Posted by Simona Maggiorelli su settembre 23, 2015

Creatura di sabbia
In occasione dell’uscita del libro di Tahar Ben Jelloun E’ questo l’Islam che ci fa paura (Bompiani) il 25 settembre il Taobuk festival di Taormina premia lo scrittore franco -algerino. Qui una nostra intervista a Ben Jelloun che incontrammo per il quotidiano Il Giorno
L’INTERVISTA/ Tahar Ben Jelloun
di Simona Maggiorelli
Le trame dell’eros, la ricerca del rapporto fra uomo e donna, in cui insieme agli abiti si abbandonano le gerarchie dei ruoli, delle identità sociali. Dopo romanzi e saggi di taglio più strettamente sociale sul razzismo, sullo sradicamento, sulla lontananza, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun propone ora un doppio intrigante viaggio letterario alla scoperta del nostro universo meno razionale, più intimo e profondo. Bompiani ha pubblicato il suo “Amori stregati” e Fabbri ha mandato in libreria , una sua riscrittura della “Bella addormentata” , per i più piccoli, in chiave da “Mille e una notte”.
Al fondo dei due diversi lavori un’interessante indagine sul femminile, in un confronto tra Oriente e Occidente giocato a livello di “imagerie”
Signor Ben Jelloun, il re del Marocco Mohammed VI ha annunciato un nuovo codice di diritto matrimoniale. Una possibilità di svolta che genera molte aspettative e speranze.
“E’ una riforma che deve ancora passare per il parlamento, con ogni probabilità troverà l’opposizione degli islamisti del PJD, il partito della giustizia e dello sviluppo. Ma anche dei partiti tradizionalisti come l’ Istiqlal. Comunque resta importante che il re abbia avuto il coraggio di proporre un nuovo codice della famiglia, dopo averlo messo a punto con una commissione per ben due anni”.
Se passasse cosa potremmo aspettarci?
” Non possiamo sperare che le mentalità più oltranziste evolvano allo stesso ritmo. Ci saranno delle resistenze, ma il Marocco non sarà più fra i paesi Arabi ad avere il codice della famiglia più retrogrado. Si avvicinerà alla Tunisia, lasciandosi alle spalle l’Algeria”.

Tahar Ben Jelloun
Cosa porterà per le donne sul piano giuridico e sociale?
” La liberazione delle donne non si decreta. Riguarda tutti i cittadini.
Ci vorrà una grossa campagna d’informazione progressista, moderna. Tante donne lottano da tempo. Ora, l’aspetto giuridico sta dalla loro parte. Prima, non era così”.
Qual è stato il contribuito dei movimenti delle donne morocchine a questa svolta?
“In Marocco esistono numerose associazioni di donne, associazioni coraggiose, solide e determinate. La loro voce è stata ascoltata. Senza la loro presenza sul terreno, questa riforma avrebbe aspettato ancora diversi anni”.
E il Nobel per la pace a Shirin Ebadi inciderà?
“E’ un fantastico colpo da maestro. L’Accademia Nobel ha dato un notevole aiuto alle donne musulmane che lottano per la propria libertà. Mi pare una scelta inaspettata e felicissima”.
Colpisce la recente notizia di due sorelle espulse dal liceo perché portavano il velo. Cosa sta accadendo fra le generazioni di giovani donne nate in Francia da famiglie arabe?
“Il velo è un simbolo politico ed ideologico. E’ un segno di appartenenza ad una comunità. Il problema sta nel fatto che siamo una società laica. La libertà degli individui è reale, ma lo è anche il dovere di rispettare la scuola pubblica. La separazione fra chiesa è stato sancita dalla legge francese fin dal 1905, è stata ottenuta dopo lunghe lotte. Bisogna rispettare questa vittoria. Le giovani donne in Francia hanno bisogno di sentirsi accettate, integrate. Indossano il velo perché sentono di essere rigettate; affermano così una loro identità. Si tratta, in ogni caso di una minoranza, anche se è molto rumorosa”.
