Posts Tagged ‘Carocci’
Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 8, 2015

Bernini, Ratto di Proserpina
Una monografia in otto puntate di Tomaso Montanari racconta l’arte di Gian Lorenzo Bernini. Su Rai 5
Non c’è bisogno, come ha fatto qualche commentatore, di scomodare Simon Schama e la sua inarrivabile serie The Power of Art per dire che la monografica tv in otto puntate di Tomaso Montanari è un esempio di divulgazione colta e appassionata di altissimo livello, che non ha eguali in Italia. Anche perché, al di là dei potenti mezzi della BBC che supportano il lavoro dello storico dell’arte inglese, la serie La libertà di Bernini (prodotta da Land Comunicazioni per Rai Cultura e in onda su Rai 5) sceglie una strada diversa per tessere la narrazione.
Là dove Simon Schama racconta Gian Lorenzo Bernini, nell’ambito di una serie di ritratti d’artista, intrecciando magistralmente interpretazione dell’opera e vita, Montanari sceglie invece la strada di un rigoroso filo cronologico per ripercorrerne l’avventura e approfondire criticamente le novità che seppe portare nella scultura, nella pittura e nella architettura del Seicento. In anni in cui la committenza papale giocava un ruolo di primo piano sulla scena artistica, offrendo l’occasione per realizzare opere ambiziose. Ma al tempo stesso dettando rigidi programmi iconografici e legandoli strettamente alla propaganda controriformista.

Bernini, Apollo e Dafne
Fu così che con l’ascesa al soglio di Urbano VIII, il papa che obbligò Galileo all’abiura, Bernini diventò una sorta di ministro dell’immagine pubblica della Chiesa di Roma. Riuscendo tuttavia a “salvare” la propria fantasia e inventiva. Basta pensare ad un’opera coraggiosa come L’estasi di santa Teresa (1647–1652) che usa il pathos e la teatralità controriformista per mettere in scena l’ondata di piacere che invade la santa trafitta da un angelo dall’aria birichina. Di questo Tomaso Montanari ci racconterà nella quinta puntata.
Intanto abbiamo avuto modo di apprezzare come, guidato dalla regia di Luca Criscenti, dal 7 gennaio scorso lo storico dell’arte fiorentino e docente dell’Università di Napoli abbia saputo ben tratteggiare i precoci esordi di Bernini portandoci direttamente nei luoghi dove visse e operò. A cominciare dai vicoli di Napoli, da quella celebre via Toledo dove il genio del Barocco nacque il 7 dicembre del 1598 da madre napoletana e padre fiorentino, che lo avviò alla scultura. Poi ci porta a Londra per vedere il Nettuno (1620-22) e nella Galleria Borghese di Roma dove Montanari commenta dal vivo un capolavoro di immaginazione e naturalismo come il gruppo Apollo e Dafne (1622-1625).

Tomaso Montanari
Un’opera in cui, grazie alla sua straordinaria tecnica, l’artista riesce a dare al marmo la morbidezza della pelle femminile, facendo sembrare «la carne più vera del vero».
La tesi che Montanari sostiene in tv in modo avvincente, senza accademismi, ma con linguaggio scientifico, è che Gian Lorenzo Bernini anticipò il moderno, sviluppando il naturalismo di Caravaggio, superando la staticità della scultura rinascimentale e regalando un potente dinamismo alle sue statue che non a caso – ci ricorda lo studioso – saranno poi studiate dal futurista Umberto Boccioni. Una tesi che in anni passati ha argomentato in importanti volumi, fra i quali Il Barocco (Einaudi), Bernini pittore (Silvana editoriale) e in un denso e articolato repertorio delle fonti del Barocco L’età barocca pubblicato da Carocci. Ora grazie al mezzo televisivo ci auguriamo possa raggiungere anche il grande pubblico. ( Simona Maggiorelli, dal settimanale Left)
Ecco il link per rivedere la quinta puntata http://www.rai.tv/dl/replaytv/replaytv.html?day=2015-02-04&ch=31&v=473907&vd=2015-02-04&vc=31#day=2015-02-04&ch=31&v=473907&vd=2015-02-04&vc=31
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 11, 2014
Dall’ 8 al 12 ottobre la Buchmesse di Francoforte mette alla sbarra colossi come Amazon. E invita editori piccoli e medi a incontrarsi. Per rilanciare con creatività contro gli oligopoli che dominano l’editoria internazionale
di Simona Maggiorelli
Non è solo la più importante piazza europea dove si possono acquistare i diritti di libri, ma è anche un vitale spazio di incontro fra autori, editori, agenti, lettori. Dall’8 al 12 ottobre tornano ad accendersi i riflettori sulla Buchmesse di Francoforte.
Chi conosce il settore, sa che è una vera boccata di ossigeno per editori piccoli e medi, aduggiati durante tutto l’anno dalle “majors”. «A Francoforte s’incontrano gli autori, si può parlare e scambiarsi idee, di persona. C’è il lato umano. Importantissimo e sempre più raro in un mondo dell’editoria internazionale dominato da anonimi colossi», racconta Edoardo Fleischner, progettista multimediale, con un’esperienza ventennale di editore e docente di Comunicazione digitale all’Università degli Studi di Milano.
Nelle grandi case editrici in cui gli editor non sono più scrittori e intellettuali, ma perlopiù dei manager, «oggi il marketing ha la precedenza su tutto. E si tende a fare quasi tutto via mail, in video conferenze, velocemente. I grossi gruppi affrontano sempre di meno le pubbliche aste, come quella di Francoforte, per l’acquisto dei diritti di un libro. Trattano prima. Magari via fax. Tanto si rivolgono sempre ai soliti autori, quelli in cima alle classifiche, che fanno grandi numeri». Senza guardare troppo per il sottile quanto alla qualità letteraria. Basta che il prodotto funzioni sul mercato. «È un fenomeno che non riguarda solo l’Italia. Ovunque assistiamo a massicce uscite di quelli che io chiamo titoli blockbuster, come i film d’azione, ben confezionati e poveri di contenuto», stigmatizza Fleischner. «I tempi rapidi del marketing non consentono il dialogo con gli autori che, invece – ribadisce l’esperto – è proprio ciò che la Buchmesse incoraggia, permettendo alle case editrici piccole e medie, che oggi sono la parte più viva, coraggiosa e creativa dell’editoria, anche di fare nuove scoperte».
Nonostante la tirannia di Amazon e presenze monopoliste nel web come Google, facebook, eBay ecc. (di cui si discuterà alla 66esima edizione della Buchmesse in una serie di incontri), la Fiera di Francoforte «riserva ancora molta attenzione a pubblicazioni di alto profilo letterario e al pensiero critico», afferma un editore rigoroso come KD Wolff, di Stroemfeld, marchio di grande prestigio che alla Fiera presenta l’opera critica di Georg Trakl, in sei volumi, con manoscritti in fac-simile.
Una perla che va ad aggiungersi al catalogo di questa casa editrice in cui già spiccano l’opera critica di Kafka, di Robert Walser, di Kleist, di Hölderlin e altri classici della modernità. «Le aste dei diritti non sono più il fulcro dell’editoria internazionale», dichiara Wolff.
«A dominare il mercato oggi sono titoli popolari e commerciali, anche se come tutti devono vedersela con la questione dei diritti digitali. Per nostra fortuna, proposte più colte e di nicchia continuano a trovare un loro spazio ». Quanto ai temi di dibattito che attraversano la Buchmesse 2014, secondo KD Wolff, una attenzione particolare merita la discussione sull’Open access. «La questione del diritto di accesso ai dati, oggi, non riguarda più un’avanguardia, ma ha raggiunto il grande pubblico. E Amazon o Google, solo per fare due esempi di monopolio, sono duramente criticati. Sempre più persone, insomma, vorrebbero che fosse dato asilo politico a Snowden». Una vena anarchica e libertaria, in effetti, percorre la Buchmesse 2014, che dedica ampi spazi al self publishing, alle ”pubblicazioni fai da te” e agli autori in cerca del loro primo editore.
Anche le feste, i momenti conviviali che caratterizzano le serate francofortesi durante la Fiera sono preziose occasioni in cui si scambiano idee e nascono progetti. Come ci racconta Maria Gazzetti, traduttrice, autrice, animatrice di incontri letterari che dal 1996 al 2010 ha diretto la Casa della letteratura di Francoforte e oggi è alla guida della Casa di Goethe a Roma: «Il mio lavoro punta a rafforzare il dialogo italo tedesco e da questo punto di vista particolare noto che si traduce ancora troppo poco della nuova letteratura tedesca in Italia e che in Germania vengono tradotti soprattutto autori italiani mainstream ».
A scorrere la lista degli ospiti italiani della Buchmesse difficile darle torto: la fa da padrone Alessandro Baricco con la Scuola Holden e poi Daria Bignardi e Andrea Bajani che all’Istituto italiano di cultura presenta il suo libro dedicato a Tabucchi (edito nel 2013 da Feltrinelli).
«In questo periodo di generale difficoltà e di forte crisi del settore editoriale mi sembra che la tendenza sia quella di puntare su titoli e autori affermati, in qualche modo “sicuri”», commenta Marco Sbrozi, direttore editoriale della Hoepli, che in Fiera porta le novità della casa editrice che riguardano anche il mondo del rock. « Cercano di individuare e selezionare ciò che ha avuto una buona accoglienza in Italia e che ha i requisiti per essere apprezzato anche all’estero. Nella scelta di nomi come Baricco o Bajani – aggiunge Sbrozi – vedo da un lato il tentativo di rinnovare la proposta editoriale, dall’altro la tendenza a proporre gli autori e i titoli più di successo nel mercato italiano che potrebbero avere un futuro a livello internazionale».
«Proprio in una congiuntura mondiale così difficile è importante puntare sulla qualità selezionando i libri in base a questo criterio», dicono dalla casa editrice Einaudi, che porta in Fiera novità di saggistica e romanzi. Fra gli autori spiccano nomi cult come il collettivo Wu Ming e scrittori come Nicola Lagioia, ma anche un bel libro di architettura di Carlo Ratti. «Da quando la tradizione anglosassone ha smesso di essere egemone alla Buchmesse, gli autori italiani stanno riscuotendo maggiore attenzione», sottolineano con una certa soddisfazione dalla casa editrice torinese.
Andrà a Francoforte per proporre le novità di Carocci il direttore editoriale Gianluca Mori, ma anche per conoscere le proposte internazionali. «Per nostra attitudine – dice – prestiamo particolare attenzione a quegli editori o a quelle collane che si muovono sul confine tra ricerca scientifica e lettura colta, un po’ distanti dunque dall’eco dal mainstream. Esploreremo con cura il mondo della saggistica di argomento scientifico, per arricchire la nostra proposta editoriale, senza trascurare ovviamente i nostri ambiti disciplinari “classici”: la filosofia, la storia delle idee, ecc». Ma dando uno sguardo alle liste dei volumi che saranno presentati in Fiera e che gli editori ricevono già nelle settimane precedenti «mi sembra di registrare una certa stanchezza e ripetitività», accenna Mori. «I libri Carocci che proporremo ai nostri interlocutori stranieri sono diversi. Per esempio portiamo la Storia dell’italiano scritto in tre volumi, a cura di Antonelli, Motolese e Tomasini, ma anche il libro, appena uscito, di Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, che propone un bilancio delle battaglie, e soprattutto delle sconfitte o delle “assenze” della sinistra occidentale, quindi non solo italiana. Un libro quanto mai attuale, dunque».
dal settimanale left
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 14, 2013

