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Il salto culturale dei sapiens

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 20, 2012

Nessun gene dell’egoismo o della creatività. Alle origini del linguaggio, un processo evolutivo, in cui contano le relazioni umane. Parla Telmo Pievani, ospite del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

Pitture rupestri, Chauvet, 32mila anni fa

Come nasce il linguaggio umano? Su questo annoso e affascinante tema il filosofo della scienza Telmo Pievani ( con Emanuele Banfi e Federico Albano Leoni)ha promosso un confronto fra linguisti e neuroscienziati all’università Bicocca di Milano. Left gli ha chiesto di fare il punto sui risultati del dibattito che ha coinvolto un parterre internazionale di scienziati. A settembre su questi temi lo studioso terrà una lectio magistrali al Festival della mente di Sarzana

Professor Pievani sui media, di recente, si fantastica di un gene dell’egoismo o dell’altruismo. Non si può pensare, piuttosto, che la maturazione cerebrale avvenga in relazione a stimoli ambientali, sociali, di rapporto? 

Suggerisco di diffidare sempre delle notizie del tipo “Scoperto il gene di”. Non ha più alcun senso ritenere che comportamenti sociali complessi abbiano una determinazione genetica lineare di questo tipo. Persino per il colore della pelle occorre un intero network di geni interconnessi, figuriamoci per l’egoismo o l’altruismo. Il genoma è la filigrana della vita, non un oracolo interno, né un surrogato dell’anima; è una componente di un sistema, non un’essenza senza tempo né contesto. La maturazione cerebrale, che avviene per una parte dopo la nascita (i nostri cuccioli nascono fragili e immaturi) è soggetta sia a un’impronta genetica ereditaria sia a influenze ambientali, sociali, familiari. In un intreccio inestricabile di innato e acquisito.

Nello sviluppo del linguaggio è importante il rapporto con la madre, lei scrive. Non a caso Kaspar Hauser e i “bambini lupo” cresciuti fuori dal rapporto umano non parlano. Tuttavia il bambino non è una tavoletta di cera…
Il linguaggio umano deve essersi evoluto nel genere Homo con un processo continuativo, se non vogliamo ricorrere a tesi miracolistiche o rassegnarci al mistero. Ma non abbiamo ancora modelli evoluzionistici adeguati per ricostruire questa dinamica. Anche se indizi ora vengono da ricerche di etologia cognitiva e paleoantropologia. E qui occorre distinguere tra filogenesi e ontogenesi: tra evoluzione delle specie e sviluppo individuale. Il rapporto con la madre è certo decisivo per lo sviluppo del linguaggio verbale. Ma la novità è un’altra. Anche negli studi che riguardano la filogenesi, noi sappiamo adesso che forse l’ambiente ideale per le sperimentazioni necessarie all’evoluzione del linguaggio non è stato solo il coordinamento per la caccia ma anche l’interazione tra madri e piccoli, come sostenne già anni fa Ian Tattersall e come ha scritto Dean Falk in Lingua madre. Dunque anche il linguaggio potrebbe essere legato all’allungamento dell’infanzia e dell’ adolescenza nei sapiens, che è maggiore rispetto a ciò che accade in scimpanzé e gorilla ma anche rispetto alle altre specie del genere Homo.

La fantasia, la capacità di immaginare, è specifica e originaria dell’essere umano?
Direi di sì, almeno da quanto vediamo dalla nascita del comportamento umano “cognitivamente moderno”, intorno a 40-50mila anni fa. Dopo le prime avvisaglie in Africa, l’innovazione sembra diffondersi con grande rapidità, facendo esplodere nei cacciatori raccoglitori sapiens (dall’Europa all’Australia) comportamenti del tutto inediti, cioè pitture rupestri, sepolture rituali, ornamenti, strumenti musicali, sculture, nuove tecnologie litiche. Le caratteristiche di questo cambiamento, forse portato da una popolazione di sapiens uscita dall’Africa circa 60mila anni fa (di cui conosciamo alcuni marcatori genetici), lasciano supporre che sia stata un’evoluzione culturale, più che biologica. E l’innesco di questa intelligenza simbolica potrebbe essere stato proprio il completamento del tratto vocale umano e lo sviluppo del linguaggio articolato tipicamente sapiens, con le sue proprietà ricorsive e astrattive che hanno aperto alla nostra mente nuove possibilità. Lì abbiamo imparato a inventare mondi alternativi nella nostra testa, e a condividerli con i compagni del gruppo. Ancora oggi nello sviluppo individuale, anche se spesso si fa di tutto per mortificarla, credo che la capacità di immaginare altri mondi possibili, scenari alternativi, sia il modo migliore per onorare la nostra evoluzione sapiens.
Negli studi sull’origine del linguaggio umano si parla perlopiù di linguaggio verbale e di pensiero cosciente. Ma il Big bang della nostra specie non è stata la capacità di creare immagini espressive, dalla risonanza profonda e di valore universale?
Sono d’accordo. Se verrà confermata l’ipotesi evolutiva che delineavo, il linguaggio verbale va associato a una più vasta competenza simbolica. Anch’io penso che la comparsa di segni e poi di rappresentazioni (sia realistiche che stilizzate) sia un indizio cruciale. La raffinatezza delle prime pitture rupestri e il loro contesto espositivo vanno oltre un significato sociale di valenza rituale. Sono la prova che lì è all’opera una mente umana inedita, con un rapporto nuovo con l’ambiente, capace di mescolare il ricordo vivido delle scene di caccia con una trama di messaggi simbolici condivisi dalla comunità. Senza nascondere che questa immaginazione è anche ciò che ci ha reso più espansivi e invasivi di qualsiasi altra forma umana.

