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Anilda Ibrahimi: Racconto chi continuamente si deve reinventare la vita

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 4, 2015

La letteratura italiana scritta da non italiani è (una parte) del nostro futuro? Si chiede Alberto Asor Rosa nella nuova edizione Einaudi di Scrittori e Popolo. Mettendo al centro di un capitolo dedicato alla nuova letteratura italiana scritta da immigrati Rosso come una sposa (Einaudi) di Anilda Ibrahimi e facendone in qualche modo un caposaldo. “Se lo afferma una voce così autorevole come quella del professor Asor Rosa, ogni tentativo di spiegazione da parte mia sembrerebbe ridicola” commenta la scrittrice che nei suoi romanzi racconta di una Albania magica e poverissima, sospesa fra passato e presente ma anche crocevia di culture. “Più che domandarsi a quale categoria incasellare la letteratura scritta da non italiani ( mi farei delle domande soprattutto sul futuro della letteratura italiana che come dice Asor Rosa ha sostanzialmente smesso di cercare un’identità nazionale. Ogni volta che nella storia sono venute meno le coscienze di classe, o comunque gli aggregati culturali collettivi e conseguentemente la coscienza nazionale che ne è la risultante, è venuta meno la produzione letteraria che ne rappresenta l’espressione, con l’ulteriore aggravante -già sottolineata dal professore – della estrema fragilità della coscienza nazionale italiana. Con questi presupposti, non è sorprendente che la letteratura contemporanea sia intrisa di minimalismo, invece la letteratura italiana scritta da non italiani cresce in un modo diverso.

Perché mantengono un certo legame con la cultura di provenienza?

Si tratta di scrittori che provengono da realtà in cui questa atomizzazione sociale e frantumazione del capitalismo, e quindi delle coscienze collettive, è ancora agli inizi o comunque molto indietro rispetto all’occidente: e questo secondo me è significativo, nel senso di poter ancora offrire quegli spazi di coscienza collettiva fruibile ormai invia di estinzione da queste parti, e che però affondando le proprie radici, rappresenta una funzione naturale della mente umana.

Perché ha scelto l’italiano come lingua letteraria?

Credo che si tratti di una “non scelta” piuttosto. Quante altre alternative mi rimangono? La lingua madre? Agota Krystof diceva: “avrei continuato a scrivere in una lingua che non parlavo più quotidianamente. Non avrei avuto neppure lettori.” Io sono allontanata dal mio paese quasi 21 anni fa. Come avrei fatto a mantenere viva una lingua senza usarla, senza seguire la sua evoluzione, i nuovi significati? E sempre con la Krystof mi viene da dire: “La cosa certa è che avrei scritto in qualsiasi posto e qualsiasi lingua”.

Ha sentito l’esigenza di raccontare storie di personaggi femminili che in fondo non avevamo mai avuto davvero voce?

Cio che racconto non ha a che fare con la scelta della lingua e nemmeno con l’esigenza di raccontare il Paese d’origine. Lo fanno benissimo gli scrittori odierni che vivono là e io francamente non vivo nello struggimento dell’abbandono della terra. Parto da altre parole chiave, tutti i miei personaggi sono in fuga, arrivano da qualche parte. Per loro la parola “arriva” è il momento della rottura, accade qualcosa che cambia tutto, la grande Storia, le piccole storie. I miei personaggi diventano quasi tutti migranti, perdono la loro vita di prima, il loro territorio, e vivono costretti in un continuo “tra”. Tra lingue, tra luoghi, tra passato e presente, tra identità, tra ricordi. Hanno l’esigenza di ricostruire le loro memorie, altrove. Parte tutto dai ricordi, per me sono fratture, anzi frantumi di vite altre che una volta erano mie. Altrove, anche le vite precedenti non mie, diventano mie, si crea una memoria collettiva che cambia continuamente secondo i miei spostamenti. In “Rosso come una sposa” m’interessava soprattutto la trasmissione di madre in figlia di una cultura femminile che la modernità sta spazzando via, ricucire le memorie di altre donne. Vengo da una cultura orale dove la narrazione è stato sempre compito delle donne.

Con il romanzo Non c’è dolcezza torna a portarci in Albania. Facendoci conoscere un paese dove l’arrivo degli zingari era motivo di festa e ogni ospite era “sacro”. Come avverte il clima di razzismo e la paura dei migranti che abita i media e la politica italiana?

I miei romanzi sono pieni di madri. Gli uomini vanno a combattere le guerre o a lavorare fuori casa e le donne rimangono a casa tenendo acceso il fuoco, lavorando la terra, crescendo i bambini, garantendo così la vita. Sono loro che trasmettevano la tradizione dei Saperi e la sapienza femminile. Madri che si spostano insieme ai loro bambini e che diventano minoranze, come accade agli tzigani che devono reinventare una vita quotidianamente ma senza perdere la loro cultura. Raccontare la vita è anche fare politica, quindi ho già risposto come la penso ampiamente nel mio romanzo. Quando però leggo le cronache, la mia impressione che questa trasmissione di cultura si stia interrompendo, che in qualche modo queste popolazioni si stiano in qualche modo… “sradicando” rispetto alla loro parte migliore. Che quell’antica cultura si stia scolorando, ammucchiata da qualche parte come un qualche bagaglio polveroso destinato presto o tardi a rimanere dimenticato in qualche campo abbandonato.

L’amore e gli stracci del tempo unisce all’invenzione narrativa la drammaticità purtroppo reale della guerra nei Balcani. Che cosa l’ha spinta a scrivere “un romanzo storico” su un passato recente?

Non sono partita per scrivere un romanzo storico. Come ho detto prima a me piace raccontare di minoranze che si spostano e che hanno il bisogno di inventare una vita nuova. Le certezze della vita precedente sono sparite nel momento dell’arrivo ed insieme ad esse sparisce anche l’appartenenza geografica e la connotazione culturale. Il passato diventa come un universo parallelo che evolve accanto alla vita nuova in un nuovo luogo. Il mio punto fermo è la nuova identità, non più fissa, non più categorica e non più legato a un luogo ma ad una memoria. Si modifica tutto in un’interazione con il luogo d’arrivo, la cultura, la lingua, l’identificazione dell’individuo e quindi l’integrazione.

La guerra nei Balcani? Tutto passa velocemente, altre guerre nuove sono arrivate e altre ci saranno nel futuro. Nella mia narrazione rappresentano uno sfondo in qualche modo dato, trattandosi di situazioni enormemente più grandi delle forze del singolo ma anche, spesso, degli stessi Stati. Sommovimenti geopolitici di dimensioni tali da essere gestiti a livello di superpotenze, laddove, nel caso della guerra nel Kosovo, probabilmente la posta in gioco era costituita dai rapporti di forza tra macro aggregati: con questi presupposti, che avrebbe dovuto fare l’Italia? Qualsiasi cosa avesse intrapreso di diverso da quello che ha fatto, sarebbe stata tacciata di avventurismo o peggio ancora di forme di colonialismo straccione, e liquidata. Si sarebbe dovuta confrontare con la Russia? O piuttosto con la Nato? Io credo che a volte gli italiani tendano a sopravvalutarsi sotto il profilo della forza come a sottovalutarsi sotto il profilo morale: l’Italia non ha commesso nessun crimine per il semplice fatto che comunque non avrebbe avuto la forza di commetterlo… ma questa è un’altra storia, credo.

Intanto, un’altra storia è cominciata per lei, sta scrivendo un nuovo romanzo?

Si, uscirà prossimamente, sempre per Einaudi, e come tutti i romanzi precedenti inizia con la parola: arriva. Un altro romanzo tra lingue e luoghi, tra passato e presente, tra identità, in un movimento continuo alla ricerca della propria temporalità. E come sempre da sfondo: la grande storia.