Lei ha scritto due volumi, sul razzismo e sull’islam spiegato ai giovani. Cosa ha detto loro? Quali sono le vere radici del fondamentalismo?
“Il fondamentalismo ha una base comune: il fanatismo e l’ignoranza. Che sia islamico o cristiano, si tratta di un anacronismo pericoloso perché giustifica la guerra”.
Nel suo nuovo libro “Amori stregati”, lei ha scritto pagine bellissime sull’eros, sulla libertà interiore che le donne arabe hanno nel rapporto d’amore. E’ possibile che nella cultura islamica alle donne venga riconosciuta sul piano della vita intima e sessuale più dignità e libertà di quanto non faccia l’Occidente?
“In “Amori stregati”, racconto delle finzioni; sono la testimonianza indiretta dell’immaginario delle donne la cui condizione giuridica è infelice. L’islam, come le altre due religioni monoteiste, diffida delle donne. Un versetto dice più o meno questo delle donne: “la loro capacità di furbizia è immensa !”. Furbizia è inteso qui nel senso negativo. Allora, le donne costruiscono la loro vita secondo la loro capacità di immaginare, di arrangiarsi, di scansare la legge. Strappano la loro libertà dalle mani dei loro dominatori. Hanno dei poteri insospettabili. E meno male. Ma è anche vero che”Amori stregati” rispecchia una realtà abbastanza presente nel Marocco di oggi: il ricorso alla magia e alla stregoneria è un modo per reagire contro una realtà opprimente. Anche gli uomini ci credono”.
Nell’Islam comunque non sembra esserci una condanna del femminile e del corpo come storicamente è avvenuto in Occidente, con tanto di caccia alle streghe…
“Nel islam, le sessualità non è tabù. Insegnare l’educazione sessuale nelle scuole viene addirittura consigliato. Il profeta Muhammad è stato sposato nove volte. Amava le donne. La sua prima moglie fu la sua padrona, la donna per la quale lavorava; era più vecchia di lui e non indossava il velo. Sono gli islamici che hanno fatto di tutto per snaturare l’islam e per farne una religione oscura e fanatica”.
da Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione 17 ottobre 2003
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 31, 2009
Dal 7 giugno la 53ª Biennale di Venezia si fa porta d’Oriente, invitando a scoprire le tracce di un millenario incontro di civiltà.
di Simona Maggiorelli

Binabine, masque
Per secoli Venezia ha costruito la sua identità in un tessuto vivo di rapporti con l’Oriente. I viaggi di Marco Polo ce lo raccontano in chiave immaginifica e potente. Ma basta dare un’occhiata alla storia della Repubblica veneziana, nella lunga durata che va dall’anno Mille fino alla sua caduta alla fine del Settecento, per rendersi conto degli scambi continui con il mondo arabo abbiano sedimentato in lagunam le tracce di un millenario incontro di civiltà ricca e aperta alle suggestioni provenienti da Bisanzio ma anche dalla via carovaniera dell’incenso e delle spezie, dalla Persia e dall’Impero ottomano. La pittura veneta ne reca tracce brillanti, come rivelano i broccati delle trecentesche Madonne di Paolo Veneziano nel museo dell’Accademia. E più ancora certi capolavori del Quattrocento. Emblematico il Ritratto del sultano Mehmed II di Gentile Bellini.
Ma “visioni” di Oriente compaiono anche in Carpaccio mentre Giorgione ne I tre filosofi (1508) sembra lasciarsi affascinare dall’averroismo. Per non dire poi delle ascendenze arabe della cifra più caratteristica della pittura veneta: il colorismo, che maestri come Bellini, Tiziano, Veronese e Tintoretto svilupparono anche attraverso lo studio dei pigmenti delle miniature persiane, aprendosi agli effetti cromatici e alle spettacolari variazioni di toni di quelle opere di piccole dimensioni che arrivano dall’Oriente in opere di raffinta riilegatura. Un incontro di culture che ha lasciato tantissime testimonianze nelle chiese e nei musei di Venezia. E che la 53esima edizione della Biennale d’arte dal 6 giugno invita a riscoprire, disseminando mostre ed eventi collaterali alla rassegna intitolata Fare mondi negli angoli più diversi e suggestivi della città. Con un’attenzione particolare al dialogo fra arte contemporanea d’Oriente e di Occidente.