 

Telmo Pievani

Uno studio apparso su Science ora spinge a retrodatare ai Neanderthal la prima arte rupestre. E c’è chi suppone una ibridazione fra Neanderthal e Sapiens. Può aver portato più varietà e capacità di risposta all’ambiente? E quale è stato il contributo della donna?
Lo studio non riguarda la scoperta diretta di arte rupestre neandertaliana, ma ipotizza una possibile associazione con popolazioni neandertaliane, quindi lo valuterei con cautela. I dati suggeriscono che il Neanderthal si stava avviando verso l’intelligenza simbolica: lo mostrano le possibili sepolture di Shanidar nel Kurdistan, l’uso di piume ornamentali nel sito di Fumane, il possibile flauto neandertaliano scoperto in Slovenia. Tuttavia, un conto è assumere questi comportamenti in modo globale e sistematico come fanno i sapiens, altro è farlo in modo occasionale. Forse era un inizio e non hanno fatto in tempo. Anche l’ibridazione tra le due specie è un modello in discussione, non tutti i genetisti ne sono convinti. Certo, scoprire che in certe fasi della nostra storia e in alcuni territori (si pensa al Medio Oriente) ci siamo accoppiati dando alla luce ibridi Sapiens/Neanderthal, capaci di procreare, è impressionante. Vorrebbe dire che nemmeno il nostro genoma è “puro”, tutto nostro, e che anche geneticamente siamo un mantello di Arlecchino con contributi diversi, che certamente ci hanno rafforzato in termini di variabilità e di difese immunitarie. Per tutte le specie, la diversità interna è una assicurazione per la vita, il combustibile di ogni cambiamento. Vale anche per le diversità di genere, che in campo evoluzionistico per fortuna sono andate ben al di là dello stereotipo dell’uomo cacciatore e della donna raccoglitrice. Dalla neotenia alle interazioni madre/figlio nello sviluppo del linguaggio, oggi l’evoluzione umana è vista senz’altro molto più “al femminile” di quanto non fosse in passato.

da left -avvenimenti

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La memoria dei classici

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

maurizio bettini

Il senso della memoria per gli antichi Greci e per Romani. Il filologo dell’Università di Siena Maurizio Bettini  – che  sabato 29 settembre 2012 presenta il suo nuovo libro Contro le radici (Il Mulino) alla libreria Amore ePsiche di Roma – ne aveva parlato a Left in  in occasione dell’edizione 2011 del Festival della mente di Sarzana.

di Simona Maggiorelli

mnemosyne

Mentre la storia antica, latina e greca, si studia sempre meno nelle scuole italiane, per non parlare poi di quella assiro-babilonese definitivamente espunta da programmi scolastici grazie all’ultima serie di riforme e controriforme, la proposta che viene da una fortunata kermesse come il Festival della mente di Sarzana si segnala decisamente in controtendenza: nel fitto carnet di incontri dell’ottava edizione, in programma dal 2 al 4 settembre, si legge infatti l’intenzione di aprire un’agorà di riflessione critica sulle radici culturali dell’Europa e sui rapporti che, attraverso il Mediterraneo, abbiamo intessuto nei secoli con la Grecia e con le millenarie culture del Medioriente. Una serie di importanti pubblicazioni apparse di recente, del resto, già riaccendono il dibattito a livello internazionale (ne accenneremo in breve). Anticipando a left alcuni temi della lectio magistralis che terrà il 3 settembre al Festival (alle 10,30 nella Fortezza Firmafede) ce ne parla qui uno studioso di cultura antica come Maurizio Bettini, filologo dell’Università di Siena, autore di importanti monografie sulla mitologia greca, ma anche romanziere.

A Sarzana, in particolare, Bettini racconterà le molteplici figurazioni culturali (divine, mitologiche, narrative, metaforiche) della memoria nella Grecia antica confrontandole con il modo di intendere la memoria a Roma, dove la dea Moneta «fa ricordare il proprio dovere a custodi distratti e mette in guardia i cattivi amministratori del pubblico fisco. Rammentando ciò che altrimenti si rischia di dimenticare, alla maniera di un’agenda computerizzata».
Professor Bettini la concezione greca della memoria, al fondo, in cosa differiva da quella romana?
I miti greci parlavano dell’importanza della memoria e nella Teogonia di Esiodo compare la dea Mnemosyne che ha per figlie le Muse. Così i Greci costruivano miticamente il rapporto poesia – memoria, nella loro cultura orale. La scrittura, non va dimenticato, in Grecia comincia ad essere usata non prima del VI a C. Tutta la poesia omerica è produzione orale: c’è un poeta che dice di essere in rapporto con le muse e di ricevere da loro la memoria dei fatti che racconta. A Roma, veri e propri miti di memoria, invece, non ce ne sono. Ma c’è una divinità interessante, che i Romani chiamano Moneta. Come tutte le divinità latine con il suffisso “ta” indica un’attività. Come Tacita è la dea che mi fa tacere, Moneta è quella che mi fa ricordare. Anche che questo pezzo di metallo vale un tot.
Potremmo dire che nell’epos c’era una memoria fantasia, mentre i Romani di distinguevano per un approccio più “razionale”?
Questa è la classica distinzione: i Greci erano quelli della fantasia, dei poemi, mentre i Romani erano quelli pratici che non avevano tempo da perdere perché dovevano conquistare il mondo. Ma la faccenda è più complessa. I Romani non avevano una religione mitologica fatta di racconti. La loro era di carattere rituale. Ciò che contava era eseguire scrupolosamente i riti; si tramandavano le formule. Non esisteva a Roma alcun racconto di cosmogonia, come invece c’era in Grecia e in Mesopotamia. Sembra quasi che i Romani non si fossero mai preoccupati di formulare racconti su come è nato il mondo. La prima cosmogonia che troviamo a Roma è filosofica, comincia con Lucrezio e con Virgilio. Beninteso anche loro avevano i loro miti, per esempio Romolo e Remo, l’arrivo di Enea nel Lazio ecc., ma erano di tipo assai diverso da quelli greci.
Nella Grecia antica qual era il nesso fra immagini e memoria? Nel libro Il ritratto dell’amante (Einaudi) lei racconta che anche il sogno aveva un ruolo prioritario.
Facciamo un esempio: noi diciamo “ho fatto un sogno”. I Greci invece dicevano “ho visto un sogno”. La nostra metafora è piuttosto grossolana, fa pensare che il sogno sia una sorta di funzione corporale. Per i Greci il sogno era una manifestazione che si esplicitava nella visione. Che talora può essere addirittura comune a più persone. Si racconta di sogni multipli in Grecia. Tutta la città può sognare la stessa cosa per una volta. Così il sogno ha conseguenze concrete. Si può trasformare in una realtà a partire dal fatto che c’è un nome per questo. Normalmente il sogno si chiamava “onar”, da cui onirico. Ma c’era un’altra parola per indicare, invece, il sogno che si avvera. Insomma il sogno era un’esperienza molto più reale, più concreta, per i Greci di quanto non lo sia per altri. Detto ciò c’erano anche sogni che in Grecia si dicevano derivati da cattiva digestione, o da eccesso di fatica, per cui uno sogna ciò che ha fatto il giorno prima. Ma è una categoria di sogni diversa da quella che ha una forte componente di realtà tanto da anticipare il futuro, da dare indicazioni di comportamento.

