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L’opera totale dei #Masbedo

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 12, 2015

Masbedo

Masbedo

L’iconografia dei maestri della pittura, il nero vibrante di Caravaggio ma anche lo sfumato di Leonardo sono alcuni elementi emblematici e suggestivi, che ritornano, nelle opere multimediali dei Masbedo realizzate nel corso dell’ ultima decina di anni. Densa di riferimenti alla storia dell’arte, disseminata di riferimenti colti, la loro videoarte riesce a sedurre lo spettatore con “somma sprezzatura”, dissimulando ogni fatica e asprezza, in un risultato finale intensamente poetico, semplice all’apparenza.
I Masbedo (ovvero Niccolò Massazza e Jacopo Bedogni) sono due maghi del digitale, capaci di utilizzare a pieno la possibilità espressive offerte dalla tecnologia, per espandere ad infinitum la tavolozza dei colori, realizzando immagini eleganti, patinate, ma senza affettazione. Non di rado di grande impatto emotivo. Come accade nei loro loro video nati in simbiosi con la new wave, con il rock più di tendenza degli anni Novanta e di oggi. Basta pensare a Ricoveri virtuali e sexy solitudini dei Marlene Kuntz, la band di Cuneo a cui i Masbedo hanno regalato una allure romantica, quasi ottocentesca, in paesaggi nebbiosi. Oppure alla performance video musicata dai Marlene di Cristiano Godano in occasione di una recente edizione della Art night a Venezia.

Masbedo, Schegge d'incanto in fondo al dubbio ( 2009)

Masbedo, Schegge d’incanto in fondo al dubbio ( 2009)

Una forza emotiva che i Masbedo sono riusciti a non disperdere quando più di recente si sono cimentati con opere più articolate e complesse, come i lungometraggio che hanno presentato nelle Giornate degli autori alla 71esima mostra del cinema di Venezia, dal intitolato The lack. Un vero e proprio film che interroga l’universo femminile, indagando il tema della perdita. Intorno a questa opera densa di primi piani e sequenze che mettono a nudo il mondo interiore delle protagoniste si dipana la retrospettiva che la Fondazione Merz dedica ai Masbedo, ripercorrendo il loro lavoro attraverso nove opere video, alcune delle quali inedite e realizzate proprio per la mostra curata da Olga Gambari, a Torino che si è appena conclusa con una performing night del duo più famoso all’estero riguardo alla videoarte made in Italy .

Un’esposizione che sussume molti aspetti della ricerca dei Masbedo, la sperimentazione cinematografica, l’amore per la fotografia dal gusto retrò, in vibrante bianco e nero, nel tentativo di fissare sulla carta paesaggi umani in cui il silenzio comunica più di tante parole. Fin dagli esordi il loro lavoro non si è mai lasciato imbrigliare in una ristretta categoria, in un genere compartimentato. Al fondo i due artisti (oggi quarantenni) hanno sempre inseguito quel sogno dell’opera totale lanciato dalle avanguardie storiche e prima preconizzato dalle opere di Wagner. Negli spazi della Fondazione Merz a questa ricerca di una fusione dei diversi linguaggi del cinema, della musica, del teatro, delle arti figurative si aggiunge una ulteriore caratterizzazione: il dialogo e l’interazione con la ricerca di un articolato gruppo di video artisti internazionali – tra i quali star internazionali come il belga Jan Fabre e artisti italiani più giovani e già affermati come Marzia Migliora e Ra Di Martino oppure come Gianluca e Massimiliano De Serio. Personalità diversissime qui unite in un omaggio al maestro dell’arte povera, Mario Merz.

Dal settimanale Left

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Un mare di immagini (The sea is my land al Maxxi)

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 25, 2013

Adrian Paci per The sea is my land

Adrian Paci per The sea is my land

“Voglio dita nuove per scrivere in un modo altro/Alte come gli alberi delle barche,/lunghe come il collo di una giraffa/per confezionare alla mia amata/un vestito di poesia».

Così recitano alcuni versi di Nizar Kabbani che l’artista siriano Ammar Abd Rabbo ha scelto per accompagnare una selezione di sue opere fotografiche esposte al MAXXI, nell’ambito della mostra The sea is my land (aperta fino al 29 settembre, catalogo Feltrinelli) curata da Francesco Bonami e da Emanuela Mazzonis.

Sono foto accecanti di colori o in scabro bianco e nero che raccontano momenti di vita pubblica, le feste, la vivacità delle città che si affacciano sul Mediterraneo, le speranze e gli slanci delle recenti primavere arabe ma anche le tragedie, la guerra e la distruzione.

E anche quando le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi in questa collettiva romana sono terribilmente drammatiche lo sguardo di Ammar Abd Rabbo attraverso l’obiettivo appare caldo, vibrante, partecipe, come se si posasse sulla donna amata di cui parla il poeta. Come sensibili sono le sue dita che scattano fotografie dal linguaggio nuovo, poetico, quasi fossero pitture e non semplici istantanee di realtà.

E un registro lirico, denso di nostalgia è da sempre la cifra stilistica e personale di Adrian Paci, videoartista albanese che ha vissuto lungamente in Italia e che non poteva mancare da questa rassegna che racconta il Mare nostrum e le culture che lo abitano, attraverso l’opera di ventidue artisti perlopiù appartenenti alla generazione nata fra gli anni Sessanta e Settanta. Fra loro anche molte artiste che mescolano linguaggi diversi, dalla fotografia, al video, all’installazione per rappresentare la dimensione interiore del viaggio, dello sradicamento, lo spaesamento come fa la tunisina Mouna Karray, giocando fra cronaca e memoria, mettendo al centro dei frammenti di realtà che riescono ad evocare interi mondi, che ci appaiono ormai sfumati e perduti.