Emily Jacir, stazione 2008-2209
Così fra i 77 padiglioni nazionali, che quest’anno fanno segnare un record di presenze alla Biennale diretta da Daniel Birnbaum, compaiono per la prima volta gli Emirati Arabi, mentre tornano a essere rappresentati in laguna Iran, Siria e Palestina. E se manifestazioni come Art Dubai o la nona edizione della Sharjah biennal hanno avuto nei mesi scorsi una forte risonanza in Europa, l’effetto spiazzamento che ha prodotto la collettiva Unveiled, new art of the middle East proposta fino al 6 maggio scorso dalla Galleria Saatchi di Londra la dice lunga sui cliché con cui il pubblico occidentale ancora oggi si accosta alla sfaccettata galassia dell’arte araba. «Dopo anni spesi a cercare di trasmettere il mio appassionato interesse per il Medio Oriente e per l’arte araba moderna e contemporanea, l’argomento è diventato di gran moda» commenta la storica dell’arte Martina Corgnati sulla rivista Magazines. Ma da quel momento, nota la studiosa, è diventato tutto un proliferare di “esperti”, di viaggiatori dell’ultima ora, «di mostre e pubblicazioni che, fatte salve come sempre le eccezioni, hannosoltanto contribuito ad accrescere l’immensa confusione che oggi è diventata più densa e impenetrabile delle tempeste di sabbia nei deserti». Fra le confusioni interpretative più comuni e macroscopiche, la riduzione di tutti o quasi gli artisti arabi a una medesima matrice religiosa islamica. Tanto che di fronte alle opere d’arte (figurativa e non) selezionate da un gallerista pur à la page come Saatchi, c’è stato chi si è stupito del loro tono polemico e talvolta provocatorio. Ma se è vero che gli artisti di Unveiled erano soprattutto giovani emigrati in Occidente decisi a tagliare recisamente i ponti con le rispettive culture d’origine, la Biennale di Venezia – almeno sulla carta- dichiara di voler offrire panoramiche approfondite sulla scena artistica di città simbolo del mondo arabo come, per esempio, Marrakech, Teheran e Damasco. Così nel padiglione del Marocco allestito in Santa Maria della Pietà dal 6 giugno si potrà conoscere più da vicino la nuova “onda marocchina” cresciuta dal 2006 intorno al Centro di arte contemporanea di Rabat ma anche il lavoro di due personalità di spicco come l’artista Fathiya Tahiri che rilegge in forme sensuali i gioielli femminili della tradizione berbera, praticando al contempo una pittura astratta, intimista e altamente poetica.legato alla tradizione africana, rielabora l’iconografia delle maschere e dei totem scolpiti l’artista e scrittore Mahi Binebine, usando pigmenti puri stesi con le mani sulla tela oppure realizzando immagini inquiete e dolenti, con interventi che bruciano la tela. Immagini sfocate, indefinite con cui Binebine “completa” l’epos dei suoi romanzi, spesso dedicati all’esilio e all’emigrazione. E se i temi politici e la denuncia dei diritti umani violati sono il filo rosso che lega il lavoro dei sette artisti che a Venezia rappresentano la Palestina, negli spazi del Convento di S. Cosma e S. Damiano accanto a opere di forte impatto emotivo che vogliono dare un volto e una voce alle vittime civili dell’esercito israeliano, troviamo anche le creazioni di Emily Jacir che provano a immaginarsi un futuro multietnico e aperto al dialogo fra culture diverse. Al registro poetico e vitale della giovane artista palestinese fa eco il registro alto ma intriso di dolore della più matura Mona Hatoum. Artista palestinese che ha vissuto per molti anni da esule a Londra. Al suo lavoro trentennale la Fondazione Querini Stampalia dedica la retrospettiva Interior landscape, con 25 opere scelte insieme alla curatrice Chiara Bertola e in cui Hatoum evoca dolenti ”paesaggi interiori” legati a situazioni di sradicamento, di lontanza, di guerra. Solo nel padiglione della Siria, alla fine, ritroviamo la seduzione di un possibile e pieno dialogo fra culture diverse, senza sanguinose lacerazioni.In Ca’ Zenobio dal 7 giugno artisti siriani e italiani s’incontrano sul tema “Mediterraneo, crocevia di arte”. Curata da Spatafora e Dall’Ara la rassegna getta un ponte fra l’arte materica di un maestro come Yasser Hammoud e il realismo magico di Issam Darwich. Con loro si dipana la riflessione di artisti come Franca Pisani, Concetto Pozzati e molti altri.
