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Nel regno della libertà. Le commedie di Shakespeare

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 19, 2015

Molto rumore per nulla Branagh

Molto rumore per nulla Branagh

Le commedie di Shakespeare, regno della libertà e della fantasia. Incontro con Ekkehart Krippendorff
di Simona Maggiorelli

Che un politologo di professione, dopo aver lungamente insegnato in università europee, americane e in Giappone, si occupasse dei drammi shakespeariani non sembrò strano quando nel 2005 uscì il suo Shakespeare politico. Ora il tedesco Ekkehart Krippendorff ha fatto un passo ulteriore pubblicando un brillante saggio intitolato Le commedie di Shakespeare, come il precedente, edito in Italia da Fazi. In cui  racconta l’universo caleidoscopico di questi testi shakespeariani centrati sulla capacità di immaginare, come l’dentità più profonda degli esseri umani. In Sogno di una notte di mezza estate, in Molto rumore per nulla, così come ne La Tempesta e negli altri testi più “leggeri” del corpus shakesperiano, la fantasia gioca un ruolo fondamentale. E per dirla con Giordano Bruno (autore che il Bardo ben conosceva) non è un’ombra maligna, ma possibilità di conoscere “per vestigia” e possibilità di aprirsi al nuovo.

La bisbetica domata Burton-Taylor

La bisbetica domata Burton-Taylor

«Sono sempre stato affascinato da opere come Macbeth e da drammi storici come Giulio Cesare per il modo in cui analizzano i giochi di potere e ne denunciano la distruttività. Ma a un certo del mio percorso – dice Krippendorff – ho cominciato a interrogarmi sulle commedie. Anch’esse fanno parte dell’universo shakespeariano e non sapevo bene come collocarle. Finché un giorno, arrampicandomi ancora su questa immensa montagna che è l’opera del drammaturgo inglese, ho scoperto che sono in un certo senso lo specchio o, per meglio dire, l’alternativa ai testi politici in senso stretto». Protagonista delle commedie non è l’uomo di potere, l’eroe solitario ma, come sottolinea lo studioso, «l’uomo innamorato e libero». Uscendo dalla dimensione tragica, Shakespeare s’interroga su come sarebbe l’essere umano se non fosse prigioniero di un potere oppressivo. «Per questa via – dice Krippendorff – ha aperto il suo teatro alla fantasia, alla bellezza e alla complessità del rapporto fra uomo e donna. Ha scoperto la serietà e la multi dimensionalità della passione amorosa. Al centro delle commedie c’è l’amore, l’eros, il perdersi e il ritrovarsi degli amanti. E i personaggi delle commedie appaiono particolarmente ricchi di sfaccettature. Non sono figure artificiali, ma estremamente vive e vitali. Tra loro intrecciano una complessa trama di relazioni, all’apparenza brillanti. Tanto che sarei tentato di dire che le commedie sono più intricate e serie degli stessi drammi politici.

(l to r) TOM CONTI, HELEN MIRREN, DAVID STRATHAIRN, ALAN CUMMING, CHRIS COOPER

La tempesta Helen Mirrer

Dunque professore come possiamo inquadrare questa parte del percorso Shakespeariano?

Ho tentato di farlo nel sottotitolo, scrivendo che l’essere umano è libero nelle commedie. Esse schiudono una possibile via di uscita da una brutta realtà politica di oppressione. Il che non vuol dire che tutto sia risolto e che non sorgano problemi. Anzi. La libertà è una dimensione molto difficile da raggiungere e da vivere, come si evince dal rutilante gioco dei personaggi che cambiano di continuo, ruoli e situazioni. Per questo siamo affezionati alle commedie, perché ci fanno ridere, gioire, ma soprattutto perché accendono la fantasia!

Che risultò contagiosa anche per Giuseppe Verdi, come lei racconta in un capitolo di questo suo nuovo libro…

Per tutta la vita Verdi aveva cercato di scrivere una commedia, senza successo. Avrebbe voluto raggiungere il regno della libertà, ma era rimasto sempre legato alla banalità della vita matrimoniale. Fin quando, a più di 90 anni, ha scritto Falstaff. Questa è stata la sua grande vittoria intellettuale: riuscire a trovare la libertà creativa che si respira in quest’opera. Crudelmente è accaduto che Verdi ci riuscisse solo negli ultimi anni, mentre Shakespeare fece questa realizzazione già all’inizio della sua carriera di drammaturgo.

Prospero's book, Greenaway

Prospero’s book, Greenaway

E Mozart in che modo si lega a Shakespeare?

Mozart ha la leggerezza delle commedie shakespeariane. Questa mattina ascoltavo una nuova registrazione di Così fan tutte, è un’opera che gioca con l’allegria e la sofferenza, con gli imprevisti della dialettica amorosa. Come in Shakespeare, anche in Mozart, la passione è un sentimento che tocca molte corde. E la leggerezza piacevole, a ben vedere, rivela un sottofondo serio.

La passione nelle commedie shakespeariane introduce una carica di potenziale emancipazione e una critica indiretta a istituzioni come la famiglia e la Chiesa?

Sì, senz’altro, c’è questo potenziale rivoluzionario, nel senso di rovesciare i vecchi discorsi, quelli più tradizionali. Sotto questo profilo addirittura Mozart ci sfida. Perciò il contenuto delle sue opere è sempre stato ignorato, perché giudicato frivolo, restando alla superficie, senza leggere la storia in profondità.

I personaggi femminili, in particolare, creano scompiglio sottraendosi alla tradizione e ai riti domestici. Caterina, la Bisbetica domata, addirittura se ne infischia. Anche se il padre la stigmatizza come irascibile, selvaggia, litigiosa. Del resto Shakespeare era un uomo del proprio tempo…

beatrice-emma-thompson-reading-sigh-no-more-ladies-while-eating-grapes-in-tuscanyLa bisbetica è un testo che lascia molto alle scelte drammaturgiche e alla sensibilità del pubblico. Se stiamo alla lettera delle parole di Petruccio, per esempio, il personaggio appare come un pretendente maschilista. Con modi da super macho. Ma se si osserva meglio non è esattamente così. Perché alla fine accetta che sia la donna a prevalere. La questione dunque non così scontata come si potrebbe pensare. Shakespeare avrebbe potuto farla facile con l’atteso trionfo del muscolare Petruccio… sarebbe stato facile.Invece sceglie di far vedere in profondità l’ immagine. Un amico mi ha fatto notare per esempio che alla fine Petruccio non vince ma stabilisce un nuovo rapporto fra uomo e donna. Shakespeare non si accontenta di un happy end da farsa. Forse sarebbe stato ugualmente divertente, ma non è ciò che gli interessa. Lui punta ad aprire nuovi orizzonti. E il machismo è solo la scorza.

Nella trama delle commedie importanti sono anche le relazioni sociali dei personaggi, mai isolati e solipsisti come invece appaiono Amleto o Macbeth.

Un tema importante è anche l’amicizia; è centrale in una commedia che amo molto e che purtroppo viene rappresentata di rado,I due gentiluomini di Verona. L’antica amicizia fra due giovani uomini dovrebbe finire in tragedia, Invece Shakespeare fa vedere che resiste al banale primeggiare di uno di questi due ragazzi., facendoci riflettere. Quasi sempre le commedie fanno pensare..

