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Sindbad e i tesori omaniti

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2012

Dall’antico porto di Sumhuram partivano incenso, reaffinate ceramiche e sculture. Campagne di scavo dell’Università di Pisa portano nuove conoscenze sulla storia di questa cosmopolita area dell’Arabia Felix

 

di Simona Maggiorelli

 

Oman, cammelli attraversano una laguna in Salalah-Dhofar

Sulle orme di Sindbad il marinaio, l’anti Ulisse per eccellenza, che diversamente dal fedele marito di Penelope, cedeva alla bellezza femminile in ogni porto. (Salvo poi darsela a gambe se le usanze locali prevedevano che gli sposi fossero sepolti insieme qualora uno dei due morisse)

Di Sindbad, come è noto, narrano le Mille e una notte, immaginando che, partito da Bassora, come tanti marinai delle epoche più antiche, il  leggendario marinaio  fosse arrivato alla costa più meridionale della penisola araba e da lì salpato alla conquista dei sette mari, lungo le rotte che secoli dopo sarebbero state di Marco Polo.

Da sempre legato alla tradizione alla navigazione e alla vita portuale l’Oman, che nei testi mesopotamici era indicato come Magan, è la punta estrema di quella che fu l’Arabia Felix come la chiamavano i romani che da queste terre, soprattutto in età augustea, importavano incenso pregiato per profumare case e cerimonie pubbliche. Ma l’eudàimon Arabia (come la chiamò Alessandro per non averla conquistata) era anche il punto di partenza delle carovane di mirra, spezie e altri prodotti che da queste terre raggiungevano Roma, la Grecia e oltre.

Dal fiorente e cosmopolita porto di Sumhuram, nell’area di Khor Rori, oggi patrimonio Unesco, ne partivano quantità ingenti anche verso l’India e la lontana Cina, insieme a ceramiche decorate, incensieri scolpiti, spade e amuleti in forma di serpentelli e atri oggetti in metallo  dal momento che la regione omanita è ricca di miniere sfruttate fin dal III millennio a.C.

Raffigurazione di serpente, Salut

Qui per quindici anni, dal 1997 a oggi, un team di archeologi italiani guidati dall’orientalista Alessandra Avanzini dell’Università di Pisa ha condotto un’ampia campagna di scavo allargandosi fino fortezza di Salut. Gli importanti reperti portati alla luce sono stati esposti, fino a lo scorso 7 luglio, nel Museo nazionale di San Matteo nella mostra Oman, il paese di Sindbad il marinaio.

Nel 1996 quando Avanzini vide per la prima volta il sito di Khor Rori, nel Dhofar, intuì che lo studio di questo sito avrebbe potuto portare nuove conoscenze alla storia dei commerci nell’antichità. E con coraggio, quando ancora, il sultanato omanita era trascurato dalle campagne archeologiche che si fermavano nel sud dello Yemen, avviò i primi scavi sistematici.

Le scoperte sono state sorprendenti come siè potuto  vedere anche nella esposizione pisana dove erano esposti raffinati oggetti in pietra e in bronzo come il bacile, trovato nel tempio più importante di Sumhuram: di datazione incerta, fra il II e il I secolo a.C., come molti altri reperti scavati in questa zona sfoggia un’iscrizione a rilievo in elegante alfabeto sudarabico, mentre dei chiodini sul fondo documentano anche antiche operazioni di restauro.

Incisioni rupestri, Oman

Insieme al bacile altri oggetti e frammenti confermano che la pratica delle iscrizioni in geometrico e stilizzato alfabeto sudarabico era diffusa in Yemen come in Oman, dove le prime iscrizioni sono attestate dall’inizio del primo millennio a. C. In un arco di tempo che arriva al VI secolo d.C.  se ne contano più di quindicimila, incise sulle pareti delle montagne, sulle mura della città, su stele e statue.

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Un Ulisse tutto da ridere

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 16, 2012

Scaduti i diritti, in Italia  Newton Compton  ha pubblicato una nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce  che ne recupera il lato comico e lo humour. Da appassionato cultore della storia e della letteratura irlandese il filosofo Giulio Giorello la presenta in occasione del Bloomsday

di Simona Maggiorelli

James Joyce

Tradurre è sempre un po’ tradire. Ma può essere anche “trans ducere”, portando in luce un senso più profondo. E’ questo il caso della  traduzione dell’Ulissedi James Joyce firmata da Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi uscita per Newton Compton.