Fonte Babylonpost/Globalist

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Voci d’Oriente. Kyung-Sook Shin e la nuova letteratura coreana

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 16, 2014

Kyung-Sook Shin

Kyung-Sook Shin

Una folla si accalca sul binario. E una coppia di anziani si affretta per paura di perdere il treno, camminando vicini. Ma a un certo punto lei resta indietro e sparisce alla vista del marito. Che non riuscirà più a trovarla. Da questa “sparizione” prende avvio il romanzo Prenditi cura di lei di Kyung-Sook Shin, best seller in Corea del Sud e tradotto in diciannove lingue (in Italia è stato pubblicato da Neri Pozza).

Da questo fatto all’apparenza banale si dipana la trama complessa di rapporti fra i personaggi, che dà spessore al romanzo. Figli, parenti, vicini. Tutti si ritrovano a parlare di lei, quando non c’è più. Pensavano di conoscerla bene ma, d’un tratto, si accorgono di sapere poco e niente di lei al di là del suo noto integerrimo comportamento. Come se il ruolo di madre per anni e anni avesse coperto e cancellato la vera personalità della donna. Così quello che sembrava un banale incidente si fa metafora complessa e sfaccettata: da un lato Kyung-Sook Shin sembra voler denunciare l’annullamento della donna che tradizionalmente in Corea spariva dalla scena pubblica per dedicarsi con totale abnegazione alla vita domestica, dall’altro lato, però, sembra registrare con nostalgia la perdita del sistema di valori della Corea rurale che trovava nei rapporti familiari il suo ancoraggio. Nella corsa verso la modernizzazione capitalista il Paese è cambiato drasticamente e in tempi rapidissimi, racconta lo studioso Maurizio Riotto, docente dell’Orientale di Napoli e curatore, con Antonetta L. Bruno, de La letteratura coreana appena pubblicata da L’Asino d’oro edizioni.

«Nella società coreana gli anziani hanno sempre avuto un posto di riguardo e sono sempre stati trattati con grande rispetto, faceva parte della tradizione», sottolinea lo studioso. «Ma oggi le nuove generazioni non hanno più tempo per stare con i genitori anziani e molti di loro si trovano a vivere soli e, non di rado, in stato di indigenza. La competizione per emergere è feroce nella Corea del Sud, seconda nazione al mondo, dopo la Lituania, per tasso di suicidi». Progresso economico, crescita esorbitante di metropoli come Seul, ma anche feroce darwinismo sociale, un Paese contrassegnato da laceranti contraddizioni. Così appare oggi la Corea del Sud raccontata da una nuova generazione di scrittori, che si sta facendo conoscere anche fuori confine. «Abbiamo molte risorse naturali. Tanti coreani vanno al college e poi riescono a ottenere un buon lavoro, ma la competizione fra i giovani è massima e lo stress raggiunge livelli di guardia», racconta la cinquantenne Kyung-Sook Shin, alla quale abbiamo rivolto alcune domande prima del suo arrivo a Roma per partecipare al festival Libri Come (in programma fino al 16 marzo all’Auditorium) e ad una tavola rotonda in suo onore ( il 17 marzo)  alla Biblioteca di studi orientali .

«Nel romanzo che ho da poco terminato racconto di un uomo che diventa improvvisamente cieco – dice la scrittrice – e in Prenditi cura di lei ho scritto del prezzo che le donne hanno pagato per la crescita economica del Paese. Nel libro la madre che sparisce in qualche modo simboleggia la perdita degli affetti, di relazioni umane calde, attente alla vita dell’altro che registriamo nelle grandi città. Ma bisogna anche riconoscere che la Corea del Sud ha saputo affrontare importanti cambiamenti. Se oggi è uno Stato democratico lo deve all’impegno delle giovani generazioni», sottolinea Kyung-Sook Shin. Poi commentando i dati Ocse che indicano gli studenti coreani fra i più stressati al mondo, approfondisce: «La pressione, la spinta a primeggiare sugli altri, domina la nostra scuola, ma i giovani hanno energia e possono migliorare la nostra società anche sotto questo aspetto». Della voglia di cambiamento dei giovani coreani Kyung-Sook Shin parla nel suo recente romanzo Io ci sarò, uscito in Italia per Sellerio. « In quel libro racconto rapporti di amicizia e amori fra giovanissimi. È ambientato negli anni Ottanta, un periodo molto tumultuoso in cui i ragazzi non esitavano a scendere in piazza lottando per i diritti di tutti. All’epoca molti giovani furono feriti, imprigionati, torturati».

Come il precedente romanzo, anche questo contiene elementi autobiografici? «Avevo vent’anni e come molti della mia generazione ho partecipato alle lotte per la democrazia. Sì – ammette Kyung-Sook Shin – credo che i protagonisti di Io ci sarò rispecchino molto come ero allora». Contrassegnati dal massacro di Kwangju, gli anni Ottanta «furono cruciali per il passaggio della Corea del Sud dalla dittatura militare a un sistema più libero», commenta Maurizio Riotto, autore della storia della Corea (Bompiani) ma anche primo studioso straniero a pubblicare una storia della letteratura coreana nel 1996 (con la casa editrice Novecento). «Quegli anni fanno registrare, accanto a nomi già affermati, l’esordio di molti scrittori della generazione postbellica, protagonisti di lotte per la libertà». E negli anni Novanta poi il forte ingresso delle donne in letteratura. Molte di loro contrappongono l’esplorazione del mondo interiore e dell’universo degli affetti alla velocità consumistica. Riuscendo a farsi largo nel vivace mercato editoriale (in Corea, nonostante il boom tecnologico e di internet, i libri di carta vendono migliaia di copie, talora anche milioni come nel caso di Kyung-Sook Shin.

«Le scrittrici e le poetesse coreane sono eredi di un passato in cui non solo gli uomini scrivevano – chiarisce Riotto -. Pur essendo una società maschilista, quella coreana ha visto sempre le donne cimentarsi, spesso con grande successo, nel campo delle lettere». Accanto alla letteratura, negli ultimi anni è cresciuto il cinema (come racconta il Korea film festival di Firenze dal 21 marzo), ma anche il teatro popolare e la produzione poetica.«La Corea da sempre pensa se stessa come il Paese dei poeti. La poesia è un genere largamente diffuso e in molti si cimentano nello scrivere versi, anche se la qualità – ammette Riotto – non di rado scarseggia». E mentre la Corea del Sud da anni attende un Nobel per la Poesia, a causa delle difficoltà di traduzione, la lirica coreana circola poco all’estero. Non così la narrativa, come dicevamo, e se autori noti anche da noi come Yi Munyol sono rimasti negli ultimi anni più in ombra, anche grazie al lavoro di scouting di case editrici come O barra O e Metropoli d’Asia emergono nel frattempo autori più di tendenza, come il caustico Kim Young-ha, del quale proprio Metropoli d’Asia ha appena pubblicato il provocatorio Ho il diritto di distruggermi. Un libro – ha confessato l’autore al suo editore -che non immaginava potesse uscire in Italia. « Nel Paese del Vaticano – ha detto Kim Young-ha – pensavo che il mio nome fosse off limits». (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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L’Aquila ferita. A cinque anni dal terremoto

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 9, 2014

Bella-mia-Donatella-Di-PietrantonioDopo il brillante esordio con  Mia madre è un fiume, Donatella Di Pietrantonio torna con  Bella mia (Elliot) che denuncia lo sfregio causato dalla ricostruzione post sisma

di Simona Maggiorelli

L’Aquila «è fradicia e gonfia dopo tutto questo tempo… la pioggia e la neve l’hanno impregnata fino alle fondamenta», nota la protagonista di Bella mia (Elliot), il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio. Dopo il terremoto in cui perse la vita sua sorella l’io narrante è tornato nella zona rossa, in quella piazza amplificata dal silenzio, fra crepe imbiancate e teli di plastica slabbrati.E quello scenario urbano ancora sfatto e desolato, raccontato con una prosa evocativa che sembra accarezzarne le ferite, si fa concreta metafora della difficile condizione che vivono gli aquilani a cinque anni dal sisma.