Marie Bovo per The sea is my land

Marie Bovo per The sea is my land

Racconta, invece, la vertigine di guardare il cielo dal centro di storici cortili Marie Bovo, facendo incontrare fotografia, scultura e architettura in opere che si presentano come inaspettate finestre per spiccare il volo verso il mare aperto. Verso quel Mediterraneo che continua ad essere solcato da imbarcazioni di fortuna cariche di persone in fuga dalla miseria e da regimi oppressivi e che nel lavoro di questi artisti appaiono come novelle zattere di Gericault che sfidano le correnti. E l’impossibile.

Come i lavoratori protagonisti del breve filmato di Yuri Ancarani che si cimentano con mestieri estremi al limite della sopravvivenza. E ancora l’ombra della guerra torna nelle immagini in bianco e nero di Fouad Elkoury e nell’installazione, intima e toccante, di dieci fotografie firmata da Mladen Miljanovic. Onde di speranza lasciano il posto alla risacca della disperazione dei migranti respinti. Il mosaico dei mille colori del Mediterraneo di cui parlava Braudel si riverbera nelle periferie cosmopolite di Parigi dove Mohamed Bourouissa ritrae gang giovanili in composizioni che evocano celebri quadri di Delacroix, trasformando scene di guerriglia urbana in arte.

(Simona Maggiorelli)

Sal settimanale left-avvenimenti

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E Nam June Paik inventò la videoarte

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 17, 2013

Nam June Paik

Nam June Paik

Nam  June Paik (Seul 1932 – Miami 2006) è stato uno dei più creativi pionieri della videoarte, gettando le basi per l’arte multimediale degli anni Ottanta e Novanta: dai videoclip, alla videodanza, fino alle sue evoluzioni più performative in cui il linguaggio della pittura, della scultura e della musica s’incontrano con quelli del teatro e della danza ma anche con la cibernetica.

Insieme a Bruce Nauman e al più estetizzante Bill Viola, Paik ha dato un’impronta riconoscibile e originale all’arte cosiddetta “elettronica”, ha stabilito un canone e una “tradizione” che dura ancora oggi, nell’era digitale, emulata – a torto o a ragione – da giovani artisti da ogni parte del mondo. Dopo la storica personale che il Comune di Reggio Emilia gli dedicò nel 1990 nel Chiostro di San Domenico, ora è Modena a prendere il testimone del racconto della sua opera con la mostra Nam June Paik in Italia (catalogo Silvana editoriale, dal 16 febbraio al 2 giugno) avendo la possibilità oggi di rileggerla con uno sguardo più distanziato e storicizzante.

Curata da Marco Pierini, con Silvia Ferrari e Serena Goldoni, la rassegna propone una selezione di cento opere di Nam June Paik, provenienti da collezioni pubbliche e private, corredate da un ampia messe di documenti e fotografie che permettono di approfondirne la genesi e la “fortuna” critica.

E se oggi opere come Tv Buddha del 1974, come TV Cello del 1992 o i robot dedicati alla Callas e a Pavarotti, ci appaiono come incunabula un po’ naif di un modo di fare arte che intendeva avvicinare la tecnologia alla vita quotidiana e mettere al servizio della fantasia le possibilità che offre la tecnica, non si può trascurare  però il valore storico, di apertura verso nuovi scenari del nuovo millennio, che ebbero queste creazioni che possiamo vedere, fino al 2 giugno, nelle sale della Galleria civica modenese. Meno corrose dal  tempo  appaiono forse le opere fotografiche di Paik (rielaborate in senso pittorico) e i suoi tentativi di far incontrare sperimentazione musicale e immagini elettroniche. Dalla musica d’avanguardia Paik trasse ispirazione soprattutto nella fase in cui fu legato al movimento Fluxus. Ma già quando frequentava l’università a Tokyo l’artista aveva cominciato a sperimentare nelle arti visive stimolato dalla musica dodecafonica di Arnold Schönberg.

Poi sarebbero nate le collaborazioni con Stockhausen e con John Cage. E successivamente quelle con Laurie Anderson e con musicisti minimalisti come Glass. Ma forse il rapporto più fruttuoso nell’ambito musicale – quello meno disseccato dal concettualismo – fu quello ventennale con la violoncellista Charlotte Moorman che continuò fino agli anni Ottanta. Con lei cercò di ricreare il sogno wagneriano dell’arte totale.

Paik aveva intuito  che dopo il dripping e l’action painting di  Jackson Pollock non era più possibile praticare la pittura in termini tradizionali. E che era giunto il tempo di andare anche oltre lo spazio delimitato della tela. La videoarte da un lato e la performance dall’altro potevano  essere i terreni vergini da eplorare, dove finalmente i differenti linguaggi dell’arte non fossero più solo giustapposti, ma potessero realmente fondersi in una creazione originale. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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La voce delle immagini

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 22, 2012

Le nuove frontiere della videoarte a Palazzo Grassi.  La primavera araba raccontata  per frammenti in  opere poetiche di fortssimo impatto visivo. E il 26 e 27 novembre arriva il musicista e videomaker Hassan Khan in una imperdibile performance live al Teatro della Fondamenta a Venezia

di Simona Maggiorelli

Può un lavoro rude e faticoso come quello dei pescatori trasformarsi in una danza magnetica e di inaspettata bellezza? Accade, come per magia, nel video del musicista anglo egiziano Hassan Khan che, su un ritmo arabo ipnotico e grezzo, nel video Jewel ( si trova anche in rete) riesce a far ballare un pescatore dal physique du rôle decisamente insolito per i canoni asciutti della danza, regalandoci sequenze coreografiche altamente poetiche. Come se l’eleganza interiore di chi balla emergesse in primo piano, trasfigurando la stessa forma fisica.

Così in una buia sala di Palazzo Grassi a Venezia restiamo letteralmente incantati dai movimenti leggeri di due improvvisati pescatori-ballerini che, in Jewel, evocano e ricreano i movimenti quotidiani del proprio lavoro, celebrando “la bellezza dell’umano”. Mentre la musica di Hassan (che  sarà il 26 e 27 novembre a Punta della Dogana e in concerto al Teatro Fondamenta Nuove)  ci porta in  un mondo i suoni in cui la tradizione araba incontra la tecno londinese.

