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Posts Tagged ‘Salvatore Settis’

Il sacco del patrimonio d’arte italiano

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su gennaio 29, 2010

Gli Anni zero dei beni culturali. Dieci anni di svendite e musei al collasso

pubblicità beni culturali

di Simona Maggiorelli

Dieci anni vissuti pericolosamente, sperperando, divorando, distruggendo la competenze sulla tutela dei beni culturali italiani. Che dall’era Craxi in poi – mercè una pensata dell’allora ministro Gianni De Michelis – sono diventati «giacimenti culturali» o, a scelta, «petrolio d’Italia». Figlia di quella mentalità predatoria fu la famigerata Patrimonio spa ideata da Giulio Tremonti nel 2002 per cartolarizzare e dismettere pezzi consistenti del nostro patrimonio (su cui scrisse un acuminato libro Salvatore Settis).

Poi sarebbero venuti i condoni e i ventilati archeocondoni (sempre targati Berlusconi). Ed eccoci a questo fine 2009 in cui, puntuale come sempre, il governo del premier fa cadere la mannaia sui finanziamenti e, di soppiatto, fa sparire gioielli di famiglia. Il fondo per i beni culturali è stato tagliato del 23 per cento rispetto al 2008 mentre si prevede che il taglio per il prossimo triennio sarà di oltre un miliardo di euro. In attuazione della legge delega sul federalismo fiscale (n.42/2009), intanto, il governo si appresta a dare il via libera alla vendita di alcuni beni di «scarso rilievo nazionale». In questo modo, per esempio, beni del demanio marittimo e assoggettati a vincolo storico, artistico e ambientale potranno essere venduti se, entro trenta giorni, il ministero non riconoscerà loro una rilevanza nazionale. «Quello che il governo si appresta a varare è un colpo durissimo al nostro patrimonio» denuncia Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra.

Ma sotto l’albero di Natale il governo Berlusconi ha messo anche un “regalino” per i restauratori che dal 2010 dovranno essere iscritti a un albo. Peccato che a quel “club” possa iscriversi con certezza solo il cinque per cento degli operatori del settore: ovvero chi abbia in tasca un diploma dell’Opificio delle pietre dure di Firenze e di altri due prestigiosi istituti di Roma e di Ravenna. In questo fine anno, così, si comincia a delineare il funesto bilancio di una politica culturale di centrodestra che ha scambiato la valorizzazione del patrimonio per un fatto di marketing e che tratta l’archeologia come un cataclisma, ovvero una questione emergenziale da Protezione civile. La mortificazione delle competenze nelle soprintendenze negli ultimi anni ha subito una continua escalation (come se l’Italia non potesse vantare una delle più alte tradizioni di studi nella campo della tutela).

spot Mibac

Ma procedere a colpi di commissariamenti come ha fatto il governo Berlusconi, con tutta evidenza, non paga. Prova ne è il calo di visitatori del 12 per cento registrato nel 2009 nel polo archeologico di Pompei (vedi il Rapporto 2009 di Federculture). Né maggior profitto ha prodotto l’aver messo il polo archeologico di Roma e Ostia Antica sotto il commissariamento gestito dal capo della Protezione civile Guido Bertolaso. Ma si è rivelata un diasastro – come del resto c’era da aspettarsi – anche la valorizzazione dei beni culturali che il ministro Sandro Bondi ha affidato al super manager Mario Resca: le sparate sugli hotel della cultura dell’ex quadro dirigente di McDonald’s e i suoi propositi dichiarati di voler fare dell’Italia «l’Eurodisney dell’arte» si scontrano con il fatto che, nonostante la crisi, secondo il nuovo studio di Federcultura, la domanda culturale delle famiglie italiane nel 2009 è aumentata riguardo a teatro, concerti e musei ma non ha trovato incentivi in risposta.