L’Inaugurazione
La nuova Punta
della Dogana

punta della dogana
Se ne parla da anni ed è uno dei più attesi eventi d’arte dell’anno: parliamo del recupero del complesso monumentale di Punta della Dogana, restaurato dall’architetto giapponese Tadao Ando, nel rispetto degli spazi originari. «L’edificio di Punta della Dogana – ha spiegato lo stesso Ando – ha una struttura semplice. Il volume crea un triangolo, analogo alla punta dell’isola di Dorsoduro, mentre gli interni sono ripartiti in lunghi rettangoli. Il lavoro di restauro – precisa l’architetto giapponese – è stato eseguito con un profondo rispetto per questo edificio emblematico, tutte le partizioni aggiunte nel corso delle ristrutturazioni precedenti sono state rimosse per ripristinare le forme della primissima costruzione. Riportando alla luce le pareti in mattoni e le capriate. In modo che lo spazio che rimanda alle antiche usanze marinare, ritrovasse le sua propria energia». In queste suggestive sale affacciate sul mare il francese Francois Pinault (che gestisce già Palazzo Grassi) espone opere della sua vastissima collezione d’arte.
Granelli di poesia
Incontro con l’artista iraniano Mosehen Vasiri
«Le immagini della pittura di Vasiri appartengono alla categoria delle impronte, dei segni, cioè, che il nostro essere imprime nell’essere del mondo e per mezzo dei quali costruisce la sua esperienza» scriveva Argan nel 1960 a proposito delle sorprendenti Sabbie interiori con cui l’artista iraniano esordiva nel panorama dell’arte italiana, in quegli anni vivacizzato dallanuova esperienza dell’Arte povera. Arrivato a Roma pochi anni prima, senza conoscere una parola di italiano e con pochi soldi, il giovanissimo Vasiri, fresco di diploma all’Accademia di Teheran, aveva deciso di andare all’estero per crescere artisticamente nel confronto con altre culture. «In Accademia non avevo incontrato maestri in grado di insegnarmi cose nuove – racconta Vasiri che a 85 anni continua ogni giorno a sviluppare la sua ricerca artistica-. Ma soprattutto il modello che ci veniva indicato era un certo realismo sociale mutuato dall’Urss. In pratica realismo di regime. «Benché all’epoca sapessi poco di arte – spiega Vasiri- maturai un istintivo rifiuto verso questo modo di dipingere, perché vedevo che il colore non era mezzo di espressione ma serviva solo a riprodurre la realtà». A fagli cambiare strada di lì a poco sarebbe stato l’incontro, anche se indiretto, con l’arte di Van Gogh e di Cézanne: «Un insegnante dell’Accademia tornò da Parigi con alcune stampe. D’un tratto mi si aprì un orizzonte sconosciuto di libertà di espressione e decisi di seguire quella via». Una strada di ricerca personale che di lì a poco in Italia sarebbe stata corroborata da alcuni incontri, come quello con Toti Scjaloia, che fece conoscere a Vasiri l’action painting di Pollock. Ma importante fu anche conoscere l’arte di Burri e di Fontana. Fino a quella improvvisa intuizione che la sabbia di Castel Gandolfo che ricordava a Vasiri quella del deserto, poteva formare immagini evocative, segni sconosciuti ma che parlavano a chi sapeva lasciarsi andare nel guardarli. Nasce così la prima serie di Sabbie interiori che Vasiri realizzò a Roma tra il ‘60 e il ‘63 e che dal 5 al 30 giugno la storica dell’arte Marina Giorgini presenta nello spazio Studioplano in Fondamenta della Misericordia a Venezia. «Vasiri torna a Venezia dopo cinquant’anni dalla sua prima partecipazione alla 29° edizione della Biennale – annota la curatrice – un appuntamento a cui Vasiri si era presentato con un dipinto ancora figurativo e riecheggiante memorie persiane».