Hassan Kahan, Jewel

Poco più là su un maxi schermo a distanza ravvicinata rispetto al nostro sguardo, vediamo il selciato di una strada polverosa farsi tela e trama di un racconto fantastico che un uomo sconosciuto, forse un migrante solitario, dipana in raffinate calligrafie. Anche in questo video, The path (il sentiero) di Abdulnasser Gharem, come nello struggente estratto dal film Donne senza uomini della pluripremiata artista iraniana Shirin Neshat l’immagine si fa pittura in movimento e l’inquadratura si riempie di inaspettati colori. Il rosso di inimmaginabili fioriture nel deserto inonda lo schermo quando la giovane protagonista del film di Shirin Neshat, d’un tratto, riesce a riemergere dagli  abissi di aridità interiore in cui è precipitata dopo un “rapporto d’amore” che era invece uno stupro.

Caroline Bourgeois, curatrice di questa sorprendente mostra La voce delle immagini (aperta fino al 31 dicembre, catalogo Electa) ha voluto sottolineare questo aspetto pittorico, originale e poetico della nuova videoarte che sceglie un registro intimo ed evocativo per raccontare sentimenti umani universali, la dialettica vitale, anche se talora sanguinosa, fra uomo e donna (Shirin Neshat, Yang Fudong), la fantasia sconfinata di un bambino che cresce (Mircea Cantor) ma anche i sogni e gli ideali di giovani operai travolti dal feroce capitalismo cinese (Cao Fei) o le speranze di pace in Palestina (Mohamed Bourouissa).

Shirin Neshat, Donne senza uomini

Un’attenzione al sociale che si ritrova in molte di queste trenta opere di videoarte appartenenti alla collezione Pianult e frutto del lavoro di ventisette artisti provenienti da ogni angolo del mondo, dall’Europa, al mondo arabo, all’Asia. Parliamo di opere perlopiù realizzate negli anni Novanta e Duemila e firmate da artisti emergenti ma anche da pionieri della videoarte come Bruce Nauman e “star” come Bill Viola. Sono opere che sperimentano le tecniche e i supporti più differenti dai 35 mm all’immagine catturata con un cellulare e che mostrano un variegato uso del tempo (da quello narrativo al loop), non di rado mescolando i linguaggi (la musica, il teatro, le arti visive, la danza) per arrivare a fonderli in un’opera totale.

da left-avvenimenti

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La nuova via della seta

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012

Nasce la prima Biennale d’arte Italia-Cina. Che dal 20 ottobre porta a Monza 60 artisti cinesi in dialogo con 60 artisti italiani intorno al tema della natura. Mettendo a confronto le tendenze più vive della ricerca contempoanea, fra Asia ed Europa

di Simona Maggiorelli

Zhengjie Feng

Sessanta artisti cinesi e altrettanti italiani, in un vivo dialogo sul tema del rapporto con la natura, non solo intesa come ambiente, ma anche come natura umana. È la prima Biennale d’arte Italia-Cina che dal 20 ottobre dilagherà nei 3mila metri quadri della Reggia di Monza per poi coinvolgere anche altri spazi a Milano e Palazzo Tè a Mantova. Organizzata da EBLand e diretta da Paolo Mozzo in collaborazione con Wang Chunchen è la prima tappa di un progetto che vedrà nascere una Biennale d’arte Cina-Italia nel Regno di mezzo: «Sono anni che lavoriamo a questa idea, nata visitando decine e decine di studi di artista in differenti luoghi di questo immenso Paese, entrando in rapporto diretto con gli artisti», racconta Mozzo. Proprio dall’approfondimento che nasce dalla conoscenza personale, e non affidandosi solo a galleristi, è emersa la selezione degli artisti cinesi presenti in questa ampia collettiva. Fra loro talenti emergenti e nomi già noti come Chang Xin, Lu Peng, Li Wei e Feng Zhengjie e altri della vivace scena artistica di Pechino (che si irradia dal colossale “fabbrica” espositiva 798.

Le loro opere insieme a quelle di molti altri artisti cinesi – che spaziano fra pittura, scultura, video, fotografia, installazioni, disegno – saranno esposte a Monza accanto a quelle di Pierluigi Pusole, Piero Gilardi,  Maraniello, di gruppi come Cracking Art e veterani della videoarte italiana come Fabrizio Plessi.

L’apertura della manifestazione, in particolare, sarà affidata alla performance di una giovane artista, Lin Jingijing che insieme a un centinaio di volontari cucirà con un filo rosso duemila rose dai petali rosa. «La rosa è nostra vita, subisce lo splendore del costante intreccio della brutalità della vita. In questa performance si cercherà ciò che ci accomuna come esseri umani, il desiderio, la paura, la serietà, l’equilibrio…», accenna la giovane artista cinese. «La poetica naturale è una filosofia spirituale che ha una lunga tradizione in Europa ma gode anche della stessa antica storia, ereditata fino a oggi, nell’orientale Cina», spiega il curatore Wang Chunchen. Che sottolinea: «L’atteggiamento nei confronti della natura riflette lo stato della civilizzazione umana, specialmente oggi». Da qui opere che ricreano in modo contemporaneo la millenaria tradizione cinese di pittura del paesaggio come rappresentazione del mondo emozionale e del movimento interiore dell’artista. Ma anche opere più politiche di denuncia della distruzione che sta avvenendo nel Regno di mezzo, sotto la spinta di una industrializzazione vertiginosa e incurante dei danni ambientali. Ma non solo.

Su Jiaxin

«Attraverso la Biennale la Cina e l’Italia possono intrattenere un nuovo dialogo visivo intercontinentale e unirsi per esaminare il significato dell’arte ai giorni nostri. La mostra accorcia le distanze geografiche e allo stesso tempo si concentra su riflessioni comuni a tutto il mondo», spiega il curatore.