La città dipinta
Per lunghi anni la rivoluzione di Mao ha liquidato lo studio della Cina imperiale come ciarpame conservatore e spazzatura reazionaria.
La rivoluzione culturale, con una vistosa contraddizione in termini, guardava con diffidenza verso gli intellettuali e tra il 1966 e il 1976 lo studio del passato fu addirittura proibito. Come scrivono Alessandra Lavagnino e Silvia Pozzi nel libro Cultura cinese (Carocci), ricordando poi le prime aperture del periodo delle Riforme per arrivare alla recente straordinaria fioritura di studi sulla Cina antica, che si è sviluppata anche da noi in Italia.
In questo alveo s’inscrive la pubblicazione da parte di Electa de La città dipinta, il rotolo di Suzhou, uno straordinario classico dell’arte cinese del XVIII secolo che costò ben 24 anni di lavoro al pittore di corte Xu Yang (della dinastia Qing). L’opera nasceva con l’intento di celebrare la prosperità e la ricchezza di una città antichissima come Suzhou, che sotto il regno dell’imperatore Qianlong viveva uno dei suoi momenti di maggior splendore.

CITTADIPINTA Rotolo di Suzhou
Descritta da Marco Polo come la città dei seimila ponti (in realtà sono “solo” tremila), lungo la riva del fiume Azzurro, Suzhou era famosa fin dall’antichità per le sue pagode, i giardini e i corsi di acqua che l’attraversano. E Xu Yang, maestro di una pittura di genere molto amata in Cina tra Seicento e Settecento (Fengsu-Hua) ne fece uno spettacolare ritratto che, “cinematograficamente”, si sviluppa in orizzontale per oltre 12 metri , animato da 4.600 figure fra i quali mercanti, letterati, pescatori, dame e ricchi borghesi. La visione aerea, aperta a una molteplicità di punti di vista, non offre un panorama gerarchizzato, ma permette allo sguardo di vagare liberamente dalla Montagna delle rocce incantata di leggendaria bellezza al Poggio della tigre, dal cuore della metropoli composto qui da 1.140 edifici e 40 ponti al porto con le sue 300 barche, fino al lago dove sono ormeggiati ricchi battelli- ristorante dove gli uomini più abbienti erano soliti cenare in compagnia di colte dame che li intrattenevano con poesie e musica. Ogni frammento del rotolo è ricco di dettagli precisi, tanto che questo capolavoro della pittura antica è considerato una importante fonte di informazioni sulla vita quotidiana al tempo dell’imperatore Quialong.
Un occhio attento, per esempio, può scorgere che adiacenti ai giardini c’erano molte biblioteche: funzionari e intellettuali andavano a studiare in questi angoli di città improntati all’ideale fusione fra uomo e cosmo tipica della cultura taoista .Ma dalla minuziosa mappa dipinta da Xu yang si ricavano anche informazioni sul sincretismo religioso, sui culti popolari e le filosofie che si praticavano a Suzhou, punteggiata da templi buddisti, confuciani e daoisti. Ma non solo. Le numerose case da tè e le osterie che il pittore ha disseminato nella trama della città ci parlano anche del piacere che gli abitanti di Suzhou avevano nel ritrovarsi in luoghi pubblici a bere e parlare. Mentre teatri e spettacoli di piazza ci dicono di una diffusa passione per l’opera popolare. E molto altro si potrebbe dire ancora seguendo la lettura del rotolo offerta dai sinologi curatori di questa edizione Electa, che fa seguito alla corposa Pittura cinese dal V al XIX secolo pubblicata due anni fa. (Simona Maggiorelli)
dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 13, 2013

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa
Il Salone del libro che prende il via il 16 maggio ha un interessante filo rosso: il tema della creatività. E chiama artisti, critici, filosofi e scienziati a parlare di immaginazione e fantasia. Al Lingotto fino al 20 maggio. Cercando di capire dove va la ricerca internazionale dopo la fine della stagione delle artistar. Mentre è già cominciato il count down per la Biennale di Venezia che si aprirà il primo giugno
di Simona Maggiorelli

L’ artista è l’essere umano«più libero che esista, perché può compiere un miracolo, può creare l’opera più bella partendo dal nulla. Solo l’idea conta davvero», dice Marina Abramovic sul nuovo numero della rivista Lettera Internazionale. In un’intervista rilasciata a Gioia Costa in cui l’artista rievoca il lungo itinerario che l’ha portata dalle provocazioni “patologiche” della Body Art a una Performing Art che mescola vari linguaggi, dalla videoarte al teatro, per comunicare più profondamente con le persone. «La leggenda è finita, i templi sono diventati musei e l’artista oggi ha il compito fondamentale di comunicare con la propria intuizione. Oggi la vera scommessa è riuscire a cambiare la consapevolezza delle persone. Facendo della creatività un motore di cambiamento delle persone e del mondo», dice l’artista di Belgrado. Con accenti utopistici non troppo lontani da quelli dell’ultimo Michelangelo Pistoletto.
Non a caso parliamo di due artisti, di generazioni differenti, ma entrambi emersi a livello internazionale negli anni Settanta. «Un periodo che fu molto stimolante per l’arte» commenta il critico Luca Beatrice, che il 19 maggio sarà al Salone del Libro per presentare il suo libro Sex (Rizzoli) che indaga la rappresentazione artistica del sesso e per parlare di creatività. Che è il filo rosso della prossima edizione della fiera dell’editoria.
A Torino, dal 16 al 20 maggio, il tema della creatività vedrà una declinazione scientifica. In particolare, il 18 maggio, con la presentazione della nuova edizione di Bambino donna e trasformazione dell’uomo dello psichiatra Massimo Fagioli ( L’’Asino d’oro edizioni) e il 17 maggio con la lectio magistralis di Ian Tattersall, autore de Signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni), in cui l’antropologo americano spiega come Homo Sapiens abbia prevalso grazie a una caratteristica specie specifica come la fantasia.
In un articolo intitolato Le artistar sono finite, trionfa la noia, su Il Giornale Luca Beatrice, di recente, ha scritto del tramonto degli “anni zero” dell’arte, imposti dal mercato e caratterizzati, per esempio, dall’ipervalutazione di artisti come Danien Hirst con i suoi squali in formaldeide «oggi andati incontro a un deprezzamento del 300 per cento». In giro si respira un’aria di «ritorno all’ordine», scrive Beatrice, ma la fine dell’euforia dei mercati «ci ha liberati dalla mondanità artefatta dell’ultimo Francesco Vezzoli e dall’arte dei pupazzi, dalle provocazioni gratuite, dalla cronaca elevata a storia a cui ci aveva abituati Maurizio Cattelan».

