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Alle radici di piazza Tahrir, con il romanzo di Ala al-Aswani

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 28, 2015

Cairo, 1940

Cairo, 1940

«Siamo nati dalla sua fantasia e adesso siamo nella vita» dicono Kamel e Saliha allo scrittore ‘Ala al-Aswani cogliendolo di sorpresa. Comincia così, tra sogno e veglia, il nuovo libro del romanziere egiziano, Cairo Automobile Club (Feltrinelli).

Ambientato all’epoca di Re Farouk, è un potente affresco della società egiziana negli anni Quaranta, oppressa dal colonialismo inglese, mentre il re corrotto e connivente perpetuava, con i pascià, un sistema di dominio arcaico e “schiavista”. Al contempo, però, è anche un polifonico e vitale ritratto di persone “comuni” non più disposte a chinare la testa.

Giovani ribelli, studenti e perfino madri di famiglia che inconsciamente già preparavano la rivoluzione. «L’immaginazione a volte supera la realtà»: quella rivolta che ‘Ala al-Aswani immaginò nel 2008 iniziando a scrivere questo romanzo sarebbe esplosa nel 2011 invadendo pacificamente piazza Tahrir. “Costringendo” lo scrittore (e dentista) a uscire dal suo studio per unirsi alla protesta contro il regime di Mubarak.

cover«Per dirla con una formula, la narrativa è la realtà più l’immaginazione. Solo dal rapporto profondo con le persone nascono libri “vivi”», dice al-Aswani. E proprio dall’esperienza fortissima di quei giorni sono nate poi indirettamente alcune delle pagine più belle della seconda parte di questo romanzo, che al-Aswani ha presentato al Salone Off di Torino.

Un libro che in filigrana lascia intravedere nessi inediti fra gli anni Quaranta e il 2011. «Sicuramente c’è un parallelismo fra queste due epoche storiche- conferma lo scrittore – . In entrambi i periodi tutti pensavano che il regime fosse sul punto di cadere, ma nessuno sapeva cosa sarebbe successo dopo».

Cairo 1954

Cairo 1954

Forse, azzardando, si potrebbe notare che la storia dei due giovani protagonisti di Cairo Automobile Club sembra prefigurare quella di tanti ragazzi di piazza Tahrir anche per il ricorrere nei loro discorsi di parole come «libertà», «dignità», e per il rifiuto della violenza: dopo la morte del padre causata dal pestaggio da parte del datore di lavoro, Kemal e Saliha scelgono la rivolta, ma non si lasciano accecare dall’odio.

«La non violenza ha avuto un ruolo importante a piazza Tahir e l’ho voluto sottolineare nel libro», racconta ‘Ala al-Aswani. «Io credo che da questo punto di vista la rivoluzione egiziana abbia rappresentato un modello per altre venute dopo. In particolare Mubarak e il suo entourage avevano disseminato cecchini in città, che prendevano la mira con laser colorati. Era impossibile prevedere chi sarebbe morto. In piazza si vedevano questi tondini rossi e arancioni che viaggiavano sulla gente. Quando si fermavano sulla testa di qualcuno non c’era scampo. Ho vissuto di persona quei momenti – aggiunge lo scrittore – nonostante l’incertezza della vita e questa estrema precarietà, i manifestanti hanno sempre urlato la non violenza. In quel modo sono riusciti a rovesciare Mubarak».

Ala Al Aswani

Ala Al Aswani

Insieme alla non violenza, era anche l’aspetto cosmopolita della piazza e la quasi totale assenza di fondamentalismo religioso a colpire l’occhio dell’osservatore.

Nel racconto del Cairo anni Quaranta che ‘Ala al-Aswani ci offre pare di poterne scorgere alcuni prodromi: in primo piano ci sono i rapporti fra le persone, non questioni di fede. E incontriamo «gli sguardi torvi e pieni di odio» di alcuni fondamentalisti solo di sfuggita.

Passando dal romanzo alla storia, viene da chiedersi come dalla società egiziana sia potuto nascere un movimento oscurantista come quello wahabita. «Non dobbiamo dimenticare – spiega ‘Ala al-Aswani – che l’Egitto è musulmano da 15 secoli. Nei precedenti 35 è stato cosmopolita. Questo ha lasciato segni forti nella cultura degli egiziani,piuttosto laica. I rapporti sono basati su elementi molto più umani, c’è un rispetto profondo per la differenze. In Egitto vivono tanti greci, italiani, armeni».

Qual è allora la radice del fondamentalismo? «Il wahabismo era sempre stato una corrente minoritaria, ma ha avuto un boom grazie agli introiti della vendita del petrolio negli anni Settanta: miliardi di dollari. L’Europa non è esclusa da queste campagne di promozione foraggiate con i soldi del petrolio». Negli anni raccontati da questo romanzo, di tutto ciò, quasi non c’è traccia. Forse anche per questo brillano alcuni personaggi femminili, immagini vitali di ragazze non costrette a nascondersi. Come la musulmana Salhia, che Aisha prepara alla notte di nozze evitando con cura toni «da predica del venerdì».

Piazza Tahrir

Piazza Tahrir

E poi ecco affascinanti figure di donna in lotta contro i pregiudizi, come l’ebrea Odette, amante del britannico Wright. La sessualità e la dialettica fra uomo e donna è il filo rosso e forte che attraversa tutto il romanzo. «La letteratura è la vita scritta sulla carta» commenta al-Aswani. «Quello che leggiamo deve richiamare ciò che c’è di più significativo, profondo e bello nella vita reale. Come la sessualità. Non facciamo l’amore solo per piacere. Ma anche per cercare qualcosa nel rapporto con l’altra, per conoscere l’altro, perché vogliamo scoprire il nostro partner. Il sesso è uno degli aspetti più preziosi della nostra vita. E la letteratura non può assolutamente ignorare i lati più profondi della nostra personalità».

Letteratura e vita hanno un rapporto profondo, dunque, da ultimo, passando dalla pagina scritta alla realtà, che cosa sta accadendo in Egitto con il governo di al-Sisi e cosa ne è della rivoluzione? «Occorre una premessa – risponde lo scrittore – la rivoluzione è un cambiamento umano e come tale ha bisogno di tempo per raggiungere i suoi scopi. Non è una partita di calcio che dura 90 minuti per cui al 91esimo si può già sapere chi ha vinto o perso, è un processo in continuo divenire e quando si è messo in moto non si può più fermare. Prendiamo la Rivoluzione francese, per esempio, dopo tre anni non aveva ottenuto nulla di specifico, nulla di quello che avrebbero voluto i rivoluzionari. Però il processo è ancora in corso. E ha portato un forte cambiamento culturale nella mentalità delle persone» ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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Le voci di piazza Tahrir oggi

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 17, 2013

Le voci di piazza Tahrir

Le voci di piazza Tahrir

C’è una frase del giornalista e scrittore Vincenzo Mattei che mi ha colpita molto quando, durante una presentazione del suo libro alla Fiera del libro, ha detto che la rivoluzione di piazza Tahrir è stata soprattutto una rivoluzione di pensiero, che ha segnato un cambiamento nella testa delle persone, dei giovani soprattutto che ora non sono più disposti a sopportare un regime, come hanno dovuto fare i loro padri e i loro nonni per lunghissimi anni.