odisseo e sirene

Lo stesso Omero distingueva fra sogni falsi e veritieri.
Due sono le porte dei sogni, diceva, una di corno e una di avorio. Esistono sogni veritieri destinati a durare e sogni che sono degli inganni. Facendo somigliare stranamente i sogni anche alla poesia:  e Muse, incontrando Esiodo nella Teogonia, lo avvertono: noi diciamo molte cose vere ma anche molte cose che sono solo simili al vero, cioè false, perché la divinità – e qui torniamo al tema della memoria – può suggerire cose che non sono vere. Al pari di certi sogni.
Studiosi come Christian Meier in Cultura, libertà, democrazia (Garzanti) e in Italia Gaetano Parmeggiani con Lo scudo di Achille (Sellerio), con percorsi diversi, ora tornano a tratteggiare l’immagine di una Grecia antica in cui gli aedi- cantastorie avevano molto più potere dei sacerdoti. Cosa ne pensa?
Non si può negare che rispetto ad altre culture contemporanee, ma anche successive, quella greca aveva aspetti peculiari assai interessanti. Come l’importanza data ai poeti rispetto ai sacerdoti. In Grecia non c’era un vero e proprio clero. L’idea di una Chiesa o di Chiese era loro totalmente estranea. Quando a noi sembra addirittura normale, dacché il mondo cristiano, ma anche quello ebraico e musulmano, vive in forme di clero organizzate. E in Grecia non esisteva un libro che dicesse come è fatta la religione, come pregare Dio. C’erano varianti infinite di miti, che raccontavano, in modi anche molto diversi fra loro, storie sugli dei. I culti locali si tramandavano con forme di memoria, di tradizione orale, ma non c’era un protocollo ufficiale da rispettare, pena l’eresia. In questo senso quello greco era un mondo profondamente più libero. L’ateismo totale veniva condannato solo perché avrebbe potuto mettere in crisi la polis. Ma non c’era un’ortodossia. Tutto il mondo antico pullulava di culti diversi, legati a quella meravigliosa esperienza che era il politeismo. In cui una divinità non escludeva l’altra. L’esclusione è tipica, invece, dell’ebraismo e delle religioni che ne sono discese.
Nel suo dirompente Black Athena, ora riproposto da Il Saggiatore, Martin Bernal indaga le fortissime radici afroasiatiche della Grecia antica. La memoria di questi debiti verso le culture orientali è stata cancellata?
Sì, ma non tanto dai Greci, quanto da noi. Tra Ottocento  eNovecento esplosero l’eurocentrismo e il colonialismo. L’Inghilterra e la Germania, in particolare. si identificano fortemente con i Greci. Non volevano ammettere che i Greci avessero preso molto da culture che loro sostanzialmente disprezzavano. L’antisemitismo, poi, non poteva accettare che i Greci, “così puri e così santi” avessero debiti con i popoli del Vicino Oriente. Fu una grande mistificazione. Incomprensibile ai nostri occhi: il Mediterraneo è un mare piccolo: le idee hanno sempre viaggiato con le merci, con le persone. Ma si era arrivati al paradosso che, per capire i Greci o anche i Romani, bisognasse paragonarli ai Germani o addirittura agli Indiani, in base alla teoria dell’indoeuropeo. E non con i popoli a loro più vicini. Erodoto, per esempio, parlava moltissimo degli egiziani. Ma lo si negava in nome di una pericolosa idea di purezza dei Greci e degli Indoeuropei.
Con Luigi Spina, per Einaudi, lei ha ripercorso il mito delle sirene. In questo caso come avviene la mitopoiesi?
Il mito era un racconto immaginario ma con significati culturali profondi che toccavano la realtà. Le sirene afferiscono a un mondo di cui fanno parte anche ad altri mostri dell’Odissea come il Ciclope, una sfera in cui rientrano anche gli inquietanti incontri con le ombre dei morti oppure con i lotofagi che si sono drogati di loto e ora non ricordano più. Sono costruzioni simboliche, fantastiche, che poi vogliono semplicemente dire c’è un mondo altro che noi non conosciamo, o che non conosciamo più, ma che Ulisse ha visto.
Nella mitologia e nella cultura greca, più in generale, c’era una forte misoginia. Secondo fonti diverse da Euripide, Medea non era un’infanticida, come ha scritto Christa Wolf. La stessa Circe, come lei ha ricostruito in un libro scritto con la Franco, forse non era così terribile come Omero la dipingeva. L’uomo greco simboleggiato da Ulisse aveva paura del femminile, dell’irrazionale, di tutto ciò che era altro da sé?
La società greca era dominata dai maschi, come quella romana. E questo pregiudizio sociale forte verso la donna entra anche nel racconto mitologico. L’esempio più lampante è Pandora: una specie di automa, di fantoccio animato che raffigura l’ingresso del femminile nel mondo degli uomini come origine di tutti i mali. Di lei si dice anche che è seduttiva e ingannatrice. Non è  molto diversa da  Eva. Sono racconti che nascono per tenere sotto controllo le donne. Gli antichi cercavano di giustificare con innumerevoli motivi la sudditanza delle donne e credo che la principale spinta fosse la paura maschile che la donna gli scappasse di mano rendendo incerta la sua discendenza. A Roma, come in Grecia gli uomini ne avevano un terrore fortissimo. Perciò i padri e i mariti cercavano di tenerle rinchiuse. Perché se le donne sono troppo libere che succede? I figli di chi sono? La mia onorabilità dove va a finire? Credo che questa ”gelosia” come motivo di esclusione della donna dalla sfera pubblica, continui a funzionare in tante società del mondo arabo: la donna è troppo importante perché la si lasci libera. Si venera la figura femminile e ad un tempo la si schiavizza. Sono i due aspetti contraddittori dello stesso problema.
Immagini di donna idealizzate, secondo un’estetica classica, compaiono nel suo romanzo, Per vedere se appena edito dal Melangolo…
Una certa idealizzazione forse deriva dal fatto che vedo una profondità e un’intelligenza nelle donne che negli uomini, perlopiù, non trovo. Magari non sarò così ingenuo da credere che la “salvezza” venga da voi, ma davvero credo che molto spesso voi abbiate un modo diverso di riflettere di vedere il mondo. E i miei personaggi femminili forse risentono di questo pensiero.

