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Andrea Bellini: Ho arte da vendere

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 7, 2008

Critico, curatore ma anche direttore della più grande Fiera del contemporaneo. Da New York a Torino. L’irresistibile ascesa di un ex enfant prodige in controtendenza con la “fuga di cervelli” di Simona Maggiorelli

Andrea Bellini - photo Franco Borrelli

Andrea Bellini

Nell’Italia della diaspora dei cervelli, ma anche dei talenti (visto il numero crescente di giovani artisti e curatori “in fuga” a New York o a Londra) quella di Andrea Bellini è una storia contro corrente. Dopo il lavoro nella Grande Mela come editor di Flash art e anni trascorsi a studiare e a scrivere in giro per il mondo, Cina compresa, il trentasettenne, ex enfant prodige della critica ha accettato la scommessa del rientro in Italia. E con profitto, si direbbe. Dal momento che, dal 7 al 9 novembre, firma la sua seconda edizione di Artissima, la più importante fiera italiana del contemporaneo, mentre si parla di lui come probabile nuovo direttore del Castello di Rivoli, al posto di una curatrice di rango come Ida Gianelli, giunta a fine mandato. Due lavori, quello di critico-curatore e quello di direttore di una mostra mercato, di fatto agli antipodi. Ma Bellini giura, non inconciliabili. «Io concepisco Artissima come un’avventura intellettuale – racconta -. Le fiere d’arte sono diventate ormai degli eventi complessi. Con un pubblico di artisti, critici d’arte, curatori, direttori di musei, giornalisti e semplici appassionati, non solo di collezionisti. Una fiera di alto livello ha una capacità informativa senza uguali per l’arte contemporanea. A Torino, per esempio, ospitiamo oltre 130 galleristi da diversi continenti: un centinaio di grandi esperti d’arte che perlustrano il mondo di oggi alla ricerca dei migliori talenti. In Fiera il pubblico entra in contatto con l’arte nel suo farsi, con un processo culturale in atto. Insomma, non ho mai pensato di dover abbandonare qualcosa del mio giudizio critico o dell’aspetto culturale del mio lavoro. Anzi. Nella gestione di Artissima cerco di attingere a tutte le mie competenze e a tutta la mia creatività per trasformare la Fiera in un luogo di scoperta e di sorpresa.
Achille Bonito Oliva dice che i curatori sono diventati dei “camerieri” al servizio delle attese del pubblico e della spettacolarizzazione, abbandonando l’impegno critico. Come ci si salva da questa deriva in tempi di “mostrite” ovvero d’inflazione di mostre a scarso contenuto scientifico?
Guardi, i curatori sono i veri protagonisti del sistema dell’arte, altro che camerieri delle aspettative del pubblico. Quando si costruisce una mostra non si abbandona affatto l’impegno critico. Al contrario, una buona mostra dovrebbe rappresentare proprio uno “statement” in termini di critica d’arte. Se per abbandono del giudizio critico lei intende l’abbandono di un certo tipo di scrittura saggistica, falsamente colta e pseudo-creativa, penso che sia un bene che stia sparendo. Per quanto riguarda la “mostrite” (ecco un caso di spettacolarizzazione del linguaggio) non dimentichiamo che il sistema dell’arte è almeno cento volte più grande che negli anni Sessanta. Ovviamente ci sono oggi più artisti, più opere, più fiere, più curatori e più mostre, ma dov’è il problema? Chi può decidere a priori la grandezza ideale del sistema dell’arte?
In tempi di crisi economica quali scenari intravede?
La crisi si farà sentire presto anche sul mercato dell’arte, ovviamente con delle differenze. Le fiere che hanno costruito parte del loro successo sul denaro degli speculatori di borsa ne risentiranno maggiormente. Non è il caso di Artissima, perché è sostenuta da collezionisti – tra cui molti italiani – che magari non investono cifre enormi sull’arte ma possono farlo con costanza. Si tratta di professionisti o anche di piccoli e medi imprenditori, veri conoscitori d’arte contemporanea.
Quali differenze ci sono fra il sistema dell’arte italiano e quello internazionale?
Fondamentalmente c’è una differenza di dimensioni e quindi di complessità.
In Italia gli studenti denunciano un sistema scolastico al collasso che impedisce una formazione adeguata. E intanto 1.300 milioni di euro saranno sottratti dalla Finanziaria alla cultura. Che ricadute ci saranno?
Ricadute pesanti. Questo governo ci preoccupa molto, esprime un atteggiamento nei confronti della cultura da Repubblica delle banane.
Che cosa ha significato per lei lavorare, da giovanissimo, nella redazione di Flash Art a New York?
Essere redattore di un’importante rivista d’arte a New York per diversi anni mi ha dato la possibilità di confrontarmi con decine di critici, curatori e artisti, e poi di visitare centinaia di mostre al mese, un’esperienza intellettuale e visiva veramente straordinaria. Direi che ho imparato tutto in quella fase.
Dopo la laurea in filosofia si è dedicato allo studio dell’arte, anche preistorica. Che cosa l’ha affascinata?
Sono interessato a tutta la cultura visiva dell’umanità: sono convinto esista una strettissima relazione tra lo sviluppo cognitivo della specie e la parallela creazione di immagini. Studiare archeologia preistorica e la cosiddetta “arte preistorica” mi ha aiutato a capire meglio il senso della nostra presenza nel mondo.
La grande arte ha tempi interni di sedimentazione, va oltre il presente, che cosa resterà negli anni a venire del lavoro di personaggi come Damien Hirst e dei suoi animali in formalina, che anche fisicamente si stanno già squagliando?
Damien Hirst è già nella storia dell’arte. Ha realizzato lavori fondamentali legati ai temi eterni dell’umanità: la morte, la felicità, la bellezza e forse anche la speranza.
Tra ricerca e mercato, per lei, non c’è nessuna discrasia?
La ricerca ha sempre un mercato. Da sempre le opere più importanti esprimono un valore per la comunità culturale, e quindi hanno un prezzo. Giotto nella Firenze del 1300 era un artista di successo, ricco e rispettato. Come oggi Damien Hirst. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a due artisti che hanno fatto ricerca, sono entrati nella storia dell’arte e sono stati contesi dai collezionisti (dai grandi committenti religiosi nel caso di Giotto).
Cinema e videoarte aprono nuove frontiere nell’arte contemporanea?
L’arte va in tutte le direzioni e utilizza tutti i media possibili, quindi li rinnova costantemente: non esistono in questo senso barriere o linguaggi esauribili.
Il predominio sulla scena internazionale dei musei americani e anglosassoni sembra andare di pari passo con il predominio internazionale di un’arte iperrazionalista, analitica, tecnologica, “puritana” e insieme iperrealista come la cloaca di Wim Delvoye. Nel sistema del contemporaneo sono rare le tracce di una fantasia più profonda?
Guardi io non sono affatto d’accordo. Il sistema dell’arte su scala mondiale è molto complesso, e al momento sono molto importanti anche spazi espositivi a Parigi e Berlino solo per fare qualche esempio. Poi non è assolutamente vero che nel sistema contemporaneo non ci sono tracce di una fantasia più profonda: le assicuro che – per quanto riguarda l’arte – questo è uno dei momenti più straordinari e interessanti che l’umanità abbia mai vissuto. Basta aprire gli occhi e le orecchie.