Comunque vada questa rivoluzione, gli egiziani hanno alzato la testa e non torneranno ad abbassarla. La cosa decisiva è che gli egiziani hanno acquisito una consapevolezza di sé e una fiducia nella propria possibilità di incidere nella realtà e poter cambiare le cose. E questa consapevolezza è l’arma che gli egiziani hanno per difendersi ora dai tentativi di controrivoluzione e di criminalizzazione del movimento che nel gennaio 2011 fu spontaneo, di massa, non violento.

Ecco è questo sguardo profondo, non solo rivolto ai fatti e a ciò che c’è dietro, ma soprattutto al vissuto delle persone in carne ed ossa, che rende particolarmente affascinante la lettura de Le voci di piazza Tahrir, il libro edito da Poiesis che, insieme all’autore, presentiamo questa sera al Centro culturale egiziano, a Roma.

Vincenzo Mattei non ha scritto solo un bel reportage, ma da scrittore sa restituirci i pensieri, gli umori, le speranze della gente comune che è stata protagonista di questa straordinaria epopea egiziana contro l’oppressione del regime di Mubarak e la sua corte di oligarchi corrotti. Il 25 gennaio del 2011 è stata rotta l’invisibile cappa di acciaio che ha tenuto un intero popolo, per decenni, in balia di un potere assoluto, affaristico e militare. Vincenzo ci fa capire che quel 25 gennaio, quando piazza Tahrir a Il Cairo diventò l’epicentro della rivolta, rappresenta una vera cesura nella storia egiziana. E ci fa vedere come quel terremoto partisse da lontano, quantomeno dal 6 gennaio 2010 quando un ragazzo di 28 anni, Khaled Said, fu ucciso ad Alessandria di Egitto: ad ammazzarlo di botte furono due poliziotti che cominciarono a pestarlo in un Internet Caffè, senza che lui avesse fatto niente. Quel giovane è diventato in tutto il mondo il simbolo di una violenza di regime, senza senso, che compie azioni criminali impunemente. La misura era colma.

Piazza Tahrir

Piazza Tahrir

La violenza non era più accettabile per i cittadini egiziani che – racconta Mattei nel libro – indipendentemente dal sesso, dalla religione, dalla estrazione sociale e culturale sono scesi in piazza per protestare pacificamente. Un fiume di gente che si mosso sfuggendo ad ogni controllo.“Un milione in piazza è solo un numero che può essere disperso e annullato con con qualche kalashnikov”, annota Vincenzo. Che ci fa ben capire che non erano un milione di eroi, di pazzi, votati al sacrificio. Erano studenti, padri di famiglia, impiegati, disoccupati, gente che viveva una vita normale. Fra loro anche tante, tantissime donne che nei diciotto giorni della rivoluzione hanno dormito all’agghiaccio senza che niente di brutto accadesse loro. Quando stupri e violenze, invece, erano stati usati come strumento politico dal regime di Mubarak.

In piazza anche molti scrittori, artisti, cineasti, intellettuali che, come si evince da questo libro, da tempo lavoravano più o meno inconsciamente sui temi messi all’ordine del giorno della rivoluzione: la lotta alla violenza sulle donne, libertà e giustizia sociale…

Alla maniera di un grande reporter come Kapuscinski, ha vissuto insieme a loro, come uno di loro, quasi scomparendo, mimetizzandosi fra i ragazzi di piazza Tahrir, Leggendo si sente che conosce profondamente e dall’interno la realtà che racconta quasi cinematograficamente, attimo dopo attimo. Vincenzo Mattei racconta con passione, in modo partecipe, ma senza tacere nulla.

Compresa la paranoia di essere osservati, spiati. E la paura umanissima di poter essere da un minuto all’altro atterrato da un proiettile, la tentazione di fuggire all’estero, la necessità di restare, di lottare .La tensione civile e la febbrile, contagiosa, atmosfera della rivoluzione che alla fine arriva a farti dimenticare il rischio che corri singolarmente, per condividere qualcosa di più grande, rendono roventi le pagine di questo libro. In cui si succedono volti, incontri, storie di persone diversissime che si intrecciano e si incontrano nella consapevolezza di non poter più abbassare la testa.

Vincenzo Mattei

Vincenzo Mattei

“La passione non confonde la mente, ma anzi accende lo sguardo e rende intelligenti”. Dunque grazie a Vincenzo Mattei di aver trasmesso a noi che non eravamo in quella piazza questo straordinario affresco di coraggio collettivo; un coraggio che è capacità di reagire all’oppressione, saper reagire in modo costruttivo. Come scrive Vincenzo Mattei ne Le voci di piazza Tahrir: “E’ lì negli interstizi fra il fegato e i polmoni che vive una rivoluzione, tra una corsa, un grido, uno sparo, una massa, una fuga e una nuova riunione. E’ lì nelle strade affollate di gente persa, che segue una strada, un istinto di giustizia una volontà che la propria voce per un secondo, conti, nell’indifferenza di chissà quanti anni di oppressione, di sfruttamento, di silenzio sofferto, di voci soffocate, che inizia la marcia per un coraggio collettivo che annulli l’incapacità e l’impotenza del singolo”. (Simona Maggiorelli)

 Testo della presentazione del libro Le voci di piazza Tahrir di Vincenzo Mattei ( edito da Poiesis, prefazione di Marc Innaro), il 14 marzo, al Centro culturale eiziano

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Generazione anti Putin

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 22, 2012

Ex agente dei corpi speciali anti terrorismo in Cecenia e oggi scrittore e giornalista pluripremiato. Tanto che anche l’americano Newswweek gli ha dedicato un ampio ritratto. Nell’avvicinarsi delle elezioni russe lo scrittore Zachar Prilepin fotografa lo scenario russo, fra rivolte giobanili e rigurgiti nazionalisti

di Simona Maggiorelli

Proteste anti Putin

Originario della piccolo villaggio di Ilinka nella regione di Rjazan,con un passato da pugile e da militare dei corpi speciali russi, Zachar Prilepin è approdato al giornalismo e alla letteratura dopo aver sperimentato la ferocia delle campagne “anti terrorismo” di Putin a Groznyj. Classe 1975, giovanissimo, ha combattuto in Cecenia per ben due volte, nel 1996 e nel 1999. Sperimentando da vicino la tensione, la paura, la disperazione di dover uccidere per non morire, in quel corto circuito di panico e adrenalina che manda in pappa il cervello del protagonista nel romanzo Patologie (Voland): «“Io ho ammazzato un uomo”, penso stancamente e non so come continuare il pensiero», dice il soldato Egor Taševskij, andando incontro a una paralisi totale. Come il suo autore, Egor è un militare dei corpi speciali russi, gli Omon. All’inizio del romanzo lo  vediamo scherzare e giocare a carte, con i commilitoni  mentre volano in elicottero verso Groznyj. Quasi fosse un gioco da ragazzi. Fra risate nervose e battute goliardiche per coprire l’insicurezza.  Poi, d’un colpo, Zachar Prilepin ci fa precipitare nel gorgo delle ossessioni di Egor che corrodono anche i suoi rapporti con la ragazza, mostrandoci quel vuoto interiore che la guerra ha fatto diventare una voragine .
«Io non ho ucciso nessuno e non ho nemmeno un centesimo delle ossessioni di Egor», mette le mani avanti Prilepin. «Ma mi premeva dire che patologia non è solo la guerra fuori di noi, ma ancora prima lo è percepire l’altro come nemico, fino a non vederlo più come essere umano».