Vanessa Beecroft
Nell’arte italiana oggi «c’è molto vintage – sottolinea il critico -. Non a caso alla Biennale di Venezia che aprirà il primo giugno si vedranno molte opere degli anni Settanta riportando le lancette dell’orologio su un tempo molto vitale per la nostra storia dell’arte. Senza contare che molti autori di allora sono ancora qui per raccontare quel periodo». Il lato positivo di questa «retromania è che l’arte oggi ha finito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mercato», dice a left Luca Beatrice. Anche se nel mainstream proposto dalle gallerie e dai templi internazionali del contemporaneo, dalla Tate al MoMa, continuano a dominare artisti come Vanessa Beecroft con le sue raggelate rappresentazioni di donne, modelle, bambole meccaniche, che inneggiano a un’arte che non cerca più nemmeno lo choc del sangue e delle ferite della Body Art, ma propone l’anestesia, celebrando il vuoto. «Beecroft ben rappresenta l’era inizio anni Duemila di un tardo capitalismo ormai arrivato alla frutta» commenta il condirettore del Padiglione Italia alla Biennale d’arte del 2009. «Le sue donne nude e perfette non hanno nulla di sensuale, sono l’estrema punta di una rappresentazione del sesso ridotto a ready made».
Ma chi è l’artista oggi e come trova il suo pubblico? Se nel Quattrocento e nel Cinquecento andava a bottega giovanissimo e poi, da quel trampolino riconosciuto (specie se la bottega era quella di Raffaello o di un altro artista noto) entrava direttamente nel mondo dell’arte e delle commissioni ecclesiastiche o di corte, oggi quali sono i percorsi? «Nel Quattrocento l’arte era un mestiere. Oggi non più – risponde da New York Francesco Bonami -. Ma è anche vero che ai nostri giorni il mito del “dottore” ha reso il mestiere dell’artista una professione da residuo sociale…Almeno finché uno non diventa di successo. Non a caso c’è chi dice “mia figlia si è messa con un artistoide”. L’artista è l’artistoide oggi. E poi – approfondisce Bonami che sarà al Salone del libro di Torino il 18 maggio per presentare il suo nuovo libro Mamma voglio fare l’artista (Mondadori-Electa) -. Nel ‘400 l’arte era un fenomeno per pochi oggi è per tutti. E far contenti tutti e più difficile che far contenti pochi. Secoli fa una persona che non era un nobile vedeva al massimo un paio d’immagini sacre o artistiche nella sua vita. Oggi se ne vedono milioni. Creare un’immagine o una forma nuova che dica qualcosa di nuovo o solo qualcosa è una cosa ai nostri tempi difficilissima». Inflazione di immagini a scarso tasso creativo e, dall’altro lato, stupore, se non ostilità, verso chi si cimenta con la ricerca creativa, invece di cercare un impiego sicuro, sembrano connotare i nostri anni. «La ragione ed il calcolo sono oggi l’equivalente di denaro e successo; voler comunicare qualcosa senza altri scopi della condivisione è molto sospetto», commenta il critico fiorentino, direttore artistico della Fondazione Sandretto che è stato direttore della Biennale di Venezia nel 2003 .
Intanto però il mercato internazionale dell’arte e le vetrine delle Biennali europee e americane pullulano di opere all’insegna di un violento iperaelismo tardo pop o, più spesso, di opere iperconcettuali, freddamente astratte, autoreferenziali. Tanto che il filosofo Maurizio Ferraris ha scritto: «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l’arte ma solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale. Mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove», riprendendo i fili di un suo vecchio libro, La fidanzata automatica (Bompiani). «Credo che l’arte contemporanea abbia concluso un ciclo» commenta Bonami. E promette: «Racconterò questo nel prossimo libro Dall’Orinale all’Orale dove si parte da Duchamp e si arriva a Tino Seghal quello che usa le persone che raccontano qualcosa. L’arte deve raccontare qualcosa di altro che se stessa e quindi si riparte da capo».
«

Hegel
Quella della morte dell’arte è una tesi che oramai vanta un bel tratto di storia- ricorda Tiziana Andina, docente d Filosofia teoretica all’Università di Torino, autrice per l’editore Carocci, di Filosofia contemporanea, ma anche di Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto. «Per primo l’ha formulata appunto Hegel. Riteneva che l’arte fosse destinata a risolversi nella filosofia, cioè in pura concettualità. Ma francamente non credo che questo avverrà mai. Penso che la previsione di Hegel non solo non si sia realizzata, ma che sia sbagliata sotto il profilo teorico. Filosofia e arte sono essenzialmente diverse, l’una non potrà mai risolversi nell’altra». Che cosa è accaduto allora? «E’ successo che la “storia dell’arte”, ovvero la narrazione elaborata nei secoli dagli esperti per leggere le opere, sembra non funzionare più – spiega Andina -. Non è più efficace per interpretare il lavoro degli artisti, frammentato in miriadi di sperimentalismi». Quando alla pratica artistica contemporanea «non credo che l’arte sia morta – dice la filosofa – e nemmeno che se la passi male. Penso piuttosto che tutta l’arte abbia molto sperimentato propri linguaggi. Questo può apparire stucchevole o incomprensibile alla più parte delle persone, che preferiscono opere immediatamente figurative e arricchite di una connotazione emozionale». Nietzsche, però, sosteneva che le opere possono incidere sulle nostre vite in misura maggiore di quanto non riesca a fare un ragionamento ben formulato, cosa ne pensa? «Spesso l’arte ha la capacità di incidere profondamente sulle emozioni. La ragione dell’ “invidia” dei filosofi nei confronti degli artisti (pensiamo a quanto Platone maltratti gli artisti nella Repubblica ) ha probabilmente radici proprio in questa idea. Possiamo leggere dettagliate analisi filosofiche che riguardano questioni morali, ma leggere dei pensieri e delle emozioni di Raskol’nikov, in Delitto e castigo, quando prepara l’omicidio della vecchia usuraia, e poi dei suoi tormenti dopo che l’ha uccisa, ci porta a una comprensione “emozionale” di molte cose: che cosa vuole dire uccidere, che cosa significa essere esseri umani, che cos’è la compassione. Tutto questo ha una importanza grandissima per le nostre vite».
dal settimanale left, numero 18 in edicola fino al 17 maggio 2013
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Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

maurizio bettini
Il senso della memoria per gli antichi Greci e per Romani. Il filologo dell’Università di Siena Maurizio Bettini – che sabato 29 settembre 2012 presenta il suo nuovo libro Contro le radici (Il Mulino) alla libreria Amore ePsiche di Roma – ne aveva parlato a Left in in occasione dell’edizione 2011 del Festival della mente di Sarzana.
di Simona Maggiorelli