Così, mentre Obama nel suo pacchetto anticrisi ha inserito investimenti a favore dell’arte (nonostante negli Stati Uniti i musei siano per lo più a gestione privata), per portare più visitatori nei musei italiani (gli Uffizi è solo il 23esimo nella classifica mondiale) il nostro ministero, con Resca, non trova di meglio che aumentare i ristoranti interni «facendone dei locali dove si va indipendentemente dalla visita alla collezione». Federculture segnala anche una sensibile perdita di attrattività delle nostre città d’arte (-6,9 per cento) e il precipitare dei musei italiani nella graduatoria internazionale dei più visti. E mentre il ministro Bondi ora deve vedersela anche con la faccenda di tre milioni e duecentomila euro sborsati per un Michelangelo su cui si addensano dubbi di autenticità, Resca fa un’altra pensata delle sue e, allo scadere dei suoi primi 100 giorni, vara una campagna pubblicitaria per «portare gli Italiani a riscoprire il patrimonio artistico del nostro Paese e invertire il trend negativo dei visitatori». Sul cartellone campeggiano delle gru che smantellano il Colosseo. Sopra compare la scritta: «Se non lo visiti lo portiamo via».

da Left-Avvenimenti 23 dicembre 2009

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Giorgione, tra realtà e mito

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

giorgione, tempesta

Di lui non esiste firma riconosciuta come autografa e i documenti ufficiali che lo riguardano sono pochissimi. Tanto che se non fossero stati ritrovati quelli relativi a un’opera (andata perduta) che gli fu commissionata nel 1507 per Palazzo Ducale o i contratti che riguardano gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di cui La nuda è uno dei pochi lacerti superstiti, «Giorgione potrebbe tranquillamente non esser mai esistito».

Ad affermarlo, non troppo provocatoriamente, è il direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci nel catalogo Skira che accompagna la mostra Giorgione. Dipinti e misteri di un genio (dal 12 dicembre all’11 aprile nel Museo Casa di Giorgione a Castelfranco Veneto). Ricordandoci che anche la morte prematura del pittore, a poco più di trent’anni a causa della peste che colpì Venezia nel 1510, è riportata solo da una lettera di Isabella d’Este a un suo faccendiere attraverso il quale aveva sperato di ottenere una a noi sconosciuta «pictura de una nocte» del geniale artista.

Ma per amore verso la straordinaria arte di Giorgione e volendo dare un po’ di fiducia ai cronisti del Cinquecento (Vasari compreso), ripercorriamo qui anche la tradizione che vuole Giorgio Zorzi da Castelfranco nato nel 1477 (o al più un anno dopo) da una famiglia povera e presto andato a farsi le ossa nella bottega di un pittore affermato come Giovanni Bellini. Tra le fonti che riportano questi scarni dati biografici, il Ridolfi, in particolare, sostiene che dopo un breve apprendistato Giorgione scelse di non legarsi a una bottega precisa ma di darsi le possibilità che apre l’essere “mobile” e indipendente.

Giovane, di bell’aspetto, abile nella musica, il pittore che avrebbe rivoluzionato il modo di dipingere  aprendo la strada alla pittura tonale, non ebbe difficoltà a inserirsi nella vivace vita culturale delle élite veneziane. Lungo questa via, Lionello Puppi che – assieme a Paolucci e a Enrico Maria Dal Pozzolo – ha curato la grande mostra di Castelfranco Veneto, ricostruisce nel catalogo Skira lo “spregiudicato” milieu culturale in cui Giorgione operò, stimolato da committenti provenienti dalla ricca e laica borghesia mercantile di Venezia e dalla comunità tedesca che viveva nella città lagunare (da qui il fertile contatto che l’artista ebbe con la grafica nordica e l’inquieta pittura di Dürer).

Giorgione, autoritratto

Senza dimenticare, fra i committenti che si rivelarono importanti per il lavoro di Giorgione, anche figure come il cardinal Domenico Grimani che con ogni probabilità gli fece conoscere alcune opere di Leonardo. E che la geniale ricerca leonardiana sullo sfumato avesse profondamente colpito il giovane pittore, tanto da spingerlo lungo quella strada a trovare una propria originale cifra stilistica, ne è prova evidente un capolavoro come La tempesta. Dipinto criptico quanto affascinante, eccezionalmente prestato (vista la sua fragilità) dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia per questa rassegna che, in occasione dei cinquecento  anni dalla morte del maestro di Castelfranco, raduna gran parte dell’esiguo corpus delle sue opere giunto fino a noi.

In questo quadro, come del resto nel cosiddetto Tramonto proveniente dalla National Gallery di Londra, si coglie tutta la portata della rivoluzione coloristica che il pittore veneto realizzò adottando un atteggiamento sperimentale verso la natura analogo a quello di Leonardo: il movimento continuo degli elementi, la fusione atmosferica delle forme e la potenza espressiva del colore ne La tempesta fanno sì che la natura stessa diventi protagonista, restituendo il vissuto emotivo dei personaggi e indirettamente quello dell’autore. Tanto da spingere lo spettatore a “tuffarsi “in questo paesaggio inquieto e vibrante distogliendolo dalla decifrazione razionale dell’episodio qui rappresentato.