«La “grandiosa”opera di messa in sicurezza che fu attuata con enorme dispendio di denaro e energie oggi mostra la corda: perché gli edifici non furono ricostruiti. Ma solo messi in sicurezza. Se lei oggi va a L’Aquila – incalza la scrittrice – trova edifici ingessati e contenuti da milioni di metri cubi di tubi Innocenti, ma i tetti crollati continuano a far passare acqua. Il degrado dilaga perché non sono stati fatti interventi strutturali». E continua a pesare come un macigno sullo stato d’animo degli abitanti. «A distanza di quasi cinque anni come stanno gli Aquilani? Di questo nessuno parla più», nota Di Pietrantonio.«L’identità collettiva è ferita, appare disgregata. Anche perché- denuncia – gran parte degli abitanti hanno subìto una deportazione in new towns dove le relazioni di amicizia, di vicinato, si sono allentate».

Nel romanzo la scrittrice abruzzese ha immaginato tre personaggi di generazioni diverse che, dopo il lutto e in questo difficile scenario, si trovano a dover  mettere in discussione se stessi, in cerca di nuove strade. «Ho provato a seguire il loro lavoro di elaborazione e di ricostruzione interiore – dice Di Pietrantonio -. I due personaggi più giovani, il ragazzo e sua zia, alla fine riusciranno a trasformare il proprio dolore, senza cancellarne la portata».

Di fronte alla protagonista di Bella mia che ha scelto di non avere figli e che si trova, dopo il sisma, ad occuparsi del nipote riuscendo a sviluppare una nuova identità, torna in mente la protagonista del romanzo di esordio di Donatella Di Pietrantonio Mia madre è un fiume (Elliot) in cui una donna che ha sempre avuto un raporto difficile con la madre si trova a doverla aiutare, dopo che si è ammalata di Alzheimer. «In effetti c’è un parallelo fra i due personaggi – ammette la scrittrice -.Tengo particolarmente all’evoluzione dell’io narrante, mi interessa capire come gli esseri umani possano sviluppare nuove aspetti di sé, spesso imprevisti». Un percorso che in qualche modo sembra aver riguardato la stessa autrice che di professione fa la dentista per bambini, e che solo in età matura ha conosciuto il successo in letteratura.

«In realtà ho sempre scritto – racconta – ma per lungo tempo ho distrutto i miei testi o non li ho proposti. Solo di recente ho cominciato a farlo. Ma mi sono accorta che, anche in assenza di un riscontro di pubblico o editoriale, comunque, la prosa maturava. Lentamente sono passata da una fase giovanile piuttosto ampollosa, da un periodare con molte subordinata, a una scrittura decisamente più asciutta». Asciutta ma anche densa, poetica e che in Bella mia, a tratti, ha il respiro della prosa lirica. «La densità è proprio ciò che cerco – dice Di Pietrantonio -, attraverso il peso della singola parola ma anche calibrando il più possibile le pause. Perché il risultato finale sia una prosa sintetica , vagliata ». In questo percorso è stata aiutata da letture? «Ho sempre letto con passione Borges, Marguerite Yourcenar, e più di recente Ágota Kristóf. Non so se ho saputo recepire la loro lezione. Ma le pagine che ci coinvolgono nel profondo poi in qualche modo riemergono quando si scrive, come un fiume carsico».

E una affascinante e frugale figura di scrittore emerge, inaspettata, anche in Bella mia: uno scrittore senza nome, descritto come «resistente dichiarato », per il suo netto rifiuto di abbandonare le rovine aquilane al loro destino. «A dire il vero si tatta di una figura reale, molto particolare: è lo storico Raffaele Colapietra, per noi abruzzesi e per gli aquilani in particolare, è una sorta di eroe. Si è opposto strenuamente in questi anni a questa vera e propria occupazione militare della città, che non ha eguali in altre situazioni post sismiche in Italia. Subito dopo il terremoto gli aquilani non sono stati più padroni della città. E Colapietra lo ha denunciato in ogni modo. Ha opposto anche una resistenza fisica. Cosa nsolita per un signore gentile e anziano con lui. Con i suoi modi garbati ma fermi, alla fine, è riuscito a rimanere nella propria casa”.

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Educazione siberiana. Urka che bufale

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 16, 2013

Nicolai Lilin

Nicolai Lilin

Nelle lontane terre degli Urka, antico popolo siberiano, selvaggio e ribelle, di cui narra Nicolai Lilin nei suoi romanzi. Il regista Gabriele Salvatores si è innamorato del suo Educazione siberiana (Einaudi), tanto da trarne un film in uscita nelle sale il 28 febbraio e di cui si parla già molto.

Un kolossal, girato a parecchi gradi sotto zero, con John Malkovich nel ruolo del carismatico e crudele nonno Kuzja, figura chiave del romanzo di esordio di questo giovane scrittore russo che vive a Milano dopo essere stato guastatore in Cecenia e poi investigatore privato, infiltrato e tatuatore secondo una tradizione che in Transnistria si trasmetteva di generazione in generazione.
A trentadue anni, con un tris di bestseller all’attivo e un libro fresco di stampa, Storie sulla pelle (Einaudi) in cui racconta l’abilità di fare tatuaggi come una sorta di arte maieutica, Lilin è un personaggio piuttosto curioso nel panorama letterario, attento a costruire la propria immagine di “uomo duro delle steppe” pezzo dopo pezzo, dosando interviste e apparizioni in programmi come Le regole del gioco  (in onda su Dmax) in cui racconta il mondo dei  gladiatori sul ring e dei tiratori scelti.

Una cifra di cruda violenza, codificata secondo ancestrali codici di onore, del resto, caratterizza tutta la narrativa di Lilin e in modo particolare l’infanzia di Kolima il piccolo eroe di Educazione siberiana. Tanto che incontrando Gabriele Salvatores  dopo l’anteprima dell’omonimo film non possiamo non chiedergli, incuriositi, che cosa lo abbia convinto a tradurre il romanzo di Lilin sul grande schermo.

John Malkovic, in Educazione siberiana

John Malkovich, in Educazione siberiana

«La violenza è quanto di più lontano da me ci possa essere – dice  il regista -, ma quando i produttori di Cattleya mi hanno chiesto di leggere questo romanzo mi ha incuriosito il popolo Urka di cui racconta. Mi ricorda i pellerossa d’America che difendevano il loro mondo mentre tutto intorno a loro stava cambiando inesorabilmente. Nonno Kuzja è un po’ come l’ultimo dei Mohicani, lo dicevo sempre   a Malkovich sul set. Ma più di tutto – racconta Salvatores – mi interessano le domande che sollevano  le storie estreme di questi personaggi: quali regole rispettare? Cosa è giusto e cosa non lo è? Domande che chiamano in causa la nostra visione del mondo».

L’etica in cui Kollima cresce è certamente un’etica criminale. Mentre il suo alter ego Gagarin, non ha nemmeno quella. Ed entrambi si trovano del tutto impreparati a vivere un momento epocale come la fine dell’Urss. «La loro storia mi ha riportato alla mente alcuni racconti di Conrad e di London – dice Salvatores – ma anche certa letteratura russa da Dostoevskij a Tolstoj. In particolare Delitto e castigo». E in effetti il film ha un tono da narrativa ottocentesca: immagini pittoriche si alternano a scene cruente, dando alla narrazione un respiro che vorrebbe essere epico. Il piglio è quello del romanzo di formazione avventuroso e a tratti perfino picaresco. Aspetti che non troviamo nel libro di Lilin. «Mi sono permesso di prendere dal libro quello che più mi piaceva – ammette il regista – Trascurando una certa mitizzazione delle armi che non mi corrispondeva. E forse ho aggiunto qualcosa di mio alla storia dei due personaggi. Kollima e Gagarin, che sono l’uno l’opposto dell’altro. Ma mi ha fatto piacere che Lilin si sia sentito comunque rappresentato dal film. Si è addirittura commosso vedendolo».