Un filo rosso che attraversa le commedie è anche la “realtà dell’invisibile”, a cui lei dedica uno dei capitoli più appassionati del libro

Ne Il sogno di una notte di mezza estate, Shakespeare dice che ciò che vediamo non è la verità. Come a dire che ciò che veramente conta è la nostra realtà interiore. Dipana questo tema a vari livelli. Anche sul piano politico. Il luogo dove si svolge il dramma è Atene, la città dove è nata la democrazia. Ma a questo si sovrappongono altre realtà. Oppure, per fare un altro esempio, nel sogno si incontra la principessa che fa l’amore con l’asino. E ciò non è assurdo. Non lo è perché non è un sogno realistico ma reale. Come a dire che la verità non è quella che vediamo , ma quella che sentiamo e che fa parte della nostra realtà più profonda. Spietata autenticità @simonamaggiorel

Dal settimanale Left

 

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La memoria dei classici

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

maurizio bettini

Il senso della memoria per gli antichi Greci e per Romani. Il filologo dell’Università di Siena Maurizio Bettini  – che  sabato 29 settembre 2012 presenta il suo nuovo libro Contro le radici (Il Mulino) alla libreria Amore ePsiche di Roma – ne aveva parlato a Left in  in occasione dell’edizione 2011 del Festival della mente di Sarzana.

di Simona Maggiorelli

mnemosyne

Mentre la storia antica, latina e greca, si studia sempre meno nelle scuole italiane, per non parlare poi di quella assiro-babilonese definitivamente espunta da programmi scolastici grazie all’ultima serie di riforme e controriforme, la proposta che viene da una fortunata kermesse come il Festival della mente di Sarzana si segnala decisamente in controtendenza: nel fitto carnet di incontri dell’ottava edizione, in programma dal 2 al 4 settembre, si legge infatti l’intenzione di aprire un’agorà di riflessione critica sulle radici culturali dell’Europa e sui rapporti che, attraverso il Mediterraneo, abbiamo intessuto nei secoli con la Grecia e con le millenarie culture del Medioriente. Una serie di importanti pubblicazioni apparse di recente, del resto, già riaccendono il dibattito a livello internazionale (ne accenneremo in breve). Anticipando a left alcuni temi della lectio magistralis che terrà il 3 settembre al Festival (alle 10,30 nella Fortezza Firmafede) ce ne parla qui uno studioso di cultura antica come Maurizio Bettini, filologo dell’Università di Siena, autore di importanti monografie sulla mitologia greca, ma anche romanziere.

A Sarzana, in particolare, Bettini racconterà le molteplici figurazioni culturali (divine, mitologiche, narrative, metaforiche) della memoria nella Grecia antica confrontandole con il modo di intendere la memoria a Roma, dove la dea Moneta «fa ricordare il proprio dovere a custodi distratti e mette in guardia i cattivi amministratori del pubblico fisco. Rammentando ciò che altrimenti si rischia di dimenticare, alla maniera di un’agenda computerizzata».
Professor Bettini la concezione greca della memoria, al fondo, in cosa differiva da quella romana?
I miti greci parlavano dell’importanza della memoria e nella Teogonia di Esiodo compare la dea Mnemosyne che ha per figlie le Muse. Così i Greci costruivano miticamente il rapporto poesia – memoria, nella loro cultura orale. La scrittura, non va dimenticato, in Grecia comincia ad essere usata non prima del VI a C. Tutta la poesia omerica è produzione orale: c’è un poeta che dice di essere in rapporto con le muse e di ricevere da loro la memoria dei fatti che racconta. A Roma, veri e propri miti di memoria, invece, non ce ne sono. Ma c’è una divinità interessante, che i Romani chiamano Moneta. Come tutte le divinità latine con il suffisso “ta” indica un’attività. Come Tacita è la dea che mi fa tacere, Moneta è quella che mi fa ricordare. Anche che questo pezzo di metallo vale un tot.
Potremmo dire che nell’epos c’era una memoria fantasia, mentre i Romani di distinguevano per un approccio più “razionale”?
Questa è la classica distinzione: i Greci erano quelli della fantasia, dei poemi, mentre i Romani erano quelli pratici che non avevano tempo da perdere perché dovevano conquistare il mondo. Ma la faccenda è più complessa. I Romani non avevano una religione mitologica fatta di racconti. La loro era di carattere rituale. Ciò che contava era eseguire scrupolosamente i riti; si tramandavano le formule. Non esisteva a Roma alcun racconto di cosmogonia, come invece c’era in Grecia e in Mesopotamia. Sembra quasi che i Romani non si fossero mai preoccupati di formulare racconti su come è nato il mondo. La prima cosmogonia che troviamo a Roma è filosofica, comincia con Lucrezio e con Virgilio. Beninteso anche loro avevano i loro miti, per esempio Romolo e Remo, l’arrivo di Enea nel Lazio ecc., ma erano di tipo assai diverso da quelli greci.
Nella Grecia antica qual era il nesso fra immagini e memoria? Nel libro Il ritratto dell’amante (Einaudi) lei racconta che anche il sogno aveva un ruolo prioritario.
Facciamo un esempio: noi diciamo “ho fatto un sogno”. I Greci invece dicevano “ho visto un sogno”. La nostra metafora è piuttosto grossolana, fa pensare che il sogno sia una sorta di funzione corporale. Per i Greci il sogno era una manifestazione che si esplicitava nella visione. Che talora può essere addirittura comune a più persone. Si racconta di sogni multipli in Grecia. Tutta la città può sognare la stessa cosa per una volta. Così il sogno ha conseguenze concrete. Si può trasformare in una realtà a partire dal fatto che c’è un nome per questo. Normalmente il sogno si chiamava “onar”, da cui onirico. Ma c’era un’altra parola per indicare, invece, il sogno che si avvera. Insomma il sogno era un’esperienza molto più reale, più concreta, per i Greci di quanto non lo sia per altri. Detto ciò c’erano anche sogni che in Grecia si dicevano derivati da cattiva digestione, o da eccesso di fatica, per cui uno sogna ciò che ha fatto il giorno prima. Ma è una categoria di sogni diversa da quella che ha una forte componente di realtà tanto da anticipare il futuro, da dare indicazioni di comportamento.