E comune purtroppo, quanto al tipo di estetica praticata da molti giovani artisti nelle megalopoli d’Asia come in Occidente, sembra essere il ricorso a un linguaggio visivo mutuato dalla Pop art con le sue immagini chiassose, fumettistiche, piatte che ci parlano di un mondo globalizzato dove Monna Lisa e Mao Tzetung diventano icone intercambiabili, feticci, figurine svuotate di senso e da riusare a piacimento in opere che, come le tante statuette di Mao, i distintivi e i manifesti di propaganda di partito che affollano i mercati della città vecchia di Shanghai e di Pechino, aboliscono ogni distinzione fra autentico e “taroccato”.

E un gioco sottile fra vero e falso, reale e virtuale, omaggio e insulto, un doppio registro (che del resto aiuta anche a sviare la censura) sembra fare da trait d’union alla complessa e variegata scena dell’arte contemporanea cinese, cresciuta rapidamente negli ultimi venticinque/trent’anni sul vuoto pneumatico determinato dalla rivoluzione culturale di Mao e dagli agenti del Realismo socialista.

Li Wei

«L’opera di disconoscimento e di azzeramento di ogni tipo di libera espressione artistica diversa da quella imposta dalla propaganda comunista è stata sistematica e totale in Cina», commenta il direttore artistico della Biennale Paolo Mozzo.

Poi sul materialismo comunista si è innestato quello del capitalismo di Stato. «Comunismo e capitalismo in Cina hanno trovato questa strana e fortissima alleanza – prosegue Mozzo – che fa sì che senza nessun senso di colpa i cinesi oggi vendano tutti i propri simboli, immagini di Mao e statuette di Budda. Disposti anche a importare e a fabbricare crocifissi se serve per fare business. Un aspetto della cultura cinese rappresenta nella nostra mostra con un’immagine di sintesi folgorante».

Ma accanto al ricorso al kitsch, assicura Mozzo, da qualche anno in Cina si va segnalando anche un filone carsico di ricerca che riscopre l’antica tradizione della calligrafia in opere raffinate e poetiche. Qualche esempio sarà esposto anche a Monza. E con curiosità attendiamo di vederle dal vivo.

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La partita della creatività

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 12, 2011

All’Hangar Bicocca di Milano le sculture in movimento dell’artista tailandese Surasi Kusolwong. Celebre per le sue performances che a Bangkok coivolgono interi quartieri

di Simona Maggiorelli

Surasi Ping Pong Hangar

Da qualche tempo il Sudestasiatico, e la Thailandia in modo particolare, è al centro delle cronache. Fortunatamente non solo di quelle più tristi per lo tsunami e per le sanguinose repressioni delle proteste da parte del governo thai, ma anche per la cultura e l’arte che, nonostante tutto, continuano a fiorire. Tanto che la vorticosa Bangkok, accanto al fascino di templi antichi e alla modernità di architetture futuribili, ha visto crescere negli ultimi anni una scena creativa diffusa, di strada, che vive in rapporto diretto con il fluire della vita quotidiana delle generazioni più giovani in alcuni quartieri della metropoli.

La summa di questo modo performativo di fare arte, in sintonia con la vita pubblica e collettiva – per chi volesse averne un assaggio concreto – è ben esemplata in Cities on the move un progetto urbano ideato dall’artista tailandese Surasi Kusolwong e poi diventato video grazie alla collaborazione con il curatore cinese Hou Hanru. Di fatto questa opera di videoarte racconta e ricrea sullo schermo una serie di happenings a cui i cittadini stessi sono stati invitati a partecipare, dando nuova forma a sculture e a installazioni mobili ma anche, letteralmente, portandosene via interi pezzi che così continuano a “vivere” in nuovi contesti, nelle case e in angoli diversi e lontani della città. Quella messa in pratica da Surasi Kusolwong è un’arte fluida, un’arte della disseminazione, della contaminazione positiva degli stili di vita specifici di ogni aggregato urbano. Per questo le sue proposte tendono a cambiare totalmente a seconda del contesto in cui prendono vita. A Bangkok per esempio Cities on the move ha preso la forma di “feste all’improvviso” in cui i passanti erano invitati a un momento di relax e a non fare “assolutamente niente”, «cosa del tutto atipica per la gente di Bangkok». Come lo stesso Kusolwong raccontava a Chiara Bertola in un’intervista pubblicata in Curare l’arte (Electa, 2008). Ed è stata proprio Bertola, ora direttrice dell’Hangar Bicocca di Milano, ad invitare l’artista thai a realizzare una sua nuova installazione in Italia. Con l’ironico titolo  Ping-Pong, Panda, Povera, Pop-Punk, Planet, Politics and P-Art è stata inaugurata il 9 giugno negli spazi di archeologia industriale dell’Hangar. Al centro dell’opera site specific c’è un tavolo da ping-pong carico di sculture fatte con oggetti riciclati e che i visitatori dovranno schivare in partite alquanto bizzarre. Ma in mezzo all’Hangar ecco anche una macchina del fumo; una scultura-vulcano composta da una montagna di sale con al centro una lampada e poi un gruppo di sculture-tenda fatte di marmo, una scultura morbida fatta di spugne tagliate a blocchi rettangolari con un cartello dalla scritta “Prenditi del tempo per sederti e pensare”. A tenere insieme queste e altre curiose sculture è il modo ironico e l’apparente leggerezza con cui Kusolwong ama trattare temi molto seri che riguardano il nostro vivere civile e i rischi ambientali che corre il pianeta.

da left-avvenimenti del 9 giugno 2011

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L’altra Beirut di Zena

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 12, 2010

di Simona Maggiorelli

Zena el Kahalil

Curiosamente la libanese Zena el Khalil è più conosciuta come pittrice che come scrittrice e regista, nonostante in questi due ambiti abbia mostrato maggior talento. Zena stessa si è  presentata in questa veste sulla scena internazionale dell’arte, dopo essersi specializzata alla School of Visual arts di New York. Perciò ci occupiamo di lei e della sua storia (fortissima e da poco diventata libro)in questa rubrica.