E sul quale, tuttavia, sono stati versati fiumi d’inchiostro. Senza che la critica d’arte e gli studi di iconologia siano mai arrivati di fatto a una lettura certa e definitiva. Nei secoli si è parlato di allegoria alchemica, di idillio bucolico, di ermetico gioco mitologico. E più in dettaglio di raffigurazione di episodi delle Metamorfosi di Ovidio oppure della Tebaide di Stazio. E se Marcantonio Michiel nel Cinqeucento aveva parlato de «la zingara e il soldato», secondo Schrey agli inizi del Novecento i due protagonisti del quadro erano i progenitori dell’umanità scampati dal diluvio universale. Per arrivare poi a Salvatore Settis che nel celebre saggio La tempesta interpretata (Einaudi) legge le due figure come Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden.

Ma forse, con Antonio Paolucci oggi potremmo finalmente dire che è il temporale il vero protagonista della tela e non inteso come mera descrizione di un banale evento atmosferico. Quello che vediamo, scrive il curatore della mostra castellana «è un temporale d’estate nella campagna intorno a Castelfranco, con le nuvole nero-grigio-viola che ruotano nel cielo fattosi improvvisamente buio, con il vento che squassa le chiome degli alberi e il fulmine che tocca di una luce livida e spettrale le mura del borgo» Una natura che è sì «vero visibile» ma che nelle sue epifanie e metamorfosi qui sembra evocare piuttosto “una tempesta emotiva”, o meglio l’inquieto vissuto emotivo che l’autore regala ai due enigmatici protagonisti. «Un temporale d’estate protagonista del quadro, come molti secoli dopo lo sarà la montagna Sainte Victoire per Cézanne o  come saranno le Ninfee per Monet. Con questo – precisa Paolucci – non si vuol dire che Giorgione è precursore dell’impressionismo. Si vuol dire semplicemente che la modernità nelle arti visuali incomincia anche con La tempesta». Certo è che in questa opera, come nel Tramonto o come accadeva già nella Pala di Castelfranco, Giorgione supera completamente la prospettiva rinascimentale che costruiva il paesaggio in modo architettonico. E in quell’impasto sfocato e nella tessitura continua della pittura senza disegno come è quella di Giorgione (diversamente da quella di Leonardo) si legge un’immagine latente mutevole e viva, diversissima dalla durezza smaltata della pittura quattrocentesca che prima di lui era ancora dominante nell’area veneta. La pittura tonale di Tiziano, Veronese e Tintoretto sarebbe venuta dopo.

da left-Avvenimenti 11 dicembre 2009

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Giorgione, le meraviglie dell’arte

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 10, 2009

di Simona Maggiorelli

Giorgione Danae

VENEZIA. Solo nove opere. Ma che, nella loro misteriosa essenzialità, formano un potente iato nella catena di capolavori delle Gallerie dell’Accademia. Dopo ori bizantineggianti , dopo le addensate tele di Carpaccio pullulanti di figure in ordinate cornici architettoniche, dopo il trionfo della luce nella pittura tonale di Veronese e la teatralità drammatica di Tintoretto, nell’ultima sala – poco prima dell’uscita, come in una bolla – si apre il potente silenzio delle tele di Giorgione.

Un silenzio denso di segni inquieti, difficili da decifrare, nella celebrata Tempesta. La silenziosa ma fremente presenza femminile della Laura di Vienna. L’intensità dello sguardo muto con cui la splendida Vecchia con in mano un cartiglio su cui è scritto “Col tempo” sembra invocare clemenza per i segni che la vita le ha lasciati incisi sulla pelle. Ma soprattutto, a incipit della mostraGiorgione. Le meraviglie dell’arte” curata da Giovanna Nepi Scirè, il magnetico silenzio che emana dalla Pala di Castelfranco di recente restaurata nei laboratori dell’Accademia e con la supervisione dell’Opificio delle pietre dure di Firenze.