A sostenerlo è Giulio Giorello che proprio al tradimento dedica il suo nuovo libro edito da Longanesi: una gustosa scorribanda, e antimoralistica, passando da Shakespeare a Mozart a Joyce.

L’opera dello scrittore irlandese, il 16 giugno, è festeggiata nel Bloomsday, in Irlanda e in molti altri Paesi. E il filosofo della scienza dell’Università di Milano  racconta: «Sono particolarmente felice che si torni a parlare dell’Ulisse fuori dall’accademia. Troppo spesso la discussione fra eruditi dimentica che i versi di Dante erano cantati dal popolo a Firenze. Si dimentica che chi andava a vedere Shakespeare, fra un palco e l’altro, arrostiva un montone o improvvisava un duello. E che in Joyce vibra la voce roca, ma affascinante, del coraggioso proletariato irlandese che nel 1916 nella cosiddetta Pasqua di sangue fece vedere i sorci verdi agli occupanti britannici».

In una lettera giovanile lo stesso Joyce, merita qui ricordarlo, si definiva «scrittore socialista» e, nonostante l’Ulisse sia poi diventato un libro di culto e per molti versi poco accessibile, nasceva dall’idea di scrivere una moderna Odissea che restituisse dignità alla vita quotidiana delle persone “qualunque”, come lo è il suo protagonista, Leopold Bloom.

«Questa nuova traduzione ha il merito di far emergere il carattere democratico di questo meraviglioso romanzo che, per me», sottolinea il filosofo, «è il più grande testo del Novecento. Qui ritrovo l’humour e un senso plebeo dell’esistenza molto Irish, che rende l’Ulisse così affascinante». Un senso che fece storcere il naso a Virginia Woolf che lo giudicava “un testo scomposto” e “disgustoso”, scritto da “un proletario autodidatta”. «Sarà certo vero quello che diceva la signora Woolf, ma per me» stigmatizza il professore «fra l’ Ulisse e gli esangui, tristi, romanzi della Woolf c’è la stessa differenza che corre fra un buon whisky e un’aranciata».

Entrando più nel merito di questa nuova traduzione Newton Compton che esce a più di cinquant’anni da quella classica di De Angelis, Giulio Giorello approfondisce: «Mi colpisce soprattutto la vitalità di questa nuova versione. Che, per esempio, usa il tu in dialoghi chiave come quello fra Bloom (Ulisse) e Dedalus (Telemaco) che, in una taverna, imboccano una discussione alta su scienza e religione».

E poi, per fare un altro esempio, nella traduzione di Terrinoni e Bigazzi «si coglie tutta l’ironia di Joyce verso Darwin. Un caso per tutti: a proposito della tragica storia irlandese, Joyce parla di Destruction of the Fittest, qui correttamente reso come la distruzione del più adatto. E non come la distruzione dei migliori. Che sarebbe sbagliato». Joyce ben conosceva il dibattito sulle idee di Darwin fortemente osteggiato dai gesuiti e, sottolinea il filosofo della scienza, «si divertiva a prendere in giro gli slogan dei darwinisti sostenendo che è la storia umana non riflette l’evoluzione ma quasi drammaticamente la contrasta».

Bloomsday e protesta contro le banche, Dublino

E da notare è anche «che questa intuizione di Joyce, che era un cultore di Nietzsche, trovi un preciso parallelismo in Umano troppo umano dove il filosofo tedesco mostra tutta l’ambiguità di un darwinismo ideologico e ingenuo».

Quanto all’incipit invece? «In questo caso», ammette Giorello, «sono affezionato alla vecchia traduzione di De Angelis: “Solenne, paffuto, Buck Mulligan spuntò in cima alle scale” recitava. Qui invece si legge, “statuario e pingue”. Pensando forse al Falstaff shakespeariano che era molto presente nell’opera dello scrittore irlandese».
Shakespeare era indubbiamente un modello forte per Joyce, come scrittore a tutto tondo, interessato all’umano, inteso come corpo e mente. «E’ uno dei suoi grandi riferimenti insieme ad Omero e a Dante. Poi nel suo orizzonte ci sono due grandi filosofi napoletani: Giordano Bruno  è  più volte riecheggiato nel libro e Vico, che sarà uno dei grandi riferimenti di Finnegans Wake, compare già qui.  E’ la grande sfida di Ulisse essere un grande poema in prosa irlandese e nello stesso tempo il grande poema dell’umanità nell’incertezza».