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Quel che resta degli Italics

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 3, 2008

Fa discutere la mostra curata da Bonami a palazzo Grassi. Accusato di revisionismo, di fatto racconta la fine della fantasia, nella pittura italiana dal ‘68 a oggi

di Simona Maggiorelli

Arrivando a palazzo Grassi zeppi di letture di giornali che da mesi – con un battage fortissimo – rilanciano le polemiche sulla mostra Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968-2008 (catalogo Electa), la sorpresa maggiore è scoprire che a Venezia non c’è nessuno scandalo. Se non lo scandalon degli antichi greci, alla lettera, pietra di inciampo ovvero il gradino traditore del ponte di Calatrava su cui, facilmente, si cade. La prima immagine, nel salone d’ingresso del palazzo veneziano di Pinault che si affaccia sul Canal Grande, è quella di una lunga teoria di corpi coperti da lenzuoli. Un bambino li sbircia incuriosito come a voler sollevare il drappo. L’artista Maurizio Cattelan forse non lo aveva previsto pensando questo suo omaggio a Lo spirato di Luciano Fabro che richiama alla mente stragi terroristiche e di mafia. Ma con il giovanissimo visitatore potremmo dire che l’atmosfera di morte che aleggia fin dall’incipit su questa mostra dedicata agli ultimi quarant’anni di storia italiana, in fondo, non è che un fantoccio.

Un’ossessione di moda nei seriali ed estenuanti disegni di donne anoressiche firmati Vanessa Beecroft (The book of food) come nell’impagliato scoiattolo suicida dello stesso Cattelan o nelle visioni necrofile e religiose della Transavanguardia e, ancora, nelle reificate visioni di Domenico Gnoli. Per diventare al più un’ossessione giocosa e irridente nella serie di lapidi mortuarie di Salvo su cui campeggiano scritte del tipo «Io sono il migliore» o «Più tempo in meno spazio». Ma al di là delle boutades e del successo internazionale dei patinati videoclip di star come Francesco Vezzoli (a cui è stato dedicato quasi l’intero padiglione italiano alla Biennale d’arte del 2007) il dramma vero, che emerge da questa mostra di Francesco Bonami, è la morte dell’arte contemporanea. Raccontata qui attraverso la selezione di un centinaio di artisti italiani fra i più noti. Eccezion fatta per lo spazio bianco di Fontana che sembra suggerire una tridimensionalità altra da quella meramente fisica e architettonica e per le opere di alcuni maestri dell’Arte povera, quella che Bonami ci propone questa volta è una domestica antologia di un quarantennio senza sorprese. Procedendo su un doppio binario: lungo la traccia del gusto nazional-popolare che va dalla metafisica di de Chirico al pesante realismo di Guttuso e, come si diceva, procedendo sul versante più internazionale e modaiolo delle ultime generazioni, fra gli spot per jeans riletti da Paola Pivi, i deja vu da Bacon di Roccasalva e le sculture da luna park di Tuttofuoco. Senza dimenticare la fotografia, con una scelta di patinati nudi femminili di Avigdor e Mollino. Insomma, senza trascurare nulla di ciò che potrà piacere agli americani quando, dopo il 22 marzo, la mostra Italics andrà in trasferta al Museo di arte contemporanea di Chicago diretto da Bonami stesso. Ma va anche detto che il curatore, forse non del tutto consapevolmente, qui racconta quello che tristemente è ed è stata la più nota arte italiana dal ’68 a oggi: una pittura e una scultura senza fantasia. In questo contesto l’inclusione di un mesto e triviale ritratto di Annigoni non fa quello scandalo denunciato da artisti come Kounellis e critici come Bonito Oliva. Semmai è solo noia.