il regista Salvatores con Malkovich sul set

il regista Salvatores con Malkovich sul set

Un elemento che è molto forte tanto nel romanzo quanto nel film è, invece, la presenza viva della natura, fortissima e ostile. «I personaggi hanno un rapporto quasi panteistico con la natura- commenta Salvatores-. Ma la natura è crudele, non ha pensiero, non ha regole se non quella della continuazione della specie. Per questo tipo di comunità, invece, ogni cosa è derivata dall’ambiente e ho cercato di raccontarlo. Anche se personalmente rifiuto la giustizia sommaria che mutuano dalle leggi naturali. Se un mio amico avesse violentato una ragazza come fa Gagarin io non vorrei più vederlo, non lo frequenterei più, ma non credo arriverei ad ammazzarlo. Detto questo, il film non è un documentario sugli Urka, non vuole essere un’indagine sociologica o antropologica. Né mi interessa, al fondo, sapere se le cose che Lilin racconta come vissute in prima persona gli siano state solo riferite. Credo che il suo romanzo nasca da un misto di invenzione e autobiografia. Per quel che mi riguarda  volevo girare una storia di formazione in un mondo lontano dal nostro, reso più affascinante proprio dalla lontananza».

E a questo patto “letterario” si lega il pubblico che per godersi il film non ha bisogno di passare la storia al vaglio della verità. «Per essere esistiti, gli Urka sono esistiti davvero- precisa Salvatores – erano tribù di guerrieri e cacciatori liberi, un po’ come i cosacchi che furono usati come truppe speciali. Gli Urka si rifiutarono sempre di essere assoldati; non accettavano il potere, né quello zarista né quello comunista. Parliamo di una cultura che probabilmente si è estinta, anche questo mi piaceva l’idea di riscoprirla». Spietati con i trafficanti di droga e i traditori, orgogliosi di essere diversi e lontani dalla mafia russia, fin dalla prima scena del film gli Urka vengono presentati con un ossimoro, come «onesti criminali».

Da parte sua, a scanso di equivoci, rivendicandoli come propri avi, nelle interviste Lilin non perde occasione per dire che gli Urka non erano una mafia. «Certo non una mafia come quella russa o italiana di oggi – commenta Salvatores – ma simile alla mafia dell’Ottocento, con un codice d’onore, un’appartenenza a una setta a una famiglia, a un clan, non a caso tornano sempre questi termini». E a chi, come lo scrittore russo Zachar Prilepin, accusa Lilin di essersi inventato tutto di sana pianta, creando un immaginario ad uso e consumo dell’Occidente e dei “brividi delle signore”, Salvatores commenta sorridendo «Probabilmente la realtà delle cose in Transnistria, dove è ambientato il romanzo e dove Lilin dice di aver vissuto fino all’età di 18 anni, è diversa. Ma la forza dell’arte russa è sempre stata quella di basarsi su cose reali, procedendo per metafore. Perciò il realismo magico di Chagall ci incanta». (Simona Maggiorelli)

dal settimanale lft-avvenimenti

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Il realismo visionario di Mo Yan

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012

di Simona Maggiorelli

Il premio Nobel Mo Yan

Chi è Mo Yan, il primo scrittore cinese ad essere insignito del Premio Nobel? Innanzitutto un autore che ha sviluppato un proprio stile potente e originale, da alcuni definito “ realismo magico” ( richiamando l’immagine dello scrittore sudamericano Gabriel Garcia Màrquez), ma che forse meglio si potrebbe definire “realismo visionario” per le molte metamorfosi e caustiche mutazioni da uomo- animale (vedi per esempio il padrone che diventa animale ne Le sei reincarnazioni di Ximen Nao) che popolano i suoi poderosi romanzi.

Un realismo visionario che si lega  a un  iperbolico e grottesco materialismo, quasi rabelaisiano. Un tratto satirico profondamente radicato in quella tradizione popolare cinese che da sempre mescola narrazione e crudo  realismo. Ritmata da scene di luculliani banchetti ma anche di feroci massacri, la prosa di Mo Yan si riallaccia agli eccessi dell’epos della tradizione epica cinese.

Sorprendendo e catturando il lettori con spiazzanti storie di animali antropomorfi dotati di parola. Mo Yan ne ha fatto gli elementi di base del proprio vacobalario letterario, riescendo così indirettamente (e senza rischiare troppo con la censura) a parlare della Cina contemporanea. Fra luci e ombre. Ma questo è un livello di interpretazione della prosa di Mo Yan che chiede più attenta esegesi…

A livello più macroscopico realismo e dedizione alla propria terra e al patrimonio culturale orientale fanno di Mo Yan, a 57 anni, uno degli autori più letti in Cina e non solo. Fin dal suo dirompente Sorgo Rosso (Einaudi) poi diventato anche capolavoro cinematografico diretto dal regista Zhang Yimou.

Gong Li in Sorgo Rosso

E se in Cina le reazioni al Nobel sono state di plauso, specie dall’establishment del Partito comunista che a novembre si avvia a uno storico e controversocongresso, Mo Yan è contestato dai suoi coetanei, e da autori cinesi dissidenti e esiliati che lo accusano di essere un uomo di regime. Ricordando, tra molto altro, come in veste di vice presidente dell’associazione nazionale scrittori Mo Yan abbia espunto dalle liste degli autori cinesi invitati alla Buchmesse di Francoforte quelli meno graditi al governo di Pechino.

“Al di là di tutto e Mo Yan resta un grande scrittore che ha scritto il grande romanzo della Cina. Ma certo è innegabile che sia è molto attento a ciò che può o non può essere scritto”,commenta  il sinologo Eric Abrahamsen. Il nome stesso che Mo Yan si è scelto, del resto, rivela questa acuta consapevolezza: alla lettera in cinese classico Mo Yan significa “non parlare”. Una raccomandazione che il Premio Nobel per la letteratura 2012 ha raccontato gli facevano spesso i suoi genitori durante la Rivoluzione culturale. Il suo vero nome di Mo Yan, come è noto, è Guan Moye, Mo Yan è nato nel 1955 in una famiglia di contadini che hanno fatto la fame durante il Grande balzo in avanti (1958-1961). Nella sua città natale nello Shandong, lo scrittore ha trascorso una infanzia segnata da privazioni e si è trovato a dover interrompere la scuola nel bel mezzo della Rivoluzione culturale. E, paradossalmente, fu l’adesione all’indottrinamento a permettergli di perseguire il suo sogno di diventare scrittore. La sua è la storia di molte famiglie di contadini analfabeti cinesi che furono più o meno salvati dall’esercito, dal fatto di essere iscritti al Partito che poi permise a Mo Yan la carriera per diventare uno scrittore.

Nella sua vicenda biografica si è inverata la storia del contadino-soldato-scrittore, in uniforme, che tuttavia è onnivoro lettore di autori occidentali, della letteratura russa, giapponese, sud americana. Sfornando storie e romanzi all’apparenza picaresti Mo Yan, a ben vedere, mette alla berlina la brama di ricchezza che sembra essersi impossessata della Cina, al motto di Deng “arricchirsi è glorioso”; stigmatizza i conflitti sino-giapponesi , allude alla tortura cinese, parlando di macellazione dei suini e lancia strali indiretti alla corruzione dei quadri comunisti ( vedi Grande seno fianchi larghi edito da Einaudi). “Uno scrittore deve esprimere critiche e indignazione per il lato oscuro della società”, ha detto una volta Mo Yan. E coerente con questo assunto, consapevole della autorevolezza e” intoccabilità” che gli conferisce il Nobel, all”indomani dell’annuncio della sua designazione , ha espresso l’auspicio che il Nobel per la pace, l’intellettuale e scrittore Liu Xiaobo, venga presto liberato. Arte del cerchiobottismo, ha commentato più di uno, ma intanto il messaggio nella bottiglia è stato lanciato.