Anche se quando un anno fa vedemmo per la prima volta i suoi collage alla Fondazione Merz di Torino nell’ambito della mostra Speranze e dubbi. Arte giovane tra Italia e Libano non ci avevano colpito troppo favorevolmente. Quelle immagini pop di soldati (uomini e donne) che imbracciano armi e fiori, quei girotondi di “omini” rosa shocking che attraversano strade e cancelli, come i suoi sgargianti collage montabili e smontabili all’occasione, ci parlavano di un modo naif, a tratti sordamente euforico, di esorcizzare la realtà di guerra e distruzione che il Libano ha vissuto quasi ininterrottamente per più di vent’anni.

Un modo, ci pareva, per narcotizzare la realtà più che per rappresentarla. Poi però vedendo il video che Zena ha dedicato a Beirut, dove ha deciso di tornare a vivere alla fine della guerra civile , ma anche leggendo il suo Beirut I love you, da poco uscito in Italia per Donzelli, l’immagine si è fatta più profonda, tridimensionale. E l’interesse per il suo lavoro è cresciuto.

Non solo per il valore che ha di resistenza, per la testimonianza che offre su spaccati di vita giovanile a Beirut, (dove i venti-trentenni sono la maggioranza). Ma anche per come lo racconta. Con linguaggio poetico, vitale. Come se in questo romanzo autobiografico – nato sulla scia del blog che Zena tenne nel 2006 durante i 33 giorni in cui Beirut fu sotto assedio – l’artista fosse riuscita a precipitare la sua urgenza di comunicazione, di dialogo, con quell’Occidente dove è nata, bussando forte al vetro della nostra indifferenza, provando a buttar giù la barriera dei pregiudizi.

Così questo scricciolo di ragazza, sulla pagina e dietro una macchina da presa acquista un’energia straordinaria. E anche quando racconta di storie tragiche come la morte dell’amica Maya ammalata di tumore e   rimasta senza cure in una Beirut bombardata, riesce tuttavia a tessere il suo canto d’amore per la gente di questa capitale del Medioriente dove svettano grattacieli accanto a case crivellate dai colpi, dove ragazze chiuse nel velo passeggiano sul lungomare accanto a coetanee in tute attillate… «E’ stato agrodolce il periodo dopo la fine della guerra civile in Libano – scrive Zena in Beirut I love you -. Un periodo di eccessi. Si era incredibilmente felici, incredibilmente tristi… Facemmo del nostro meglio, quelli che erano felici, per ricostruire il paese, con gioia. Abbiamo creato le Ong e i gruppi di sostegno, organizzato mostre e pubblicato poesie, indetto concorsi di architettura per ricostruire il centro, fornito assistenza a chi soffriva di ansia e depressione per la guerra…». « Tentavamo di riconciliarci con i nostri passati- scrive Zena – di negoziare un’identità nazionale. Siamo stati in piedi notti intere a fare progetti su come ricostruire le nostre vite, nonostante le tensioni provocate dai nostri vicini, gli israeliani, che minacciavano costantemente di destabilizzarci. Nonostante le tensioni legate al vivere sotto una nuova occupazione, questa volta siriana. Siamo stati in piedi notti intere per ricostruire il Libano… perché dopo anni di oppressione e di conflitti si impara che l’unica cosa da fare è reagire e andare avanti». E in quelle notti i giovani di Beirut hanno fatto anche arte, scritto romanzi, creato opere belle e  acerbe. Come il lavoro A’Salaam Alaykum: Peace upon you, con cui  la trentenne Zena racconta la sua generazione che vive senza riuscire a dimenticare la guerra, con la paura che anche oggi  possa ricominciare, ma che più di tutto desidera vivere pienamente, in tempi di pace.

da left-avvenimenti del 4 giugno 2010

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Il realismo carnale di Canevari

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 25, 2010

di Simona Maggiorelli

Una catasta di rotoli di panno lenci può fiorire in un inaspettato concerto di rose grigie e azzurre.

Mentre un’altalena fatta con una camera d’aria e due corde, lasciata a penzolare nel vuoto, apre imprevisti squarci di memoria sulla ferocia razzista di una parte non piccola dei bianchi americani.

Frammenti di realtà che riletti da Paolo Canevari regalano improvvise epifanie di senso.

Più in là, in un’altra sala del Pecci di Prato dove fino al primo agosto è aperta un’importante retrospettiva dedicata all’artista romano, una luccicante lampada da discoteca getta un’inquietante doppia ombra, di attraente giocattolo e di micidiale bomba.

Il talento di Canevari è saper scovare lampi di poesia nella quotidianità, anche quella apparentemente più banale. Ma sta anche nel saper cogliere e tradurre in un’immagine spiazzante, forte, polisemica, le discrasie del nostro tempo. Insinuandosi in quelle faglie della realtà che permettono di aprire gli occhi su orizzonti di senso più ampi e più profondi.

Come quando, ritraendo giovani in coda davanti a un locale, Canevari incatena le loro braccia alla maniera dei carrelli da supermarket. O come quando, nella serie Globes, ironicamente, trasforma l’immagine dell’uomo vitruviano in un manager seduto di spalle su un mappamondo fatto con strisce di battistrada. Metropolitana, demistificante, non di rado politicamente corrosiva, l’opera di Canevari, però, non si accontenta di vivere in margine alla cronaca.

Semmai nel corso degli ultimi due decenni (Canevari, classe 1963, ha esordito negli anni Ottanta) si è sviluppata come una personale e acuta riflessione sull’umano e sul senso della storia. Usando come grimaldello i simboli del potere e del dogma che hanno segnato i secoli.