Gli strali verso  i più ideologici epigoni di Darwin,  intuizioni sull’idea di spazio tempo in linea con la  teoria della relatività, ma anche Freud compare indirettamente nel romanzo. Come bersaglio critico. Joyce non amava Freud, è ben noto, e rispose da scrittore all’apertura all’irrazionale avviata dall’arte di inizi Novecento. Lo fece dilatando l’Ulisse a misura del tempo interiore del protagonista Leopold Bloom. E affidando il racconto a una lingua icastica, vitale, polifonica. «Insieme a Faulkner, Joyce è a mio avviso lo scrittore del secolo scorso che più di ogni altro ha colto il tempo del profondo» commenta Giorello. Quanto alla lingua  era «innervata da uno spirito autenticamente democratico. La lingua che usa Joyce», ci ricorda Giorello, «è quella dei vetturini, degli agenti cambio, degli uomini della strada e dei pub. Era lontano anni luce da atmosfere intellettuali esangui. Nell’Ulisse ci sono la carne e il sangue di un popolo che era riemerso da una storia tragica, con una concezione». Peraltro, aggiunge il professore, l’Irlanda ne è uscita «con un’idea molto bella di tolleranza delle diverse scelte di vita. Con l’idea che la democrazia non è fare quello che vuole la maggioranza, ma significa seguire la vocazione delle minoranze, senza dimenticare il diritto di coloro che sono oppressi a ribellarsi».

Giulio Giorello

Lo stesso  Bloom  in Ulisse esprime un’umanità ben diversa dall’eroe omerico maestro d’inganno e astuzia. «Qui l’eroe è anti omerico», precisa Giorello. «In questo senso Bloom è anche anti shakespeariano e, per esempio, scopertosi cornuto, conclude la faccenda con la signorile decisione di lasciar perdere. Un po’ come i personaggi dell’opera di Mozart che Joyce ama di più: ovvero le ragazze di Così fan tutte, non certo il Don Giovanni».

E qui il pensiero corre all’ultimo libro di Giorello, il Tradimento, in cui Bloom è eletto a  modello antimoralistico. «Beh invece della vendetta di Otello o del macello che fa Ulisse quando torna in patria, trovo che questa nonchalance di Bloom mostri tutta la dimensione amabile del personaggio: uomo non banale, sensibile, attento alle conquiste della scienza. E che forse a sua volta avrebbe qualcosa da farsi perdonare quanto a fedeltà. Una parola che è appunto motto dell’arma dei carabinieri, ma non so quanto utile nel rapporto fra uomo e donna».

da left-Avvenimenti

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La memoria dei classici

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

maurizio bettini

Il senso della memoria per gli antichi Greci e per Romani. Il filologo dell’Università di Siena Maurizio Bettini  – che  sabato 29 settembre 2012 presenta il suo nuovo libro Contro le radici (Il Mulino) alla libreria Amore ePsiche di Roma – ne aveva parlato a Left in  in occasione dell’edizione 2011 del Festival della mente di Sarzana.

di Simona Maggiorelli

mnemosyne

Mentre la storia antica, latina e greca, si studia sempre meno nelle scuole italiane, per non parlare poi di quella assiro-babilonese definitivamente espunta da programmi scolastici grazie all’ultima serie di riforme e controriforme, la proposta che viene da una fortunata kermesse come il Festival della mente di Sarzana si segnala decisamente in controtendenza: nel fitto carnet di incontri dell’ottava edizione, in programma dal 2 al 4 settembre, si legge infatti l’intenzione di aprire un’agorà di riflessione critica sulle radici culturali dell’Europa e sui rapporti che, attraverso il Mediterraneo, abbiamo intessuto nei secoli con la Grecia e con le millenarie culture del Medioriente. Una serie di importanti pubblicazioni apparse di recente, del resto, già riaccendono il dibattito a livello internazionale (ne accenneremo in breve). Anticipando a left alcuni temi della lectio magistralis che terrà il 3 settembre al Festival (alle 10,30 nella Fortezza Firmafede) ce ne parla qui uno studioso di cultura antica come Maurizio Bettini, filologo dell’Università di Siena, autore di importanti monografie sulla mitologia greca, ma anche romanziere.