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Le rane il nuovo romanzo del Nobel Mo Yan

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012

Dagli aborti forzosi alle feroci sperequazioni sociali. Ecco in anteprima i temi del nuovo libro firmato dal Premio Nobel per la Letteratura, che uscirà in Italia nel 2013

di Federico Tulli

Si intitola Le rane il nuovo romanzo di Mo Yan, e uscirà nel 2013 per Einaudi che pubblica in Italia tutte le opere del neo premio Nobel cinese, (eccezion fatta per l’autobiografia Cambiamenti in libreria nel 2011 per Nutrimenti). Protagonista del nuovo lavoro dello scrittore cinese è una vecchia zia che, giunta all’età di 77 anni, si trova a tracciare tra sé a sé un bilancio della propria vita, contando di aver fatto nascere 9983 bambini e di aver praticato migliaia di aborti, in ossequio alla politica comunista di controllo delle nascite.

Pubblicato in Cina nel 2009, questo romanzo ha aperto un acceso dibattito in un momento in cui la politica demografica imposta dal Partito comunista cinese comincia a essere messa in discussione in alcuni distretti, a cominciare da Shanghai. Come in molti altri romanzi di Mo Yan, anche in questa sua ultima uscita è una donna a giocare un ruolo di primo piano. Ne Le rane la voce narrante è una donna senza figli. Suo padre Wan era un medico dell’ottava Armata durante la guerra contro il Giappone, e lei dopo la laurea, diventa una specie di eroina locale, lavorando come infermiera e ostetrica. Ma i suoi rapporti con gli uomini non sono dei più felici: un bel pilota, suo fidanzato per un po’, mette in giro la voce che lei è «troppo rivoluzionaria, troppo seria … non abbastanza sexy».

E una donna senza un uomo accanto è guardata con sospetto nella Cina rurale. Così a poco a poco il partito diventa sempre più la famiglia di questa donna, ora determinata a bastare a se stessa. Dal 1965 la politica di controllo delle nascite le riserva un ruolo di primo piano. E quasi senza rendersene conto diventa una signora della guerra, che gestisce duemila aborti, fa innumerevoli vasectomie e chiusure delle tube e ha al suo servizio un giro di spie per scoprire gravidanze non autorizzate. Intanto i trattori sono all’erta per distruggere le case come rappresaglia, e per rendere inservibili le barche per impedire la fuga. E non si contano le donne che muoiono durante l’aborto.

Alla politica di regime si somma un’atavica misoginia: non avere un erede maschio per i contadini più poveri cinesi era ed è inaccettabile. «È davvero bizzarro – fa dire Mo Yan alla protagonista – quando una donna dà alla luce una figlia, il marito si presenta con un tale volto… Ma se la mucca partorisce una giovenca, la bocca si apre in un largo sorriso». Qui Mo Yan si ferma, alludendo soltanto ai tanti omicidi di bambine alla nascita, che avvengono nelle campagne cinesi per poter provare ancora ad avere un maschio. Tra le righe Mo Yan sembra voler dire che questa politica demografica era una necessità inevitabile per la Cina, ma solo un regime totalitario è stato in grado di imporre e eccessi così inaccettabili. «Perché la parola “neonati” e la parola “rane” nella nostra lingua sono pronunciate allo stesso modo?» si domanda la protagonista. «Perché il vagito di un neonato appena uscito dal grembo materno può sembrare molto simile al gracidare di una rana. La rana è un simbolo di fertilità , in molte regioni non mangiano le rane, perché sono animali amici del genere umano… chi le mangia rischia di diventare idiota». Questo romanzo parabola di Mo Yan allude, tra le righe anche al fenomeno delle madri surrogate a scopo di lucro: ne Le Rane una società di allevamento di rane è in realtà una copertura per un business di reclutamento e commercializzazione del corpo delle donne. Per soldi e disperazione. Come nel caso di una donna dal volto sfigurato da un incendio scoppiato in una fabbrica e che, ci racconta Mo Yan, è costretta ad affittare il proprio utero per pagare le spese mediche per il padre ferito e senza assicurazione sociale. Uno scenario che ci parla di una Cina economicamente rampante, ma dilaniata da feroci sperequazioni sociali. Mo Yan lo fa con uno stile meno appariscente, meno ricco di immagini, ma ritmato da dialoghi vivaci e, come sempre percorso dal suo spiazzante e imprevisto umorismo. Mo Yan ne Le Rane ci appare più distaccato, mantiene i personaggi a una certa distanza, senza darcene una descrizione fisica. Siamo ben lontani da un romanzo realistico o di surreale inchiesta (come accadeva invece ne Le sei reincarnazioni di Ximen Nao ) ma sa regalarci ancora pagine bellissime. Come quelle dedicate ai sogni dell’anziana protagonista.

Fonte:  Globalist/Babylonpost

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Paco IgnacioTaibo II: “Fort Alamo? Una colossale menzogna”

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 4, 2012

Ventisei film, produzioni Disney e migliaia di libri. Così è nato il mito della battaglia di Fort Alamo.  E il finto eroe David Crockett. Rilanciato da Nixon e Bush in chiave imperialista. Lo scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II svela cosa nasconde questa leggenda  

di Simona Maggiorelli

Paco Ignacio Taibo II

mito fondante, la pietra angolare degli Stati Uniti d’America è una formidabile catena di menzogne», scrive Paco Ignacio Taibo II a incipit di Alamo. Per la storia non fidatevi di Hollywood, appena uscito per Marco Tropea editore. Un libro che riporta alla luce la verità sulla battaglia di Alamo del 1836: uno scontro di un’ora e mezzo che per i texani fu una disfatta. Ma quell’episodio, poi reinventato ad hoc dalla propaganda statunitense, fu la base per le magnifiche sorti e progressive dei cowboys. Celebrato in pittura, a teatro, al cinema, «la battaglia di Alamo è l’episodio bellico più raccontato da Hollywood – ricorda Taibo – conta ben 26 film, fra cui uno, famosissimo, con John Wayne». E Walt Disney ne assicurò la futura memoria stampando nella mente di più generazioni di bambini la figura di David Crockett col cappello di pelo.

Le bugie, se ripetute all’infinito, è noto, possono passare anche per vere. Perfino agli occhi di chi le ha inventate. È accaduto così che una battaglia ingaggiata da avventurieri e mercenari sia passata alla storia come la conquista dell’indipendenza da parte del cattolicissimo Texas. Dopo sei anni di ricerche, fra storia e narrazione, in questo suo nuovo libro Paco Ignacio Taibo II ricostruisce, documenti alla mano, questa fraudolenta mitopoiesi. Lo fa con quella contagiosa e corrosiva passione per la revisione critica della storia che abbiamo apprezzato in tanti altri suoi lavori (a cominciare da Senza perdere la tenerezza, la sua biografia del Che).

David Crockett e il mito della frontiera selvaggia

Ad accendere la miccia della ricerca storiografica, in questo caso, è stato un incontro imprevisto. «Stavo scrivendo il libro su Pancho Villa – racconta Paco – quando ad Austin mi sono imbattuto in una serie di titoli sulla battaglia di Alamo. Un rapido controllo su Amazon, la più grande libreria online negli Usa, e ho scoperto che se ne potevano contare migliaia. Sul corrispondente latinoamericano di Amazon, invece, c’erano solo tre libri su tema. E lì – ammette Paco – è nata la domanda: cosa sapevo io di Fort Alamo? La risposta era imbarazzante. Sapevo solo ciò che ha raccontato Hollywood. Come scrittore latinoamericano, mi sono detto, sono un  irresponsabile». Da qui è nato Alamo ( tradotto in italiano da Pino Cacucci) che Paco Ignacio Taibo II è venuto a presentare in Italia nei giorni scorsi, passando da Pordenonelegge per raggiungere poi altre città. «A ben vedere è piuttosto bizzarro», osserva lo scrittore raccontando a left di questa sua nuova avventura letteraria. «Quando gli Usa hanno bisogno di ritrovare radici comuni non citano Washington che attraversa il fiume Delaware o il discorso di Lincoln a Gettysburg. Il richiamo di tutti è “Remember the Alamo”, la chiave del sogno americano. È considerato nella mitologia Usa il massimo esempio di coraggio, anche se non c’è niente di più falso». E in Messico come è raccontata quella vicenda? «Da noi è una storia poco nota, su cui si preferisce sorvolare. Anche perché l’impresa, pur vittoriosa, dell’esercito messicano fu un esempio di incompetenza e corruzione, con gli ufficiali che, per lucrare, vendettero i viveri ai loro stessi soldati».