Zachar Prilepin

Uscito nel 2005 in Russia con il titolo Patologii (e pubblicato in Italia da Voland due anni fa) il romanzo è esploso come caso letterario. Anche per la scrittura icastica, incisiva e spiazzante di Prilepin, che ne fa un caso a parte nella nuova letteratura russa in cui il filone della scrittura- verità sulla guerra contro l’indipendenza cecena conta già vari esempi. A cominciare da Nicolai Lilin, autore della trilogia Il respiro del buio, Caduta libera e Educazione siberiana (Einaudi). Diversamente da Lilin, Prilepin non punta sulla scrittura di genere, sul thriller, dai nervi scoperti,  ma su una prosa ricca e polifonica e su storie che in filigrana lasciano intravedere complessi spaccati socio-politici. Così, dopo Patologie, nel suo nuovo romanzo San’kja  (Voland) traccia un dirompente affresco di una società russa,  stretta nella morsa di poteri forti e corruzione.

In primo piano le recenti proteste anti Putin, che convogliano  nelle piazze di Mosca istanze diverse e spesso contraddittorie: dai movimenti di sinistra ai nostalgici del comunismo, dal ribellismo anarcoide a rigurgiti nazionalisti, che,  racconta Prilepin,  nel vuoto  lasciato dall’ideologia sovietica stanno sempre più prendendo piede: «Da quando era diventato un uomo, dall’età di leva, tutto gli era diventato chiaro» scrive Prilepin in San’kja mostrando la mentalità di uno dei leader delle manifestazioni. «Questioni insolubili non ne sorgevano più. Dio c’è. Senza padre si sta male. La madre è buona e cara. La Patria è una sola…».
Eccoci dunque nel ventre molle delle proteste russe di oggi che Prilepin conosce direttamente come giornalista della Novaja Gazeta, (il giornale per il quale lavorava anche Anna Politkovskaja) ma anche come attivista della coalizione politica Drugaja Rossija, l’Altra Russia.
«La Russia degli anni Ottanta, in cui la mia generazione è cresciuta, ha visto un’imposizione quasi assoluta dei valori liberali» ricorda Prilepin. «E la censura liberale è stata altrettanto aggressiva e intollerante  di quella sovietica. Gli scrittori di “sinistra” per molti anni non hanno avuto accesso alla tv e ai  maggiori media. A mia volta, quando all’inizio degli anni 2000 (anni zero come li chiama Prilepin ndr) cercai di pubblicare qualcosa, le testate letterarie più importanti mi rifiutarono proprio per motivi politici. Allora tutti erano convinti che i letterati di “sinistra” fossero  marginali e mascalzoni». Ora però le cose sono cambiate e Zachar Prilepin, vincitore del Super National Bestseller Price per il romanzo Grech e del Premio scrittore dell’anno è fra gli autori giovani più seguiti e  apprezzati in Russia.

«Stranamente, la cose cominciarono a cambiare sette o sei anni fa» racconta lui stesso. «Quando divenne chiaro che della nuova generazione di scrittori russi praticamente nessuno professava idee liberal-borghesi. O hanno valori di sinistra o conservatori. Questo è stato uno shock per la società liberale! Avevano cercato di sradicare tutto ciò che rimaneva della mentalità sovietica e d’un tratto hanno scoperto di non avere “figli” dal punto di vista letterario».
Ma d’altro canto anche gli scrittori della rivoluzione, da Majakovskij a Esenin, non sembrano rappresentare uno stimolo per i nuovi narratori russi, perlopiù impegnati a “fotografare” la violenza e il nihilismo dell’attuale deriva russa. «Per la generazione letteraria attuale la rivoluzione russa di cui parlate voi in Occidente è un mistero, quasi un atto religioso» commenta Prilepin. «Io riconosco che la rivoluzione ebbe varie conseguenze, anche devastanti – dice lo scrittore – Ma non è stata una tappa casuale nella storia dell’umanità. Scendi, sorgi a noi, cavallo rosso, aggiogati nelle stanghe della Terra, scriveva Sergej Esenin allora, E porta il globo terrestre a un’altra strada! Tutti speravano in un rinnovamento globale, universale. La rivoluzione lo portò solo parzialmente. Tuttavia l’importanza e la scala dell’evento fu comunque vastissima. Quello che avvenne in Russia nel 1991 fu  assai meno significativo e non ebbe ripercussioni sulla cultura. Perché non si può ingannare la cultura! Che accoglie solo quello che può diventare mito ed epos. La rivoluzione del 1917 è un mito, mentre il 1991 è una disgustosa e misera  faccenda politica.
E oggi cosa sta  accadendo in Russia?
Il Paese è nel degrado. La Russia ha subito tracolli sociali e politici; metà della popolazione è andata incontro a fallimenti; sono state distrutte migliaia di imprese. In cambio volevamo ottenere almeno la libertà. Ma ora è chiaro che il potere è nelle mani di un gruppo di persone corrotte che fanno sì  che  non ci sia nessun ricambio politico. Usano il potere per arricchirsi. Hanno “esportato” miliardi di dollari all’estero. I figli delle élite non studiano in Russia, le persone più vicine a Putin non hanno neanche la cittadinanza russa. Un esempio: Timčenko che gestisce quasi la metà del petrolio russo, è cittadino finlandese e non si capisce perché paghi le tasse in Svizzera. È il regno dell’assurdo.
Perché si è schierato con Drugaja Rossija, l’Altra Russia, non esente da nazionalismo?
Perché fra i movimenti all’opposizione  è il più coerente. E non è liberal-borghese. Un poeta geniale come Blok scrisse: «Sono un artista quindi non sono liberale». Il liberalismo è troppo razionale. Le intuizioni appartengono alla sfera dell’irrazionale.
Cosa resta nella memoria di Anna Politkovskaja uccisa nel 2006 per le sue inchieste in Cecenia, scomode al regime di Putin?
Ahimé viene ricordata molto più da voi che in Russia. Per me Politkovskaja è stata un esempio geniale di come una donna esile possa essere più coraggiosa di centinaia di uomini. Lei è stata un eroe indifeso, molto intelligente, molto semplice, assolutamente priva di qualsiasi paternalismo. L’eredità più importante che ci ha lasciato è il suo esempio: il coraggio di una persona che non scende a compromessi anche quando si trova da  sola contro uno Stato implacabile, spietato.
La sua scrittura è ruvida e in presa diretta con la realtà. Ma anche piena di echi letterari. Riconosce dei “maestri”?
Amo gli autori del dopo Rivoluzione come Šolochov, Leonov, Gazdanov, Babel’. In questa letteratura ci sono molti colori, era molto passionale. Parlando delle due linee di classici russi – Tolstoj e Dostoevskij – sono più vicino a Tolstoj. I personaggi di Dostoevskij parlano troppo, come se volessero tirar fuori tutta l’anima russa. In realtà i russi sono molto più taciturni. Si parla così tanto solo nei libri di Dostoevskij.
Perché la nuova onda letteraria russa ha iniziato solo da poco a farsi conoscere fuori dai confini ?
Paradossalmente il lettore all’estero ha un’immagine strana della letteratura russa, come se quella classica appartenesse a un’altra Russia che non ha quasi nessun legame con quella odierna. La Russia di oggi, per quanto fragorosa, per l’Occidente è sempre una periferia, molto lontana, oscura, poco civilizzata, perennemente sull’orlo della dittatura e del degrado. L’ultimo risveglio dell’interesse per noi fu legato al crollo dell’Urss. La resa dei conti con il potere sovietico diventò allora il pane quotidiano della letteratura russa. In quegli anni in  Occidente era di moda un piatto  ultra piccante, noto come “Autoflagellazione russa” o “Brutte notizie dalla Russia”. Ma il crollo dell’Urss non può fare notizia all’infinito. E da voi si è tornati a pensare che, in questa Russia fredda non succede niente di interessante, tranne la sostituzione di un ubriaco Eltsin con un Putin troppo lucido. Ma anche se solo pochi di voi se ne sono accorti la letteratura russa oggi vive un periodo eccezionale. Le opere classiche si scrivono nel tempo reale. Se il lettore occidentale accoglierà questa letteratura russa resta una questione aperta. Ma un fatto resta chiaro: questa letteratura esiste già.