odisseo e sirene

Lo stesso Omero distingueva fra sogni falsi e veritieri.
Due sono le porte dei sogni, diceva, una di corno e una di avorio. Esistono sogni veritieri destinati a durare e sogni che sono degli inganni. Facendo somigliare stranamente i sogni anche alla poesia:  e Muse, incontrando Esiodo nella Teogonia, lo avvertono: noi diciamo molte cose vere ma anche molte cose che sono solo simili al vero, cioè false, perché la divinità – e qui torniamo al tema della memoria – può suggerire cose che non sono vere. Al pari di certi sogni.
Studiosi come Christian Meier in Cultura, libertà, democrazia (Garzanti) e in Italia Gaetano Parmeggiani con Lo scudo di Achille (Sellerio), con percorsi diversi, ora tornano a tratteggiare l’immagine di una Grecia antica in cui gli aedi- cantastorie avevano molto più potere dei sacerdoti. Cosa ne pensa?
Non si può negare che rispetto ad altre culture contemporanee, ma anche successive, quella greca aveva aspetti peculiari assai interessanti. Come l’importanza data ai poeti rispetto ai sacerdoti. In Grecia non c’era un vero e proprio clero. L’idea di una Chiesa o di Chiese era loro totalmente estranea. Quando a noi sembra addirittura normale, dacché il mondo cristiano, ma anche quello ebraico e musulmano, vive in forme di clero organizzate. E in Grecia non esisteva un libro che dicesse come è fatta la religione, come pregare Dio. C’erano varianti infinite di miti, che raccontavano, in modi anche molto diversi fra loro, storie sugli dei. I culti locali si tramandavano con forme di memoria, di tradizione orale, ma non c’era un protocollo ufficiale da rispettare, pena l’eresia. In questo senso quello greco era un mondo profondamente più libero. L’ateismo totale veniva condannato solo perché avrebbe potuto mettere in crisi la polis. Ma non c’era un’ortodossia. Tutto il mondo antico pullulava di culti diversi, legati a quella meravigliosa esperienza che era il politeismo. In cui una divinità non escludeva l’altra. L’esclusione è tipica, invece, dell’ebraismo e delle religioni che ne sono discese.
Nel suo dirompente Black Athena, ora riproposto da Il Saggiatore, Martin Bernal indaga le fortissime radici afroasiatiche della Grecia antica. La memoria di questi debiti verso le culture orientali è stata cancellata?
Sì, ma non tanto dai Greci, quanto da noi. Tra Ottocento  eNovecento esplosero l’eurocentrismo e il colonialismo. L’Inghilterra e la Germania, in particolare. si identificano fortemente con i Greci. Non volevano ammettere che i Greci avessero preso molto da culture che loro sostanzialmente disprezzavano. L’antisemitismo, poi, non poteva accettare che i Greci, “così puri e così santi” avessero debiti con i popoli del Vicino Oriente. Fu una grande mistificazione. Incomprensibile ai nostri occhi: il Mediterraneo è un mare piccolo: le idee hanno sempre viaggiato con le merci, con le persone. Ma si era arrivati al paradosso che, per capire i Greci o anche i Romani, bisognasse paragonarli ai Germani o addirittura agli Indiani, in base alla teoria dell’indoeuropeo. E non con i popoli a loro più vicini. Erodoto, per esempio, parlava moltissimo degli egiziani. Ma lo si negava in nome di una pericolosa idea di purezza dei Greci e degli Indoeuropei.
Con Luigi Spina, per Einaudi, lei ha ripercorso il mito delle sirene. In questo caso come avviene la mitopoiesi?
Il mito era un racconto immaginario ma con significati culturali profondi che toccavano la realtà. Le sirene afferiscono a un mondo di cui fanno parte anche ad altri mostri dell’Odissea come il Ciclope, una sfera in cui rientrano anche gli inquietanti incontri con le ombre dei morti oppure con i lotofagi che si sono drogati di loto e ora non ricordano più. Sono costruzioni simboliche, fantastiche, che poi vogliono semplicemente dire c’è un mondo altro che noi non conosciamo, o che non conosciamo più, ma che Ulisse ha visto.
Nella mitologia e nella cultura greca, più in generale, c’era una forte misoginia. Secondo fonti diverse da Euripide, Medea non era un’infanticida, come ha scritto Christa Wolf. La stessa Circe, come lei ha ricostruito in un libro scritto con la Franco, forse non era così terribile come Omero la dipingeva. L’uomo greco simboleggiato da Ulisse aveva paura del femminile, dell’irrazionale, di tutto ciò che era altro da sé?
La società greca era dominata dai maschi, come quella romana. E questo pregiudizio sociale forte verso la donna entra anche nel racconto mitologico. L’esempio più lampante è Pandora: una specie di automa, di fantoccio animato che raffigura l’ingresso del femminile nel mondo degli uomini come origine di tutti i mali. Di lei si dice anche che è seduttiva e ingannatrice. Non è  molto diversa da  Eva. Sono racconti che nascono per tenere sotto controllo le donne. Gli antichi cercavano di giustificare con innumerevoli motivi la sudditanza delle donne e credo che la principale spinta fosse la paura maschile che la donna gli scappasse di mano rendendo incerta la sua discendenza. A Roma, come in Grecia gli uomini ne avevano un terrore fortissimo. Perciò i padri e i mariti cercavano di tenerle rinchiuse. Perché se le donne sono troppo libere che succede? I figli di chi sono? La mia onorabilità dove va a finire? Credo che questa ”gelosia” come motivo di esclusione della donna dalla sfera pubblica, continui a funzionare in tante società del mondo arabo: la donna è troppo importante perché la si lasci libera. Si venera la figura femminile e ad un tempo la si schiavizza. Sono i due aspetti contraddittori dello stesso problema.
Immagini di donna idealizzate, secondo un’estetica classica, compaiono nel suo romanzo, Per vedere se appena edito dal Melangolo…
Una certa idealizzazione forse deriva dal fatto che vedo una profondità e un’intelligenza nelle donne che negli uomini, perlopiù, non trovo. Magari non sarò così ingenuo da credere che la “salvezza” venga da voi, ma davvero credo che molto spesso voi abbiate un modo diverso di riflettere di vedere il mondo. E i miei personaggi femminili forse risentono di questo pensiero.

Nuovi Studi

Affascinante quanto schiva figura di medico e studioso dell’ellenismo, Gaetano Parmeggiani, ne Lo scudo di Achille ci parla di un mondo greco antico dalla lunga e raffinata civiltà artistica, articolato come una società antropocentrica, «affrancata dal trascendente». Al punto che «la stessa religione non trova un equivalente nel greco arcaico». Questo suo pamphlet, riproposto da Sellerio, si legge dunque come un appassionato invito a tornare a leggere l’Odissea e soprattutto l’Iliade, di cui La lepre edizioni ha appena pubblicato una nuova e fresca traduzione di Dora Marinari (con la prefazione di Eva Cantarella). Per Carocci, invece, esce Donne e società nella Grecia antica di Nadine Bernard, che ricostruisce, fra l’altro, la pratica greca dell’infanticidio, specie delle femmine. In Grecia, scrive la storica francese «gli anni dell’infanzia erano concepiti come la parte selvaggia della vita, quella in cui l’anima è ancora primitivamente folle, per usare le parole di Platone. E per questo non erano tenuti in alcuna considerazione».

da left-avvenimenti 31 agosto 2011

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La seduzione di Olimpia

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 27, 2011

Dopo un’estate di discussioni giornalistiche sulle derive dell’arte contemporanea, sempre più autoreferenziale, affetta da bigness e staccata dalla vivere quotidianoe mentre nell’ambito filosofico si apre un dibattito sul nuovo realismo ( dopo  tanti nefandi anni di decostruzione e di pensiero debole) riproponiamo qui quanto il filosofo Maurizio Ferraris diceva a Left-Avvenimenti già nel 2007.