da left-Avvenimenti del 29 maggio 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009
di Simona Maggiorelli

Shirin Neshat
Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad. «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana. E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009 – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.
Ma che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente. Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”. Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.
Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.
Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più. Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».
Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772 d.C) e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini. Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60 parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.
da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2006
di Simona Maggiorelli

Chini, Bangkok
Straordinari sguardi sull’Oriente, fra cronaca e fantasia. Visioni di paesaggi, strade e paesi lontani, dal Medioriente all’Asia, che hanno la freschezza di appunti e schizzi di viaggio. Ma anche la cura grafica di opere d’arte. Sono i tesori, in gran parte sconosciuti che Alida Moltedo Mapelli ha fatto riemergere dal corposo fondo di incisioni dell’Istituto nazionale della grafica e del disegno.
Opere di autori noti e meno noti che nelle sale a piano terra dell’Istituto di via della Stamperia a Roma ora formano il mosaico di una visione novecentesca dell’altro, fra eurocentrismo e desiderio di autentica scoperta.
Sono acqueforti, xilografie, opere a puntasecca riemerse durante il lavoro di riordino del fondo di incisioni di invenzione raccolto da Carlo Alberto Petrucci e dallo studio delle collezioni del Gabinetto delle stampe. Opere che, anche grazie al catalogo che accompagna la mostra Tra Oriente e Occidente (aperta fino a domenica), ora si offrono agli storici dell’arte e al pubblico, permettendo di colmare una lacuna negli studi delle stampe della prima metà del Novecento.
Col filo rosso di una ricerca precisa: la scoperta del lavoro di artisti viaggiatori, che in anni di grande trasformazione per l’Italia, come furono quelli della prima metà del secolo scorso, andarono in Oriente, per iniziativa personale o per lavoro, per insegnare in una scuola d’arte di Tokyo come Antonio Fontanesi, oppure alle dipendenze del ministero delle finanze, come l’incisore Edoardo Chiossone o ingaggiati da committenti stranieri, come il più famoso Galileo Chini che fu invitato a Bangkok, fra il 1911 e 1914 per decorare la sala del trono del re. Insieme a una nutrita schiera di altri artisti e incisori italiani che, invece, scelsero le rotte dell’Egitto, dell’Etiopia (con Mussolini) oppure il Marocco, la Tunisia, ma anche la vicina Sardegna (come l’italo tunisino Moses Levy) questi protagonisti di una branca dell’arte italiana, ingiustamente considerata minore, ci regalano la consapevolezza netta di un paese che andava cambiando, anche dal punto di vista culturale, mutando l’esotismo ottocentesco in uno sguardo limpido e moderno su paesi lontani.
E se questa piccola, preziosa, mostra è di quelle da non farsi sfuggire, anche per il lavoro scientifico che la sostiene, non meno sorprendente si rivela una visita al palazzo che la ospita, l’Istituto nazionale per la grafica, con il suo immenso fondo di disegni, di stampe, di fotografie, per arrivare poi alle mescolanze di generi e linguaggi delle avanguardie dei nostri giorni. Passando dalla tradizione tosco-emiliana del disegno per arrivare, con bel salto di genere e di contenuti, alle opere grafiche di Piranesi.