A Sarzana, in particolare, Bettini racconterà le molteplici figurazioni culturali (divine, mitologiche, narrative, metaforiche) della memoria nella Grecia antica confrontandole con il modo di intendere la memoria a Roma, dove la dea Moneta «fa ricordare il proprio dovere a custodi distratti e mette in guardia i cattivi amministratori del pubblico fisco. Rammentando ciò che altrimenti si rischia di dimenticare, alla maniera di un’agenda computerizzata».
Professor Bettini la concezione greca della memoria, al fondo, in cosa differiva da quella romana?
I miti greci parlavano dell’importanza della memoria e nella Teogonia di Esiodo compare la dea Mnemosyne che ha per figlie le Muse. Così i Greci costruivano miticamente il rapporto poesia – memoria, nella loro cultura orale. La scrittura, non va dimenticato, in Grecia comincia ad essere usata non prima del VI a C. Tutta la poesia omerica è produzione orale: c’è un poeta che dice di essere in rapporto con le muse e di ricevere da loro la memoria dei fatti che racconta. A Roma, veri e propri miti di memoria, invece, non ce ne sono. Ma c’è una divinità interessante, che i Romani chiamano Moneta. Come tutte le divinità latine con il suffisso “ta” indica un’attività. Come Tacita è la dea che mi fa tacere, Moneta è quella che mi fa ricordare. Anche che questo pezzo di metallo vale un tot.
Potremmo dire che nell’epos c’era una memoria fantasia, mentre i Romani di distinguevano per un approccio più “razionale”?
Questa è la classica distinzione: i Greci erano quelli della fantasia, dei poemi, mentre i Romani erano quelli pratici che non avevano tempo da perdere perché dovevano conquistare il mondo. Ma la faccenda è più complessa. I Romani non avevano una religione mitologica fatta di racconti. La loro era di carattere rituale. Ciò che contava era eseguire scrupolosamente i riti; si tramandavano le formule. Non esisteva a Roma alcun racconto di cosmogonia, come invece c’era in Grecia e in Mesopotamia. Sembra quasi che i Romani non si fossero mai preoccupati di formulare racconti su come è nato il mondo. La prima cosmogonia che troviamo a Roma è filosofica, comincia con Lucrezio e con Virgilio. Beninteso anche loro avevano i loro miti, per esempio Romolo e Remo, l’arrivo di Enea nel Lazio ecc., ma erano di tipo assai diverso da quelli greci.
Nella Grecia antica qual era il nesso fra immagini e memoria? Nel libro Il ritratto dell’amante (Einaudi) lei racconta che anche il sogno aveva un ruolo prioritario.
Facciamo un esempio: noi diciamo “ho fatto un sogno”. I Greci invece dicevano “ho visto un sogno”. La nostra metafora è piuttosto grossolana, fa pensare che il sogno sia una sorta di funzione corporale. Per i Greci il sogno era una manifestazione che si esplicitava nella visione. Che talora può essere addirittura comune a più persone. Si racconta di sogni multipli in Grecia. Tutta la città può sognare la stessa cosa per una volta. Così il sogno ha conseguenze concrete. Si può trasformare in una realtà a partire dal fatto che c’è un nome per questo. Normalmente il sogno si chiamava “onar”, da cui onirico. Ma c’era un’altra parola per indicare, invece, il sogno che si avvera. Insomma il sogno era un’esperienza molto più reale, più concreta, per i Greci di quanto non lo sia per altri. Detto ciò c’erano anche sogni che in Grecia si dicevano derivati da cattiva digestione, o da eccesso di fatica, per cui uno sogna ciò che ha fatto il giorno prima. Ma è una categoria di sogni diversa da quella che ha una forte componente di realtà tanto da anticipare il futuro, da dare indicazioni di comportamento.