Protetta in una teca climatizzata e illuminata da luci laterali, la Pala sembra venire incontro allo spettatore: il restauro ha restituito una radiosa luminosità ai colori. Liberata dalla patina grigia, la Madonna in trono si staglia con un’evidenza monumentale, come se fosse tridimensionale scultura, invece che pittura. Mentre la misteriosa verticalità che Giorgione dette alla struttura allungata del trono, ancor più, sembra dare a tutto il complesso un moto ascensionale. Potenza d’immagine e allusività criptica del messaggio. Qui allo zenit, nella tristezza che vela lo sguardo della Madonna, in contrasto con il chiarore albeggiante del paesaggio che si apre alle sue spalle. Quella speciale mistura di evocatività, intimismo, scandaglio interiore che fin dai tempi del Vasari ha contribuito a dare al pittore di Castelfranco Veneto un allure romantica e di mistero, qui c’è tutta. Un’aura di intrigante segretezza , non solo determinata dalle poche notizie biografiche che abbiamo su Giorgione, prematuramente scomparso a 33 anni nell’epidemia di peste che colpì Venezia nel 1510, ma anche, e soprattutto, dettata dalla complessità delle sue rare opere ( il catalogo di Giorgione raggiunge appena il numero di venticinque ), dalla genialità di immagini che, in tempi in cui le ragioni della committenza pesavano parecchio, riuscivano ad essere libere dalla rigidità e dalle imposizioni del canone.

Giorgione, i tre filosofi

Rafforzano questa tesi l’incontro dal vivo con queste nove opere di Giorgione per la prima volta in sequenza, ma anche, sul piano degli studi, i tre importanti contributi pubblicati nel catalogo edito da Marsilio. Approfondendo lo studio dei pochi documenti esistenti e rigettando l’ipotesi di un incontro fra Giorgione e Leonardo a Venezia, Antonio Gentili tratteggia l’immagine di un pittore geniale e isolato, dedito a studi di astrologia, poco propenso a dirsi integralmente cattolico e per questo lasciato ai margini dalle grandi commissioni ecclesiastiche , che il più giovane Tiziano, invece, riusciva a raccogliere a piene mani. Un profilo di artista appartato, tormentato, anticonformista, che richiama la figura del ragazzetto scalzo appoggiato a una roccia fuori dalla città murata dell’unico disegno autografo rimasto, prezioso prestito del museo di Rotterdam alla mostra veneziana. E’ soprattutto alla luce dei nuovi esami radiografici dei “Tre filosofi” di Vienna che Gentili rafforza i suoi convincimenti. Sotto la versione definitiva del quadro ora a Venezia affiorano segnali astrologici e più nette connotazioni dei tre personaggi come patriarchi e simboli delle tre religioni monoteistiche, l’ebrea, la cristiana e l’islamica, da Giorgione poste pariteticamente sullo stesso piano, equiparate nel grado di importanza, e tutte ugualmente giudicate prossime a un epocale tracollo. Più forzata e capziosa – come ha notato per primo Antonio Pinelli – appare invece la seconda parte del saggio di Gentili, là dove ipotizza un Giorgione filo ebreo, contagiato da una visione saturnina e apocalittica derivata da una certa committenza ebraica. Se è vero come è vero che tutta l’opera di Giorgione è pervasa da una sottile inquietudine, da un allusività drammatica, da un rigorismo morale interiorizzato e forte, con Bernard Aikema la seconda delle tre firme in catalogo, viene piuttosto da ascriverla al rapporto continuo che Giorgione ebbe con pittori e incisori tedeschi.

Giorgione, ritratto Ludovisi

E in particolare con la pittura di Durer che fu a Venezia dal 1505 al 1507. Dal rapporto con l’opera del tedesco sicuramente nacque il potente autoritratto che Giorgione realizzò dipingendosi come un David saturnino, con uno sguardo bruciante di malinconia .Un timbro di struggente malinconia che Salvatore Settis indaga ora nella Pala di Castelfranco, per la prima volta arrivando a darle una data certa , il 1504, l’anno in cui morì giovanissimo Matteo Costanzo, soldato e rampollo di una famiglia nobile siciliana stabilitasi a Castelfranco. Il padre Tuzio commissionò la Pala a Giorgione, prova ne è la presenza dello stemma di famiglia che campeggia sul quadro. A partire da questa attestazione Settis rilegge il trono della Madonna come sarcofago di porfido, simbolo regio in Sicilia e in questo caso precisa allusione al titolo di viceré di Cipro che Tuzio Costanzo poteva vantare, sperando prima o poi di poter tornare a mettere le mani sui propri possedimenti. E proprio in questa chiave funebre, Settis spiega lo sguardo di tristezza che si accende sul volto della Madonna e del bambino.