E poi, su su, fino alle stampe novecentesche e alle ultime creazioni di videoarte, di cui, per indicazione del ministero, l’Istituto della grafica e del disegno di Roma diventerà il primo deposito nazionale. Un ventaglio di ambiti diversi che, insieme con il corposo fondo antico, fanno dell’Istituto romano diretto da Serenita Papaldo, un luogo unico in Italia, tappa obbligata per tutti coloro che si occupino di studio del disegno e delle stampe antiche. «La nostra è la più grande raccolta di matrici esistente al mondo – racconta la stessa direttrice Papaldo –. Il Gabinetto nazionale della stampa, poi, dal 1800 a oggi si è andato espandendo con acquisti e donazioni»
da Europa, dicembre 2006
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Posted by Simona Maggiorelli su giugno 4, 2005
Il 12 giugno a Venezia la 51. edizione della grande kermesse dell’arte «La sua funzione – per la curatrice Rosa Martinez – non è preservare il passato ma inventare il presente ed esplorare i confini dell’arte. Qualcosa di mutante, che si costruisce attraverso la contaminazione con la vita». Perciò aggiunge la cocuratrice Maria de Corral:«A Venezia non solo “stili”, ma artisti che rappresentano una qualche rivoluzione».
di Simona Maggiorelli
Difficile, a volte, commisurare progetti e pensieri: mentre in laguna c’è chi pensa in grande e allarga lo sguardo dell’arte al Mediterraneo e oltre, cercando di dare alla Biennale di Venezia un respiro veramente internazionale, i quotidiani più conservatori – Il Giornale in primis – sembrano voler fare di tutto per riportare la riflessione sull’arte a misura del nostro italico particulare.
Da un lato le due curatrici spagnole di questa cinquantunesima edizione che apre le porte il 12 giugno, Rosa Martinez e Maria De Corral, impegnate far emergere ciò che di più nuovo e vitale si muove nelle arti visive tra Occidente e Oriente. Dall’altro, un manipolo di critici e di giornalisti nostrani che continuano a fare e a rifare la conta di quanti artisti italiani figurano nelle due sedi ufficiali della mostra, all’Arsenale e ai Giardini. Con una raccolta firme vorrebbero costringere il presidente della Fondazione Biennale David Croff e il vicepresidente, il sindaco Massimo Cacciari, a fare marcia indietro e a ripristinare una lettura del panorama dell’arte ricondotta nei confini nazionali, più domestica e normalizzata. Prospettiva che, del resto, all’orizzonte già prende forma concreta, con la nomina dell’americano Robert Storr alla direzione della Biennale del 2007, allargata a progetto triennale. Da “curator” del MoMa, e in Italia da direttore della Biennale internazionale dell’arte contemporanea di Firenze, Storr non ha lasciato molti dubbi sulla sua propensione verso un tipo di arte figurativa d’antan che piace a un mercato dei grandi numeri e verso una statuaria di stampo neoclassico e di gusto molto americano, sostenendo le opere di Gina Lollobrigida. Ma tant’è. L’orizzonte del 2007 è, per fortuna, ancora molto lontano, e molto nel frattempo si agita in laguna: dallo sbarco nei giorni scorsi del magnate francese François Pinault a Palazzo Grassi (nuova sede della sua collezione privata), al progetto di Croff di creare, forse a Ca’Corner della Regina, una sede della Biennale delle arti visive da vivere e abitare tutto l’anno, con archivi, librerie, caffetterie, sul modello della Tate Modern di Londra.
Nel frattempo resta ancora tutta da scoprire e da godere questa Biennale 2005, già battezzata dalla stampa “Biennale Zapatera”, per la forte impronta di passione e di impegno civile che le due blasonate curatrici hanno voluto darle, allargando il cerchio dei paesi a 73, con il recente ingresso di Afghanistan, Albania, Marocco, Repubblica del Belarus, Kazakhistan e Uzbekistan, ospitando per la prima volta un padiglione cinese, ma soprattutto andando a caccia, ognuna con il proprio stile, di opere che raccontano il presente.