odisseo e sirene

Lo stesso Omero distingueva fra sogni falsi e veritieri.
Due sono le porte dei sogni, diceva, una di corno e una di avorio. Esistono sogni veritieri destinati a durare e sogni che sono degli inganni. Facendo somigliare stranamente i sogni anche alla poesia:  e Muse, incontrando Esiodo nella Teogonia, lo avvertono: noi diciamo molte cose vere ma anche molte cose che sono solo simili al vero, cioè false, perché la divinità – e qui torniamo al tema della memoria – può suggerire cose che non sono vere. Al pari di certi sogni.
Studiosi come Christian Meier in Cultura, libertà, democrazia (Garzanti) e in Italia Gaetano Parmeggiani con Lo scudo di Achille (Sellerio), con percorsi diversi, ora tornano a tratteggiare l’immagine di una Grecia antica in cui gli aedi- cantastorie avevano molto più potere dei sacerdoti. Cosa ne pensa?
Non si può negare che rispetto ad altre culture contemporanee, ma anche successive, quella greca aveva aspetti peculiari assai interessanti. Come l’importanza data ai poeti rispetto ai sacerdoti. In Grecia non c’era un vero e proprio clero. L’idea di una Chiesa o di Chiese era loro totalmente estranea. Quando a noi sembra addirittura normale, dacché il mondo cristiano, ma anche quello ebraico e musulmano, vive in forme di clero organizzate. E in Grecia non esisteva un libro che dicesse come è fatta la religione, come pregare Dio. C’erano varianti infinite di miti, che raccontavano, in modi anche molto diversi fra loro, storie sugli dei. I culti locali si tramandavano con forme di memoria, di tradizione orale, ma non c’era un protocollo ufficiale da rispettare, pena l’eresia. In questo senso quello greco era un mondo profondamente più libero. L’ateismo totale veniva condannato solo perché avrebbe potuto mettere in crisi la polis. Ma non c’era un’ortodossia. Tutto il mondo antico pullulava di culti diversi, legati a quella meravigliosa esperienza che era il politeismo. In cui una divinità non escludeva l’altra. L’esclusione è tipica, invece, dell’ebraismo e delle religioni che ne sono discese.
Nel suo dirompente Black Athena, ora riproposto da Il Saggiatore, Martin Bernal indaga le fortissime radici afroasiatiche della Grecia antica. La memoria di questi debiti verso le culture orientali è stata cancellata?
Sì, ma non tanto dai Greci, quanto da noi. Tra Ottocento  eNovecento esplosero l’eurocentrismo e il colonialismo. L’Inghilterra e la Germania, in particolare. si identificano fortemente con i Greci. Non volevano ammettere che i Greci avessero preso molto da culture che loro sostanzialmente disprezzavano. L’antisemitismo, poi, non poteva accettare che i Greci, “così puri e così santi” avessero debiti con i popoli del Vicino Oriente. Fu una grande mistificazione. Incomprensibile ai nostri occhi: il Mediterraneo è un mare piccolo: le idee hanno sempre viaggiato con le merci, con le persone. Ma si era arrivati al paradosso che, per capire i Greci o anche i Romani, bisognasse paragonarli ai Germani o addirittura agli Indiani, in base alla teoria dell’indoeuropeo. E non con i popoli a loro più vicini. Erodoto, per esempio, parlava moltissimo degli egiziani. Ma lo si negava in nome di una pericolosa idea di purezza dei Greci e degli Indoeuropei.
Con Luigi Spina, per Einaudi, lei ha ripercorso il mito delle sirene. In questo caso come avviene la mitopoiesi?
Il mito era un racconto immaginario ma con significati culturali profondi che toccavano la realtà. Le sirene afferiscono a un mondo di cui fanno parte anche ad altri mostri dell’Odissea come il Ciclope, una sfera in cui rientrano anche gli inquietanti incontri con le ombre dei morti oppure con i lotofagi che si sono drogati di loto e ora non ricordano più. Sono costruzioni simboliche, fantastiche, che poi vogliono semplicemente dire c’è un mondo altro che noi non conosciamo, o che non conosciamo più, ma che Ulisse ha visto.
Nella mitologia e nella cultura greca, più in generale, c’era una forte misoginia. Secondo fonti diverse da Euripide, Medea non era un’infanticida, come ha scritto Christa Wolf. La stessa Circe, come lei ha ricostruito in un libro scritto con la Franco, forse non era così terribile come Omero la dipingeva. L’uomo greco simboleggiato da Ulisse aveva paura del femminile, dell’irrazionale, di tutto ciò che era altro da sé?
La società greca era dominata dai maschi, come quella romana. E questo pregiudizio sociale forte verso la donna entra anche nel racconto mitologico. L’esempio più lampante è Pandora: una specie di automa, di fantoccio animato che raffigura l’ingresso del femminile nel mondo degli uomini come origine di tutti i mali. Di lei si dice anche che è seduttiva e ingannatrice. Non è  molto diversa da  Eva. Sono racconti che nascono per tenere sotto controllo le donne. Gli antichi cercavano di giustificare con innumerevoli motivi la sudditanza delle donne e credo che la principale spinta fosse la paura maschile che la donna gli scappasse di mano rendendo incerta la sua discendenza. A Roma, come in Grecia gli uomini ne avevano un terrore fortissimo. Perciò i padri e i mariti cercavano di tenerle rinchiuse. Perché se le donne sono troppo libere che succede? I figli di chi sono? La mia onorabilità dove va a finire? Credo che questa ”gelosia” come motivo di esclusione della donna dalla sfera pubblica, continui a funzionare in tante società del mondo arabo: la donna è troppo importante perché la si lasci libera. Si venera la figura femminile e ad un tempo la si schiavizza. Sono i due aspetti contraddittori dello stesso problema.
Immagini di donna idealizzate, secondo un’estetica classica, compaiono nel suo romanzo, Per vedere se appena edito dal Melangolo…
Una certa idealizzazione forse deriva dal fatto che vedo una profondità e un’intelligenza nelle donne che negli uomini, perlopiù, non trovo. Magari non sarò così ingenuo da credere che la “salvezza” venga da voi, ma davvero credo che molto spesso voi abbiate un modo diverso di riflettere di vedere il mondo. E i miei personaggi femminili forse risentono di questo pensiero.