Ma le novità e le scoperte di questa preziosa mostra di Giorgione ( in attesa di un’antologica che fin qui non si è potuta realizzare per difficoltà di prestito e rischi eccessivi nel trasporto delle opere ) riguardano anche inaspettati ritrovamenti, come quello del “Putto alato”, un frammento della facciata del Fondaco dei Tedeschi, a cui Giorgione lavorò nel 1508, a due anni dalla morte, e del quale si credeva fosse rimasta solo la diafana immagine della “Nuda”, energica e tondeggiante figura femminile senza volto, di cui oggi si intravedono solo i solidi contorni. Messi l’uno accanto all’altro, due preziosi tasselli di un tutto purtroppo andato irrimediabilmente perduto. Ma qualcosa della libertà e della leggerezza delle immagini che una volta campeggiavano sulle pareti del Fondaco veneziano affrescato da Giorgione ci arriva attraverso la figura in dissoluzione di questo putto che si arrampica su un ramo rigoglioso di frutti. Si sapeva che era stato acquistato da Ruskin nella seconda metà dell’Ottocento, ma poi se ne erano perse le tracce, fino alla recente ricomparsa in una collezione privata. Altra nuova acquisizione, il “Cristo portacroce” della Scuola Grande di San Rocco che dopo anni di accesi dibattiti è stato definitivamente sussunto al ridottissimo catalogo di Giorgione. Un Cristo malinconico e dolcissimo, immagine sfumata per la stesura sottile del colore ma anche per le tante mani di devoti che vi si sono posate sopra, visto che la tela per molto tempo rimase collocata sul pilastro dell’abside.

La mostra, nella Galleria dell’Accademia, resterà aperta fino al 22 febbraio 2004. Poi “La tempesta” e “La vecchia”, per quattro mesi saranno esposti al Kunsthistorisches di Vienna.

Dal quotidiano Europa, 12 novembre 2003

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Il saccheggio dell’archeologia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2009

Complici le case d’aste e certa politica. 25mila opere ritrovate , un milione di pezzi ricettati, ladri e mercanti che agiscono indisturbati. Le pagine più nere del patrimonio archeologico italiano raccontate da Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira)


di Simona Maggiorelli


maschera di avorio II sec a.C.

maschera di avorio II sec a.C.

«Quale obbligo avevamo di restituire il torso di Mitra di Bassano romano mai dichiarato rubato?» domanda seraficamente la ex curatrice delle collezioni del Getty museum di Los Angeles, Marion True, durante l’udienza dello scorso marzo del processo che a Roma la vede imputata, insieme al mercante d’arte Robert Hecht, per 35 reperti d’arte che l’accusa sostiene essere stati trafugati in Italia e acquistati dal Getty. Fra questi anche il marmo dipinto, detto Trapezophoros del IV secolo a.C.  restituito dal Getty nell’agosto 2007.
Il processo True  ha avuto un’ennesima udienza in questo mese di maggio ma di fatto, a causa della solita lungaggine dei procedimenti giudiziari in Italia, va avanti da anni e non si sa quando  su questa brutta storia si potrà mettere la parola fine. Nel frattempo la domanda della signora True (mentre la dice lunga sulla sua attività di direttrice di museo) riporta in primo piano le gravi falle del sistema di tutela del patrimonio archeologico italiano, di cui si avvantaggiano da sempre tombaroli, mercanti di frodo, collezionisti, case d’aste e perfino importanti musei come hanno rivelato di recente l’affaire Getty e le ammissioni di colpa di musei come il Fine Arts di Boston. Falle, va detto subito, non certo ascrivibili a cattiva volontà e a scarso impegno da parte dei nostri archeologi e storici dell’arte, che ogni giorno fanno salti mortali in soprintendenze territoriali sempre più depauperate di ogni mezzo da parte del governo.

«Il primo strumento di prevenzione dei furti è la catalogazione dei reperti» ricorda utilmente l’ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali Salvatore Settis (mesi fa frettolosamente sostituito dal ministro Bondi). Un rilievo, quello del professore, che in ogni altro Paese europeo suonerebbe ovvio. Non così in Italia, dove – come ricostruisce puntualmente Fabio Isman nel suo I predatori dell’arte perduta (Skira) – dal dopoguerra a oggi hanno agito e agiscono quasi indisturbati ladri, ricettatori e mercanti d’arte “anfibi”, capaci di muoversi altrettanto bene nel mercato nero come nelle alte sfere del mondo ufficiale dell’arte. Grazie a porti franchi di stoccaggio dei reperti in Svizzera e in alcuni altri Paesi compiacenti.