Nuovi Studi

Affascinante quanto schiva figura di medico e studioso dell’ellenismo, Gaetano Parmeggiani, ne Lo scudo di Achille ci parla di un mondo greco antico dalla lunga e raffinata civiltà artistica, articolato come una società antropocentrica, «affrancata dal trascendente». Al punto che «la stessa religione non trova un equivalente nel greco arcaico». Questo suo pamphlet, riproposto da Sellerio, si legge dunque come un appassionato invito a tornare a leggere l’Odissea e soprattutto l’Iliade, di cui La lepre edizioni ha appena pubblicato una nuova e fresca traduzione di Dora Marinari (con la prefazione di Eva Cantarella). Per Carocci, invece, esce Donne e società nella Grecia antica di Nadine Bernard, che ricostruisce, fra l’altro, la pratica greca dell’infanticidio, specie delle femmine. In Grecia, scrive la storica francese «gli anni dell’infanzia erano concepiti come la parte selvaggia della vita, quella in cui l’anima è ancora primitivamente folle, per usare le parole di Platone. E per questo non erano tenuti in alcuna considerazione».

da left-avvenimenti 31 agosto 2011

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Le radici dionisiache dell’Europa

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

Alle origini del pensiero greco.  Indagando il tema della follia nell’epos e nei culti dall’Oriente , Un incontro con il gregista Guido Guidorizzi che, dal3 al 5 settembre, saràfra i protagonisti del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

arte minoica. affreschidall'isola di Thera, 1650 a.C

Dopo aver curato il volume Il mito greco uscito l’anno scorso nei Meridiani Mondadori, Giulio Guidorizzi torna in libreria con un nuovo libro, Ai confini dell’anima, dedicato ai Greci e alla follia e pubblicato nella collana di Raffaello Cortina diretta da Giulio Giorello. Un saggio dove l’ordinario di Teatro e drammaturgia dell’università di Torino prova ad approfondire la complessa koiné culturale della Grecia arcaica, prima della cosiddetta nascita del logos. Dedicando ampio spazio allo studio della potenza espressiva e icastica dell’epos più antico ma anche alla ricerca sui culti di Dioniso documentati anche nella cultura minoica.

Giulio Guidorizzi con Eva Cantarella a Firenze

«Nella Grecia delle origini – annota il grecista torinese nel suo nuovo lavoro – lo statuto della follia oscilla fra due estremi», dal momento che non fu intesa solo come «cedimento della ragione» ma anche «come incontro con sfere nascoste della mente». Tanto che la parola “follia” si legava a culti estatici, era alla base dell’attività dei profeti e perfino di politici; era la voce degli oracoli. Insomma, parafrasando Shakespeare, chiosa lo studioso, «c’era del metodo in quella pazzia che ispirava poeti e cantori».
Professor Guidorizzi, i Greci delle origini inventarono la follia, lei scrive. Come accadde?
I Greci inventarono anche la filosofia, del resto. Appunto nel definire i confini della ragione e nello studiare i procedimenti logici della mente, necessariamente, incontrarono il mondo della non-ragione e tentarono di farne conoscenza. L’idea che la pazzia sia una vera e propria malattia, dell’anima (come dicevano i filosofi) o del cervello (come dicevano i medici), compare per la prima volta, nella storia della civiltà occidentale, nel V secolo a.C., ovvero il secolo di Pericle e Socrate. Da allora in poi, ragione e follia apparvero come due facce contrapposte dell’uomo: o si è folli o si è sani di mente. Però, la sapienza greca arcaica non aveva confini così netti; in Grecia, tra l’altro, non vi fu mai la reclusione o l’emarginazione dei folli, anzi, la follia fu considerata, in alcuni casi, come un mezzo per forzare i limiti della coscienza e dilatare la personalità. Un mezzo, anche, per esplorare i confini dell’umano, scavalcando la ragione.
Dal suo libro emerge che il mito di Dioniso non giocò un ruolo affatto marginale nella cultura greca. Dunque, Nietzsche in certo modo aveva visto giusto?
Credo che, dopo Nietzsche, Dioniso sia tornato a essere un patrimonio della nostra civiltà. L’Illuminismo aveva escluso dalla cultura ciò che non è pienamente razionale ma Dioniso dimostra il contrario: anche la non ragione può entrare nella sfera della civiltà. Ai margini: né completamente dentro né completamente fuori. Il Dioniso dei Greci aveva molte facce, era un dio della vegetazione, un profeta, un dio civilizzatore; noi oggi tendiamo a vederne soprattutto una faccia: la forza irresistibile e involontaria che consente di uscire da se stessi, di superare i limiti della personalità per ritrovare l’armonia a cui aspiriamo e da cui la civiltà ci ha inevitabilmente separato. E’ davvero un modo diverso di concepire il mondo: perché il fatto davvero speciale è che Dioniso non è il dio della follia ma il dio alla cui natura profonda apparteneva il fatto di essere folle lui stesso.
«Dioniso non è Era che si compiace del suo potere “gettando la follia su altri”, si legge nel suo Ai confini dell’anima. La follia dionisiaca, dunque, era ben diversa dallo “stare male” che Era induceva?
Come avviene generalmente nelle culture primitive, i comportamenti anormali e inspiegabili sono visti in termini di intervento esterno: arriva un demone, entra nel corpo di un uomo e poi così come è arrivato se ne va. Nel frattempo, un uomo è un posseduto o (come dicevano i Greci) un éntheos, un “uomo dentro cui abita un dio”. Ma questo dio si manifesta in forme diverse. La follia mandata da Era è truce e distruttiva, quella di Dioniso è gioiosa, può essere talora sanguinaria ma comporta anche l’idea di una conoscenza e di rinascita.