mnemosyne
Mentre la storia antica, latina e greca, si studia sempre meno nelle scuole italiane, per non parlare poi di quella assiro-babilonese definitivamente espunta da programmi scolastici grazie all’ultima serie di riforme e controriforme, la proposta che viene da una fortunata kermesse come il Festival della mente di Sarzana si segnala decisamente in controtendenza: nel fitto carnet di incontri dell’ottava edizione, in programma dal 2 al 4 settembre, si legge infatti l’intenzione di aprire un’agorà di riflessione critica sulle radici culturali dell’Europa e sui rapporti che, attraverso il Mediterraneo, abbiamo intessuto nei secoli con la Grecia e con le millenarie culture del Medioriente. Una serie di importanti pubblicazioni apparse di recente, del resto, già riaccendono il dibattito a livello internazionale (ne accenneremo in breve). Anticipando a left alcuni temi della lectio magistralis che terrà il 3 settembre al Festival (alle 10,30 nella Fortezza Firmafede) ce ne parla qui uno studioso di cultura antica come Maurizio Bettini, filologo dell’Università di Siena, autore di importanti monografie sulla mitologia greca, ma anche romanziere.
A Sarzana, in particolare, Bettini racconterà le molteplici figurazioni culturali (divine, mitologiche, narrative, metaforiche) della memoria nella Grecia antica confrontandole con il modo di intendere la memoria a Roma, dove la dea Moneta «fa ricordare il proprio dovere a custodi distratti e mette in guardia i cattivi amministratori del pubblico fisco. Rammentando ciò che altrimenti si rischia di dimenticare, alla maniera di un’agenda computerizzata».
Professor Bettini la concezione greca della memoria, al fondo, in cosa differiva da quella romana?
I miti greci parlavano dell’importanza della memoria e nella Teogonia di Esiodo compare la dea Mnemosyne che ha per figlie le Muse. Così i Greci costruivano miticamente il rapporto poesia – memoria, nella loro cultura orale. La scrittura, non va dimenticato, in Grecia comincia ad essere usata non prima del VI a C. Tutta la poesia omerica è produzione orale: c’è un poeta che dice di essere in rapporto con le muse e di ricevere da loro la memoria dei fatti che racconta. A Roma, veri e propri miti di memoria, invece, non ce ne sono. Ma c’è una divinità interessante, che i Romani chiamano Moneta. Come tutte le divinità latine con il suffisso “ta” indica un’attività. Come Tacita è la dea che mi fa tacere, Moneta è quella che mi fa ricordare. Anche che questo pezzo di metallo vale un tot.
Potremmo dire che nell’epos c’era una memoria fantasia, mentre i Romani di distinguevano per un approccio più “razionale”?
Questa è la classica distinzione: i Greci erano quelli della fantasia, dei poemi, mentre i Romani erano quelli pratici che non avevano tempo da perdere perché dovevano conquistare il mondo. Ma la faccenda è più complessa. I Romani non avevano una religione mitologica fatta di racconti. La loro era di carattere rituale. Ciò che contava era eseguire scrupolosamente i riti; si tramandavano le formule. Non esisteva a Roma alcun racconto di cosmogonia, come invece c’era in Grecia e in Mesopotamia. Sembra quasi che i Romani non si fossero mai preoccupati di formulare racconti su come è nato il mondo. La prima cosmogonia che troviamo a Roma è filosofica, comincia con Lucrezio e con Virgilio. Beninteso anche loro avevano i loro miti, per esempio Romolo e Remo, l’arrivo di Enea nel Lazio ecc., ma erano di tipo assai diverso da quelli greci.
Nella Grecia antica qual era il nesso fra immagini e memoria? Nel libro Il ritratto dell’amante (Einaudi) lei racconta che anche il sogno aveva un ruolo prioritario.
Facciamo un esempio: noi diciamo “ho fatto un sogno”. I Greci invece dicevano “ho visto un sogno”. La nostra metafora è piuttosto grossolana, fa pensare che il sogno sia una sorta di funzione corporale. Per i Greci il sogno era una manifestazione che si esplicitava nella visione. Che talora può essere addirittura comune a più persone. Si racconta di sogni multipli in Grecia. Tutta la città può sognare la stessa cosa per una volta. Così il sogno ha conseguenze concrete. Si può trasformare in una realtà a partire dal fatto che c’è un nome per questo. Normalmente il sogno si chiamava “onar”, da cui onirico. Ma c’era un’altra parola per indicare, invece, il sogno che si avvera. Insomma il sogno era un’esperienza molto più reale, più concreta, per i Greci di quanto non lo sia per altri. Detto ciò c’erano anche sogni che in Grecia si dicevano derivati da cattiva digestione, o da eccesso di fatica, per cui uno sogna ciò che ha fatto il giorno prima. Ma è una categoria di sogni diversa da quella che ha una forte componente di realtà tanto da anticipare il futuro, da dare indicazioni di comportamento.

odisseo e sirene
Lo stesso Omero distingueva fra sogni falsi e veritieri.
Due sono le porte dei sogni, diceva, una di corno e una di avorio. Esistono sogni veritieri destinati a durare e sogni che sono degli inganni. Facendo somigliare stranamente i sogni anche alla poesia: e Muse, incontrando Esiodo nella Teogonia, lo avvertono: noi diciamo molte cose vere ma anche molte cose che sono solo simili al vero, cioè false, perché la divinità – e qui torniamo al tema della memoria – può suggerire cose che non sono vere. Al pari di certi sogni.
Studiosi come Christian Meier in Cultura, libertà, democrazia (Garzanti) e in Italia Gaetano Parmeggiani con Lo scudo di Achille (Sellerio), con percorsi diversi, ora tornano a tratteggiare l’immagine di una Grecia antica in cui gli aedi- cantastorie avevano molto più potere dei sacerdoti. Cosa ne pensa?
Non si può negare che rispetto ad altre culture contemporanee, ma anche successive, quella greca aveva aspetti peculiari assai interessanti. Come l’importanza data ai poeti rispetto ai sacerdoti. In Grecia non c’era un vero e proprio clero. L’idea di una Chiesa o di Chiese era loro totalmente estranea. Quando a noi sembra addirittura normale, dacché il mondo cristiano, ma anche quello ebraico e musulmano, vive in forme di clero organizzate. E in Grecia non esisteva un libro che dicesse come è fatta la religione, come pregare Dio. C’erano varianti infinite di miti, che raccontavano, in modi anche molto diversi fra loro, storie sugli dei. I culti locali si tramandavano con forme di memoria, di tradizione orale, ma non c’era un protocollo ufficiale da rispettare, pena l’eresia. In questo senso quello greco era un mondo profondamente più libero. L’ateismo totale veniva condannato solo perché avrebbe potuto mettere in crisi la polis. Ma non c’era un’ortodossia. Tutto il mondo antico pullulava di culti diversi, legati a quella meravigliosa esperienza che era il politeismo. In cui una divinità non escludeva l’altra. L’esclusione è tipica, invece, dell’ebraismo e delle religioni che ne sono discese.
Nel suo dirompente Black Athena, ora riproposto da Il Saggiatore, Martin Bernal indaga le fortissime radici afroasiatiche della Grecia antica. La memoria di questi debiti verso le culture orientali è stata cancellata?
Sì, ma non tanto dai Greci, quanto da noi. Tra Ottocento eNovecento esplosero l’eurocentrismo e il colonialismo. L’Inghilterra e la Germania, in particolare. si identificano fortemente con i Greci. Non volevano ammettere che i Greci avessero preso molto da culture che loro sostanzialmente disprezzavano. L’antisemitismo, poi, non poteva accettare che i Greci, “così puri e così santi” avessero debiti con i popoli del Vicino Oriente. Fu una grande mistificazione. Incomprensibile ai nostri occhi: il Mediterraneo è un mare piccolo: le idee hanno sempre viaggiato con le merci, con le persone. Ma si era arrivati al paradosso che, per capire i Greci o anche i Romani, bisognasse paragonarli ai Germani o addirittura agli Indiani, in base alla teoria dell’indoeuropeo. E non con i popoli a loro più vicini. Erodoto, per esempio, parlava moltissimo degli egiziani. Ma lo si negava in nome di una pericolosa idea di purezza dei Greci e degli Indoeuropei.
Con Luigi Spina, per Einaudi, lei ha ripercorso il mito delle sirene. In questo caso come avviene la mitopoiesi?
Il mito era un racconto immaginario ma con significati culturali profondi che toccavano la realtà. Le sirene afferiscono a un mondo di cui fanno parte anche ad altri mostri dell’Odissea come il Ciclope, una sfera in cui rientrano anche gli inquietanti incontri con le ombre dei morti oppure con i lotofagi che si sono drogati di loto e ora non ricordano più. Sono costruzioni simboliche, fantastiche, che poi vogliono semplicemente dire c’è un mondo altro che noi non conosciamo, o che non conosciamo più, ma che Ulisse ha visto.
Nella mitologia e nella cultura greca, più in generale, c’era una forte misoginia. Secondo fonti diverse da Euripide, Medea non era un’infanticida, come ha scritto Christa Wolf. La stessa Circe, come lei ha ricostruito in un libro scritto con la Franco, forse non era così terribile come Omero la dipingeva. L’uomo greco simboleggiato da Ulisse aveva paura del femminile, dell’irrazionale, di tutto ciò che era altro da sé?
La società greca era dominata dai maschi, come quella romana. E questo pregiudizio sociale forte verso la donna entra anche nel racconto mitologico. L’esempio più lampante è Pandora: una specie di automa, di fantoccio animato che raffigura l’ingresso del femminile nel mondo degli uomini come origine di tutti i mali. Di lei si dice anche che è seduttiva e ingannatrice. Non è molto diversa da Eva. Sono racconti che nascono per tenere sotto controllo le donne. Gli antichi cercavano di giustificare con innumerevoli motivi la sudditanza delle donne e credo che la principale spinta fosse la paura maschile che la donna gli scappasse di mano rendendo incerta la sua discendenza. A Roma, come in Grecia gli uomini ne avevano un terrore fortissimo. Perciò i padri e i mariti cercavano di tenerle rinchiuse. Perché se le donne sono troppo libere che succede? I figli di chi sono? La mia onorabilità dove va a finire? Credo che questa ”gelosia” come motivo di esclusione della donna dalla sfera pubblica, continui a funzionare in tante società del mondo arabo: la donna è troppo importante perché la si lasci libera. Si venera la figura femminile e ad un tempo la si schiavizza. Sono i due aspetti contraddittori dello stesso problema.
Immagini di donna idealizzate, secondo un’estetica classica, compaiono nel suo romanzo, Per vedere se appena edito dal Melangolo…
Una certa idealizzazione forse deriva dal fatto che vedo una profondità e un’intelligenza nelle donne che negli uomini, perlopiù, non trovo. Magari non sarò così ingenuo da credere che la “salvezza” venga da voi, ma davvero credo che molto spesso voi abbiate un modo diverso di riflettere di vedere il mondo. E i miei personaggi femminili forse risentono di questo pensiero.
Nuovi Studi
Affascinante quanto schiva figura di medico e studioso dell’ellenismo, Gaetano Parmeggiani, ne Lo scudo di Achille ci parla di un mondo greco antico dalla lunga e raffinata civiltà artistica, articolato come una società antropocentrica, «affrancata dal trascendente». Al punto che «la stessa religione non trova un equivalente nel greco arcaico». Questo suo pamphlet, riproposto da Sellerio, si legge dunque come un appassionato invito a tornare a leggere l’Odissea e soprattutto l’Iliade, di cui La lepre edizioni ha appena pubblicato una nuova e fresca traduzione di Dora Marinari (con la prefazione di Eva Cantarella). Per Carocci, invece, esce Donne e società nella Grecia antica di Nadine Bernard, che ricostruisce, fra l’altro, la pratica greca dell’infanticidio, specie delle femmine. In Grecia, scrive la storica francese «gli anni dell’infanzia erano concepiti come la parte selvaggia della vita, quella in cui l’anima è ancora primitivamente folle, per usare le parole di Platone. E per questo non erano tenuti in alcuna considerazione».
da left-avvenimenti 31 agosto 2011
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Posted by Simona Maggiorelli su agosto 9, 2011
A proposito della querelle aperta dal critico Jean Clair sulla morte dell’arte contemporanea, ridotta a gadget di lusso da artisti come Murakami, Hirst, Koons and Co.: nei mesi scorsi abbiamo affrontato più volte questo tema sulle pagine del settimanale Left-Avvenimenti. Per proseguire la discussione ecco alcune riflessioni a proposito del lavoro del filosofo Arthur Danto sulla fine dell’arte.
di Simona Maggiorelli