da left-avvenimenti

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Il sogno dell’uomo nuovo

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 27, 2011

Al PalaExpo di Roma una grande retrospettiva dedicata ad Aleksander Rodčenko e all’avanguadia russa

di Simona Maggiorelli

Rodchenko 1930

“Il nostro dovere è sperimentare”, “Dobbiamo rivoluzionare il nostro pensiero visivo” annotava Aleksander Rodčenko ancora, nel 1928. La ricerca continua, intesa come sperimentazione di linguaggi e forme espressive sempre nuove, è il messaggio forte che ci ha lasciato come pittore, fotografo, grafico, illustratore e inventore di nuove discipline artistiche fra cinema e fotomontaggio, ma anche come straordinario testimone di un’epoca nelle pagine del suo coraggiosissimo diario. Ed è questo filo rosso di appassionata ricerca di una visione nuova e di una fantasia diversa e più profonda a dare, ancora oggi, una grande energia alle sue opere. Anche perché, per lui, come per l’amico Majakovskij e per gli altri giovani artisti che aderirono alla rivoluzione russa e alla rivista LEF, il nuovo non era una categoria astratta, ma aveva a che fare con il sogno del socialismo, di una società più giusta in cui la tecnica potesse servire a emancipare l’uomo dalla fatica e dallo sfruttamento, mentre l’arte e la letteratura aprivano la strada all’Uomo nuovo.

Un sogno, un’utopia che – come la stessa tribolata biografia di Rodčenko (1891 -1956) ci racconta – si sarebbe presto infranto contro il muro del regime stalinista. Una parabola tragica che l’artista russo percorse per intero, passando dal medioevo della Russia zarista, ai concitati e fertili anni della rivoluzione, fino alle purghe di regime di cui fu una delle tante vittime. Ma, come ci fa vedere e quasi toccare con mano la bella retrospettiva Aleksander Rodčenko aperta fino all’8 gennaio nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma, senza mai perdere del tutto la speranza di una svolta, senza mai piegarsi alle circostanze, cercando semmai quei rari interstizi dove potersi ancora esprimere pienamente come artista. Come quando negli ultimi anni, ingabbiato dalla censura sovietica Rodčenko scovò l’area franca del circo e si mise a fotografare maschere da clown, realizzando opere insieme poetiche e altamente tragiche nel farsi metafora di un socialismo reale che dei valori della rivoluzione aveva fatto una maschera inquietante.

Rodchenko, Ragazza con Leica

Ma la mostra romana che ha il pregio di essere una retrospettiva quasi completa del lavoro fotografico di Rodčenko (e che resterà documentata da un catalogo Skira) senza trascurare queste ultime fasi del suo lavoro, ha il merito soprattutto di riportarci, d’un tratto, al centro di quella esplosione creativa, in quella ribollente fucina di idee che fu la Russia nei primi anni del Novecento e fino alla rivoluzione. Riesce a farlo in un percorso che squaderna sequenze straordinarie di scatti, dedicate alla città, al lavoro, allo sport e, soprattutto, al cinema. Così ecco le visioni ripidissime, dal basso all’alto, che catapultano lo spettatore verso un immaginario futuro; ecco gli scorci verticali e aguzzi che fanno sembrare le povere città sovietiche capitali in frenetico movimento e punteggiate da architetture immaginifiche, costruite solo con l’obiettivo. Accanto a queste elegantissime sequenze in bianco e nero, spiccano immagini più note: i colorati montaggi, le locandine e i manifesti come quello celeberrimo che ritrae Lilija Brik che porta la mano alla bocca come fosse un megafono. Un’immagine presto diventata icona e poi riprodotta in centinaia di manifesti pubblicitari. Insieme alle geniali locandine realizzate per il cinema d’avanguardia di Eisenstein. Che ora Antonio Somaini rilegge in una importante monografia Einaudi dedicata al grande cineasta dell’avanguardia russa e al gruppo di artisti che collaborò ai suoi capolavori.

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Ala al Aswani: La rivoluzione? E’ solo umana

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 28, 2011

Durante l’occupazione di piazza Tahrir al Cairo faceva ogni notte un comizio dialogando con la gente, ragionando sulle prospettive della rivoluzione e provando a fare i conti con la paura dei cecchini. Medico e scrittore, ‘Ala al Aswani è l’autore di capolavori come Palazzo Yacobian. Dopo l’appuntamento a Mantovaletteratura è in tour in Italia per presentare il suonuovo libro: La rivoluzione egiziana , da poco uscito per Feltrinelli.

Simona Maggiorelli

Ala Al Aswani

Da sempre critico verso il regime di Mubarak e suo strenuo oppositore, lo scrittore e medico egiziano ‘Ala al-Aswani (autore di potenti affreschi della società egiziana come Palazzo Yacoubian) durante la rivoluzione del Cairo ha trascorso quasi tutte le sue notti in piazza Tahrir, facendo comizi e cercando di «dare una mano a chi dal basso organizzava la protesta. Il mio compito – racconta a left lo scrittore – era quello di sviluppare la discussione su questioni di giustizia sociale e  diritti, ma anche di raccogliere le preoccupazioni e le paure della piazza». Paure che si sono fatte rischio concreto di vita quando i cecchini di Mubarak hanno cominciato a sparare con armi ad alta precisione. «Ogni volta che vedevi il laser fermarsi su un punto della piazza sapevi che una vita umana era stata stroncata con un colpo alla testa – dice Al Aswani-.  Ma quel 28 gennaio, quando hanno cominciato a sparare sulla folla, abbiamo avuto anche la certezza che da quel momento il regime era finito», chiosa lo scrittore in tour in Italia per presentare il suo “diario” da piazza Tahrir, una raccolta di articoli apparsi sulla stampa indipendente e ora pubblicati da Feltrinelli con il titolo La rivoluzione egiziana.
«Io non penso di essere una persona particolare, né tanto meno uno sprezzante del rischio. Ma in quella piazza ho sperimentato uno strano fenomeno che alcuni studi – ho letto poi- descrivono come tipico delle rivoluzioni: quando ti trovi in mezzo a eventi storici di questa portata non ragioni più in termini di pericolo individuale, ma valuti le cose nella prospettiva del “noi”».

piazza Tahrir

Ripensando oggi a quelle settimane, dopo che Mubarak è stato deposto ed è finito in tribunale, «la rivoluzione- dice al-Aswani – mi pare ancor più un sogno ad occhi aperti. Vedere gli egiziani ribellarsi alle umiliazioni inflitte dalla dittatura, alzare la testa e lottare con grande dignità è stata una delle cose più belle per me». Nel frattempo ’Ala al-Aswani al Cairo continua a scrivere articoli e a tenere aperto il suo studio di medico e di dentista, da alcuni anni diventato anche luogo di incontro fra intellettuali dissidenti. Mentre l’eccezionalità della congiuntura ha fatto momentaneamente scivolare in secondo piano la sua attività di romanziere, dagli anni Novanta noto in tutto il mondo per la sua capacità di dare voce a una società egiziana negli ultimi anni diventata sempre più povera e oppressa, senza prospettiva.