E che l’artista smaschera denunciando la violenza e il vuoto di umanità che nascondono. Così ecco un Gesù in croce, senza braccia e con un pneumatico come aureola assai poco divina. Ed ecco le vestigia del Colosseo trasfigurate in un teschio dalle orbite vuote oppure incendiate da un fuoco rosso come il sangue dei gladiatori. In una continua sperimentazione di generi e discipline, passando dal disegno al video, dalla scultura all’istallazione (e viceversa), sono nate così anche le sue personali mappature del globo che mettono in discussione le granitiche divisioni nazionali in nome di un nomadismo dei popoli e delle culture ma anche le sue armate di “omini” neri e stilizzati, poi disseminati come impronte vitali in quartieri degradati e in tutta una serie di “non luoghi”.
Da One-night installation: Rocce, che nell’89 segnò il debutto internazionale di Canevari, al video Bouncing skull, con cui nel 2007 partecipò alla Biennale di Venezia, fino a Nobody Knows (2010) da cui la mostra pratese trae il titolo, il curatore Germano Celant ha ricostruito il filo della ricerca di questo poliedrico artista che lavora tra Roma e New York. Un lavoro di storicizzazione e di analisi critica del «realismo carnale» di Canevari che Celant ha distillato anche in una monografia Electa.

dal settimanale Left-Avvenimenti

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La bellezza amara delle creazioni di Paolo Canevari

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 24, 2010

Al museo Pecci di Prato si è aperta il 20 marzo una retrospettiva dedicata al lavoro dell’artista romano che è stato allievo di Nam June Paik.  Con il titolo Nobody knows, sculture, installazioni e video

di Simona Maggiorelli

Paolo Canevarai, rose

Una lupa nera spicca nel cubo bianco del Pecci di Prato. Solitaria, immersa nel silenzio, come se si fosse materializzata da un antico passato. è la ricreazione di doppie vestigia: quelle della fondazione mitica di Roma e quelle nere, ducesche, che nel secolo scorso hanno segnato tristemente la storia italiana. Paolo Canevari, classe 1963, ha conosciuto il fascismo sui libri ma anche attraverso i ricordi del padre (noto scenografo). Che quando Paolo era bambino gli raccontava la ferocia e la stupidità dei rituali con cui Mussolini celebrava il proprio potere. Le parate militaresche, l’esibizione di una vitalità solo fisica, di un coraggio fasullo che si misurava saltando attraverso cerchi di fuoco.

Paolo Canevari

Quei simboli roboanti, quella retorica tronfia e il vuoto assoluto che nascondevano sarebbero diventati poi nella fucina dell’artista romano il loro esatto contrario: il segno di un rifiuto radicale di ogni forma di violenza. In forme nuove, nelle mani di Canevari, quegli strumenti di tronfia propaganda si sono trasformati in brucianti segni di bellezza, in immagini elegiache, poetiche.

Così ecco il Colosseo, dove i gladiatori erano mandati a farsi sbranare dalle belve, mutato in una potente scultura di fuoco. Ecco i pneumatici infuocati con cui i razzisti sudafricani e il Ku Klux Klan uccidevano le persone di colore diventare monumento alla memoria che si staglia contro il cielo del Texas. Le opere dell’artista romano – come racconta la mostra Nobody knows che il Pecci gli dedica da oggi – sono immagini semplici, immediate, ma in cui sembrano essersi sedimentate la storia e la memoria.

Con materiali naturali e poveri (corda, legno, lana, carta) oppure di riciclo (plastica, ferro, gomma) ridanno poeticamente voce e presenza a chi non l’ha avuta nella storia ufficiale riscritta ad hoc dai vincitori. «Canevari crede nella concretezza dell’arte – scrive Germano Celant nel catalogo Electa -. Il suo interesse è più legato all’afflusso degli umori e della memoria  che al concetto e alla teoria dell’arte. A contare è la carne delle cose e delle sue manifestazioni vitali». Ma è vero anche che questa concretezza viva che hanno le sue creazioni non è mai naif. La bellezza amara che Canevari ricava, per sottrazione, dagli oggetti non è mai frutto di un’improvvisazione “surrealista” che gioca con la casualità dell’objet trouvé. Le sue sculture e installazioni, così come i suoi video si presentano come opere polisemiche, aperte al contributo di fantasia di chi le guarda. E non è difficile scorgervi segreti omaggi a maestri dell’avanguardia. Come Nam June Paik nelle opere di videoarte. O come Lucio Fontana e nelle sculture che talora incontrano l’architettura ridisegnando gli spazi intorno, Oppure come Alberto Burri nelle sculture che appaiono come organismi in continua crescita e trasformazione. Nei rinnovati spazi del museo toscano (che prossimamente aprirà una sede anche a Milano), fino al prossimo primo agosto, tutti i sentieri della ricerca di Canevari sono esplorati, senza cadere nella museificazione che talora emanano le retrospettive.

Terra, 20 marzo 2010

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Shirin Neshat, passione politica e poesia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 7, 2010

di Simona Maggiorelli

Shirin Neshat, I'm it's secret

Shirin Neshat, I'm it's secret

«C’è qualcosa di molto nuovo che sta accadendo in Iran. Il Paese sta vivendo un momento molto profondo, più importante della rivoluzione islamica» raccontava l’artista iraniana Shirin Neshat a margine della proiezione del suo film Women without men al festival di Venezia, esordio cinematografico che le è valso il Leone d’argento. Per poi aggiungere: «Le immagini scattate con i cellulari che ci sono arrivate attraverso la Rete sono molto forti, esplicite. La gente che un tempo voleva la rivoluzione islamica adesso ha figli che hanno vissuto sempre sotto una dittatura e che dicono basta. Questi ragazzi non sono interessati all’ideologia come i loro genitori. Ma c’è anche un altro fatto importante – sottolinea Neshat – il nuovo protagonismo delle donne iraniane, che non vogliono mettersi a posto degli uomini ma rivendicano spazi pubblici. Sono tenaci, femminili, non nascondono la propria bellezza. è qualcosa di molto diverso dal femminismo degli anni Settanta e Ottanta».