Nella cultura greca antica c’era la follia delle sacerdotesse. Ma nei poemi omerici si parla anche di quella di Aiace, che è cosa ben diversa. C’era in nuce una distinzione fra “follia” (intesa come irrazionale creativo, pensiero per immagini) e “pazzia” (intesa come irrazionale malato, distruttivo)?
Platone parlava di due tipi di follia, una negativa, che consiste nella malattia dell’anima; l’altra invece è una “divina follia” che favorisce manifestazioni creative e visionarie: è un surplus di energia psichica che trasporta la mente là dove, con le sole forze della ragione, non sarebbe capace di andare. Sotto questo aspetto, l’artista è un folle, perché ciò che lo muove è l’ispirazione irrazionale di cui non è pianamente padrone; un profeta è un folle perché vede cose che altri, sani di mente, non vedono; folle è anche un innamorato,  dentro il quale operano “forze” di cui non è padrone e gli impongono azioni ed emozioni che non potrebbe mai compiere o provare  in condizioni normali.

Un’ampia parte del suo libro è dedicata ai poemi omerici. E in Omero si legge:”Due sono le porte dei sogni inconsistenti, una ha battenti di corno, l’altra d’avorio, quelli che escono fuori dal candido avorio, avvolgono d’inganni le mente, parole vane portando; quelli che escono fuori dal lucido corno, verità li incorona, se un mortale li vede. Quasi a dire che specifico della specie umana è anche un pensiero della notte, per immagini, che è fantasia, conoscenza profonda quando non è offuscato da carenze, negazioni e annullamenti?
I Greci davano una speciale importanza al linguaggio dei sogni. Il sogno era per loro una fonte di conoscenza: in sostanza, l’idea è che non si vive solo di vita cosciente ma che la vita può essere raddoppiata, se si includono nella nostra esperienza anche le immagini notturne. Platone afferma che il sogno rivela una serie di esperienze represse e primitive che si agitano dentro gli uomini. Il sogno dimostra quindi l’uguaglianza psichica di tutti gli uomini, perché dal punto di vista della vita irrazionale il saggio non è migliore del criminale, ed è appunto questo groviglio di cose che i sogni mettono in luce, in tutti, durante la notte in cui anche un uomo onesto sogna cose proibite o immorali. Senonché Platone scelse di chiudere la porta che si apriva sull’inconscio per affermare che solo l’anima razionale porta l’uomo verso la sua vera umanità. Ma con la contraddizione, appunto, della follia: che da un lato disgrega ma dall’altro esalta.
Lei si è occupato lungamente di mito greco, ecco, dall’Oriente era giunta una favola che narrava di una fanciulla, Psiche, che sarebbe andata in sposa al dio dell’amore. Poi venne Platone che, come oggi sappiamo, ne fece un concetto astratto di anima. Così il logos greco si strutturò per annullamento del pensiero irrazionale e dell’identità femminile…
In effetti, i mostri della mitologia greca sono quasi tutti al femminile: Arpie, Sirene, Gorgoni. Una femminilità spaventosa e terrificante; però, c’è un altro versante della questione. I grandi personaggi della tragedia greca, per esempio, sono, quasi tutti donne: sembra che nell’analizzare le grandi forze che si agitano nell’anima, il mondo femminile rappresentasse per i Greci un universo da esplorare.  In effetti, l’uomo inventa la civiltà, la città, le leggi; ma la donna conserva le radici della natura, dentro di sé, e le fa emergere irresistibilmente, talvolta in modo anche inquietante. Donne di tutti  i tipi: colei che si sacrifica, l’omicida, la gelosa, la sposa fedele, la traditrice…  Non conosco altra letteratura che abbia presentato un panorama così ampio e grandioso di figure femminili, da Elena a Clitennestra, ad Antigone.

da left-avvenimenti del 16 luglio 2010

LA MOSTRA: CAPOLAVORI RIEMERSI DAL MARE

Sono riemersi dal mare due tesori dell’arte antica, esposti a Roma. Si tratta di una statua di Dioniso dal sorriso velato di malinconia e di una grande maschera in bronzo di Papposileno. I due capolavori, rispettivamente del II secolo d. C. e del I secolo a.C,, si possono vedere fino al 18 luglio, al Museo nazionale romano di palazzo Altemps. Le due opere, in passato custodite in dimore private, tedesche e italiane, sono state acquistate e restaurate dalla Fondazione Sorgente group. La maschera bronzea di Papposileno (che compare nella foto qui sopra), in particolare, è considerata un unicum nella produzione artistica greco-romana. Raffigura un satiro che ha le sembianze di un essere semi ferino; nella storia del teatro drammatico greco, Papposileno è il sileno più anziano e il più saggio della “corte” dionisiaca, infatti a lui fu affidato Dioniso quando era piccolo. Ma preziosa è considerata anche la scultura del giovane Dioniso (alta un metro e mezzo), in marmo bianco italico a grana fine e realizzata  ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, intorno al 180 d. C.

CLASSICI. da Nietzsche a Kerényi

Nietzsche che pure professava un radicale ateismo, contrappose un dio greco a cristo. Come giunse a questo?». Come arrivò a capire che una cultura del tutto diversa si era espressa con il mito di Dioniso? è la domanda che Karl Kerényi si poneva nell’introduzione al suo Dioniso, scritta a Roma nel 1967. Una domanda che al filologo ungherese aveva fatto scattare la voglia di scavare più a fondo nei culti dionisiaci. Riconoscendo al pensiero del filosofo tedesco molte intuizioni. Nonostante le contraddizioni  infeconde e il fondo di religiosità incoffessato degli scritti nietzschiani. L’indole misticheggiante di Kerényi, del resto, non gli permise di vederle. Resta però che il suo corposo Dioniso, ora riproposto da Adelphi, è ancora un importante classico negli studi. A partire dalla decifrazione della seconda scrittura lineare cretese compiuta da Michael Ventris, infatti, Kerényi si dedicò all’interpretazione delle occorrenze di nomi dionisiaci che vi emergevano. Da qui una serie di importanti scoperte sulla civiltà minoica «che – scriveva – rimane del tutto incompresa se non viene inteso il suo carattere dionisiaco».

da left-avvenimenti 19 luglio 2010

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ABO e i portatori di tempo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2010

di Simona Maggiorelli

Picasso, disegni di luce

E’ dedicato a tutti i grandi «portatori del tempo» il nuovo progetto editoriale del curatore e critico d’arte Achille Bonito Oliva. Ovvero a tutti quegli artisti, scienziati, filosofi, registi, compositori e scrittori che nel corso del Novecento hanno inaugurato un modo nuovo di sperimentare la dimensione del tempo. Che per le avanguardie storiche, per esempio, diventò d’un tratto simultaneità, sinestesia, improvvisa connessione di senso, alla velocità fulminea dell’intuizione. E questo non solo nel dinamismo della pittura futurista e nei primi esperimenti cinematografici di Balla e Bragaglia. O nelle danzanti composizioni astratte di Kandinsky.