«Gli egiziani non sono diversi da altri popoli che abbiano subito una dittatura – spiega al-Aswani-, non sono differenti dagli spagnoli sotto Franco o dai sovietici sotto Stalin. Un dittatore non ha mai doti, gli basta uccidere e torturare. Magari vestendo la maschera di padre della patria. E il risultato è che la gente precipita in uno stato di minorità, è prostrata, fiaccata nell’iniziativa. Ma c’è un momento in cui la frustrazione arriva al top e bastano poche scintille perché scoppi la rivolta. Così – aggiunge Al Aswani  sorridendo – da un giorno all’altro ho visto tutti i miei personaggi di Palazzo Yacoubian scrollarsi da dosso l’inerzia e scendere in strada per protestare».
Per piazza Tahrir quale è stata la scintilla decisiva? «Tre sono stati i momenti salienti: il primo risale al 2008, al grande sciopero organizzato da una rete di attiviste che toccò molto l’opinione pubblica. Nel 2010 poi c’è stato il barbaro omicidio di Khaled Said, un ragazzo di 28 anni, ucciso dalle forze dell’ordine, senza un movente, senza che lui avesse mai aderito a gruppi di protesta né fatto attività politica. Quel crimine – spiega al-Aswani – ha fatto capire a molti egiziani che, anche abbassando la testa, standosene ai margini, non si era più al sicuro dalla violenza del regime. Poi ci sono stati i brogli delle elezioni di novembre che, ancora una volta, hanno dato la maggioranza assoluta del Parlamento a Mubarak: la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Adesso cosa ci si aspetta? C’è il rischio che elementi religiosi o di controrivoluzione prendano il sopravvento? «Io non credo, perché la società egiziana ha un fondo laico. Ma è anche vero che, nonostante la piazza si sia costituita come Parlamento alternativo, non ne abbiamo ancora uno eletto». E l’esercito che ruolo sta giocando? «La polizia in Egitto non si è comportata come in Libia – ricorda al-Alswani- ma non ha nemmeno preso posizioni chiare per il cambiamento; del resto molti elementi collusi con il vecchio regime allignano nei suoi ranghi. E tanto più nel ministero di Giustizia che è controllato dal Governo. Ma sono certo che la volontà popolare eserciterà una pressione perché non ci siano imbrogli nel processo a Mubarak».  Quanto alla risposta dei governi occidentali, come è stata vista da piazza Tahrir? «Che Guevara diceva che l’onore è dire ciò che si pensa e fare ciò che si pensa. Ecco, speriamo che i governi occidentali si facciano onore, smettendo le doppiezze. Comunque sia – prosegue al-Aswani- se Governi come quello italiano hanno sostenuto il regime di Mubarak rafforzandolo come oppressore della nostra gente, sappiamo che il popolo italiano non la pensa allo stesso modo.  Se si guarda alla risposta della gente, la rivolta di piazza Tahrir è stata sostenuta da ogni parte del mondo, perché – approfondisce lo scrittore – la rivoluzione è una cosa molto umana: è un movimento che nasce per avere rispetto, libertà, democrazia, dignità. Cose che ogni essere umano capisce al volo. Ora è tempo che anche i Governi si alzino in piedi per la difesa dei diritti umani». Poi rivolgendo un pensiero alla questione israelo-palestinese che questa settimana conoscerà un momento importante all’Onu aggiunge: «Se affrontassimo la questione pensando che siamo tutti esseri umani, si troverebbe una soluzione. Anni fa – ricorda al-Aswani – ho scritto un racconto immaginando un pilota israeliano affettuoso a casa e poi freddissimo quando spara sui bambini palestinesi, visti come nemici in erba. I problemi nascono quando tu consideri l’altro come nemico, come arabo, come musulmano, come cristiano. E non come essere umano. La violenza comincia quando neghi l’umanità dell’altro. Se lo guardi negli occhi, trovi l’umanità che ci accomuna e allora non puoi uccidere. I soldati Usa in Vietnam, non a caso, venivano addestrati a non guardare mai il nemico negli occhi.

IL LIBRO

l libro
Una primavera inaspettata
«Perché gli egiziani non si ribellano? Questa era la domanda che veniva posta ripetutamente in Egitto e all’estero». Così esordisce lo scrittore ‘Ala al-Aswani ad incipit del suo nuovo libro, La rivoluzione egiziana (Feltrinelli): Già, perché le condizioni c’erano proprio tutte: la metà della popolazione egiziana viveva da tempo sotto la soglia di povertà, con meno di 2 dollari al giorno, mentre  Hosni Mubarak monopolizzava il potere da trent’anni, con elezioni truccate. Senza contare che ogni giorno gli egiziani subivano torture e violenze sessuali nelle centrali di polizia per estorcere loro confessioni di reati che non avevano commesso. In questo libro in cui l’autore di Palazzo Yacubian e di Chicago raccoglie articoli scritti per giornali indipendenti, emerge il quadro delle complesse ragioni che impedivano quel colpo di reni che, inaspettato ai più, sarebbe arrivato in quella che è stata giustamente chiamata la primavera araba. Una stagione di grandi promesse di libertà e democrazia. Ma in questo libro che fa comprendere più a fondo i molti volti della rivoluzione egiziana, troviamo anche pagine pungenti in cui lo scrittore e medico al-Aswani non solo denuncia la corruzione e gli abusi del regime  ma invita gli egiziani a riflettere sulle violente imposizioni della religione ( «Il niqab impedisce alle donne di vivere come esseri umani»). Una religione che fa ammalare dice coraggiosamente al-Aswani citando ricerche mediche che raccontano l’alta incidenza di problemi e di malattie mentali in un’Arabia Saudita che, in nome di Allah, si pretende virtuosa e invece è solo altamente repressiva.