Maurizio Ferraris

Qualunque oggetto può essere opera d’arte? Fuori dalla truffa del mercato, la parola a un filosofo irriverente come Maurizio Ferraris che al tema ha dedicato un libro: La fidanzata automatica edito da Bompiani.

di Simona Maggiorelli

Dopo autorevoli libri di ermeneutica, di estetica e da studioso di Nietzsche, (ma anche dopo essersi esercitatosu un tema di solito poco frequentato dai filosofi come l’immaginazione),Maurizio Ferraris da qualche tempo ha cominciato a dedicarsi all’arte delpamphlet. E con molto profitto per il lettore. Affrontando corrosivamente questioni granitiche come la fede in agili volumi come Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede? (Bompiani). Ora, è da pochi giorni in libreria un suo nuovo saggio, La fidanzata automatica (Bompiani) percorso da una domanda quanto mai attuale: qualunque oggetto può essere arte? Ovvero quali sono le caratteristiche universali di un’opera d’arte, che possa davvero dirsi tale?

Per rispondere il filosofo torinese riprende un’idea di William James che fantasticava di una fanciulla automatica «assolutamente indistinguibile da una fanciulla spiritualmente animata» paragondola alla funzione di certi concerti, quadri, romanzi. A partire da qui Ferraris seduce il lettore lungo le vie di una nuova ontologia dell’arte.

Professor Ferraris, perché scrivere un’ontologia dell’arte. L’ermeneutica non basta più?

Nel Novecento è stato detto che qualunque cosa può essere un’opera d’arte. Se si accetta questo punto di vista non ha più senso dire che c’è una specifica ontologia dell’opera d’arte. Nel frattempo accadeva che la definizione non dipendeva più dagli oggetti, ma veniva a dipendere totalmente dagli interpreti. Neanche dagli artisti o dal pubblico, ma da interpreti più o meno auto- autorizzati che dicevano: “Questo è arte” , “Questo non è arte”. “Non ci sono opere d’ arte ma solo interpretazioni”. Questo mi è sempre sembrato che non cogliesse la realtà dell’arte.

Intanto la pretesa che qualunque cosa possa essere arte ha fatto breccia nel contemporaneo. Che ne pensa?

Perché ormai si tratta di vendere a un miliardario un pezzo unico. Una volta che l’hai convinto, la storia è finita lì. Per un film già funziona di meno. Un critico non può andare a dire nell’orecchio di ogni spettatore in milioni di luoghi sparsi per il mondo che si tratta di un’opera d’arte. Per una coincidenza in questo momento mentre parliamo mi trovo alla Biennale d’arte di Venezia. Sono nel genius loci di tutta la faccenda. Qui vengono “venduti” vari tipi di prodotti. Ci sono le opere esposte, talune belle, altre brutte, ma tutte impossibili da comprare, perché troppo care. E poi c’è un negozio, molto frequentato, dove si vendono bicchieri, cataloghi, libri. Ecco, se siamo in grado di fare un’ontologia di questi oggi del negozio, perché non dovremmo fare un’ontologia anche degli oggetti là che sono esposti nei padiglioni?

Jeff Koons

Nel libro scrive:«Dire che nell’arte si nasconde disonestà e mala fede sembra arretrato e provinciale». E poi aggiunge:«Ma arretrato e provinciale veniva considerato anche chi anni fa avanzava qualche dubbio sull’efficacia terapeutica e sui fondamenti scientifici della psicoanalisi ». Cioè?

Ci sono stati tanti birignao novecenteschi assai poco sensati. Fra questi c’era quello per cui uno non si dimenticava mai le cose ma semplicemente le rimuoveva. Uno non era un criminale di guerra ma semplicemente uno che aveva avuto un’infanzia difficile. Alla lettera. Perché la psicoanalisi trasforma le colpe vere e proprie in sensi di colpa: cioé cose che a rigore non hanno rilevanza penale. Accanto a questo modo di pensare prendeva campo l’idea che qualunque cosa, con una debita ermeneutica, possa diventare un’opera d’arte. Dopodiché li voglio vedere a tenersi in casa quella roba.

DuchampDuchamp con l idea dell’object trouvé e il suo orinatoio da museo, ha fatto male all’arte?

A suo modo ha avuto un’idea geniale. Ma se alla fine uno continua a mettere degli orinatoi nelle mostre sarà l’uomo dei sanitari, nessuno pensa più che sia un gesto geniale. Fra l’altro, il gesto di Duchamp segnalava già una profonda sfiducia nei confronti dell’arte, proprio per come la faccenda si stava mettendo. Un signore un po’ burlone all’inaugurazione di questa Biennale numero 52: aveva messo un sacco della spazzatura fra le opere. Le reazioni di molti spettatori erano esilaranti… Un famoso critico d’arte che ho incontrato a New York mi ha raccontato la sua esperienza durante l’allestimento della Biennale: “ stavano installando delle cose – mi ha detto – e io non riuscivo a capire se erano opere o pezzi di Eternit per riparazioni. Non avevo la più pallida idea”. Non è che per il solo fatto di far parte del mondo dell’arte uno sia immunizzato dalla domanda: ma questa sarà arte o spazzatura? Un grosso errore dell’ermeneuetica che ha reso impossibile un’ontologia dell’arte, è stato quello di assumere come paradigmatica un’eccezione. È paradigmatico quello che c’è adesso nel mondo dell’arte? Io penso di no. È semplicemente quello che c’è adesso, nel bene come nel male. Sicuramente nel Cinquecento le cose andavano diversamente. Certamente andavano in altro modo nel mille a.C.. Nella narrativa, per esempio, c’è stato un momento in cui gli autori non mettevano più i punti. Problema: i libri li compravano in dieci e gli autori si dovettero trovare un lavoro onesto.

Suscitare emozioni e sentimenti è una caratteristica ontologica dell’arte?

L’idea è questa: se uno vuole sapere la verità su una cosa non vede un film, ma un documentario, che semplicemente ti fa vedere come è la vita, poniamo, in India. Ma se uno va a sentire un concerto in India e esce dicendo” ho imparato molte cose”, vuol dire che il concerto non gli è piaciuto. Dire che un’opera mi ha insegnato qualcosa è come dirlo di una persona: è già un giudizio negativo. “Quel tizio sa tutto sulla caduta di Costantinopoli” è come dire che è l’essere più noioso di questa terra. Oppure dire “questo romanzo descrive molto bene quattro strade a Vicenza nel 1836”… Ostia che romanzo!

Pensando a certo surrealismo e ancor più all’art brut, possiamo dire che un’opera può generare anche malessere se ha un contenuto violento, deludente?

Credo che l’arte possa benissimo provocare malessere e delusione e questi sono sicuramente dei sentimenti. Solo che il gioco non può durare all’infinito. Risulta che gli esecutori di musica dodecafonica abbiano spesso dei disturbi psicosomatici. E allora uno pensa: il voluto urto neiconfronti delle nostre convenzioni musicali che viene dalla dodecafonia comporta delle disarmonie in coloro che le eseguono. Ma c’è un altro fatto. Una musica così colpisce, fa molta presa. Ma per quanto può durare? Non posso protrarre la rottura della convenzione all’infinito. Dal momento che non c’è più la convenzione non posso continuare a romperla. E poi mentre c’era questa inventiva molto spinta in avanti, c’era contemporaneamente un’enorme fioritura di arte popolare di mille tipi che ha avuto tutta una storia parallela, per carità decorosissima. LucianoBerio aveva visto che i Beatles erano rilevanti, perché era uno che sapeva vedere lontano, aveva capito che l’alternativa fra apocalittici e integrati non aveva ragion d’essere. Dal punto di vista dell’ontologia dell’arte, capire perché un’opera piace a milioni di persone è più significativo che capire perché piace a uno solo. Lì la spiegazione è semplice: quest’utente è uno scemo ed è stato convinto dal critico. È circonvenzione di incapace.