Dunque che cosa hanno voluto coprire gli Stati Uniti attraverso una colossale fandonia? «La questione della schiavitù è centrale nella storia di Alamo come nell’indipendenza del Texas dal Messico», spiega Taibo. «La ribellione dei coloni nordamericani aveva due scopi: la speculazione su enormi apprezzamenti di terreno (aree desertiche che, spesso, venivano vendute a caro prezzo a ignari acquirenti di New Orleans e New York) e la difesa dell’orrenda pratica della schiavitù. La Costituzione messicana – sottolinea lo scrittore – vietava il commercio e lo sfruttamento di esseri umani. I coloni escogitarono lo stratagemma di far firmare agli schiavi dei contratti di lavoro che non prevedevano retribuzione. Un modo assai moderno…».

Come tristemente moderno è il metodo di manomissione della storia che è stato messo a punto con Alamo e poi più volte replicato dagli Stati Uniti. «È la storia di come si può sfruttare un evento storico fino al punto di riscriverlo totalmente», dichiara Taibo. «Basta vedere la storia dei tre protagonisti nordamericani: Travis, Bowie e Crockett. Prendiamo, per esempio, l’eroica morte di Travis sulle barricate, la verità è che era appena salito sugli spalti quando partì un colpo da un fucile messicano, che lo prese in piena fronte. Così ci siamo  giocati uno dei tre mitici difensori». E David Crockett, il grande cacciatore? «Un’altra falsa immagine», chiosa Taibo. «Chi decise di fare di Alamo un mito sapeva che ogni grande narrazione deve avere un eroe al centro e questo strano personaggio, che da vagabondo errante era riuscito a diventare senatore del Texas, sembrava perfetto per rappresentare l’autentico sogno americano. Subito fu reso caratteristico: chi non ha presente il giovane cacciatore con il cappello di procione con tanto di coda?». Inutile dire che anche quel dettaglio, centrale nell’immaginario, è inventato. «Ma ve lo vedete uno che combatte in Texas a 40 gradi con un cappello di pelliccia?»,  sbotta lo scrittore. «Fu un’invenzione Disney degli anniCinquanta e per poco i procioni non rischiarono l’estinzione per via del merchandising. Furono fabbricati 150mila cappelli l’anno e per ognuno serviva un animale. Li dovettero persino importare». Ma c’è dell’altro. Crockett, che nel mito cade portandosi nella tomba 30 soldati messicani, «in realtà si arrese subito e, portato di fronte al generale nemico, disse che era tutto un equivoco, che era un botanico e che passava di lì per caso. E questo sarebbe il grande eroe, signor Bush?!».

Prima del penultimo presidente americano, in realtà, ci aveva già provato Nixon a rilanciare Crockett, incarnato al cinema da John Wayne «in uno dei film più bassamente propagandistici della serie dedicata ad Alamo» commenta Taibo, che ricorda: «Stava per scoppiare la guerra in Vietnam e Nixon scelse di farne il canto bellico nazionale per mettere a tacere i giovani che protestavano in tutte le città. Per fortuna non funzionò: il film non piacque né al pubblico né alla critica, come dimostrò la disfatta agli Oscar del 1960». Ancora nel 2004 il produttore esecutivo Michael Eisner della Disney, presentando l’ennesimo The Alamo, disse che il film doveva cogliere lo spirito patriottico post 11 settembre. «Alamo rappresenta il cuore perverso degli Stati Uniti dell’idea reaganiana e bushiana dell’impero», denuncia lo scrittore. «L’ideologia neoliberista, che ha il mito dell’individualismo solitario, del “fare da soli”, del non compromettersi, del riuscire o fallire, è stata la più grande trappola per elefanti che l’Occidente abbia mai costruito. E non serve a far progredire una nazione». E come vede Paco Ignacio Taibo l’America di oggi? «Riconosco che negli Usa c’è anche una tradizione roosveltiana, che dialoga con il welfare scandinavo, il laburismo inglese e il socialismo europeo che, con tutti i suoi difetti, ha chiara un’idea: la funzione dello Stato è creare infrastrutture; cure agli anziani, salute, educazione di massa e gratis per tutti, reti che impediscano di crollare a chi è in difficoltà». Ma nello scenario globale c’è anche un altro fatto nuovo: l’America Latina sta vivendo un momento di eccezionale sviluppo. Tanto che c’è chi parla di un nuovo Rinascimento in Brasile, in Cile, di riscatto del Messico e altri Paesi. «Di recente ho partecipato a un dibattito tv su questo tema», racconta Taibo. «Un sociologo molto conservatore, di cui non farò il nome per non rilanciarlo, sosteneva che all’America Latina manca un mercato interno delle merci dopo il fallimento del Mercosur, che non ci sono infrastrutture. Ho atteso il mio turno e gli ho risposto con 9 parole: “Ma non è carina l’idea dell’America Latina?”. Lui, sorpreso, paonazzo, diceva che mancano comunicazioni transnazionali, catene tv continentali e giornali d’opinione di respiro ampio. Quando toccò di nuovo a me le parole furono ben 14: “Ma non è meravigliosa l’idea dell’America Latina del Che e di Bolivar?” A quel punto abbandonò lo studio lasciandomi unico padrone del microfono. E la cosa, come i compagni italiani sanno dopo vent’anni di Berlusconi, equivale ad avere il potere. Così cominciai un discorso che qui sintetizzo in un battuta: l’America Latina esiste e non è solo una questione di lingua comune, sia spagnolo o portoghese. Il Latinoamerica sta imponendo un modello di socialità diverso da quello finora vigente. Un certo Rinascimento si percepisce. In alcuni Paesi è evidente, in altri è ancora in costruzione. Abbiamo nemici comuni e sogni meravigliosi a cui abbiamo imparato a guardare insieme. E mi spiace per chi non lo vede. L’America Latina sta crescendo e non tornerà più indietro».

da left -Avvenimenti  29 settembre-5 ottobre

da left-avvenimenti 29 settembre 2012

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L’intifada creativa di Suad Amiry

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 2, 2012

Recuperare la storia del popolo palestinese restaurando antichi villaggi. E trasformare costruzioni armate israeliane in spazi pubblici per tutti. Suad Amiry racconta il suo ventennale lavoro per decolonizzare la sua terra

 di Simona Maggiorelli

Suad Amiry

Decolonizzare la Palestina, a partire dall’architettura. E’ il progetto a cui lavora con passione, da più di vent’anni, l’architetto e scrittrice Suad Amiry. Con un obiettivo: non aggiungere distruzione a distruzione. E nemmeno altro cemento alla già soffocata Ramallah, che boccheggia senza un alito di verde. Il punto cruciale per Amiry- conosciuta in Italia soprattutto per i suoi  romanzi e la forza dei dei suoi libri inchiesta – è dare nuova vita all’architettura palestinese, agli anonimi palazzi cittadini costruiti negli anni Novanta, ma anche alle abitazioni fortificate israeliane, immaginando parchi giochi al posto di basi militari e centri di aggregazione sui tetti delle colonie in disuso.

Così, quelli che erano avamposti coloniali e torri di controllo militare sulla striscia di Gaza, nell’idea di Amiry e di un gruppo di giovani architetti che si va sempre più allargando, potrebbero diventare spazi pubblici, collettivi, aperti a palestinesi e israeliani in un orizzonte di pace, di convivenza di due popoli e due Stati.