Nuovi Studi

Affascinante quanto schiva figura di medico e studioso dell’ellenismo, Gaetano Parmeggiani, ne Lo scudo di Achille ci parla di un mondo greco antico dalla lunga e raffinata civiltà artistica, articolato come una società antropocentrica, «affrancata dal trascendente». Al punto che «la stessa religione non trova un equivalente nel greco arcaico». Questo suo pamphlet, riproposto da Sellerio, si legge dunque come un appassionato invito a tornare a leggere l’Odissea e soprattutto l’Iliade, di cui La lepre edizioni ha appena pubblicato una nuova e fresca traduzione di Dora Marinari (con la prefazione di Eva Cantarella). Per Carocci, invece, esce Donne e società nella Grecia antica di Nadine Bernard, che ricostruisce, fra l’altro, la pratica greca dell’infanticidio, specie delle femmine. In Grecia, scrive la storica francese «gli anni dell’infanzia erano concepiti come la parte selvaggia della vita, quella in cui l’anima è ancora primitivamente folle, per usare le parole di Platone. E per questo non erano tenuti in alcuna considerazione».

da left-avvenimenti 31 agosto 2011

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Chi dice donna dice malanno

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 20, 2010

Dalla preistoria ai nostri giorni, la studiosa ripercorre il cammino di una secolare misoginia

di Simona Maggiorelli

Frammenti di fregio da una casa sull’Esquilino in III stile romano, Musei Vaticani

Quando uscì L’ambiguo malanno, condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana era il 1981 e, sul piano del diritto, le donne avevano fatto molte conquiste: nel ’69 era stato abrogato l’articolo 559 del codice penale che puniva l’adulterio come reato, nel ’70 era stata varata la legge sul divorzio, nel ’75 il nuovo codice di famiglia e nel ’78 si legalizzava l’aborto. E anche se si sarebbe dovuto aspettare il 1996 perché la violenza sessuale non fosse più considerato solo «un delitto contro la morale pubblica e il buon costume» il momento storico sembrava fertile per ulteriori passi avanti di emancipazione. «Fu questo il motivo che mi spinse allora a pubblicare un libro dedicato alla storia della condizione femminile non solo per gli addetti ai lavori.

Ripercorrere la storia delle discriminazioni pensavo potesse aiutare un pubblico più vasto a capire» annota Eva Cantarella a incipit della nuova edizione del libro che Feltrinelli manda in libreria il 23 marzo. Ma era difficile immaginare allora che questo libro si sarebbe rivelato ancor più attuale negli anni duemila quando le donne italiane si sono viste proibire l’accesso alle più avanzate tecniche di fecondazione assistita e sono tornate a sentirsi dare delle assassine quando decidono di abortire.

Prof. Cantarella ne L’ambiguo malanno scriveva che il cammino verso l’emancipazione «è tutt’altro che irreversibile». Oggi ne abbiamo tristemente prova?

Ciò che è accaduto alle donne in Italia negli ultimi anni fa riflettere. Perciò ho accettato volentieri di ripubblicare questo libro. Negli anni ’70 sembrava che si fosse imboccata la via, anche sul piano legislativo, per rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di realizzarsi. Al di là del solito ruolo familiare (che oggi peraltro continuano ad avere). Abbiamo raggiunto la parità sul piano formale, ma non quella sostanziale. È avvilente che in un paese in cui le donne sono presenti in tanti ambiti sociali l’immagine di donna che emerge sia quella proposta dai fatti di cronaca e dalla tv.

