalla sagoma così particolare intuii che poteva trattarsi di un grande centro antico, anche se non si vedeva nulla di affiorante”. Fortuna volle che poco prima fosse stato trovato e salvato un bacino scolpito in modo magistrale. “Attrasse molto la mia attenzione – ricostruisce Matthiae -. Nessuno l’aveva ancora studiato. Lo si pensava del primo millennio,neo ittita o neosiriano. Ma qualcosa mi suggeriva che non era proprio così”.

Benché il tesoro si Ebla fosse sigillato dalla terra, la morfologia del terreno era molto eloquente. Ma il giovane archeologo aveva più di un problema storico da risolvere: “Della radici della Siria del terzo millennio, allora, non si sapeva praticamente nulla dal punto di vista della cultura materiale e urbana. In più – aggiunge Matthiae- era difficile immaginare che questo Tell Mardikh fosse Ebla, perché la si pensava a Nord e non a sud di Aleppo. E tanto meno si sapeva che la città fosse così straordinariamente importante”. Fu solo nel 1968 quando la spedizione italiana trovò un torso di statua dedicato alla dea dell’amore e della guerra con iscritto il nome di Ebla che le cose si fecero più chiare, anche riguardo alla cronologia del sito.

A questo si aggiunse il ritrovamento in Anatolia di un poema bilingue hurrita- ittita sulla distruzione di Ebla, unico poema del Vicino Oriente che sia stato scritto per la conquista di una città: chiarì d’un tratto l’importanza di Ebla, che tanto forte scosse la fantasia dei contemporanei. Il poema, benché frammentario, mostrava chiare assonanze con l’Iliade, narrando di un dio che minaccia Ebla perché teneva illegittimamente prigioniero un principe. “Sono da sempre convinto – chiosa Matthiae – che questo poema sia all’origine di topoi che sono stati ripresi dall‘Iliade stessa”.

E ancora un’altra scoperta importantissima sarebbe avvenuta di lì a poco: quella delle 17mila tavolette intere o frammentarie degli Archivi Reali di Ebla. Matthiae ne fa una ricostruzione scientifica nel suo nuovo libro,Gli Archivi di Ebla, ma quello che colpisce la fantasia del lettore è anche scorgere (tra la messe di tavolette che parlano di transazioni commerciali, di dizionari bilingui e di liste lessicali sumeriche di nomi di piante, di pesci, di pietre preziose) alcuni testi di scongiuri e incantesimi redatti in scrittura cuneiforme.

“Ebla certamente partecipava del livello culturale e delle strutture economiche delle società mesopotamiche del terzo millennio – ci spiega Matthiae -. Ma è anche vero che negli archivi, di fatto, abbiamo trovato poche opere letterarie. La gran parte sono di carattere economico, ma troviamo anche  invocazioni agli dei perché risolvano sul piano della storia problemi analoghi a quelli che si racconta abbiano risolto nel mito”. E se nel pantheon eblaita l’enigmatico dio Kura alle soglie del secondo millennio si eclisserà per lasciare spazio a Haddad, il dio della tempesta, eroe divino che combatté contro un mostro a più teste, dio del mare, sovrana assoluta dei templi e dei riti di Ebla appare la dea pagana Ishtar che le rappresentazioni mesopotamiche raffigurano come una dea alata e con artigli.

Ishtar è la grande dea del cielo e dell’amore e della guerra. E’ una dea potente e complessa- spiega Matthiae- perché dea celeste e insieme identificata con la stella Venere. Ma anche dea ctonia, della fecondità della terra”. Ma forse c’è di più. Quegli artigli- ci raccontava già settimane fa l’archeologo Paolo Brusasco, non sono da leggersi come segno di aggressività , ma come espressione di una femminilità che non si identifica tout court con la “posizione passiva”. Come invece accadeva in Grecia e a Pompei, dove la femminilità – come spiega Eva Cantarella – era sinonimo di passività e poco importava, a Greci e Romani, se a incarnarla fosse un corpo di donna o di fanciullo. left 8/2009 del 27 febbraio

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