Un sogno che ha assunto i contorni di un’utopia per chi ancora aspetta che vengano rispettati gli accordi di Oslo del 1993 «quando, dopo aver elaborato la dolorosa perdita della propria terra, i Palestinesi accettarono formalmente lo stato Israele: cosa che – sottolinea Amiry –  gli israeliani non hanno mai fatto». Fu così che, preso atto del dislivello di forze («loro hanno uno degli eserciti più forti al mondo, noi solo i sassi») Suad cominciò a cercare un modo per reagire a una colonizzazione israeliana che, di fatto, non ha mai smesso di avanzare. L’idea fu non costruire nulla. Un’idea alquanto insolita per un architetto. Specie per lei, con in tasca un Ph.D dell’nversità del Michigan e un dottorato a Edimburgo: «L’architetto urbanista, mi avevano insegnato, come Deus ex machina, doveva decidere ospedali, scuole, case , fabbriche…tutto molto ordinato e razionale».

Ma puntare sul recupero non è stata soltanto una scelta dettata dalla realtà effettuale. «Ristrutturare, riorientare restaurare ha a che fare con la memoria, con l’esigenza di riappropriarci della nostra storia che l’occupazione israeliana cerca di cancellare», ribadisce la scrittrice che proprio di rapporto fra paesaggio e memoria ha parlato il 5 agosto al neonato Cortona Mix Festival. «Non a caso – nota – uno dei primi gesti che fecero i coloni israeliani fu distruggere 250 nostri villaggi».

Rileggere la storia è importante per capire il presente, non cessa di ripetere Amiry .Nata a Damasco perché la costituzione dello Stato di Israele aveva costretto la sua famiglia a lasciare Jaffa («Tra il  1947 e  il 1948, 850mila palestinesi furono cacciati dalle loro case, fra cui anche la mia famiglia» ) da intellettuale militante dell’Olp di Arafat ha fatto parte della delegazione palestinese ae Nazioni Unite.

Tuttavia la sua visione politica, laica e lungimirante, si è espressa soprattutto in vent’anni di direzione del Riwaq Center for Architectural Conservation di Ramallah, un lavoro svolto in parallelo all’insegnamento all’Università di Birzeit . Ma a questo punto si apre un altro avvincente capitolo della avventura intellettuale di Suad Amiry, quello della scrittura.

«Durante estenuanti giornate di coprifuoco nel 2003 – ricorda – mi ritrovai non solo senza poter lavorare, uscire, né fare alcunché, ma anche costretta a ospitare mia suocera che altrimenti sarebbe rimasta isolata. Il risultato fu in pratica una doppia occupazione, esterna e interna. Di notte cercavo scampo scrivendo mail disperate agli amici. Luisa Morgantini, a mia insaputa, fece leggere le mail che le avevo inviato a Feltrinelli.

Fu così che d’un tratto, a 55 anni, mi ritrovai scrittrice. E- aggiunge Suad divertita- invitata in tanti paesi stranieri, non per raccontare dei miei bei progetti di architettura, ma di Sharon e mia suocera, che compaiono anel titolo del mio primo libro». Nei libri Suad ha potuto così mettere a valore lo humour che da sempre la contraddistingue nella vita.

«Per chi, come noi palestinese, vive un’occupazione militare da quarant’anni, l’ironia è un’arma necessaria per fare i conti con le difficoltà del quotidiano. Diventa uno strumento di sopravvivenza indispensabile. Quando la realtà è troppo opprimente, solo così puoi comunicare ciò che sarebbe altrimenti insopportabile». Sul filo dell’ironia si muove anche Niente sesso in città (Feltrinelli, 2007) che Amiry scrisse dopo la vittoria di Hamas raccontando le vicende tragiche e esilarante di un gruppo di signore negli “anta” per stigmatizzare i dogmi di un “partito islamizzato che ha segnato la sconfitta delle donne palestinesi”.

Su un versante più di inchiesta si muovono invece libri come Se questa è vita (2005), che racconta la vita sotto l’occupazione e il potente Murad Murad (2009), in cui l’autrice ripercorre una giornata passata con quei palestinesi ostracizzati da Gerusalemme che si fingono israeliani per poter continuare a lavorare, alzandosi alle tre del mattino e senza la certezza di tornare a casa sani e salvi.

«E’ stata un’esperienza scioccante – confessa Suad – vedere la violenza che c’è nel negare ogni possibilità a chi ti implora di farlo lavorare.

E’ inaccettabile il ricatto, l’umiliazione. Ma nonostante i divieti di Sharon che nel 2000 decise di espellere i lavoratori palestinesi, ogni giorno , nonostante i “tu sei un nulla” e i “tu non devi esistere”, queste persone tornano a riproporsi. Andare a tirar su le case dei coloni in cui non potrai entrare è durissimo.. E questo ti fa toccare con mano la capacità di resistenza dei palestinesi. Noi non abbiamo per nulla voglia di essere eterne vittime».

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La rivolta spagnola

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 8, 2012

Una nuova generazione di scrittori spagnoli scava nelle questioni più scottanti del presente, dalla crisi del Psoe ala precariato, all’invadenza della religione. “Tutti i monoteismi sono per definizione intolleranti”, dice Ricardo Menendez Salmon

di Simona Maggiorelli

Un serial killer, lucidissimo e freddo, è al centro del nuovo romanzo Derrumbe  (Marcos y Marcos) che lo scrittore Ricardo Menéndez Salmón presenterà il 13 maggio al Salone del libro. Nel folgorante L’offesa che nel 2008 ha rivelato lo scrittore e filosofo spagnolo al pubblico italiano il protagonista è invece un sarto, il solerte Kurt Crüwell, che, arruolato da Hitler si getta nella guerra con slancio. Fino a perdere ogni sentire. E «una gelida mattina Kurt non vede più in faccia l’orrore»: La perdita delle emozioni come perdita di ciò che è più umano è un tema che percorre carsicamente molta parte dell’opera di Salmón. Insieme al tornare a interrogarsi sull’orrore nazista e su come sia potuto accadere.
«Il nazismo è stato una tragedia troppo grande e complessa perché io possa diagnosticarne le cause» dice Salmon. «Gli artisti che l’hanno patito in prima persona come Primo Levi hanno detto che, in realtà, non si riesce a raccontare lo sterminio. Le categorie razionali e la lingua stessa non riescono a dire un tale abisso. Personalmente quello che più mi spaventa del nazismo è la sua ideologia e quel suo ridurre il soggetto ad oggetto, l’essere umano a cosa. I nazisti uccidevano uomini, donne o bambini, come fossero figure, pupazzi, bambole».
Ne Il correttore (2009) lei ripercorre e indaga il pensiero delirante alla base dell’attentato di matrice islamica del 2004 a Madrid. Cosa c’è dietro stragi di questo genere?
Le religioni monoteiste sono, per definizione, intolleranti. Alla base c’è una contraddizione paradossale. Il termine “tolleranza religiosa”, pronunciata da un ebreo, da un cristiano o un musulmano, in pratica è un ossimoro. Nelle differenti Chiese c’è chi cerca di camminare sul filo della dialettica non cadendo nel fondamentalismo. Ma in effetti il discorso degli integralisti religiosi è più coerente con la loro fede. I fondamentalisti islamici che hanno fatto esplodere i treni a Madrid hanno rivendicato un attentato contro gli infedeli; Breivik è un razzista, fondamentalista cristiano che pretendeva di salvare l’Europa dall’invasione islamica. L’essenza ultima della religione si rivela qui come la pazzia di anteporre un’irrazionalità malata all’ intelligenza.
Sempre ne Il correttore lei mette insieme la cronaca dell’attentato dell’11 marzo del 2004 e il vissuto del protagonista, Vladimir, che sta correggendo le bozze de I demoni di Dostoevskij quando l’orrore irrompe dalla tv. Il romanzo permette di andare più in profondità nella lettura dei fatti?
La mia intenzione era mostrare che chi maneggia i discorsi, detiene un potere, ha la possibilità di rimodellare la realtà. E ha a portata di mano l’opportunità di proporre una realtà diversa, o addirittura falsa con effetti sul futuro. Detto questo, mi rendo conto che la letteratura in generale e il romanzo in particolare, hanno un potere enorme. Partendo da un artificio, da una convenzione, da una bugia (la finzione), può far in modo che i fatti raccontino la loro verità.
In quale direzione guarda oggi la nuova letteratura spagnola?
Gli scrittori spagnoli hanno ripensato in profondità la guerra civile e i decenni del dopoguerra, e si deve ancora fare molto. Ma capisco che le giovani generazioni, quelle degli scrittori nati negli anni 70 o 80, stiano cominciando a trovare questi temi un po’ stanchi. Per troppo tempo, l’equazione Spagna=Guerra civile ha condannato la nostra letteratura ad essere una sorta di riserva culturale del dramma che ha avuto inizio nel 1936. Mi pare comprensibile che gli scrittori comincino a guardare anche altrove. Oggi ci sono questioni scottanti sul tavolo dello scrittore, dal fallimento del welfare ai diritti dei lavoratori, sotto il ricatto del precariato e di nuove forme di sfruttamento
La protesta degli indignados ha dato una scossa, perché la sinistra non ha saputo dare una risposta politica?
In piazza c’era gente dai 20 ai 60 anni: lavoratori, universitari, esponenti della classe media, persone provenienti da ambienti culturali molto diversi. Non è stato un movimento apolitico ma apartitico. Questo in parte spiega perché la sinistra non ha preso i voti di questo vasto malcontento. A parte Izquierda Unida, la cosiddetta sinistra in Spagna è un blocco monolitico (il Psoe) più vicino a un liberalismo moderato che a un socialismo vero. L’ottimismo rampante è stato il motore della democrazia sociale spagnola per anni. E ora la sinistra “ufficiale” ha pagato il prezzo del disincanto e dei suoi errori. Il loro esercizio di ipocrisia è stata davvero notevole.