La creatività, secondo lei, “fa la specificità” dell’essere umano?

Sì certo. Tra l’altro adesso è molto messa in primo piano. In parte anche giustamente. Dal momento che tutto ciò che è routine è delegato alle macchine all’uomo resta la creatività. Sta di fatto che però che in giro di creatività se ne vede molto meno di quella che uno auspicherebbe.

Fin dalla Grecia antica si è parlato di malinconia e arte, ma forse si è equivocato sul potenziale creativo della malattia mentale?

Lo dice bene Pascal: “alcuni ubriaconi si consolano pensando che anche Alessandro Magno lo era. Ma allora dovresti anche fare tutte le conquiste che ha fatto lui. Sennò sei un ubriacone e basta. È un po’ così. Io sono persuaso che un certo tasso di disagio di vita nel mondo sia insieme causa ed effetto della malinconia dell’uomo di genio così come l’ha teorizzata Aristotele. Però noi abbiamo l’esempio luminoso di una un’infinità di malinconici che non sono dei geni ma semplicemente ci rovinano le giornate. Non è difficile vedere come spesso artisti e, ahimé, filosofi siano uomini originali. Anche se quando li vedi poi in consiglio di Facoltà è terribile.Poi, per tornare all’arte contemporanea, diciamo la verità: uno come Jeff Koons non è affatto uno strano. Faceva l’agente in borsa, è lucidissimo. Se avessi dei fondi di investimento li affiderei a Jeff Koons.

Lombroso, come molti neuroscienziati di oggi, sosteneva che la malattia così come la creatività hanno basi biologiche, ne faceva un fatto ereditario. Ma ricordava Carlo Flamigni: “quando negli Usa è stata creata una banca del seme con premi Nobel sono nati solo dei comuni cretini”…

Che ogni manifestazione spirituale abbia una base materiale mi sembra una cosa difficilmente contestabile. Dopodiché il cammino che, dalle basi neurologiche, porta all’opera è lungo e misterioso…Tutti noi penseremmo che spiegare la costituzione italiana in base a come era fatto il cervello dei costituenti sia un’opera ardua…

Cartesio ammetteva che la ragione non è nulla senza l’immaginazione, però il pensiero filosofico in larga parte ha ostracizzato la fantasia, le immagini, la creatività, sacrificandole al Logos, perché?

Io penso che ci sia stato un certo rispetto per la fantasia, per le immagini, come del resto è dimostrato proprio dalla frase di Cartesio che lei cita. Si potrebbero tirare in mezzo anche tanti altri di filosofi. Beninteso, ogni tanto ci sono problemi, diciamo così, di bottega. In fondo se Platone se la prende con i poeti è perché i poeti vogliono essere gli educatori della Grecia, quando vuole esserlo lui. A ben guardare, alla fine, si trovano molti più saggi scritti da filosofi di qualunque altra categoria professionale.

Left- Avvenimenti 2 novembre 2007

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Quando l’artista diventò un’icona

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 9, 2011

A proposito della querelle aperta dal critico Jean Clair sulla morte dell’arte contemporanea, ridotta a gadget di lusso da artisti come Murakami, Hirst, Koons and Co.: nei mesi scorsi abbiamo affrontato più volte questo tema sulle pagine del settimanale Left-Avvenimenti. Per proseguire la discussione ecco alcune riflessioni a proposito del lavoro del filosofo Arthur Danto sulla fine dell’arte.

di Simona Maggiorelli

Andy Warhol

La morte delle arti visive così come si sono sempre intese è un fatto evidente ed acclarato secondo il filosofo Arthur C. Danto (classe 1924), che ha elaborato questa tesi in libri come Andy Warhol (Einaudi) e Dopo la fine dell’arte (Bruno Mondadori). Secondo l’analisi del pensatore e critico d’arte americano negli anni Sessanta si è compiuto un drastico cambio di paradigma nel mondo dell’arte.

Non solo un certo tipo di narrazione per immagini di tipo ottocentesco si è esaurita ma, secondo Danto, è finita anche la spinta propulsiva delle avanguardie. Fino ad arrivare a un vero e proprio dissolvimento di un certo modo di fare ricerca.

«L’arte doveva morire per poi rigenerarsi con nuovo pensiero», scrive Danto. Individuando in Andy Warhol il killer che con il suo nihilismo riuscì a fare tabula rasa. «l’arte morì quando la Pop art reputò ogni oggetto e ogni forma comunicativa degna di essere considerata arte», nota ancora il filosofo.

Più di Duchamp che con i suoi orinatoi da museo cercava la bizzarria, lo choc, lo spiazzamento del pubblico, Warhol con le sue gigantografie di dive e banconote minuziosamente riprodotte, cercava il consenso di un pubblico vasto e in particolare di quella middle class che, negli anni del boom economico non aveva aspirazioni culturali ma solo di consumo. Lui l’accontentò operando la trasfigurazione dell’ordinario e del banale. In più, portando nell’arte le istanze del “supercapitalismo” occidentale, diventò egli stesso un’icona pop, un personaggio che negli Usa richiamava folle da rockstar.

Nel 1965 questa metamorfosi, in Warhol, era già compiuta, anticipando il ‘68. Analisi stringente, ficcante quella che ci propone Danto, ma anche leggendo la monografia Arthur Danto, un filosofo pop (Carocci) di Tiziana Andiana viene da chiedersi se si renda conto, fino in fondo, delle conseguenze di ciò che ha scritto.

Per Warhol esisteva solo la superficie delle cose, secondo un suo famoso motto. Non c’era nulla di latente da intuire oltre la materia. E su questa base rottamò i suoi inizi da pittore espressionista e ogni ricerca sull’inconscio. Ma con il suo brutale positivismo come avrebbe potuto inaugurare una nuova fase e un nuovo pensiero nell’arte? L’impostazione razionale da filosofo analitico qui sembra impedire a Danto di immaginare ogni possibile superamento della crisi delle arti visive e degli standard raffreddati e iperazionali imposti dall’attuale sistema dei musei.

dal settimanale left-avvenimenti

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La creatività è che conta

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 4, 2010

Il coraggio di fare immagini nuove. E di difenderle. In un momento di crisi dell’urbanistica e di deregulation. Le proposte dell’architetto fiorentino Fabio Sani e dell’ingegnere romano Nino Reggio d’Aci di Idearc

di Simona Maggiorelli

Palazzo Rosso di Massimo Fagioli progettettazione architettonica di Idearc e Lorenzo Fagioli

Il cemento sta ipotecando il futuro del Paese, scrive l’urbanista Paolo Berdini in Storia dell’abuso edilizio, da poco uscito per Donzelli.