Andy Warhol
La morte delle arti visive così come si sono sempre intese è un fatto evidente ed acclarato secondo il filosofo Arthur C. Danto (classe 1924), che ha elaborato questa tesi in libri come Andy Warhol (Einaudi) e Dopo la fine dell’arte (Bruno Mondadori). Secondo l’analisi del pensatore e critico d’arte americano negli anni Sessanta si è compiuto un drastico cambio di paradigma nel mondo dell’arte.
Non solo un certo tipo di narrazione per immagini di tipo ottocentesco si è esaurita ma, secondo Danto, è finita anche la spinta propulsiva delle avanguardie. Fino ad arrivare a un vero e proprio dissolvimento di un certo modo di fare ricerca.
«L’arte doveva morire per poi rigenerarsi con nuovo pensiero», scrive Danto. Individuando in Andy Warhol il killer che con il suo nihilismo riuscì a fare tabula rasa. «l’arte morì quando la Pop art reputò ogni oggetto e ogni forma comunicativa degna di essere considerata arte», nota ancora il filosofo.
Più di Duchamp che con i suoi orinatoi da museo cercava la bizzarria, lo choc, lo spiazzamento del pubblico, Warhol con le sue gigantografie di dive e banconote minuziosamente riprodotte, cercava il consenso di un pubblico vasto e in particolare di quella middle class che, negli anni del boom economico non aveva aspirazioni culturali ma solo di consumo. Lui l’accontentò operando la trasfigurazione dell’ordinario e del banale. In più, portando nell’arte le istanze del “supercapitalismo” occidentale, diventò egli stesso un’icona pop, un personaggio che negli Usa richiamava folle da rockstar.
Nel 1965 questa metamorfosi, in Warhol, era già compiuta, anticipando il ‘68. Analisi stringente, ficcante quella che ci propone Danto, ma anche leggendo la monografia Arthur Danto, un filosofo pop (Carocci) di Tiziana Andiana viene da chiedersi se si renda conto, fino in fondo, delle conseguenze di ciò che ha scritto.
Per Warhol esisteva solo la superficie delle cose, secondo un suo famoso motto. Non c’era nulla di latente da intuire oltre la materia. E su questa base rottamò i suoi inizi da pittore espressionista e ogni ricerca sull’inconscio. Ma con il suo brutale positivismo come avrebbe potuto inaugurare una nuova fase e un nuovo pensiero nell’arte? L’impostazione razionale da filosofo analitico qui sembra impedire a Danto di immaginare ogni possibile superamento della crisi delle arti visive e degli standard raffreddati e iperazionali imposti dall’attuale sistema dei musei.
dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su giugno 24, 2011
di Simona Maggiorelli