Ma anche in settori come la musica che, con la dodecafonia, rompe la linearità di una partitura classica iscritta in un movimento ritornante e prevedibile. Per non dire poi del romanzo che, da Kafka a Joyce, abbandona la grande narrazione descrittiva ottocentesca per aprirsi a improvvise epifanie, per farsi torrenziale racconto interiore (il cosiddetto stream of consciousness). E molto oltre.  Andando ancora più a fondo con la visionarietà potente di prose liriche che trascolorano i contorni intagliati e secchi della percezione razionale.

Proprio ricercando i segni di una diversa dimensione del tempo nelle arti del XX secolo,  Achille Bonito Oliva ha ideato per Electa una Enciclopedia delle arti contemporanee, di cui il 3 settembre al festival della mente di Sarzana presenta il primo libro, dedicato al tempo comico; un volume a più mani (tutta l’opera si avvale di un team di giovani esperti) sulla cui copertina campeggia il celebre telefono di Dalì con una rossa aragosta al posto della cornetta. Un lavoro letteralmente sconfinato dacché studia come sono mutate la letteratura, la musica, la pittura, l’architettura, la videoarte, il cinema, la musica, il teatro in base «all’incursione di una nuova temporalità nel processo creativo e nella fruizione dell’opera».

Ma non è un’enciclopedia di tutto lo scibile, mette le mani avanti ABO. «Piuttosto è un progetto direzionato – dice – concepito seguendo il filo di un pensiero elaborato in vent’anni di studi che mi hanno fatto rendere conto di quanto il tempo sia il “frullatore” di ogni specificità linguistica, producendo una rivoluzione non solo linguistica, direi proprio antropologica nel contemporaneo». A questo si intreccia l’analisi dei cambiamenti apportati dallo sviluppo delle tecniche e delle tecnologie nel Novecento e che, nelle mani degli artisti, sono diventate mezzi per dilatare e accorciare la sensazione del tempo. E più in generale strumenti per allargare le potenzialità espressive «facilitando – ricorda ABO – l’avvicinamento fra discipline umanistiche e scientifiche ma anche esperimenti di commistione dei linguaggi».

Fra le sue declinazioni della temporalità spicca «il tempo interiore» affermato da alcuni artisti, ribelli alla mimesi. Picasso ne fu “il campione”?
Certamente ma anche alcuni surrealisti hanno esplorato questo ambito, evocando una fantasia che promana dal profondo. Ma nel caso di Picasso senz’altro ci troviamo davanti a una soggettività molto forte. In lui c’è quasi un furor, una straordinaria capacità scompositiva e compositiva – pensi al periodo del cubismo analitico -. Il suo è un modo personalissimo di rappresentare il tempo interiore.

Un modo di rappresentare che obbliga lo spettatore a un cambiamento?
L’irruzione del tempo interiore elimina ogni elemento di contemplazione, spinge al movimento, favorisce “una guardata curva”. C’è una voluta incompiutezza nell’arte contemporanea. Che non ha nulla a che vedere con il non finito di Michelangelo (dovuto al pensiero che l’uomo è un demiurgo terreno che non ha la forza del divino). L’arte contemporanea chiede allo spettatore una partecipazione attiva, nel creare  la sua visione completa.

Per questo primo volume sul tempo comico dice di aver preso spunto da Nietzsche.  In che modo?
Nietzsche parlava di un tempo comico come tempo dell’irrilevanza, della fine del valore della cosa in sé, come tempo della vita immediata, opposto allo spirito assoluto. Da qui ho ricavato lo spunto per l’esplorazione di alcune figure del tempo comico.

Cita anche Giordano Bruno come anticipatore di molti di questi temi.
Tornando a leggerlo mi sono reso conto che, pur nella sua concezione neoplatonica, dà importanza alla vita. C’è un forte privilegio della materia. è una strana figura Bruno, di santo e di eversore. Il suo linguaggio ha una nota di erotismo. Ama trasfigurare. E poi Bruno è caparbio. Finì al rogo per non voler dire una parolina che Galileo, invece, si lasciò sfuggire subito. Bruno ricorre alla follia per uscire dal logos occidentale.

Alla follia dell’arte, intesa come coraggio creativo, lei dedica una mostra a Ravello. In questo sistema globalizzato dell’arte dominato da un’estetica occidentale che lei stigmatizza come «puritana, razionale, asettica» c’è ancora spazio per chi fa ricerca?
Sì, ma a prezzo di una inevitabile solitudine. In questo senso parlo di follia. Come capacità di un artista di prodursi in nuove forme che intercettano e bucano l’immaginario collettivo, oggi, sempre più anestetizzato, votato a una sensibilità superficiale. Viviamo ancora in tempi di post modernità. Sono cadute le vecchie ideologie ma domina il sistema dell’arte delle sette sorelle (il circuito che va dal MoMa alla Tate, al Centre Pompidou ndr). E tutti aspirano ad andare a esporre in quei sancta sanctorum, secondo quegli standard. Con le mostre, con questa enciclopedia, da parte mia, non smetterò di massaggiare i muscoli  atrofizzati della sensibilità del pubblico.

da left-avvenimenti del 26 agosto 2010

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Coraggiose controstorie

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 24, 2009

di Simona Maggiorelli

In Italia c’è un nuovo pubblico di lettori forti, che vuole sapere. Se i grandi media non informano, piccole case editrici pubblicano libri di denuncia. E scalano le classifiche

Roberto Saviano

Roberto Saviano

In un Paese come l’Italia in cui, a destra e a sinistra, si fa a gara per genuflettersi ai diktat del Vaticano colpisce che libri come La questua (Feltrinelli) di Curzio Maltese, o come Chiesa padrona (Garzanti) di  Michele Ainis, siano stati in cima alle classifiche di vendita per mesi. E il fenomeno dei “best seller anticlericali”, aperto nel 2006 da Contro Ratzinger (Isbn), non accenna ad attenuarsi.