Eva Cantarella

Che escort e massaggiatrici, insieme a mogli devote, siano l’immaginario femminile di questo governo la dice lunga?

è questo che fa paura. Dispiace vedere questa subalternità delle donne. Perché tante ancora l’ accettano? Qui torna fuori la storia. Ne L’ambiguo malanno e in Passato e presente ho cercato di mettere in luce la differenza che c’era fra la condizione delle donne greche e quella delle romane. In Grecia erano del tutto subalterne. A Roma apparentemente no, ma la loro condizione era molto più pericolosa. Qui sono le radici di molti nostri mali. Se non uscivano dal ruolo di mogli e madri, le donne romane venivano ricompensate con il rispetto personale e sociale. La matrona era celebrata.

Le romane erano cooptate in un sistema sociale maschile, perdendo la propria identità, il proprio “sentire”?

Accade quando le donne accettano di perdere la propria autonomia per entrare, con un gioco di do ut des, in situazioni di potere, per avere visibilità. Accettando di perdere la dignità che viene dal guadagnarsi le cose .

Dare “voce” alle generazioni di donne sconosciute, «annullate come individui, a causa della loro identità sessuale». Così annunciava il progetto del libro. Partendo dalla preistoria analizzava l’ipotesi di Bachofen di una fase antichissima di matriarcato. Oggi che cosa ne pensa?

Negli anni ’70 era molto di moda la teoria matriarcale sostenuta dalle femministe. L’equivoco, a dire il vero, è antico. Nella prefazione alla quarta edizione dell’Origine della famiglia, Engels interpretava un passo dell’Orestea di Eschilo come vittoria del matriarcato. Come la prova, insomma, che ci fosse stato veramente un matriarcato, poi però sopraffatto dal patriarcato. Ne ricavava in chiave progressista che la famiglia borghese non è eterna e immutabile. Era il sogno e l’utopia che qualcosa potesse cambiare con un matriarcato di ritorno. Ma il matriarcato non è mai esistito. E in ogni caso, penso, non sarebbe un sistema migliore, ma l’equivalente del patriarcato.

Quando si passò dalla caccia all’agricoltura «il rapporto uomo donna che sino ad allora aveva registrato il predominio maschile», lei scrive, cominciò a cambiare. In che modo?

L’agricoltura è stata un’invenzione delle donne. Questo sembra accertato. Per quanto si possano verificare le cose accadute nella preistoria. Mentre gli uomini andavano a caccia le donne cominciarono a coltivare piante. A poco a poco la carne non fu più l’unico alimento base. Ma, ancora una volta, questo non significa che le donne così presero potere.

affresco, Creta

Alla società minoica e a Creta lei dedica pagine densissime. L’arte ci racconta in questo caso di donne femminili, libere…

Ci sono stati nella storia momenti in cui le donne hanno avuto libertà e ruoli diversi. A Creta, ma anche nell’antico Egitto, per esempio. Oppure nel mondo etrusco. Nell’antichità ci sono state civiltà in cui le donne, per esempio, erano istruite. Non accadeva in Grecia.

Già in Omero, come lei ci ha ricordato in altre occasioni, si possono leggere le radici di una secolare misoginia.

Anche se curiosamente il mondo omerico è stato talora interpretato come un mondo dove le donne erano molto influenti. (Si è detto perfino che l’Odissea fosse stata scritta da una donna). In realtà il mondo omerico è androcentrico. Le donne non potevano uscire né parlare: quando la povera Penelope si azzarda a parlare, il figlio, che è un ragazzino, le dice: «stai zitta e torna in camera tua». In Omero le donne venivano già divise in due categorie: perbene e non. Ulisse ha una moglie che ha tutte le virtù e poi, secondo una doppia morale, incontra altre donne. Come sono queste altre? Pericolose come Circe oppure gentili e seducenti come Calipso. Ulisse, però, era convinto che stando con lei avrebbe perso se stesso. Le sirene, poi, sono il simbolo della sessualità femminile non perfettamente umana, perché non legata alla procreazione.

E arriviamo al titolo del libro che riprende il durissimo anatema dell’Ippolito euripideo contro le donne.