Da left-avvenimenti

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Rivoluzionari e cosmopoliti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2011

Il Risorgimento non fu un fenomeno solo nostrano. Ma di respiro europeo. Con il libro  “Londra dei cospiratori” (Marco Tropea editore) lo studioso e giornalista Enrico Verdecchia ci porta nella città crocevia di culture di opposizione dove trovarono riparo Mazzini e Garibaldi, ma anche Bakunin, Engles e Marx

di Simona Maggiorelli

Londra 1864

Non solo lotta per l’indipendenza nazionale ma anche cosmopolitismo e apertura alle correnti più progressiste che animarono il primo Ottocento. Il pensiero dei giovani ribelli del Risorgimento acquisì un’apertura per le strade delle grandi capitali, a Parigi e a Londra. Oltremanica, in particolare, utopisti sansimoniani, socialisti della prima ora e fuoriusciti da Paesi europei e latinoamericani in rivolta trovarono riparo e modo di portare avanti le proprie battaglie, seppur in clandestinità. Di questa nascita per nulla asfittica, ma anzi di respiro “internazionale”, del nostro Risorgimento racconta il giornalista e scrittore Enrico Verdecchia nel libro Londra dei cospiratori (Marco Tropea editore). Un lavoro di oltre seicento pagine che gli ha richiesto più di due anni di ricerche storiografiche e che l’autor ha presentato all’Università di Firenze il 15 marzo, il 17 marzo alla Feltrinelli di Roma (con Corrado Ocone, Daniele Barzaghi e la sottoscritta) e il 18 marzo all’Istituto Mazziniano di Genova.

Enrico Verdecchia

«Il Risorgimento non è stato un fenomeno esclusivamente italiano ma parte di un fenomeno di scala europea – racconta Verdecchia a left -. L’ascesa della borghesia nella seconda metà del Settecento assunse forma eversiva nei confronti dell’Ancien régime, che concentrava il potere in mani aristocratiche. E dette vita alla rivoluzione atlantica, cominciata nelle colonie americane contro gli inglesi e passata in Europea con la Rivoluzione francese e il diffondersi del fenomeno del giacobinismo. A partire da allora, le rivoluzioni – come oggi sta avvenendo nel Vicino e nel Medio Oriente – avvennero per ondate in Europa ogni dieci, venti anni. Ma le conquiste napoleoniche – nota Verdecchia – determinarono tra le varie borghesie che avevano simpatizzato per la Rivoluzione, la reazione inversa: la riscoperta romantica delle tradizioni etniche e la nascita dei patriottismi nazionali contro il cosmopolitismo rivoluzionario».

E nella Londra che Ugo Foscolo chiamava «babilonissima Babilonia» cosa accadeva?

Anche in Inghilterra si sentivano i fermenti rivoluzionari che spiravano dal continente ma qui la borghesia più ricca aveva fatto un tacito accordo con l’aristocrazia. Quindi in un Paese in cui almeno una parte del potere legislativo (la Camera dei Comuni) era aperto al voto, i fermenti rivoluzionari assumevano la forma di un ampliamento del ristrettissimo suffragio a strati più ampi della popolazione. E poi non bisogna dimenticare che gli esuli del 1820-21 erano in buona parte nobili o al più alto-borghesi (si pensi al conte Porro, al conte Pecchio, al conte Santorre di Santarosa) e costituzionalisti. In Inghilterra trovavano una Costituzione che consideravano un modello e neanche loro simpatizzavano troppo per la sua estensione. Quando poi, con le rivoluzioni del 1830-31, il carattere del nuovo esulato assunse toni repubblicani, i fuoriusciti trovavano in Inghilterra un terreno del tutto ostico alle loro idee, salvo che presso alcuni circoli radicali e alcune frange cartiste inglesi, che avevano vita difficile anche nel proprio Paese.

Insomma Londra non era stata scossa dai moti del ’20-21?

Le rivoluzioni del ’20-21 non erano affatto eversive, agli occhi degli inglesi, o almeno del partito cosiddetto Whig (che raccoglieva la parte più illuminata dell’aristocrazia al potere), in quanto rivendicavano Costituzioni che gli inglesi non solo avevano ma tendevano a promuovere negli altri Paesi. Bentinck, ad esempio, lo aveva fatto in Sicilia durante l’occupazione inglese e a Genova dove era sbarcato nel corso delle guerre napoleoniche. In Inghilterra gli umori, se non erano mai favorevoli alle rivoluzioni, erano almeno contrari agli eccessi dei regimi assolutisti, come quelli di Ferdinando a Napoli che il liberale Gladstone denuncerà nel 1851. I successivi esuli repubblicani dovevano muoversi invece in un clima ostile. Se trovavano qualche rispondenza era non negli ambienti borghesi ma proletari: i Cartisti, ad esempio, e nelle loro frange repubblicane, isolate e represse.

Tuttavia lei scrive : «Giunto a Londra, Pippo l’uomo più ricercato dalle polizie d’Europa si sentiva finalmente libero». Quanto fu importante l’esperienza londinese per il trentaduenne Giuseppe Mazzini?

Mazzini aveva scelto di puntare sui giovani e di superare gli impacci delle strutture carbonare lanciando la Giovine Italia molto tempo prima di arrivare in Inghilterra nel 1837. Era avvenuto nei suoi primi anni d’esilio in Francia, a Marsiglia. Quando arrivò a Londra, tutta la sua opera era in sfacelo, la sua reputazione a pezzi per le ripetute sconfitte. Erano gli anni della «tempesta del dubbio» e dell’esaurimento nervoso. L’esperienza londinese semmai gli fu preziosa quando già aveva ripreso speranze e attività con la creazione della seconda Giovine Italia. Gli fece conoscere di prima mano le conseguenze sociali della rivoluzione industriale e le lotte operaie, tanto che la nuova strategia per la rivoluzione non faceva più affidamento sull’esulato borghese quanto sull’apporto del “popolo”, cioè in questo caso degli operai, degli artigiani, dei proletari per i quali proprio in quegli anni creò l’Unione operaia e la scuola gratuita a Londra. Mazzini, come gran parte degli esuli, faceva tesoro delle libertà che l’Inghilterra gli garantiva, prendeva ogni spunto possibile per far sapere agli inglesi della tristissima situazione italiana, raccoglieva soldi per finanziare le sue spedizioni o le armi per le sollevazioni in Italia, ma ricavava dal soggiorno inglese scarsi insegnamenti ideologici o politici.

Londra fu laboratorio politico e intellettuale anche per l’anarchico Bakunin, per Engels e per Marx. Come s’intrecciarono le loro vicende nelle nebbie della Londra vittoriana? E con quali riverberi?

Per Engels a per Marx l’insegnamento inglese fu più profondo che per Mazzini, nel senso che fu proprio in Inghilterra, dove Engels era arrivato a lavorare nell’azienda paterna a Manchester, che scoprì e trasmise a Marx quell’economia politica che aggiunse l’elemento propriamente “scientifico” al sistema dottrinale marxiano, che fino ad allora non era stato nell’altro che un’applicazione dell’hegelianesimo. Il rapporto personale tra Marx e Bakunin, al di là di qualche superficiale simpatia iniziale specie da parte del russo, fu puramente strumentale, cioè una collaborazione a scopo antimazziniano in Italia. Poi, con gli sviluppi in seno alla prima Internazionale, divenne una vera e propria guerra ideologica e politica. Con la conseguenza che in Italia, Bakunin si rivelò più presente di Marx nel movimento operaio nascente, e in Inghilterra Mazzini rimase, fino almeno alla fine del secolo, più influente di Marx sulla classe operaia britannica.