Politica e poesia. Ricerca di identità femminile e rapporto con l’altro. Esplorando la diversità fra uomo e donna, il desiderio ma anche la solitudine. Sono i “temi” forti al centro della ricerca di Shirin Neshat fin da quando alla fine degli anni Settanta lasciò l’Iran per studiare negli Stati Uniti. Dopo la rivoluzione, il regime di Khomeini le vietò di tornare, pena il carcere. Solo dopo la morte dell’ayatollah finalmente lei riuscì a rimettere piede nella sua terra di origine. «Fu uno shock – racconta -.Perché trovai un Paese islamico, di donne velate, non c’erano più echi dell’antica Persia e della sua poesia». Una cultura orientale che Shirin Neshat dice di sentire profondamente propria, offrendo «uno sguardo meno razionale sulle cose». E uno sguardo lirico, pieno di pathos, è la cifra che più colpisce nei suoi lavori. Fin dalla prima serie fotografica, Donne di Allah, realizzata tra 1993 e il 1997 e che ha imposto l’artista iraniana sulla scena internazionale. Immagini in bianco e nero, aperte su orizzonti immensi, punteggiati da silenziose figure di donne velate. Mani maschili, in primo piano, segnate da versi in calligrafia araba squadrata e monumentale. Oppure autoritratti in cui l’artista, con in testa il chador, drammaticamente imbraccia un fucile. Sul volto ha impressi passi del Corano.

Ma nel carnet di Neshat si trovano anche sensuali immagini di donna in cui il body painting non è più una scrittura rigidamente imposta dall’esterno ma fiorisce sulla pelle in una più tondeggiante e morbida grafia. Le labbra appena schiuse, forse parole sussurrate, la gioia di potersi esprimere con una propria voce originale. Sono gli scatti magnetici, esteticamente raffinati e, insieme, di grande efficacia che ritroviamo nella serie di volumi editi da Charta che ripercorrono l’opera della fotografa e filmaker nata a Qazvin nel 1957. Compreso il suo lavoro di videoartista, fatto di sequenze “oniriche” e silenziose e in cui versi e  musica sostituiscono i dialoghi. Video dalle atmosfere malinconiche e struggenti come Turbolent (1998) Soliloquy (1999) o Rapture (1999) in cui appaiono donne misteriose e ribelli che pagano con la solitudine la propria rivolta contro la violenza privata o di regime, oppure donne follemente innamorate, coraggiose, pronte a tutto. Come in certi film di Tarkovsky (che Neshat riconosce come maestro assoluto d’arte cinematografica), sono storie che arrivano allo spettatore emotivamente, attraverso immagini sfumate, evocative. La videoarte di Shirin Neshat, più ancora della sua opera fotografica, suggerisce più che raccontare. è un’arte ellittica, densa di metafore, fortemente concettuale. Anche quando il tema è strettamente storico, le immagini non sono mai descrittive, cronachistiche. Ma se nella brevità di un video, come in poesia, possono bastare alcune immagini potenti a schiudere un intero universo di senso, più difficile è che questa impresa riesca in un film, in cui c’è comunque bisogno di tratteggiare e approfondire dei personaggi.

Shirin Neshat

Shirin Neshat

La giuria di Venezia con il Leone d’argento dice che la poliedrica Neshat è riuscita anche in questo. E in attesa dell’uscita nelle sale italiane del film Women without men prevista per il 4 dicembre, intanto, la galleria Noire contemporary art di Torino, fino al 22 novembre, offre una interessante finestra sui sei anni di gestazione che precedono il film, liberamente tratto da un romanzo della scrittrice Shahrnush Parsipur, censurato in Iran. Anni in cui Neshat, in collaborazione con l’artista iraniano Shoja Azari, ha sviluppato in quattro videoinstallazioni le storie, diversissime, di altrettante donne che finiscono poi, casualmente, per incontrarsi nella rivolta del 1953 contro lo scià e l’imperialismo Usa. In questa serie di video non si raccontano solo gli slanci idealistici della rivolta, il furore rivoluzionario ma anche le storie intime, private, di uomini e donne che si amano o si perdono mentre stanno scrivendo questa importante pagina di storia. «Women without men – dice Neshat – è un romanzo bello e strano. Non avrei potuto scegliere un libro più difficile. è scritto con uno stile di realismo magico che poi ho scoperto è tra i più ardui da tradurre visivamente». Ma il rapporto di Neshat con la scrittura di Parsipur va al di là di questo romanzo «Il mio lavoro nasce all’incrocio di esigenze simili. Ciascuna di noi a suo modo ha cercato di creare opere molto personali e molto politiche».

La mostra – Game of desire

Da anni la vita e l’opera di Shirin Neshat è completamente assorbita dalle vicende che attraversano l’Iran. Cercando di appoggiare come artista le istanze di democrazia che soprattutto le giovani generazioni stanno esprimendo con passione nel Paese. Una rivolta pacifica e crescente che il regime di  Ahmadinejad sta cercando di soffocare  nel sangue. «Per questo – racconta l’artista – solo di rado negli ultimi dieci anni ho potuto e voluto sviluppare progetti che parlassero di altro». Uno di questi rari progetti l’ha portata di recente  in Laos e Vietnam, sulle tracce di antiche forme di rappresentazione, dette lam e conosciute in molte varianti in Asia. Si tratta di poemi che, intrecciandosi in tenzoni, uomini e donne intonano e suonano per notti intere. Neshat è riuscita a filmarle. Ne è nato un video e una mostra fotografica, Games of desire, presentata a Bruxelles e a Parigi e ora raccontata in un volume edito da Charta. Un lavoro sul modo di vivere e rappresentare poeticamente il rapporto uomo donna in alcune aree del Sudest asiatico, rinnovando tradizioni antiche

da Left-Avvenimenti 11 ottobre 2009

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Dal quotidiano La Repubblica del 5 marzo 2010:

L’intervista/Colloquio con Shirin Neshat, videoartista di fama internazionale. Nei cinema italiani sta per uscire il suo film, premiato con il Leone d’argento a Venezia.