Paolo Berdini ha ragione. La realtà è davanti agli occhi di tutti. L’urbanistica ha perso la sua “spinta propulsiva”. L’idea di piano, che accorda tutto in un unico disegno, è superata. La pretesa di prestabilire tutto costruisce una gabbia difensiva. Però è chiaro che l’insensata deregulation degli ultimi anni è una cura ben peggiore del male. Dietro vi si intravede infatti la direzione di quell’instancabile motore della crescita urbana che è la rendita. Il cambiamento di città e territorio è avvenuto senza che le amministrazioni lo governassero. Al moltiplicarsi della complessità urbana si è risposto estendendo l’area del negoziabile, della contrattazione, dello scambio politico, con una confusione di ruoli che è una delle cause dell’attuale fallimento delle nostre città. Noi non abbiamo una soluzione. Forse l’unica via, almeno per ora, è opporsi quando è possibile a quanto c’è di disumano e violento. Il buon progetto, il buon quartiere forse possono creare una contaminazione positiva, indicare una strada.
Quanto è difficile per un architetto “difendere” leproprie immagini dai diktat della cattiva politica?
Molto. Ma non è una questione di buona o cattiva politica. I condizionamenti ci sono sempre stati. La società ha sempre voluto attribuire compiti sociali all’architettura. L’autonomia e il controllo estetico della progettazione sono fra i temi più complessi della storia dell’architettura. D’altra parte l’architettura e il suo fare immagini è l’arte che ha più immediato impatto politico per la sua capacità di esprimere la fisionomia di una realtà sociale o di un certo regime politico. è un incontro inevitabile ma può essere anche un abbraccio mortale. La professionalità, intesa come sanità e identità dell’architetto, può contrastare la cattiva politica e la cultura della committenza.
Il fascismo ha fatto brutta architettura di regime, anche se ora c’è chi pretende di rivalutarla. D’altra parte il Corviale, progettato con le migliori intenzioni, è un ghetto. L’ideologia fa male all’architettura?

Palazzo rosso di Massimo Fagioli; progettazione architettonica di Idearc e Lorenzo Fagioli

Fa male, non solo all’architettura. Con il loro fortissimo potere di penetrazione, le ideologie hanno coinvolto milioni di esseri umani, con le conseguenze e i danni che conosciamo. L’architettura, in quanto arte “sociale” non ne è stata esente. L’architetto che accetta di porsi al servizio di un’idea politica rinuncia sempre a una propria immagine. Nella vicenda del fascismo, la critica ha messo bene in luce questo rapporto, spesso drammatico al di là di qualsiasi rivalutazione. E, più di recente, l’ideologia della” funzione” ha portato a  strutture che di “macro” hanno solo lo squallore e l’abbandono. Forse solo oggi, liberi dalle ideologie che li hanno a lungo paralizzati, gli architetti possono recuperare la possibilità di un rapporto diretto e immediato con le loro immagini.

Il Palazzo Rosso valorizzail territorio e la qualità della vita. L’architettura non deve perdere di vista l’umano? Cosa ispira la vostra progettazione?
In un suo bell’articolo recente, Vittorio Sgarbi dice che al di là delle archistar, è la «creatività artistica» che conta. Per questo ci siamo rivolti a Massimo Fagioli e la risposta è stata il Palazzo Rosso. Quanto a dire come avviene questo passaggio non è facile. Fagioli fa un disegno e noi lo concretizziamo materialmente? Rubiamo un’immagine a chi ce l’ha? Forse lasciarsi completamente andare? Tutto questo ma non solo. Quando ci incontrammo per il progetto di questo grande edificio nella campagna di Roma, ignorati i nostri modesti schizzi, ci spiazzò completamente prospettandoci un edificio rivoluzionario ed emozionante.
L’architettura del nuovo millennio s’incontra con l’arte?
Certo, una dialettica con l’arte è ineludibile. Quello che possiamo dire è che l’architettura, ricercando esclusivamente la funzionalità, rischia di trovare una identità senza fantasia.

da left-avvenimenti del 15 ottobre 2010

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Magia alla Marc Chagall

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2009

Creature della notte e incontri d’amore negli anni mediterranei del pittore russo in mostra  a Palazzo Blu a  Pisa

di Simona Maggiorelli

«Le ricerche dei cubisti non mi hanno mai appassionato. Riducevano tutto a una geometria di cui restavano schiavi, mentre io cercavo piuttosto una liberazione plastica, non solo della fantasia o dell’immaginazione», così in un’intervista Marc Chagall raccontava la propria ricerca, non riuscendo a dissimulare un certo rodimento verso quella picassiana che negli anni Dieci del Novecento aveva rivoluzionato radicalmente il modo di intendere e di fare pittura. Rivendicando il valore inattuale dell’arte figurativa, il pittore di Vitbsk difendeva un suo personale universo poetico, legato alla cultura ebraica e popolare dei villaggi della Russia, un mondo a parte lontanissimo da ciò che accadeva in Europa.Rivendicando legami con una tradizione che si era fermata nel tempo con un’iconografia quasi raggelata. Non si può dimenticare, senza volerla dire in termini rudemente marxisti che la servitù della gleba fino e oltre la rivoluzione del 1917 era la realtà di larga parte della Russia e la necessità di soddisfare i bisogni primari non lasciava molto tempo per l’arte .  Ma è anche vero che , quella tradizione, Chagall cercava di  rileggerla attraverso una lente deformante, con carica visionaria, personale.

«Io mi sforzo di costruire un mondo dove l’albero può significare altro – diceva – dove io posso immediatamente constatare di avere sette dita nella mano destra, ma cinque in quella sinistra, insomma un universo dove tutto è possibile».

La fantasia di Chagall., come aspirazione,  inseguiva la potenza del sogno, libero dalle griglie rigide del principio di non contraddizione. Cercava la polisemia delle immagini. Ma anche quella palpabile atmosfera di magia che il buio ogni sera porta con sé. E sono epifanie di creature della notte quelle che accendono le sale di Palazzo Blu a Pisa con la mostra Chagall e il Mediterraneo (fino al 17 gennaio, catalogo Giunti) curata da Claudia Beltramo Ceppi e da Meret Meyer. Centocinquanta opere – tra dipinti, sculture, ceramiche e tavole – provenienti dal Pompidou di Parigi, dal museo Chagall di Nizza e dal museo Matisse di Cateau-Cambrésis, in cui Chagall si dedicò allo studio della luce piena del Sud (sulla scia del viaggio in Provenza di Van Gogh) e all’esplorazione di un sentimento più calmo rispetto a quello che connota i quadri del periodo più intensamente orfico.