Con l’interesse per i moti risorgimentali si cominciò davvero a incrinare quell’idea dell’Italia, «paese di bigotti e di preti, di schiavi e rettili striscianti ai piedi degli oppressori» di cui scrivevano riviste inglesi? E oggi quella vecchia immagine del Paese torna a fare capolino?

Mi dispiace (anche perché la cosa pesa anche su di me personalmente) l’immagine dell’Italia, in Inghilterra, non è mai sostanzialmente cambiata. Nonostante le simpatie di alcuni strati della popolazione inglese per gli sviluppi del Risorgimento, nonostante l’ammirazione per le bellezze del Paese e per il suo patrimonio artistico e culturale, nonostante momenti di apprezzamento per alcuni aspetti dell’operosità italiana (specie la moda), l’Italia come Paese non ha mai goduto di molto apprezzamento e quindi da Londra non è mai provenuto nessun tentativo di incrinare l’immagine tradizionale. Né è mai venuto da altre parti d’Europa, a quanto ne so. Per cambiare l’immagine bisogna una volta tanto cambiare veramente l’Italia. Ho settant’anni e da quarant’anni vivo in Inghilterra, e non ho mai visto l’Italia cambiare sostanzialmente. E nei miei studi storici, ahimè, la ritrovo sostanzialmente tale e quale nei secoli passati. Che cosa vogliamo farci?

LETTURE FUORI DAL CORO

Per i 150 anni dell’Italia unita ecco alcuni titoli fuori dal coro. Come il primo volume della collana Antimoderati del Centro di documentazione di Pistoia Luciano Bianciardi di Giuseppe Muraca che ricostruisce il percorso dell’autore di Antistoria del Risorgimento. Ma ecco anche alcuni titoli “scientifici” che illuminano zone che ancora erano in ombra, come Figlie d’Italia (Carocci), in cui Maria Teresa Mori indaga la produzione letteraria di poetesse e patriote nel Risorgimento dal 1821 al 1861. In queste giornate di celebrazioni e di articolesse sui giornali è rimasta incomprensibilmente in ombra anche una figura di scrittore e letterato come Ippolito Nievo, autore di monumentali quanto ironiche e spassose Confessioni di un italiano ( Meridiano Mondadori). Alla breve e brillante vita dell’avvocato Nievo, ai suoi molti amori e alla sua avventura garibaldina è dedicata la biografia L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli fresca di stampa per Fazi editore. Quanto alla riedizione di testi storici, Donzelli pubblica fra gli essenziali Il Risorgimento e l’Unità d’Italia di Gramsci. E Baldini Castoldi Dalai manda in libreria gli scritti di “padri” del Risorgimento da Cattaneo a Pisacane. Tutti a 3,90 euro.

da left-avvenimenti dell’11 -18 marzo 2011

I limiti dello Stato nazione

In un mondo in cui le distanze, anche quelle geografiche , sembrano essersi accorciate e – tanto più- pensando a un progetto di Europa unita non solo come mercato unico, che significato assume oggi accendere tutti i riflettori sui 150 anni dell’Unità d’Italia?

In tempi di conquistato cosmopolitismo, il tripudio di celebrazioni rischia di sembrare  un antimoderno inno alla patria e alla bandiera. Non la pensa così l’editore Carmine Donzelli che, ripubblicando ora I discorsi per Roma capitale di Camillo Benso di Cavour ( con la prefazione di Pietro Scoppola) sottolinea invece quanto sia importante oggi approfondire in modo non ideologico i nodi fondativi del processo di costituzione dello Stato italiano per affrontare le questioni rimaste ancora aperte. ” Oggi è troppo facile dare per ovvio e scontato un processo storico che si presentava agli occhi dei suoi protagonisti e testimoni diretti, come qualcosa di molto più complesso w aperto di quanto a noi oggi oggi non sembri”, chiosa Donzelli.

Ma soprattutto, annota l’editore romano ” il rapporto tra il nostro passato, per poter produrre conseguenze identitarie, democratiche e civili che auspichiamo, deve partire da una ricognizione scrupolosa e leale dei dati di realtà”.

E in questa chiave di approfondimento puntuale, ma con differente punto di vista, nasce il volume curato da Alberto Castelli per le edizioni E/0, L’Unità d’Italia, pro e contro il Risorgimento, con una serie di interventi storici di rango, a cominciare da quelli di Gobetti, Gramsci e Salvemini, per arrivare poi al dibattito sul Risorgimenro acceso dai protagonisti del movimento antifascista Giustizia e libertà, fondato nel ’29 da Carlo Rosselli e a cui – come ci ricorda Castelli-aderirono intellettuali raffinati come Andrea Caffi, Emilio Lussu, Franco Venturi, Francesco Nitti, ma anche Nicola Chiaromonte. E fu proprio in questo ambito di Giustizia e Libertà che si cominciò a pensare come ” un grave errore degli uomini del Risorgimento l’aver ritenuto possibile garantire libertà e giustizia nel quadro organizzativo dello Stato-nazione. “Gridando Italia, Italia, nell’impeto nazionale- scriveva Chiaromonte- si dimentica di abolire il latifondo, di occuparsi della questione sociale, di portare avanti ogni progresso civile.

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La Persia ritrovata in un volto di donna

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 2, 2009

Lo scrittore iraniano Abdolah parla del suo ultimo romanzo ambientato in Sudafrica

ritratti-e-un-vecchio“ Quando nel 1988 sono arrivato in Olanda come rifugiato politico ho voluto scrivere nella lingua del Paese doveva avevo scelto di vivere. E’ stata dura, all’inizio. Lavoravo come fossi un gioielliere, sceglievo le parole ad una ad una. La osservavo, la annusavo e solo allora scrivevo. Era un lavoro di artigianato che mi richiedeva un’enorme energia”, racconta lo scrittore iraniano Kader Abdolah, in tour in Italia per presentare il suo nuovo romanzo Ritratti e un vecchio sogno pubblicato dalla casa editrice Iperborea. Oggi quasi si stenta a credergli conoscendo la lingua dei suoi romanzi poetica, essenziale, eppure icastica, quasi carnale. Con questa lingua si è costruito una nuova casa in Occidente, senza mai tradire i propri ideali e il ricordo dei compagni morti nelle prigioni dello scià e poi di Khomeini.

ap-abdolah2 Facendosi cantastorie e divulgatore della cultura della Persia antica e al tempo stesso testimone della violenza della repressione fondamentalista. Non a caso Kader Abdolah fa dire al protagonista La scrittura cuneiforme (Iperborea):”avevo paura, non che mi uccidessero, ma che mi distruggessero. Costringendomi a mettermi in ginocchio”. Ora, passati molti anni, lo scrittore iraniano sembra aver sentito l’esigenza di compiere un viaggio a ritroso. Ma non tornando esattamente sui suoi passi, ma scegliendo di fare rotta verso Sud, verso “la bruna terra africana”, sotto il cielo azzurro e bruciante del Sudafrica. Un Paese che gli evoca l’immagine della propria terra. Un’immagine che ritorna nei suoi pensieri notturni. In sogno tornano Attar, Soraya, Runi e gli altri compagni giustiziati dal regime. Ma questo viaggio con la bruna terra africana sarà per lui anche la strada per l’incontro con una donna e la storia, non solo quella personale, forse, potrà ripartire.