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Arte: critici e storici all’Unione

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 25, 2006

Ormai è fatta. La legislatura è finita. E i danni lasciati sul campo sono palesi. Quello che una volta, sciaguratamente, Gianni De Michelis indicava come il petrolio d’Italia, ovvero i beni culturali, sono stati abbondantemente saccheggiati e svenduti. Grazie a invenzioni di “finanza creativa” come la Patrimonio spa, ai condoni, ma anche grazie al famigerato Codice dei beni culturali varato dal ministro Urbani. Senza dimenticare i danni prodotti dai tagli dei finanziamenti pubblici. Tagli drastici perfino del settanta per cento dei trasferimenti nell’ultima finanziaria di Tremonti che hanno colpito gli anelli più deboli del sistema dell’arte: gli archivi, le soprintendenze territoriali, i centri d’arte contemporanea. Portando molti enti sull’orlo della chiusura, mentre il ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione minacciava le dimissioni, guardandosi bene dall’attuarle. Di fronte al sacco, poche le voci limoide che si siano levate contro. Pochissime fra i politici. Molte fra gli intellettuali e storici dell’arte, voci competenti, ma rimaste a lungo inascoltate e che, ora – chiamate a dare consigli al centrosinistra in vista delle elezioni – si levano qualche sassolino dalle scarpe. Le politiche per i beni culturali del centrosinistra, «un disastro», denuncia Lea Vergine, firma di spicco della critica d’arte più engagé. «La “sinistra” – dice – continua a preferire politici e burocrati a studiosi e intellettuali alla guida delle istituzioni pubbliche. Con il risultato che tutto il sistema dell’arte italiano è andato ingessandosi, perdendo di vitalità di slancio». Basta mostre (in testa Monet e la Senna, la Biennale di Venezia e I capolavori del Guggenheim) con più di 100mila visitatori. «In questo proliferare di mostre locali, piccole e di scarsa rilevanza culturale – commenta Achille Bonito Oliva — la tecnica è quella di utilizzare un grosso nome, ad esempio Caravaggio per squadernare poi solo opere molto minori». Ma la colpa non è rutta dei politici, secondo il più eccentrico, ma anche il più prolifico dei critici italiani, da sempre riottoso a chiudersi nella torre d’avorio di studi separati dalla realtà. «Accanto a enti che praticano una politica culturale miope e appiattita sul già esistente – dice – ci sono anche amministrazioni sensibili che investono in progetti produttivi di arte pubblica». Qualche esempio? «Tanti, Gibellina, Napoli, città con molti problemi, ma che svolgono un’importante ruolo di committenza pubblica chiamando critici e artisti a intervenire in zone degradate, in quartieri anonimi». Come quello di Napoli dove è sorto “Il museo necessario”, un grande museo nella metropolitana che con un centinaio di opere di artisti emergenti da una nuova identità a un “non luogo” di passaggio. Ma di esempi di strutture per l’arte contemporanea nate con molto coraggio e che potrebbero funzionare da esempio, rilancia, Achille Bonito Oliva ce ne sono sempre di più in Italia. «Dal Castello di Rivoli, al Mart di Rovereto, al Macro di Roma – dice -, senza dimenticare una rete di gallerie e di Kunsthalle giovani che vanno dalla GameC di Bergamo a Quarter di Firenze, al Man di Nuoro e che, in assenza di politiche statali a supporto delle nuove generazioni svolgono un lavoro culturale importantissimo nel lanciare e sostenere i giovani artisti». «La politica dovrebbe tornare a riflettere sul valore civile e sociale che ha l’arte e la ricerca in genere – rilancia Sergio Risaliti, direttore del Quarter di Firenze -, Settori strategici per la formazione, per lo sviluppo del paese. Anche per costruire una nuova e più aperta cittadinanza. Perché i progetti d’arte oggi sono sempre più internazionali e studiare l’arte da una grande lezione di tolleranza, aiutando ad abbattere barriere culturali e pregiudizi. Per questo – conclude il curatore del più importante centro d’arte contemporanea fiorentino – la missione di chi lavora in questo settore è sempre eminentemente pubblica. E una seria politica di centrosinistra non può e non deve dimenticarlo.

da Europa 25 marzo 2006

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