da left avvenimenti del 30 ottobre 2009

LE FIABE PERDUTE DI CHAGALL
Un immigrato si familiarizza con la lingua del Paese di adozione facendosi leggere  e rileggere dalla  moglie le favole di La Fontaine. Talvolta la ferma al punto in cui i poeta fa la morale. ” Questa puoi saltarla”. Poi quando ormai la conosce a memoria, la dipinge con una fantasmagoria di colori gioiosi, brillanti e sgargianti, quasi pop, che accentuano, anzi fanno esplodere l’elemento ironico, fiabesco, surreale. Lui è già un pittore famoso, non un esordiente, L’editore che gli ha commissionato le tavole, è uno dei più grandi editori dei suoi tempi. Mal gliene incoglie però. Gli rinfacciamo di tradire il più elegante,”il più cartesiano e il più lucido” dei poeti francesi del’600, una gloria della cultura occidentale, facendolo illustrare ” dalla barbarie urlata ispirata al colore di un orientale”. L’immigrato è russo. E per giunta ebreo. Che sarebbe a dire, per quei tempi, peggio che extracomunitario. Nella sua città natale, Vitebsk, ora Bielorussia, era stato registrato all’anagrafe  come Moshva (mosè) Shagal. A Parigi si sarebbe fatto chiamare Marc Chagall. L’editore per cui lavorava si chiama  Ambroise Vollard. Ha già fatto fortuna lanciando Cézanne, Matisse , Guaguin, Van Gogh e un altro immigrato. Picasso. Ma gli rimproverano di aver montato soprattutto artisti ” stranieri e semiti”. Chagall gli ha già illustrato Le anime morte di Gogol, ma con incisioni, in bianco e nero. Gli illustrerà poi, sempre con incisioni, I profeti della Bibbia. Per il progetto La Fontaine si butta invece sul colore, inventando nuovi impasti, ricchi, corposi, talvolta addirittura quasi violenti. Non sono più nemmeno i colori notturni, spenti, tristi della sua infanzia, che pure lo avevano reso celebre. Sono colori solari, che scintillano di allegria, sono i colori del paesaggio francese e del Mediterraneo, che Chagall ha appena scoperto, sono i colori di Cèzanne, di Matisse, dei Fauves, non più quelli dello shtlel, del villaggio-ghetto…. Tra il 1926 e il 1927 Chagall aveva realizzato un centinai di gauches sulle favole. Il libro a colori non sarebbe mai uscito. Non si hanno ragioni convincenti del perché. Si disse che Vollard avrebbe rinunciato perché le prove di stampa a colore non erano riuscite bene. Più tardi Chagall avrebbe ripiegato su incisioni con gli stessi soggetti. Sarà anche andata così. Ma qualcosa non quadra. La Francia continuava ad accogliere immigrati era un polo d’attrazione per gli intellettuali da ogni angolo di Europa. Ma in fatto di avversione agli stranieri tirava una brutta aria… Nell’inaugurare a Monoco nel 1937 la grande mostra “Arte degenerata”, Hitler aveva inorizzato sui dipinti con cieli verdi e mari viola, e proprio la sterilizzazione e il ricovero forzato nei manicomi dei Disgraziati che spingono così perché vedono le cose così, Tra le 730 opere forzosamente  sequestrate e additate all’infamia c’erano diversi Chagall….

( estratto da Le fiabe perdute, Chagall, di Sigmund Ginzberg da la Repubblica)

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Le sette vite di Shahrazad

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009

di Simona Maggiorelli

mani

Shirin Neshat

Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad.  «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana.  E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009  – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.

is50164lMa che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la  marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi  che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente.  Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”.  Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.

Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del  Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.

Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più.  Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».

Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros  nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772  d.C)  e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un  trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini.  Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60  parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.

da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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L’avventura di due grandi maestri

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2007

La scomparsa di due giganti del cinema, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni. Marco Bellocchio racconta a left il loro cinema , la loro poetica.L-arte di Antonioni fu profondamente laica. Quella di Bergman, pervasa dalla religione.Come Ghuther Grass, da giovanissimo Bergman fu affascinato da Hitler e dal nazismo. Ma se lo scrittore se ne separ; molto presto,Bergman lo fece solo quando seppe dei campi di concentramento.

di Simona Maggiorelli

Ingmar Begman e Michelangelo Antonioni se ne sono andati a poche ore l’uno dall’altro, una casualità che colpisce e che lascia con la sensazione che con la loro scomparsa si sia chiusa una fase storica, comunque importantissima, del l’arte cinematografica. «Il cinema ha una sua storia, anche lunga, ormai, ma certo in questo caso sono scomparsi due giganti», dice il regista Marco Bellocchio. «Con Antonioni ci sono state delle assonanze profonde. Ma negli anni giovanili Bergman, devo dire,  mi aveva molto colpito, quando ventenne a Roma studiavo cinema.
Era come se la sua disperazione, la sua angoscia incontrassero un mio modo di pensare di allora, quello dei primi quindici anni di lavoro. Dopo i miei pensieri cominciarono a cambiare, si allontanarono inevitabilmente dal pensiero, dalle ideologie, dalla filosofia di Bergman.
Era il Bergman in bianco e nero quello che più l’aveva colpita?
Sogno di una notte d’estate, Il posto delle fragole, Il settimo sigillo, La fontana della vergine, ma anche Persona film straordinariamente
innovatore.Le mie idee sulla vita non erano troppo distanti da quelle di Bergman, mi colpiva questo suo continuo riferimento alla morte e alla trascendenza come via di fuga alla disperazione. In lui, al fondo, più che con l’infelicità e la follia, c’è sempre un rapporto con la morte. Il settimo
sigillo
, in questo senso, è emblematico.
Il cinema di Bergman ha una cifra esistenzialista. Ma anche più strettamente heideggeriana in questo gioco a scacchi con la morte, in questo «esserci per la morte» che pervade la sua poetica?

Era religioso e pensava che in noi ci sia un male connaturato con la nostra stessa nascita. Un male che al massimo può essere controllato.
Con il quale convivere. Un tema che c’è anche in Stanley Kubrick: un male intrinseco che poi è il peccato originale.
In Antonioni, invece, non c’è. Questa distinzione mi pare molto importante. Il suo cinema è stato profondamente laico. Bergman, invece, quando studiava a Weimar disse che Hitler «aveva un fascino tremendo» Quando subiva questa “fascinazione”, va detto, aveva vent’anni. Lo racconta nella sua autobiografia. Non era un ragazzino come Grass quando entrò nell’esercito. E poi Bergman era figlio di un pastore evangelico, anche se non voglio dire che questo debba essere una condanna. Ma ha nessi evidenti con il suo modo di pensare l’infelicità dell’uomo. l’idea dell’intrinseca infelicità dell’essere umano permea anche un film come Il volto. Lì Bergman lo fa dire al ciarlatano, che con la sua fantasia, i suoi trucchi, ha la capacità di portare lo scienziato a una sorta di paura panica. Il positivismo, insomma, è sconfitto, ma non c’è la proposizione
di un pensiero diverso. Centrale lì è il tema del teatro come anche nel Settimo sigillo. Anche lì è una famiglia di saltimbanchi che guarda i flagellanti, il cavaliere e la morte. Come se, per il disperato Bergman, la recita, la rappresentazione, il teatro fossero un antidoto alla disperazione dell’esistenza.

Ma il ricorso al teatro, per Bergman, non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Con Scene da un  matrimonio siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole il personaggio capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi
studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui vienetrascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, oggi mi appare oggi senza invenzioni, quasi preistorica rispetto a una certa ricerca su un certo modo di fare immagini  che hanno a che fare con una fantasia profonda e non con meccanici tentativi di trascrizione di sogni.
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman, ribadisco, è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza.
Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini  di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito.
Cosa distingue, secondo lei,  la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha
raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni Ottanta. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la camerierache l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:
la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard. Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza. Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante,
che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei, oggi, cosa ne pensa
?
Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto,
la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna, il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati notevoli. Lì non c’è il
sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini di Dreyer, per esempio, la differenza appare evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.

A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’Arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza… È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg: la vita come inferno i rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.

Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre
ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è
sul punto di morire.

Quella celebre sequenza, da spettatrice, mi appare oggi un po’meccanica, senza invenzioni, quasi preistorica
rispetto a una ricerca sulle immagini inconscie come la sua. Lei come la giudica?