Da Avvenimenti de 30 aprile 2007

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Biennale Zapatera

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 4, 2005


Il 12 giugno a Venezia la 51. edizione della grande kermesse dell’arte «La sua funzione – per la curatrice Rosa Martinez – non è preservare il passato ma inventare il presente ed esplorare i confini dell’arte. Qualcosa di mutante, che si costruisce attraverso la contaminazione con la vita». Perciò aggiunge la cocuratrice Maria de Corral:«A Venezia non solo “stili”, ma artisti che rappresentano una qualche rivoluzione».

di Simona Maggiorelli

maria-de-corral-e-rosa-martinez1Difficile, a volte, commisurare progetti e pensieri: mentre in laguna c’è chi pensa in grande e allarga lo sguardo dell’arte al Mediterraneo e oltre, cercando di dare alla Biennale di Venezia un respiro veramente internazionale, i quotidiani più conservatori – Il Giornale in primis – sembrano voler fare di tutto per riportare la riflessione sull’arte a misura del nostro italico particulare.


Da un lato le due curatrici spagnole di questa cinquantunesima edizione che apre le porte il 12 giugno, Rosa Martinez e Maria De Corral, impegnate far emergere ciò che di più nuovo e vitale si muove nelle arti visive tra Occidente e Oriente. Dall’altro, un manipolo di critici e di giornalisti nostrani che continuano a fare e a rifare la conta di quanti artisti italiani figurano nelle due sedi ufficiali della mostra, all’Arsenale e ai Giardini. Con una raccolta firme vorrebbero costringere il presidente della Fondazione Biennale David Croff e il vicepresidente, il sindaco Massimo Cacciari, a fare marcia indietro e a ripristinare una lettura del panorama dell’arte ricondotta nei confini nazionali, più domestica e normalizzata. Prospettiva che, del resto, all’orizzonte già prende forma concreta, con la nomina dell’americano Robert Storr alla direzione della Biennale del 2007, allargata a progetto triennale. Da “curator” del MoMa, e in Italia da direttore della Biennale internazionale dell’arte contemporanea di Firenze, Storr non ha lasciato molti dubbi sulla sua propensione verso un tipo di arte figurativa d’antan che piace a un mercato dei grandi numeri e verso una statuaria di stampo neoclassico e di gusto molto americano, sostenendo le opere di Gina Lollobrigida. Ma tant’è. L’orizzonte del 2007 è, per fortuna, ancora molto lontano, e molto nel frattempo si agita in laguna: dallo sbarco nei giorni scorsi del magnate francese François Pinault a Palazzo Grassi (nuova sede della sua collezione privata), al progetto di Croff di creare, forse a Ca’Corner della Regina, una sede della Biennale delle arti visive da vivere e abitare tutto l’anno, con archivi, librerie, caffetterie, sul modello della Tate Modern di Londra.
Nel frattempo resta ancora tutta da scoprire e da godere questa Biennale 2005, già battezzata dalla stampa “Biennale Zapatera”, per la forte impronta di passione e di impegno civile che le due blasonate curatrici hanno voluto darle, allargando il cerchio dei paesi a 73, con il recente ingresso di Afghanistan, Albania, Marocco, Repubblica del Belarus, Kazakhistan e Uzbekistan, ospitando per la prima volta un padiglione cinese, ma soprattutto andando a caccia, ognuna con il proprio stile, di opere che raccontano il presente.


Con gusto elegante, estetizzante, più decantato, nel padiglione italiano ai Giardini, Maria De Corral presenta la sua rassegna intitolata: L’esperienza dell’arte.Con scelte più sanguigne, concrete, legate alla vita e alla mescolanza dei linguaggi all’Arsenale Rosa Martinez, in omaggio al veneziano Hugo Pratt e al suo Corto Maltese ha voluto intitolare la propria mostra: Sempre un po’ più lontano. Per entrambe, lo stesso proposito:  proposito: far vedere concretamente quanto l’equazione: Occidente uguale civilizzazione sia ormai superata. «L’utopia della democrazia – ha dichiarato la Martinez – si concretizza in una Biennale ideale che per me significa soprattutto un evento politico e spirituale». Per poi aggiungere con una esplicita dichiarazione d’intenti: «La Biennale, con la sua energia e fluidità, deve essere un modello che si rinnova ad ogni esposizione. La sua funzione non è preservare il passato ma inventare il presente e esplorare i confini dell’arte.


È qualcosa di mutante, che non si costruisce con i nomi dei big di turno ma attraverso la contaminazione con la vita, esplorando territori transnazionali e transgenerazionali». Parola di chi, come lei, Rosa Martinez, dopo essersi formata nella casba degli stili di Barcellona, ha diretto nel 1996 Manifesta 1 e l’anno dopo la Biennale di Instanbul intitolata, non a caso, On Life, Beauty, Translations per approdare poi, dopo le esperienze di Site di Santa Fé e della Biennale di Pusan in Corea, alla cura del padiglione spagnolo e alla rassegna veneziana del 2003. Nella Biennale diretta da Francesco Bonami, quella della Martinez, era una delle sezioni di più forte impatto, con l’ingresso letteralmente murato dall’artista Qui Santiago Sierra per far sperimentare allo spettatore il senso di una respingente frontiera. Evitando i rischi della vertiginosa proposta di Bonami e dei suoi 12 coautori che, nel 2003, seducevano e insieme procuravano un senso di spaesamento nel pubblico, all’Arsenale quest’anno si vedranno le proposte solo di una cinquantina di artisti, giovani ma già emersi; nomi con i quali Rosa Martinez ha già lavorato in passato (da Olafur Eliasson a Mona Hatoum, da Mariko Mori a Pascale Marthine Tayo) e che a Venezia la curatrice catalana ripropone attraverso le loro opere più dirompenti. A cominciare da quelle dichiaratamente femministe del collettivo americano Guerrilla Girls, che armate di video, foto, installazioni si sono date l’obiettivo di mandare a gambe all’aria ogni sorta di pregiudizio che riguardi il sesso o la razza. Più orientata verso uno sguardo più femminile che femminista, la madrilena Maria de Corral, direttrice dall’ ’81 al ’91 del Caixa di Barcellona e poi del programma mostre del Reina Sofia di Madrid (nonché, nel 1986, curatrice del padiglione spagnolo della Biennale con la mostra De varia commensuraciòn) ai Giardini tenta un percorso anche retrospettivo sulle novità più importanti che hanno segnato la scena dell’arte internazionale a partire dagli anni Settanta, scegliendo autori già “classici”,da Francis Bacon a Dan Graham, da Donald Judd a William Kentridge, fino a Antoni Tàpies e a Bruce Nauman. Artisti che nell’ultimo scorcio del Novecento, nel bene e nel male, sono stati presi a modello dalle generazioni più giovani.


«Indipendentemente dalle tecniche e dagli stili – scrive Maria De Corral, – mi interessa proporre alla Biennale quegli artisti che rappresentano una qualche rivoluzione». «Nulla di definitivo – avverte – ma i miei criteri sono rigorosi, anche se inseguono le emozioni ». Da parte di entrambe è proprio questa la promessa: esplorare i territori dell’intimo, i desideri, le passioni, ma anche le contraddizioni e i drammi che oggi attraversano il globo. Senza mai perdere di vista ciò che è più profondamente umano.

Da Europa 4 giugno 2005

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