Sana'a
Sono in contatto con scrittori yemeniti e insegnanti dell’Università di Sana’a, via internet. Ma in questi giorni non sempre riusciamo a mantenere un filo di comunicazione, per quanto esile. Tutti i nostri studenti che erano là sono rientrati. Anche l’ambasciatore italiano non è più nella capitale yemenita perché la situazione nel Paese è davvero difficile, a rischio guerra civile». E’ accorata la voce di Isabella Camera d’Afflitto quando parla di quanto sta accadendo in Yemen, paese amatissimo, in cui l’arabista della Facoltà di Studi Orientali di Roma, negli anni, è tornata spesso, per studi e ricerche. Con libri come Perle dello Yemen (Jouvence) e Storia della letteratura araba contemporanea (Carocci), Camera d’Afllito ha avuto il merito di far conoscere anche in Italia il vivacissimo panorama letterario di quella che fu l’Arabia Felix. Un lavoro che ora prosegue con un importante volume a più mani Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e dagli scrittori da poco uscito per i tipi di Editrice Orentalia.
Professoressa che direzione ha preso la rivolta yemenita dopo la feroce repressione ordinata dal presidente Saleh e il suo ferimento?
La rivolta in Yemen è partita, proprio come negli altri Paesi arabi, dai giovani, di ogni classe, non solo intellettuali. Anche lo Yemen ha avuto la sua piazza Tahrir, la sua piazza della libertà, che a Sana’a si chiama piazza del cambiamento. Ma se la richiesta di democrazia è partita dai ragazzi poi è stata “monopolizzata” dai capi tribù che chiedono al governo centrale di Sana’a il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ma anche infrastrutture e ospedali nei villaggi. Parliamo di zone dello Yemen dove vivono i beduini, aree poverissime, di cui i media si occupano solo quando ci sono dei rapimenti. Un mezzo ricattatorio a cui i capi tribù ricorrono proprio per accendere l’attenzione del Governo. In genere senza altri intenti. Chiedono giustizia perché le forze dell’ordine yemenite proteggono e riconoscono solo i clan vicini al presidente Saleh.
In Yemen le donne sono solo presenze velate sulla scena pubblica. Ma loro voce si è fatta sentire nella protesta…
Nell’ambito di una rivolta studentesca che è stata forte e netta, la presenza femminile ha assunto un grande significato. Ho raccolto la testimonianza di quattro scrittrici, che sono diventate delle “eroine” per il coraggio che hanno avuto di scendere in piazza. Arwa Abduh Uthmàn (classe 1965) è una di queste, lavora come ricercatrice presso il Centro di Studi Yemeniti e da tempo porta avanti una sua battaglia anche rifiutandosi di indossare il velo. Per questo è stata duramente attaccata dagli integralisti. Per scrittrici come Arwa è una doppia rivolta: al fianco degli studenti e contro chi vorrebbe rimandarle di nuovo in casa.
Nelle opere di scrittori yemeniti di differenti generazioni traspare una forte consapevolezza riguardo alla “questione femminile”. L’emancipazione delle donne nei loro romanzi simboleggia la liberazione del Paese?
E’ proprio così. La letteratura non è affatto marginale se vuole capire il presente. Offre una porta speciale per entrare nella realtà di certe regioni, più di un libro di storia, che aridamente ripercorre i fatti. E qui ne abbiamo la riprova. La centralità della questione femminile in Yemen è segnalata in primis dagli scrittori. E da scrittici laureate, con un dottorato, ma figlie di donne analfabete e, anche attraverso il romanzo, cercano di elaborare questo epocale iato. In Yemen le donne lavorano, fanno ricerca, guidano la macchina. Alcune sono divorziate e in prima linea nelle battaglie per poter tenere con sé i figli. Altre si battono contro la piaga delle spose bambine. Ci sono donne avvocato che difendono i diritti di queste giovanissime fuggite da situazioni di segregazione, ragazzine che si sono viste negare l’infanzia e l’adolescenza.
ll codice di famiglia, dopo la riunificazione del Paese, ha segnato un passo indietro riguardo ai diritti delle donne. Paradossalmente queste giovani si trovano oggi a rifare battaglie che le generazioni precedenti avevano già fatto nello Yemen del Sud?
Il Sud, che era sotto l’ala sovietica, aveva una legislazione più avanzata per quanto riguarda i diritti civili delle donne. Poi con la riunificazione, lo Yemen ha risentito dell’arretratezza delle regioni del Nord finite sotto l’ala saudita. Un fatto macroscopico è la pratica diffusa di masticare il qat (un vegetale dagli effetti narcotici ndr). Nello Yemen sovietico era andato quasi in disuso, mentre oggi è una piaga sociale diffusissima. Ma c’è anche un altro fatto evidente: nello Yemen sovietico non si vedevano quasi più donne velate. Guardando le foto di Aden degli anni Cinquanta e Sessanta sembra quasi un’altra città rispetto ad oggi.
Tornando alla letteratura, che tipo di lingua araba è quella dei nuovi scrittori yemeniti?
L’arabo yemenita è quello classico. Per l’isolamento in cui il Paese ha vissuto a lungo, la lingua e la letteratura si sono molto preservate. Non sono andate incontro a quel certo “decadimento” e impoverimento, che invece ha subito la lingua in altre aree del mondo arabo. Inoltre in Yemen la letteratura russa – quella dei grandi autori come Dostoevskij – ha esercitato una forte influenza. Molti autori giovani ancora oggi sono “impregnati” di classici russi. Ma va detto anche che la letteratura yemenita, per quanto vanti una tradizione antichissima, è stata a lungo respinta ai margini dal resto dei Paesi arabi. Solo di recente si segnala una apertura, come se gli arabi stessi si fossero finalmente resi conto della presenza letteraria yemenita e della sua importanza. Prima guardavano con sospetto verso tutto ciò che veniva dalle popolazioni yemenite ritenute ingiustamente retrograde, religiose, bacchettone. Anche dentro il mondo arabo , che al suo interno è percorso da forti differenze, esistono visioni stereotipate e pregiudizi.
Fra i temi che percorrono la letteratura yemenita quello dell’emigrazione e della durezza dell’esilio è molto presente.
Molti yemeniti sono venuti in Europa, ma tanti sono finiti a lavorare come schiavi in Arabia Saudita. E questo ha determinato il fenomeno delle donne che, rimaste sole, sono messe sotto tutela dalla famiglie del marito. Poi magari il marito torna in Yemen con un’altra moglie… Un realtà denunciata nei libri di molte scrittrici yemenite.
Colpisce il fatto che le scrittrici che affrontano questo tipo di tematiche siano anche molto critiche verso il femminismo occidentale: rivendicano di voler fare una rivolta con gli uomini.
Non crediate di aver inventato voi che il femminismo, ci dicono indirettamente. “Certo per noi è più difficile metterlo in atto, ma – avvertono – non crediate che non abbiamo idee”. Nella stessa città di Sana’a ci sono più associazioni che difendono i diritti delle donne, non una sola. Ognuna con una propria identità e in lotta con le altre. C’è quella governativa, quella indipendente, quella di opposizione. C’è anche un dipartimento di studi di genere all’Università nella capitale. Ad unire questa miriade di associazioni è la lotta contro la tradizione del clan familiare che in Yemen è ancora molto forte… In questi giorni quando in tv vedo la città di Sana’a in fiamme, mi si stringe il cuore, penso agli sforzi immani che una parte viva della società stava facendo per uscire dal medioevo. Spero non siano vanificati dalla repressione militare.
Lo Yemen viene dipinto dai media come un Paese tout court fondamentalista. Cellule di Al-Qaeda, con sostegno saudita si sono annidate in alcune zone desertiche del Paese. Ma chiunque abbia viaggiato in questo bellissimo Paese difficilmente dimentica il calore umano e l’attenzione che si incontra per strada, anche nei villaggi più isolati. Come legge questa discrasia?
Personalmente, in tanti anni di viaggi in Yemen, ho trovato grande apertura , interesse verso l’altro , accoglienza verso gli stranieri; quello yemenita è una popolo straordinario. Ci vorrebbe un governo che lo aiutasse davvero ad uscire dalla povertà e dalla fame. Intanto è cresciuta una classe di intellettuali che lavora per un cambiamento culturale. Per averne un’idea basta vedere la ricognizione che ha fatto Francesco De Angelis sulla “rivoluzione” yemenita letta attraverso i bloggers. Chi voglia continuare la ricerca può trovarlo on line sulla rivista ww.arablit.it.
IL LIBRO
Forti di una tradizione antichissima di poesia e letteratura , gli scrittori yemeniti di oggi sperimentano a 360 gradi fra i generi letterari, spaziando dal romanzo dalla forte impronta politica e sociale, all’avanguardia letteraria, alla fantascienza. Offre un viaggio in questo interessante panorama in continua evoluzione la raccolta di saggi Lo Yemen raccontato dalle scrittrici e agli scrittori curata da Isabella Camera d’Afflitto e pubblicato da Editrice Orientalia. In un paese come lo Yemen in cui il 41,8 % della popolazione vive sotto la soglia della povertà (2 dollari al giorno) ed è ancora altissimo il tasso di analfabetismo, la letteratura, specie quella engagé, sta conoscendo una straordinaria fioritura. Al centro il tema dell’emigrazione, dell’esilio, ma anche e soprattutto il superamento del tribalismo e la lotta per una maggiore democrazia. Ma tema forte è anche l’emancipazione della donna in un Paese dove oltre il 50% delle spose ha meno di 15 anni.
dal settimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011
Dal 2 marzo alle Scuderie del Quirinale una importante antologica dedicata al maestro veneto che allo splendore del colorismo di Tiziano preferiva l’inquietudine di Antonello da Messina
di Simona Maggiorelli

Lorenzo Lotto, Annunciazione
Quella giovane Madonna di Lorenzo Lotto che, qui e ora, in un movimento assolutamente contemporaneo a noi che guardiamo il quadro, si rincantuccia mostrando tutta la sua umanissima paura di fronte all’Arcangelo, non potrebbe essere più lontana dalla protagonista dell’Annunciazione (1522) di Tiziano che accoglie il messaggero divino con modi pacati ed eleganti da gran signora. Lo stesso soggetto, la stessa scena sacra. Entrambi i pittori conoscono alla perfezione la tradizione pittorica e padroneggiano al massimo la tecnica. Ma la resa iconografica dell’Annunciazione, per i due maestri del Cinquecento, non potrebbe essere più divergente.
Così se Tiziano rende quasi profana la scena ambientandola in un aristocratico palazzo, Lotto sembra fare del dipinto di Recanati (1534) un manifesto di una pittura popolare, concreta, quasi protestataria. Certamente segna uno scarto dalla norma quel modo di narrare per immagini, anticlassico e vivace, che caratterizza la tela di Recanati, dal 2 marzo al 12 giugno al centro della mostra Lorenzo Lotto (catalogo Silvana editoriale) curata da Giovanni Carlo Federico Villa alle Scuderie del Quirinale; una antologica che riunisce a Roma un ampio nucleo di opere dell’artista veneto, fra pale di altare, opere a tema sacro e una serie di eccezionali ritratti.
Ma forse si può dire di più: L’Annunciazione di Lotto rappresenta una vera e propria invenzione di immagine. Anche rispetto agli esempi di turbatio della Madonna dipinti da Ambrogio Lorenzetti e altri, ben noti a Lotto (come ha documentato Settis in Iconografia dell’arte italiana, Einaudi). Precedenti molto decorosi e composti che ben poco hanno a che fare con il ruspante scompiglio di questa Annunciazione, dipinta in colori freschi e accesi. Ma anche la Natività (1530), da poco restaurata e in primo piano alle Scuderie, ci racconta che Lotto non era un pittore naif: nel bel mezzo di una scena intima e quasi naturalistica qui l’autore sapientemente cala due fredde ali azzurrine, una nota divina e straniante, già pienamente manierista.
Che Lorenzo Lotto (1480-1556) non fosse affatto un artista minore nel quadro della pittura veneta del Cinquecento, del resto, lo aveva già notato Bernard Berenson dedicandoli nel 1895 la prima monografia (ripubblicata nel 2008 da Abscondita). E lo hanno ribadito nel secolo scorso studiosi come Venturi e Longhi ispiratori della importante antologica veneziana degli anni Cinquanta.
Giovane rivale di un ben più acclamato Tiziano e coetaneo di un artista raffinato come Giorgione, Lotto per necessità e non solo scelse la provincia come ambito in cui vivere e operare, legandosi ad una committenza diversissima da quella laica, colta e nobile che sosteneva i suoi due più famosi colleghi. Sempre controcorrente, solo, di spigolo alle cose e fuori dalla rete dei rapporti che contano, così raccontano l’uomo Lorenzo Lotto le trentasei lettere autografe indirizzate al Consorzio della Misericordia. Ma un profilo aspro e schivo emerge anche dal Libro di spese diverse, una specie di diario in cui dal 1538-1556 il pittore annotò tutte le commissioni ricevute ma anche il fallimento della vendita all’asta di quarantasei opere, da cui nel 1550 sperava d ottenere almeno quattrocento scudi riuscendo a cavarne solo quaranta. Prova ulteriore che la sua arte, al tempo stesso “antica” e in anticipo sui tempi (basta pensare alla penetrazione psicologica di certi ritratti), era del tutto fuori sincrono rispetto alle mode del tempo. Più che dallo splendore del colorismo veneto e dai suoi classici maestri come Giovanni Bellini, Lotto si sentiva attratto dalla vena inquieta di Antonello da Messina (dal quale mutuò il drammatico fondo nero della bellissima cimasa del Cristo morto) ma anche da certo naturalismo tedesco e fiammingo che ebbe modo di conoscere da vicino attraverso Albrecht Dürer a Venezia nel 1505. Già a quell’epoca il venticinquenne Lotto dimostrava una sua personalità perfettamente formata. Come si può evincere dal sanguigno ritratto del vescovo Bernardo de’Rossi realizzato proprio quell’anno e ora esposto a Roma.