Anzi. Lo dimostra un saggio-inchiesta come Vaticano spa (Chiarelettere) in cui Gianfranco Nuzzi, carte alla mano, dimostra come la banca vaticana faccia da lavanderia per il denaro sporco, a tutto vantaggio della mafia di certa politica e imprenditoria italiana. Un libro serrato e documentatissimo che, in meno di sei mesi dall’uscita, ha venduto centosettantamila copie.

Settantamila copie ha fatto  il libro di Claudio Rendina La santa casta della Chiesa (Newton Compton). E si sale  a più di centomila copie per Il libro che la tua Chiesa non ti farebbe mai leggere di Leedom e Murdy, che Newton Compton vende anche negli autogrill e nei centri commerciali, raggiungendo così anche quel pubblico che di solito non va in libreria.

Poi, a curiosare fra le righe delle più recenti analisi del mercato librario pubblicate sul sito del ministero dei Beni culturali, scopriamo anche che quello stesso zoccolo duro di lettori forti che compra titoli così corrosivi ama anche una certa coraggiosa saggistica firmata soprattutto da giornalisti che, nonostante le minacce di mafia e camorra, hanno raccontato gli intrecci fra criminalità organizzata e potere politico. Il caso di Roberto Saviano e del suo Gomorra è la punta di un iceberg. Ma potremmo parlare anche dei libri di Lirio Abbate e di molti altri colleghi.

E se le inchieste di Marco  Travaglio e Peter Gomez (insieme a quelle di Saviano) sono fra le più “gettonate” dal pubblico giovane, sempre fra quei forti lettori che da soli tengono in piedi il 41 per cento delle vendite librarie scopriamo la fisionomia di un pubblico colto, esigente, che per dirla con Lorenzo Fazio di Chiarelettere «non si accontenta del tg delle venti, ma vuole un’informazione più approfondita e completa».

Una domanda culturale alta che oggi trova risposta in primis nel lavoro di alcune piccole e medie case editrici di lunga tradizione, o più giovani, ma che sfidando l’ottusità dell’oligopolio italiano, libro dopo libro stanno riscrivendo la storia recente portando alla luce quanto in quella ufficiale era sempre rimasto occultato e nascosto. «In questa Italia che sembra anestetizzata, però quando esce un’inchiesta che si interroga sui tabù che consolidano religioni e Chiese, o regimi – dice Fiammetta Biancatelli, portavoce di Raffaello Avanzini di Newton Compton – notiamo un interesse crescente e questo ci stimola a tirare fuori libri che scuotano le coscienze».

Dall’Italia dei colpi di Stato di Gianni Flamini all’Italia dei poteri occulti di Willan, alle inchieste sulla destra di Semprini e Caprara – solo per citare alcuni titoli – grazie al lavoro di questa casa editrice indipendente si è formata, così, nel corso di pochi anni, un’innovativa collana di “controstoria”. «La piccola editoria è sempre stata la più critica verso il potere, anche perché avendone poco critica chi ce l’ha», commenta Giuseppe Laterza, ospite del Festival storia (che si svolge a Torino e a Saluzzo fino al 25 ottobre) per parlare di editoria e potere. Economista, laureato con Federico Caffé, da quando ha preso le redini dello storico marchio di famiglia, Giuseppe Laterza, pur continuando a coltivare un solido catalogo, ha fortemente aperto all’innovazione, anche stringendo rapporti con rassegne come il Festival della mente di Sarzana per «contribuire a costruire un ponte fra cultura scientifica e divulgazione». «Per sua natura – spiega – una piccola casa editrice si regge sulla sperimentazione, sulla capacità di innovare. Una casa editrice molto grande è più vincolata nel suo modo di agire. Anche se – precisa Laterza – non possiamo dimenticare che il libro più dirompente degli ultimi anni, Gomorra di Saviano, è uscito con Mondadori». Una bella eccezione che, tuttavia, non cambia la realtà del colosso berlusconiano che copre il 29 per cento del mercato librario italiano e il 38 per cento del mercato dei periodici, ma che è ingessato in una produzione commerciale e standardizzata. Anche per resistere alla “politica” del patron di Mondadori è nata la collana di saggistica “anticorpi” che si avvale del lavoro di studiosi come Luciano Canfora. «Una collana nata come strumento di lettura della realtà quotidiana. Il titolo – ricorda Laterza – mi fu suggerito da Sylos Labini: «Di tycoon che vogliono mettersi in politica – diceva – è pieno il globo ma in Italia non ci sono gli anticorpi, i fattori di resistenza. Non è un caso che qui governi un personaggio come questo premier che nessun’altra democrazia accetterebbe. E non è un caso che il nostro sia il Paese con i più bassi consumi culturali al mondo». E la responsabilità è anche di chi dovrebbe fare opposizione. «Una sinistra che continua a trascurare la scuola, l’università, le biblioteche – chiosa Laterza – produce, come effetto, anche la possibilità da parte di un personaggio come Berlusconi di dominare attraverso le tv, nell’ignoranza generale». Ma la responsabilità della sinistra è anche aver tralasciato la battaglia per la laicità secondo l’editore di Biblioteca laica di Ciliberto e di altri importanti testi su questo tema.

«La laicità – dice – è un tratto che connota la nostra casa editrice da sempre. Una battaglia per la separazione rigorosa fra lo Stato e Chiesa è un fatto essenziale. Ma devo dire che anche qui, purtroppo, vedo con tristezza che non è in cima ai pensieri del Pd. Dei tre candidati alle primarie solo Marino pone questo tema. Gli altri due lo mettono in sordina. C’è, purtroppo una lunga tradizione, un tentativo continuo in Italia di cercare di carpire la benevolenza della Chiesa catttolica, immaginando che porti dei voti. Il tentativo viene reiterato costantemenete dalla destra come dalla sinistra. Io credo che questo per il nostro paese non sia un fatto positivo e che la battaglia culturale per la laicità oggi sia prioritaria in Italia». Anche perché «una minoranza molto corposa di persone interessate a questo tema ci sono in Italia. Noi, per esempio – conclude Laterza -.i abbiamo avuto ilgrande successo del libro di Stefano Rodotà Perché laico, che abbiamo ristampato per tutto ll corso dell’anno e continuiamo a farlo. Ma anche titoli come Un’etica senza dio di Eugenio Lecaldano e Laici in ginocchio di Viano sono stati libri fortunati.