Ma anche e soprattutto grazie alla complicità di grandi case di aste che, così come la mafia fa con i soldi sporchi, danno una nuova identità ai pezzi d’arte di dubbia provenienza, “battendoli” pubblicamente. Di fatto un sistema di riciclaggio, per un giro di soldi da capogiro. Per queste vie, scrive Isman, è avvenuto «un sistematico saccheggio del sottosuolo della penisola», una razzia che «dal 1970 alla metà degli anni 2000 ha coinvolto forse 10mila persone, e milioni di reperti». Un fenomeno che non ha eguali in nessuno Stato occidentale: una depredazione capillare, “di massa” che ha arricchito vari grandi musei al mondo, dagli Usa al Giappone, nonché facoltosi collezionisti italiani, “incoraggiati”, dal 1994 in poi, dalla incultura dell’illegalità sostenuta dai governi Berlusconi con condoni e disegni di legge su archeocondoni e su proposte di vendita o di noleggio di opere conservate nei depositi dei musei. E le cose potrebbero peggiorare ancora se dovesse passare il divieto delle intercettazioni a scopi investigativi proposto dal ministro Alfano. Senza uno strumento di indagine così importante il lavoro dei carabinieri del nucleo di Tutela del patrimonio risulterebbe pressoché impossibile. Senza intercettazioni, per esempio, non si sarebbero potute sventare le frodi di un insospettabile “Mozart”, un anziano signore austriaco che faceva la guida per comitive straniere fra Roma antica e l’Etruria, e nel frattempo radunava «a Linz, dove Hitler voleva fare il suo museo, una collezione di 600 reperti trafugati in Italia». L’operazione Mozart è una delle tante storie di cronaca nera del patrimonio d’arte che attraversano il libro inchiesta di Isman, costruito dal cronista de Il messaggero collazionando una folta messe di documenti e di riscontri. «Ho seguito 15 processi e ho sentito 306 persone coinvolte in processi sul saccheggio del patrimonio culturale degli ultimi decenni», racconta Isman stesso. In alcuni casi si tratta di vicende sottratte allo stillicidio di notizie quotidiane di furti e ritrovamenti per essere ricomposte in quadri organici. In altri casi, come quello clamoroso che riguarda il Getty e i furti di un mercante d’arte come Giacomo Medici, Isman prosegue e completa con piglio da giallista il lavoro di due colleghi, Peter Watson e Cecilia Todeschini, autori di The medici Conspiracy un libro uscito nel 2006 per Public affairs press e stranamente non ancora tradotto in italiano.

da Terra del 26 maggio 2009

Il libro

Il sacco del Belpaese

Pubblicato sul settimanale left: E’ la cronaca di un impressionante saccheggio di siti di primaria importanza. E non parliamo dell’Iraq invaso dalle truppe anglo-americane, né dell’Afghanistan dove i talebani hanno distrutto antiche statue di budda. Parliamo dell’Italia e dei furti di tombaroli che, da generazioni, “lavorano” nel centro sud. Sotto l’occhio indulgente dei clienti del mercato nero dell’arte: da politici firmatari di archeo condoni a direttori di musei come il Getty che, per anni, ha acquistato pezzi di arte trafugati in Italia e “ripuliti” nel giro delle aste. Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira) scrive che si tratta di un milione gli oggetti trafugati e ricettati. Fra l’inchiesta e il reportage la sua è una ricostruzione appassionata di molte pagine nere della tutela dell’arte. Accanto alle vicende, ai personaggi inquisiti, un utile apparato di rassegne stampa e di documenti dei nuclei di carabinieri specializzati.

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Classici del futuro

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 1, 2009

di Simona Maggiorelli

attese-rosso1

Fontana, attese

E se quel taglio netto e vitale che attraversa la tela Concetto spaziale attesa di Lucio Fontana non fosse solo un gesto di rottura, ma una ricreazione di antiche forme d’arte orientale basate sulla linea e sulla scrittura? Oppure andando ancora più a fondo un taglio su sfondo rosso che evoca un’immagine di donna?