Lorenzo Lotto, ritratto di giovane uomo
Insieme alla cultura figurativa, dall’area nordica Lotto aveva appreso alcune istanze di rivolta evangelica. E anche a causa di un ritratto andato perduto di Martin Lutero con la moglie si tramanda che il pittore avesse imboccato la strada dell’eterodossia. Strada quando mai rischiosa in tempi in cui si cominciavano ad accendere i roghi della Controriforma. Dall’appassionante indagine che Massimo Firpo scrisse qualche anno fa sulla controversa ortodossia di Lotto (Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Laterza) si sa, per esempio, di una Venezia, snodo cruciale dei traffici tra l’ Oriente e l’Europa, ma anche «Porta della Riforma», dove fu stampata la prima traduzione italiana del Corano ma anche la Bibbia in volgare illustrata da Lotto, insieme a testi in odore di eresia, opere criptoriformate e libri eretici. E nel tollerante clima politico lagunare, oasi momentanea in un’Europa di grandi sconvolgimenti politici e martoriata dalla peste, sostiene Firpo, Lorenzo Lotto si lasciò affascinare da istanze dissidenti rispetto alla dottrina dal papato romano, con il quale aveva avuto un breve contatto nel 1509 quando era stato chiamato da Giulio II per affrescare le Stanze. Dalla corte papale, come noto, Lotto quasi scappò e da allora per lunghi anni, spinto da ragioni economiche ma anche, chissà, forse incalzato dalla montante Controriforma, peregrinò per l’area lombardo veneta e nelle Marche. E se la tesi di Firpo ora trova ulteriore conferma nella serrata indagine storiografica compiuta da Diarmaid MacCulluch nel poderoso volume Riforma da poco uscito per Carocci (uno studio di oltre mille pagine in cui lo storico inglese, tra l’altro, ricostruisce tutta la mappa delle amicizie veneziane di Juan de Valdes) più cauto sulla vexata quaestio della devianza lottesca è invece il curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale : «Lotto fu un uomo dall’animo profondamente religioso – dice – mantenne sempre uno stretto rapporto con i domenicani, che volevano una Chiesa vicina ai ceti più poveri. Anche per questo – conclude Villa- la sua pittura anticipò alcuni temi della Controriforma»
da left-avvenimenti 25 febbraio 2011
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Posted by Simona Maggiorelli su aprile 11, 2010
Non rifiutano l’Islam ma il fondamentalismo. Scelgono l’esilio ma non tagliano le radici. Indossano il velo ma rappresentano una nuova immagine di donna. Il vero volto del Paese raccontato dalla creatività femminile
di Simona Maggiorelli

Mandana Moghaddam
Il coraggio della rivolta, di dire no a un potere teocratico e oppressivo erede del regime di Khomeini. L’onda verde, irresistibile, di ragazzi e ragazzi che sono scesi in piazza per protestare contro i brogli elettorali praticati dal governo di Amadinejad. Nelle strade di Teheran, rossetti rossi e ciocche di cappelli che sfuggono ribelli al velo; la sfida delle giovani donne iraniane a una società ancora patriarcale e segregante passa anche attraverso la bellezza e la femminilità. E passa soprattutto attraverso l’arte, la letteratura e la poesia come raccontano ancora oggi, con voce toccante, i versi di Forough Farrokhzad (1935 -1967), «che audacemente decise di abbattere le barriere sociali per non rinunciare alla propria identità femminile», annota Silvia Cirelli nel catalogo della Biennale Donna di Ferrara 2010. A lei è idealmente dedicata questa XIV edizione della rassegna emiliana dedicata all’arte contemporanea iraniana attraverso i lavori di sei artiste appartenenti a generazioni differenti e dai percorsi fra loro diversissimi. Ma che in comune con Farrokhzad hanno la capacità di cogliere e rappresentare le tensioni che attraversano la cultura iraniana divisa tra tradizionalismo ed esigenze di modernizzazione.
Una battaglia politica e ideologica che, troppo spesso, usa il “corpo” delle donne come territorio di guerra. Prova ne è il numero altissimo di donne iraniane, rimaste vedove o senza famiglia, che si vedono ricacciate ai margini della società e costrette alla prostituzione. Prova ne sono le barbariche leggi della sharia che vorrebbero cancellare le donne dalla sfera pubblica e costringerle a una vita domestica di mogli e madri, nonostante le università di Teheran registrino numeri altissimi di studentesse.

Shadi Ghadirian
«Quella che l’Iran sta vivendo è una vera e propria schizofrenia culturale» precisa Silvia Cirelli, ideatrice della Biennale in programma dal 18 aprile al 13 giugno nel Padiglione di arte contemporanea di Ferrara. «La schizofrenia culturale di cui parlo – spiega a left la curatrice della rassegna – ha radici nella quotidianità che molte iraniane sono costrette a vivere, perennemente sospese tra l’obbligo di rispettare le leggi islamiche e il fatto di poter essere se stesse solo nel privato. Le donne iraniane, di fatto, vivono una doppia vita, quella richiesta dall’islam e quella invece scelta da loro. è inevitabile – sostiene Cirelli – che questo continuo “sdoppiamento” a lungo andare provochi degli scompensi esistenziali che portano a fare esperienza diretta dei contrasti dell’Iran odierno. Queste contraddizioni sociali e culturali attuali si leggono molto spesso nell’arte contemporanea iraniana: si critica il proprio Paese ma allo stesso tempo non si rinnega mai la propria appartenenza culturale, si parla di religione, di islam ma allo stesso tempo si evidenziano i limiti che a volte questa religione può avere se viene mal interpretata. Gli artisti sono quindi portavoce della sofisticata realtà iraniana, amata ma allo stesso tempo criticata per le arretratezze sociali». A colpire uno sguardo esterno è anche il complesso e vischioso rapporto che un’ampia fascia di artiste e intellettuali iraniane ha stabilito con la religione. In una vasta gamma di posizioni che trovano espressione nelle opere ma anche nelle scelte e negli stili di vita. Così, per esempio, accanto a donne come l’avvocato e scrittrice Shirin Ebadi che significativamente non indossa il velo, c’è chi al contrario accetta l’hijab perché in Iran come in molti altri Paesi della galassia islamica «il velo non nasconde le donne, ma anzi le rende visibili nella sfera pubblica» come scrive Renata Pepicelli in Femminismo islamico (Carocci). Un libro che racconta un vasto panorama di studi islamisti condotti da studiose con lo scopo di dimostrare che molti precetti misogeni imposti dalla shiarja non trovano fondamento storico nel Corano. «Quasi tutte le artiste di questa Biennale – approfondisce Cirelli – sono credenti e vivono la religione come una parte importante della loro vita. Ciò non toglie che tutte sottolineino che ci si debba allontanare dagli integralismi per abbracciare il vero islam e non quello seguito da fanatici religiosi. Il problema, insomma, sarebbero le tante interpretazioni sbagliate che sono state date dell’islam e che erroneamente considerano la donna inferiore all’uomo». Intanto però il controllo sulla donna e sul modo in cui viene rappresentata l’immagine femminile nella sfera pubblica negli ultimi trent’anni è stato opprimente. «A partire dalla rivoluzione islamica del 1979 c’è stato un controllo rigido sul mantenimento delle leggi islamiche, la salvaguardia della religione è diventata un’ossessione che è penetrata di forza nella quotidianità degli iraniani e soprattutto delle donne. Anche se – racconta Cirelli- non ci sono leggi che vietano la riproduzione del corpo femminile, un organismo di di governo come il Controllo della moralità nei luoghi pubblici sta ostacolando ormai da anni quelle rappresentazioni femminili che a loro avviso offendono l’islam».