In questo quadro, fa notare l’editore Alessandro Dalai, la tv ma anche i grandi giornali stanno del tutto venendo meno al proprio compito di informare. «Lo noto una volta di più – spiega l’editore di Baldini Castoldi Dalai – in questi giorni, con l’uscita di un libro come Troppi Farabutti. Nonostante l’autore, l’avvocato Oreste Flamminii Minuto, sia stato uno storico difensore del gruppo l’Espresso e benché il “partito Repubblica” oggi sia più che mai in trincea contro il Cavaliere, registro una certa ritrosia a parlare di questo libro che denuncia l’assenza di libertà di stampa oggi in Italia». Ma il pubblico nel nostro Paese non è del tutto assopito, rilancia Dalai: «Lo dimostra un giornale come Il Fatto che supera le 100mila copie vendute. Un evento che non mi sarei mai aspettato. Un successo dovuto a quello stesso pubblico che compra i libri di Chiarelettere, che segue una certa saggistica che facciamo noi con Garzanti e alcuni altri piccoli editori puri. Quel pubblico c’è e vuole capire. Nelle trasmissioni tv c’è troppo rumore e poca quiete, per andare al fondo delle cose – conclude Dalai – non restano che i libri».

Dal left-avvenimenti

L’intervista:PICCOLI MA DIROMPENTI

Libri d’inchiesta e di forte denuncia, le scelte di Lorenzo Fazio e della sua casa editrice Chiarelettere

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Fazio, Chiarelettere

Lorenzo Fazio, Chiarelettere

il caso editoriale degli ultimi anni. In pochissimo tempo, dal 2007 a oggi, Chiarelettere, fondata e diretta da Lorenzo Fazio (genovese, con alle spalle esperienze di lavoro in Einaudi e Bur), si è imposta sul mercato con titoli incisivi, controcorrente, di forte denuncia. Con libri come Vaticano spa o il recente Il regalo di Berlusconi, riuscendo a intercettare un pubblico laico, attento ai valori della democrazia, che sembrava fin qui assopito. «Di fatto – commenta Fazio – oggi c’è una forte divaricazione fra ciò che viene proposto da grandi giornali e tv e ciò che accade nel mondo dei libri che affrontano certi temi di attualità. Testi come quello di Gianfranco Nuzzi, per esempio, non hanno avuto un’accoglienza sui media tale da giustificare una tiratura e una vendita così eccezionale  pari a 170mila copie. Il Corsera l’ha recensito nelle pagine di cultura ( anche se, fa notare Nuzzi, si tratta un libro di cronaca e che si occupa di economia.Mentre  La Repubblica e La Stampa hanno pubblicato solo una nota nelle pagine dell’economia. Di fatto quasi nascosta. Un atteggiamento strano visto che Vaticano spa tratta di verità incontestabili, dati alla mano. Doveva esplodere un caso. Ma sui giornali non è stato registrato. Salvo eccezioni come left.
Occorrono editori puri per poter pubblicare libri d’inchiesta così corrosivi?
E’ un vantaggio che abbiamo con Chiarelettere. Anche Fazi, che ora è stato acquisito per il 35 per cento dal gruppo Mauri Spagnol, è un editore puro. Così come lo è Newton Compton. Non è un caso che ci troviamo in loro compagnia nel fare questo tipo di saggistica che implica non avere timore di attaccare l’uno o l’altro. Di fatto anche Bompiani o talora Mondadori fanno degli ottimi libri di saggistica. Perché ci lavorano seri professionisti. Ma in alcuni casi devono lasciare il passo a chi, come noi, può affrontare qualsiasi argomento.
Una rivincita dei piccoli editori ?
Da qualche anno i piccoli editori riescono a imporre libri ad alta tiratura: prima non avveniva. E vale sia per la saggistica che per la narrativa. è un segnale di vitalità. I grandi non possono più dormire sugli allori, devono stare al passo con la concorrenza.

Libri di Chiarelettere come I cinesi non muoiono mai o Non chiamatemi zingaro, per esempio, parlano del nuovo volto dell’Italia, dei nuovi cittadini immigrati.Come intercettate i vostri temi?
Ci orientiamo come se fossimo una rivista. Vediamo quali sono i temi che fanno da sfondo alla società e al dibattito pubblico. Individuiamo le onde lunghe di un problema. Dietro la cronaca, sotto la spuma, la cresta in superficie. Cerchiamo di approfondire. Usando la forma dell’inchiesta, a volte la testimonianza oppure la ricostruzione storica. Ma sempre andando a sviscerare i problemi con andamento narrativo. Si può fare della divulgazione in modo molto serio usando i documenti, le testimonianze, gli archivi. In modo assolutamente inoppugnabile, ma cercando di fare venir fuori delle storie.
Inchieste sulla mafia, sulla nascita “ambigua” del  potere di Berlusconi, ma anche su crimini come la pedofilia in Vaticano. Su questi temi volete accendere dei dibattiti pubblici?
Quello che ci preoccupa è che non abbiamo interlocutori che, a livello politico, raccolgano queste denunce e le facciano proprie.
Che idea si è fatto del vostro pubblico?
Fra i nostri lettori ci sono molti giovani e poi persone più mature, preparate, che vogliono un’informazione più completa. Lo deduco dal fatto che se facciamo degli errori ci “beccano” subito. Il nostro lavoro è pensato per queste persone, attente, che oggi rappresentano lo zoccolo duro di lettori in Italia.
Nel futuro di Chiarelettere?
Ho sempre cercato di farne uno strumento di approfondimento culturale: casa editrice libera ma con più facce. Penso che il libro oggi sia uno dei tanti strumenti per accedere a un’informazione che non c’è. Per questo siamo entrati nell’impresa del quotidiano Il Fatto, anche se solo per il 16 per cento. è un segnale che abbiamo voluto dare. E probabilmente faremo altri passi nel multimediale, pensando a più piattaforme con cui veicolare dei contenuti di alto livello. La scommessa si gioca in primis su internet. Già il nostro blog conta su 60mila persone. E 180mila presenze sono sull’Artefatto, nato per il quotidiano. E importante è riuscire a costruire una rete che si tenga e che sia affidabile.E forse quella stessa rete vorrà vedere un tv oppure sentire una radio fatta con i nostri contenuti. con i nostri autori.

da left-avvenimenti

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