Quella non è solo una trasposizione di un sogno ma anche una rappresentazione. Anche se, però, mi viene subito in mente, per contrasto, la dimensione fantastica, onirica, di Bunuel, nel quale ritrovo tematiche che mi sono più congeniali, il rapporto con la donna,
il desiderio. Quello di Bergman è sempre un discorso cristiano sulla morte. Anche se indubbiamente ne Il posto delle fragole con risultati
notevoli. Lì non c’è il sogno tout court ma una trasfigurazione. Usa il sogno proprio per dare una rappresentazione disperata di un destino che lo terrorizza. Bergman fa un uso della parola, molto abbondante e molto espressivo, però se noi lo confrontiamo alla genialità delle immagini
di Dreyer, per esempio, la differenza appare subito evidente.
Che cosa distingue in questo senso la ricerca di Dreyer?
Le sue sono immagini originali. Lavora molto sui primi piani. È stato magnifico il gruppo di attori che lo ha seguito. Dreyer ne ha raccolto i risultati superlativi.
A differenza di Dreyer Bergman è più un regista di parola che di immagine?
Non direi. Anche le parole sono immagini. Ma Giovanna d’arco è un capolavoro, come lo è Dies Irae, fino a Ordet. Ma la forza delle
immagini è qualcosa che vedo più potentemente in Dreyer che in Bergman, anche se è un autore che ha influenzato tutti fino agli anni 80. Il suo ultimo film che mi ha impressionato è stato Sussurri e grida. Un film estremamente drammatico incentrato su un rapporto di assistenza e di estrema violenza…
È un discorso sull’indifferenza, sulla disperazione, ma c’è anche quel tema religioso del male in questo rapporto fra la donna che sta per morire e la cameriera che l’assiste e mente. Più che Ibsen, che in fondo è un personaggio più positivo, si sente l’influenza di Strinberg:la vita come inferno i
rapporti familiari, finti, terribili. E più al fondo c’è Kirkegaard.
Bergman ha avuto delle intuizioni poi la sua ricerca sembra essersi indebolita. È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con
Tomas Millian lui si è impegnato totalmente, c’è la personalità, poi dopo larazione dell’esistenza.
Ma il ricorso al teatro non è un espediente in fondo rassicurante, che riconduce le tensioni a uno schema verbale e razionale come in Scene da un matrimonio?
Lì siamo già usciti dalla fase migliore del suo lavoro. Rassicurante però non direi, c’è sempre una disperazione
che sta per entrare in casa. Anche nel Posto delle fragole lui capisce della propria aridità, di aver badato sempre e solo ai suoi studi, con ingenerosità verso gli esseri umani. Lui percepisce tutto questo e c’è il famoso sogno in cui viene trascinato dentro la bara e

poi in varie visioni. Tutto poi si conclude. È con i tre ragazzi che partono per le vacanze e che gli fanno una specie di serenata sotto la finestra. Lui, certo, sì è un pochino rasserenato, ma è sul punto di morire.
È accaduto anche ad Antonioni?
Il suo ultimo film, per me, è stato Identificazione di una donna. Non voglio negare gli altri ma in quel film con Tomas Millian lui si è impegnato
totalmente, c’è la personalità, poi dopo lamalattia è stato in qualche modo aiutato,sorretto. Per me il suo periodo più fecondo comprende Le amiche, Il grido, La notte, L’eclissi, fino a Blow up. Ma forse il film più misteriosamente geniale resta L’Avventura.
Perché più misteriosamente geniale?
Per quella sua curiosità, interesse profondo, per le donne: per il modo in cui le sa rappresentare. E poi ne L’Avventura sa dire della sparizione, dell’assenza, rappresentandola in modo assolutamente artistico, inconsapevole.
C’è una donna che sparisce e quest’uomo futile, superficiale che si coinvolge con la migliore amica di lei, ma la tradisce, così per nulla. Ma è anche vero che un autore non va preso solo per un film, ma per l’intera sua opera.
Diverso, il suo dal modo di rappresentare le donne di Bergman?
L’interesse di Bergman per le donne, indubbiamente, si pone su una dimensione del trascendente, creduta o non creduta. Antonioni invece

è su un versante laico, di rapporto umano. Vede e anticipa. Non dimentichiamo che il film L’avventura da tutta una certa critica di sinistra non fu immediatamente riconosciuto proprio perché era anticipatore, metteva in discussione i principi che erano del comunismo, cioè andava già in un’altra direzione: quella della ricerca sulla realtà interna del rapporto uomo donna che tutta la sinistra sottovalutava largamente. Personalmente credo di aver capito la sua grandezza con Le amiche e Il grido. Due film che si concludevano con due suicidi… Nel L’avventura c’è qualcosa che diventa più complesso, un’idea più originale.

C’è un filo di esistenzialismo anche in Antonioni e che differenza c’è con quello di Bergman
Anche lì c’è una differenza, pur essendo Antonioni un introverso, un uomo molto discreto era uno che amava la vita, e poi si prendeva grandi rischi. Questo devo dire anche Bergman. Ma per le cose che mi interessano particolarmente, è più Antonioni il regista a cui posso far più riferimento, specie rispetto ad alcuni film, Blow up è un film perfetto altri che mi interessassero di meno. Ma anche in grandi artisti ci sono delle opere, se pensiamo anche ai grandissimi, per esempio Picasso, che ti toccano più di altre. Il deserto rosso è una di
queste? Deserto rosso è un film molto innovatore. i rimproveravano a Antonioni i dialoghi non realistici,si facevano anche battute su certe frasi, perché il cinema italiano era abituato a un certo realismo. Invece Antonioni rischiava perché nei dialoghi voleva concentrare dei contenuti, che andassero oltre il mero realismo. In deserto rosso, il suo primo film a colori, fa come il pittore, cambia la tavolozza. Adesso si fa tutto in elettronica successivamente lui ebbe l’ardire di modificare gli scenari. Era l’epoca in cui gli attori ancora si doppiavano.
La sua grande originalità non stava tanto nella descrizione fenomenologica di una schizofrenica ma nel rappresentare il mondo molto deteriorato, inquinato, incomprensibile, incomunicabile in cui si muove questa donna che ormai ha perso tutti i punti di riferimento. Anche a
causa dell’indifferenza di un marito freddo che poi si coinvolge con un ingegnere e scompare. In questo senso però è un film molto originale,
ma se parliamo di capolavori, preferirei usare questa definizione più per L’Avventura e per Blow up. Poi non dimentichiamo i primi film, Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie.

Ma oggi, guardandosi indietro accanto a Bergman e Antonioni chi metterebbe fra i registi che per lei hanno contato?
Mi viene in mente immediatamente anche Bunuel la sua complessità, la sua genialità. È raro percepirlo, capirlo, sentirlo immediatamente,
perché la genialità è qualcosa di talmente nuovo che il comune spettatore ci mette un po’di tempo, magari anche il cineasta. Veramente
se si pensa all’opera di Bunuel è gigantesca e comunque mi è più affine. Ha una sua espressività potente, ma anche una delicatezza e una grazia particolari. Ma anche alcuni Fellini, certamente  vi troviamo Chaplin, Dreyer. Ma ribadisco, anche Bergman e Antonioni in mododiverso. Che poi ciò che io penso, che desidero e che la mia ricerca vada in un’altra direzione, non c’è dubbio.

da left-avvenimenti 31 luglio 2007

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