Shadi Ghadirian
Un esempio concreto di questa forte censura lo si può vedere nel video documentario che Firouzeh Khosrovani presenta a Ferrara: mostra come i manichini “formosi” siano stati banditi dalle vetrine di Teheran. Le arti visive così come il cinema in Iran, invece, da molti anni si interessano all’identità della donna. E la rappresentano poeticamente. «Ma – ricorda la studiosa -il recente arresto del regista Jafar Panahi, Leone d’oro a Venezia con Il cerchio, dimostra come i vertici del governo stiano continuando a ostacolare la libera espressione cercando di nascondere le facce sconvenienti dell’Iran. Non è un caso che molte opere o mostre di artisti contemporanei iraniani siano censurate perché considerate contro lo Stato…». Per continuare una propria ricerca, senza dover rischiare la libertà e la vita, di fatto molte artiste iraniane hanno scelto la via dell’esilio. «Mandana Moghaddam, Parastou Forouhar e Ghazel vivono ormai da anni all’estero. Ma – sottolinea Cirelli – tutte hanno conservato un fortissimo legame con la propria cultura. L’identità iraniana non viene mai dimenticata o abbandonata. Al contrario viene evocata in gran parte dei loro percorsi artistici».
Ma non solo. Vivissima, dai loro lavori, appare la partecipazione emotiva a ciò che sta succedendo in Iran. «Tutte le artiste della mostra sono estremamente sensibili a quello che sta succedendo in quest’ultimo anno nel loro Paese di origine. Le elezioni e i brogli che si sono riscontrati in seguito sono stati un campanello d’allarme che ha risvegliato chi è da anni stanco della rigida politica del governo. Il movimento che ancora popola le strade di Teheran è partito dai giovani ma si è esteso a più fasce della popolazione, a dimostrazione di come in Iran ci sia ormai un malcontento molto radicato».
da left-avvenimenti del 9 aprile 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 6, 2009
In Mesopotamia quattro millenni fa fiorì una civiltà senza “religione”. Una cultura che nell’epos e nel suo pantheon offriva una complessa rappresentazione del femminile. La racconta in un nuovo libro dall’assirologo Pietro Mander
di Simona Maggiorelli

Ishtar
La decifrazione della scrittura cuneiforme fin dall Ottocento ha permesso l’accumulo di una grande quantità di informazioni sulle culture dell’antica Mesopotamia. Ma l’analisi filologica dei dati non ha coinciso sempre con la comprensione del loro significato più profondo. «Per questo ho sentito l’esigenza di prendere un po’ di distanze dalla mia stessa disciplina per tentare un’interpretazione più complessiva del pensiero mesopotamico» racconta l’assirologo Pietro Mander, docente all’Orientale di Napoli ed ex collaboratore di Pettinato nelle ricerche sui testi sumerici arcaici e eblaiti. C
Così, dopo un importante lavoro dedicato ai Canti sumerici di amore e morte (Paideia) e Sumeri pubblicato da Carocci, per l’editore romano Mander ha scritto una densa ricognizione della cultura mesopotamica nelle sue principali varianti sumera, babilonese e assira, dal titolo La religione dell’antica Mesopotamia. Un libro in cui propone innovative scelte terminologiche e di metodo. «Per cominciare – spiega il professore -il concetto di Mesopotamia non appartiene al mondo dei suoi antichi abitanti. Nasce dai Greci e da loro è giunto fino a noi» Ed è noto che i macedoni che entrarono a Babilonia da conquistatori con Alessandro Magno nel 31 a.C. erano militari.E non erano uomini di cultura nemmeno i generali che si divisero le province dell’impero macedone dopo la morte di Alessandro nel 323 a.C.
Immaginando di mettersi dalla parte di Berosso, un adepto del dio Marduk che intorno al 280 a.C. scrisse un’opera in più volumi per mostrare agli ignoranti greci (che stigmatizzavano gli stranieri come barbari) la ricchezza dell’antica cultura mesopotamica, Mander invita il lettore a uscire da quegli schemi occidentali che non permettono di capire la civiltà che fra il Tigri e l’Eufrate fiorì più di quattro millenni fa come culla della scrittura e delle prime città stato. La prima categoria fuorviante, avverte Mander, è proprio quella che campeggia nel titolo del suo nuovo libro: «Nelle lingue antiche del Vicino Oriente- spiega- non esiste un termine che possa rendere il senso di religione». Così come la nostra parola magia non richiama l’articolazione di significati che connotava l’astrologia, le divinazioni e gli esorcismi (già nei primi testi narrativi nel XXVI secolo a.C. di Farah). Né ci aiuta a comprendere l’immaginifica epica dei re di Uruk (di cui ci sono rimasti cinque poemi in lingua sumerica) o l’epica di Gilgamesh in lingua accadica, «una tradizione- sottolinea Mander- di forte intensità poetica e coesione narrativa».
Il punto è, al fondo, che il politeismo mesopotamico non conosceva separazione fra realtà trascendente e mondo sensibile. «Questa dicotomia – spiega l’assirologo – è necessaria nella religione che l’Occidente ha mutuato dal mondo giudaico: il monoteismo, che è fondato proprio sulla negazione dell’alterità e sulla netta separazione del trascendente dall’immanente». La più antica affermazione del monoteismo nel Vicino Oriente, come è noto, risale al XVI secolo a.C. e si fa risalire a Amenophis IV che in Egitto impose dall’alto il culto del disco solare Aten. «Il dio unico – approfondisce Mander – nega e annulla tutti gli altri dei. Poi i latini diranno omnes dii gentium daemonia, gli dei pagani sono demoni. Il monoteismo ha creato una visione preconcetta delle culture che ha sottomesso». E una visione alterata della “religione” mesopotamica è arrivata fino a noi, tanto che Mander (con Assmann) preferisce parlare di “cosmoteismo”: perché le divinità, perlopiù, sono raffigurate in forma antropomorfica e rappresentano «le potenze reali che ci circondano nella vita di tutti i giorni». Sono le forze che muovono l’universo, le stelle, l’acqua, i temporali ma anche le emozioni, gli affetti e le pulsioni profonde che muovono la mente umana. In altre parole, dice Mander, «gli dei erano differenziazioni del cosmo che corrispondevano alle molteplici esperienze umane».

statuetta egizia preistorica
Con questo assunto, il pantheon mesopotamico, eminentemente sumerico, era già compiuto nella prima metà del III millennio a.C. e rimase pressoché immutato per i duemila anni successivi. Di fatto. un pantheon assai affollato di dei ma al tempo stesso curiosamente antropocentrico. «Ogni persona si pensava generata dai propri genitori e al contempo da un suo “dio” o “dea” – ci spiega Mander – e la presenza nell’essere umano di un elemento divino costituisce il motivo della centralità cosmica dell’uomo che è stato incaricato dagli dei di gestire il mondo secondo i principi celesti da essi stabiliti». I sumeri non si interessavano all’origine dell’universo né di questioni escatologiche. Ma volevano conoscere il funzionamento delle cose del mondo. Come dimostra il grande sviluppo che ebbero le “scienze” in Mesopotamia fin dall’antichità. Inoltre, come scriveva l’archeologo Paolo Brusasco ne La mesopotamia prima dell’Islam (Bruno Mondadori, vedi left n.7/2009), il loro era un universo pagano che non reprimeva la donna. Diversamente dai tre monoteismi. Ne è spia anche il fatto che nel loro pantheon, così come nell’epos, un posto di rilievo era riservato alle dee e a Ishtar (Inanna in lingua sumerica) in modo particolare, la dea che ha in sé Venere e Marte. E, per dirla con l’assirologo Bottéro, « la dea che ha creato il desiderio per la buona riuscita dell’amore». «Ishtar – commenta Mander – è il pianeta Venere che appare prima del sole e dopo il tramonto. Mantiene la luce nelle tenebre e anticipa l’alba. In questo senso unisce gli opposti. Per questo i sacerdoti della dea erano vestiti da donna e portavano strumenti femminili. Non perché fossero dei pervertiti ma per indicare l’unione dei due opposti». Al contempo per rappresentare il fatto che la dea aveva in sé anche un’immagine maschile, guerriera, in alcuni contesti veniva rappresentata con la barba. «Ishtar – aggiunge Mander – era la dea dell’ebbrezza alcolica e del furore guerriero come stati di conoscenza alterata. Ma il suo nome indica anche la fusione dell’elemento divino con quello corporeo, dove per elemento divino si intende quella forza vitale, intima, quel talento, quella tendenza che, per esempio, spinge un Mozart verso la musica». Dunque non pensava in termini di scissione fra fisico e psichico? «L’essere umano per gli abitanti della Mesopotamia aveva una componente divina: è l’unico che crea una società diversa dal branco. Non c’èra un conflitto fra razionalità o irrazionalità. O almeno noi non ne abbiamo traccia».
dal left- Avvenimenti 20 novembre 2009
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