L’INTERVISTA / Colloquio con Shirin Neshat, videoartista di fama internazionale

Nei cinema italiani sta per uscire il suo film, premiato col Leone d’argento a Venezia.

Io, dissidente iraniana ed eterna esule vi chiedo: aiutate i registi in carcere”

La regista sulla “rivoluzione verde”: “Che emozione, vedere tanto coraggio al femminile”

E sugli artisti finiti in prigione, come il collega Panahi, dice: “Temo qualsiasi atrocità”di CLAUDIA MORGOGLIONE

Shirin Neshat al festival del cinema di Venezia

ROMA – Esule dal suo Iran, lei, Shirin Neshat, lo è da una vita: “Avevo diciassette anni quando lasciai il Paese – racconta la cinquantatreenne videoartista nonché regista, Leone d’argento a Venezia per il film Donne senza uomini – mio padre mi mandò all’estero a studiare, credevo che sarei tornata. E invece vennero la Rivoluzione islamica di Khomeini, poi la guerra con l’Iraq. E così sono stata ‘abbandonata’ in Occidente: e quella lontananza dalla mia patria è durata per sempre”. Trasformandola in una cittadina del mondo, in dissidente perpetua, che dalla sua casa di New York segue con apprensione le vicende di Teheran, gli arresti dei suoi colleghi cineasti. Come Jafar Panahi: “Stiamo cercando, con Amnesty International, di farlo liberare: ma l’unico modo per ottenerlo è che si mobiliti Hilary Clinton”.La Neshat è a Roma perché la sua pellicola, visuale e sperimentale come la sua autrice, sta per sbarcare nelle sale italiane grazie alla coraggiosa distribuzione della Bim. Donne senza uomini è una storia tutta al femminile, ambientata nell’Iran del 1953 quando, con un colpo di Stato appoggiato dalla Cia, fu deposto il presidente democraticamente eletto e cominciò il regime dello Scià. Su questo sfondo, assistiamo alle vicende di quattro personaggi, i cui destini confluiscono in uno splendido giardino di campagna…

Shirin, cosa rappresenta il giardino al centro della sua pellicola?

“Uno spazio di libertà che per queste donne è come lo spazio dell’esilio: un luogo dove loro avrebbero potuto avere una seconda chance. Come l’ho avuta io, lasciando il mio Paese. Più in generale, col mio film voglio soprattutto mostrare, oltre alla condizione femminile, la convivenza degli opposti: realismo e magia, arte e politica, arte e cinema. E come la bellezza incroci la violenza”.

Cosa pensa del ruolo della donna in Iran? E’ cambiato dal lontano 1953, o è sostanzialmente immutato?

“Io non vedo affatto le donne del mio Paese come vittime. Anche se è vero che sono oppresse. Sono molto forti, non hanno mai fatto compromessi, hanno sempre combattuto per i loro diritti. Per le le donne iraniane sono sempre state fonte d’ispirazione, ma non per il semplice fatto che anch’io sono iraniana”.

Il loro coraggio è stato determinante, nella recente rivoluzione verde…

“Vederle l’estate scorsa, così pronte alla sfida, mi ha fatto commuovere. Davanti a certe immagini, a quei volti bellissimi che protestavano, ho pianto”.

Ma non c’è solo il problema femminile: il suo è un Paese in cui l’opposizione viene ridotta al silenzio, in cui i talenti, tutti non allineati al regime, vengono sbattuti in prigione: come Jafar Panahi, Leone d’oro a Venezia per il suo Il Cerchio.

“La situazione di Panahi è molto grave. Oggi ho saputo che sua moglie, sua figlia e altre 14 persone che erano in casa sua al momento del blitz delle forze dell’ordine sono state rilasciate. Ma per lui sono davvero preoccupata: contro i talenti del Paese questo governo è capace di tutto, delle peggiori atrocità. Siamo terrorizzati per ciò che potrebbe accadere alle persone detenute. Perché questo governo vede la creatività come una minaccia: arrestare Panahi, o altri registi celebri, è un modo di dire a tutti gli altri artisti ‘state buoni, non vi ribellate'”.

Di fronte a questa repressione, cosa puà fare la comunità internazionale?

“Purtroppo quelli non ascoltano la voce dei media occidentali. Ma dei leader come Berlusconi, Sarkozy, Hilary Clinton devono per forza tenere conto. Le opinioni pubbliche occidentali dovrebbero perciò fare una forte pressione sui propri leader: serve una forte voce diplomatica. Se la Clinton decidesse di intervenire per Panahi, sono sicura che lo scarcererebbero”.

A suo giudizio la durezza del regime è strettamente collegata col fondamentalismo islamico?

“Prima della Rivoluzione islamica l’Iran era già musulmano, ma era una religione adattata alla cultura persiana, con contaminazioni di sufismo, misticismo, altre forme spirituali. Poi con la Rivoluzione la religione è diventata ideologia, si è politicizzata: e da qui è venuto tutto il male. Portando una rigidità a cui non eravamo abituati: la nostra è una cultura basata sulla musica, sulla poesia, sulla bella architettura”.

Adesso a cosa sta lavorando?

“Sono in trattative per acquisire i diritti di trasporre sul grande schermo il romanzo Il palazzo dei sogni di Ismail Kadarè: mi piace il modo in cui svela il potere dello Stato sull’individuo, e fa capire l’assurdità del fanatismo religioso”.

http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/03/05/news/intervista_shirin_neshat-2517424/

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