Con gusto elegante, estetizzante, più decantato, nel padiglione italiano ai Giardini, Maria De Corral presenta la sua rassegna intitolata: L’esperienza dell’arte.Con scelte più sanguigne, concrete, legate alla vita e alla mescolanza dei linguaggi all’Arsenale Rosa Martinez, in omaggio al veneziano Hugo Pratt e al suo Corto Maltese ha voluto intitolare la propria mostra: Sempre un po’ più lontano. Per entrambe, lo stesso proposito: proposito: far vedere concretamente quanto l’equazione: Occidente uguale civilizzazione sia ormai superata. «L’utopia della democrazia – ha dichiarato la Martinez – si concretizza in una Biennale ideale che per me significa soprattutto un evento politico e spirituale». Per poi aggiungere con una esplicita dichiarazione d’intenti: «La Biennale, con la sua energia e fluidità, deve essere un modello che si rinnova ad ogni esposizione. La sua funzione non è preservare il passato ma inventare il presente e esplorare i confini dell’arte.
È qualcosa di mutante, che non si costruisce con i nomi dei big di turno ma attraverso la contaminazione con la vita, esplorando territori transnazionali e transgenerazionali». Parola di chi, come lei, Rosa Martinez, dopo essersi formata nella casba degli stili di Barcellona, ha diretto nel 1996 Manifesta 1 e l’anno dopo la Biennale di Instanbul intitolata, non a caso, On Life, Beauty, Translations per approdare poi, dopo le esperienze di Site di Santa Fé e della Biennale di Pusan in Corea, alla cura del padiglione spagnolo e alla rassegna veneziana del 2003. Nella Biennale diretta da Francesco Bonami, quella della Martinez, era una delle sezioni di più forte impatto, con l’ingresso letteralmente murato dall’artista Qui Santiago Sierra per far sperimentare allo spettatore il senso di una respingente frontiera. Evitando i rischi della vertiginosa proposta di Bonami e dei suoi 12 coautori che, nel 2003, seducevano e insieme procuravano un senso di spaesamento nel pubblico, all’Arsenale quest’anno si vedranno le proposte solo di una cinquantina di artisti, giovani ma già emersi; nomi con i quali Rosa Martinez ha già lavorato in passato (da Olafur Eliasson a Mona Hatoum, da Mariko Mori a Pascale Marthine Tayo) e che a Venezia la curatrice catalana ripropone attraverso le loro opere più dirompenti. A cominciare da quelle dichiaratamente femministe del collettivo americano Guerrilla Girls, che armate di video, foto, installazioni si sono date l’obiettivo di mandare a gambe all’aria ogni sorta di pregiudizio che riguardi il sesso o la razza. Più orientata verso uno sguardo più femminile che femminista, la madrilena Maria de Corral, direttrice dall’ ’81 al ’91 del Caixa di Barcellona e poi del programma mostre del Reina Sofia di Madrid (nonché, nel 1986, curatrice del padiglione spagnolo della Biennale con la mostra De varia commensuraciòn) ai Giardini tenta un percorso anche retrospettivo sulle novità più importanti che hanno segnato la scena dell’arte internazionale a partire dagli anni Settanta, scegliendo autori già “classici”,da Francis Bacon a Dan Graham, da Donald Judd a William Kentridge, fino a Antoni Tàpies e a Bruce Nauman. Artisti che nell’ultimo scorcio del Novecento, nel bene e nel male, sono stati presi a modello dalle generazioni più giovani.
«Indipendentemente dalle tecniche e dagli stili – scrive Maria De Corral, – mi interessa proporre alla Biennale quegli artisti che rappresentano una qualche rivoluzione». «Nulla di definitivo – avverte – ma i miei criteri sono rigorosi, anche se inseguono le emozioni ». Da parte di entrambe è proprio questa la promessa: esplorare i territori dell’intimo, i desideri, le passioni, ma anche le contraddizioni e i drammi che oggi attraversano il globo. Senza mai perdere di vista ciò che è più profondamente umano.
Da Europa 4 giugno 2005

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