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Riscossa romena al Salone del libro

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 5, 2012

In barba alla crisi economica, a Bucarest e in altre regioni del Paese, fiorisce una nuova stagione letteraria. Decine di scrittori uniscono la fantasia alla riflessione politica. In una lingua che- dice Norman Manea – ha saputo resistere agli sfregi fascisti e alla vuota reorica dell’apparato comunista

di Simona Maggiorelli

 

Liliana Lazar

Liliana Lazar

La Romania, insieme alla Spagna, è il paese ospite del Salone del libro 2012, dal 9 al14 maggio. E chissà se i media italiani finalmente coglieranno questa buona occasione per abbandonare l’atteggiamento di razzismo strisciante, restituendoci l’immagine di una delle nazioni letterariamente più fertili d’Europa, quale è la Romania oggi. Con una nuova generazione di scrittori trenta e quarantenni che sa unire la tradizione letteraria alta di Cioran, Celan e Ionesco con l’ innovazione, che sa mettere insieme la fantasia di narrazioni epiche e visionarie con l’urgenza politica di riflettere sulle ferite lasciate dal regime di Ceausescu. Come testimoniano gli stessi romanzi del premio Nobel Herta Müller, di cui Feltrinelli sta meritoriamente pubblicando l’intera opera. Le piccole e medie case editrici italiane, più agili e creative – va detto – se ne erano accorte già da tempo. Quando in Italia la Müller era ancora sconosciuta, il suo Una mosca attraversa un bosco dimezzato fu pubblicato da Fuoricampo e una sua novella da Avigliano. Ma soprattutto, da una manciata di anni, nelle librerie italiane si segnalano alcune delle migliori opere della cosiddetta nuova onda romena, dall’immaginifica Crociata dei bambini (Isbn) di Florina Ilis, al caustico e surreale Dita mignole (Fazi)  di Filip Florian  fino al grottesco Il paradiso delle galline (Manni)  di Dan Lungu.

E sarà proprio il quarantatrenne Lungu, docente universitario e autore di sferzanti tragicommedie sulla dittatura, ad aprire la serie di incontri torinesi sulla Romania, insieme a Doina Rusti – che con il suo Zogru o 500 anni di solitudine (Bonanno) ha sfidato Gabriel Garcia Marquez , e a Liliana Lazar , autrice del fiabesco Terra di uomini liberi (Marco Tropea) in cui la giovane scrittrice che vive in Francia traccia un potente ritratto della Romania, terra dalla bellezza incantata e selvaggia e insieme labirinto di orrori di regime.

Mircea Cartarescu

Mircea Cartarescu

Ricordando che i poeti sono stati «i polmoni con cui ha respirato il popolo romeno mentre l’aria della libertà si faceva sempre più rarefatta», come dice lo studioso Corrado Bologna, ampio spazio al Lingotto sarà dato anche alla poesia, con Ana Blandiana e un esponente della nouvelle vague romena come Mircea Cărtărescu, di cui Voland ha appena pubblicato  i racconti nel volume Nostalgia.

Fiero oppositore di Ceausescu, un grande intellettuale laico e umanista come Norman Manea (nato nel 1936 nel Nord della Romania) aveva cominciato a riflettere sulla necessità dell’esilio e sul fallimento degli intellettuali nella dittatura già negli anni Sessanta e in libri che sono ormai dei classici come Clown. Il dittatore e l’artista (Feltrinelli, 1994). Dal 1986 Manea vive a New York e insegna European Culture al Bard College, ma ancora oggi sentendosi un alieno, un outsider, nella società americana. Lo racconta nel libro intervista Conversazioni in esilio che esce il 10 maggio in Italia per Il Saggiatore e che l0 l’autore presenterà a Torino l’11 e il 12 maggio insieme al saggio Al di là della montagna, dedicato al poeta ebreo di origine romena Paul Celan e a Benjamin Fondane, scrittore e pensatore tedesco, deportato e ucciso ad Auschwitz.

«Tutto negli Stati Uniti mi ha sempre fatto sentire estraneo», racconta Manea a Hannes Stein, che lo ha incontrato a New York nel 2010 raccogliendo tre giorni di conversazioni. «L’America è proprio come un’isola: è a tutti gli effetti isolata» continua lo lo scrittore, «è provinciale e al tempo stesso può credere di essere una superpotenza!». Ma bersaglio del grande umanista è anche il linguaggio americano «stupido e tronfio che si esprime per categorie sportive e militari». Lui, in esilio, diversamente da Cioran e Ionesco, ha sempre continuato a scrivere in romeno come “lingua interiore” dell’infanzia, per quanto passata nei lager della Trasnistria dove fu internato dal governo filofascista romeno. Ma anche perché, dice Manea, la lingua romena ha saputo resistere agli sfregi fascisti e alla vuota retorica dell’apparato comunista. E quando l’intervistatore gli chiede: qual è la frase americana che le incute più timore? «“Nulla di personale”», risponde a bruciapelo Manea. «È uno slogan che qui si sente spesso. “Lei è licenziato. Nulla di personale”. Ma come potrei non considerarlo come qualcosa di personale?». Così l’ex ragazzino sopravvissuto al lager e che al liceo fu affascinato dall’utopia comunista e dal sogno dell’uomo novo, per poi, subito, dissociarsi dal regime romeno-stalinista, oggi non risparmia critiche al capitalismo selvaggio americano e alla sua perdita di umanità, raccontando senza accenti moralistici come «eros e malattia giocano a nascondino nei campus puritani» in cui vige ancora il mito di una America paese della libertà sfrenata, mutuato dal ‘68 e declinato alla maniera di Reagan. Ancora una volta andando controcorrente, a costo di attirarsi gli strali della stampa ufficiale. In America come in Romania, dove una certa intellighenzia diventata nazionalista dopo la fine di Ceausescu ancora non gli perdona di aver smascherato una gloria nazionale come Mircea Eliade, ricostruendone la diretta militanza nel gruppo fascista della Guardia di ferro.

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