Ippolito è un personaggio di una tragedia, la Fedra ma le sue parole contengono uno stigma che la gente condivideva, anche se non in forma così estrema. è la forte misoginia che caratterizzò tutta la cultura greca.

Nel concedere alle donne le stesse possibilità degli uomini Platone, secondo studi femministi, fu meno misogino. è davvero così?

Per carità! Basta dire che per Platone se gli esseri umani si comportano male si reincarnano in donne o animali.

Fu anche il filosofo che aprì la strada a una lettura della parola psiche come anima?

Sì è proprio così. Prima di lui la parola psiche in greco significava qualcosa di completamente diverso da anima. La nostra traduzione è sbagliatissima. Pensi a Ulisse quando scende nell’Ade, diciamo che incontra delle anime. Ma non lo sono, sono degli uccelli che stridono, sono fumo, sono ombre.

Platone dice anche che gli omosessuali sono i veri uomini e i più adatti al governo della cosa pubblica.

Lo dice nel Simposio. è un discorso che ha ricadute pesanti sul modo di considerare la donna. Anche se sotto questo riguardo l’influenza negativa di Aristotele è stata più duratura nei secoli.

Lei riporta un dibattito greco “sul mistero della nascita”, da Ippone a Ippocrate. In questo quadro Aristotele formulò la sua feroce visione della donna?

Per lui la donna è materia. Non ha il logos. Ha ruolo nella riproduzione e, per giunta, è solo passivo…

Con il Cristianesimo l’identità e l’immagine della donna subirono un colpo mortale. Lei ricostruisce che la predicazione dei padri della Chiesa vi contribuì fortemente, fin dalla crisi dell’impero. Ce ne sono ancora tracce?

Da laica (ho fatto le scuole dalle suore e mi è bastato) mi sembra di poter dire che la concezione della donna che ha la Chiesa non sia delle più elevate. Il fatto stesso che non possano essere sacerdoti rivela un enorme pregiudizio. Il fatto poi che per dedicarsi meglio alla Chiesa i preti debbano evitare rapporti denota un’idea di superiorità del celibato rispetto allo stato matrimoniale.

La società greca era fondata sulla pederastia, lei ha scritto. Il cittadino per diventare tale doveva passare per questo “imprinting”. E nei seminari cattolici?

Quello che posso dire è che la pedofilia riguarda i bambini, mentre la pederastia greca riguarda adolescenti dai 13 anni ai 17 anni. I maschi greci, va detto, si sposavano a 14 anni le femmine a 12. Oggi si sente dire da alcuni che i bambini siano consensuali. Non è possibile: i bambini non sono in grado di consentire, non hanno la maturità sessuale. Dunque è sempre violenza.

Di fronte allo scandalo uscito sui media fonti ecclesiastiche sostengono che il fenomeno della pedofilia nella Chiesa sarebbe molto più circoscritto di quanto dicano i media perché in parte si tratterebbe di rapporti etero (con minori) in parte di efebofilia.

Ho letto un articolo di recente in cui un esponente del clero diceva: non siamo mica solo noi che lo facciamo nei seminari, lo fanno anche in altri luoghi. E con questo? Vuol dire che è meno grave? Dire efebofilia significa che se ha, mettiamo, 13 anni si può fare? Sono allibita. Non ho parole.

IL LIBRO. SULLE ORME DI CIRCE

mero potrebbe non avercela raccontata giusta su Circe e sui suoi poteri magici. La dea terribile che l’Odissea ci presenta , «la strega pronta a umiliare i viandanti e a sottrarli al mondo umano», forse non era davvero tale, nella materia orale e polisemica del mito alle sue origini. A sostenerlo sono  Maurizio Bettini e Cristina Franco  ne Il mito di Circe, immagini e racconti dalla Grecia a oggi appena uscito per Einaudi. Lo stesso Plutarco ci racconta una diversa storia della maga che incantò Ulisse e tramutò i suoi compagni in porci. è una Circe, la sua, «molto amabile e comprensiva con il rude e arrogante condottiero», annota il filologo classico dell’Università di Siena, che per la casa editrice torinese sta preparando una collana di volumi per conoscere più da vicino i miti che la Grecia antica. Miti che sono stati riletti e rielaborati da pittori e scrittori nel corso di molti secoli successivi. Il caso di Circe è, in questo senso, paradigmatico. Seguirne le avventure nell’iconografia lungo i secoli permette anche di riscontrare quanto sia lunga l’ombra di quella nera  ambivalenza che Omero le attribuì.

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