E che dire di quel Sacco di Burri, opera scandalo negli anni Cinquanta e che oggi ci appare piuttosto come una armoniosa composizione di pezzi di juta, colore rosso puro e catrame?  «Ogni epoca per trovare identità e forza ha inventato un’idea diversa di classico» suggerisce Salvatore Settis nel suo Il futuro del classico (Einaudi).Ma se con il professore possiamo certo dire che un’opera non nasce mai del tutto avulsa dalla storia, ma sempre in dialettica con capolavori del passato (come modello da reinterpretare oppure come ostacolo da abbattere) è anche vero che una buona parte dell’arte oggi sembra essere il prodotto di un annullamento totale della tradizione. Astratta o figurativa che sia. In questo senso basta pensare a certa avanguardia iper- razionalistica che trova un esempio estremo nelle cloache meccaniche del belga Wim Delvoye. Oppure nella Body art che mette in scena interventi di estetica chirurgica.  Ma qui il discorso sarebbe lungo.

E sta di fatto che nel costruire la mostra Costanti del classico nell’arte del XX e del XXI secolo il curatore Bruno Corà, fin dal titolo, fa una precisa scelta di campo, lasciando fuori dalla porta questi spicchi di contemporaneità per rivolgere la sua attenzione  a modi più alti di reinterpretare il passato. Nel restaurato Palazzo Valle di Catania ( fino al 29 giugno, catalogo Silvana editoriale),

Rothko, Nr.16

Rothko, Nr.16

s’incontra una serie straordinaria di opere, in un percorso che talora riesce a suggerire rapporti inediti fra autori di diversa provenienza. Accanto ai due capolavori di Fontana e Burri a cui accennavamo, sono esposte sculture di Brancusi che riprendono la statuaria classica in forme via via sempre più suggestive e essenziali, ma anche esili figure di Giacometti che evocano stilizzate immagini primitive. E se alcuni artisti dell’Arte povera come Giulio Paolini hanno scelto la strada di citazioni esplicite dal passato o quella della sua attualizzazione (vedi la Venere degli stracci di Pistoletto), più interessanti sono le sezioni della mostra dove sono esplorati nessi meno scontati con la tradizione pittorica. Specie là dove Corà si occupa di artisti che hanno fortemente innovato l’uso del colore. Ecco allora tele di Matisse che reinventano l’uso del colore puro, insieme a già classici esempi di uso timbrico della tavolozza firmati Malevich e Kandinsky.  Sul versante di un uso tonale del colore, invece, ecco un’opera chiave di Rothko come Nr.16 (1961): Chiaroscuro, profondità, movimento sono espressioni che il pittore russo americano riusciva a ottenere attraverso modulazioni di colore, rileggendo in modo originale la tradizione che comincia con lo sfumato leonardesco. Modulazioni che nella pittura di Rothko possono toccare gli effetti più vibranti ma possono anche arrivare ad annullarsi nel grigio e nero di un cupo allunaggio finale, come accadrà poco prima del suicidio dell’artista.

Qui, nell’opera scelta da Corà per la mostra, siamo ancora in una fase aperta alla ricerca, anche se con sempre maggiore insistenza negli scritti Rothko parla di morte e torna sulla centralità della tragedia classica e sulla interpretazione che ne dette Nietzsche ne La nascita della tragedia. La tela Nr.16, di fatto presenta un classico schema tripartito per rappresentare «una scala dei sentimenti umani» ci ricorda il curatore Bruno Corà. «I miei dipinti attuali – scriveva Rothko- hanno a che fare con il dramma umano, per quanto riesca a dipingerlo».

da Left- Avvenimenti 1 maggio 2009

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La caduta dei giganti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009

Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair

di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus  imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair

Jean Clair

Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya

Il Saturno di Goya

Goya ha rappresentato  in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso  o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Il Leviatano (1651)

Hobbes, Leviathan (1651)

Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge –  non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490

Bosch La nave dei folli 1490

«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato –  nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi,  in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma,  la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.

da left-avvenimenti del 21 marzo 2009

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L’Italia non è un museo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 1, 2009

Il presidente Napolitano e il professor Settis

Il presidente Napolitano e il professor Settis

Il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis risponde al ministro Sandro Bondi: “ La cultura non si fa con gli slogan” di Simona Maggiorelli

Professore, il ministro Bondi pretende di ridurre a rango di “esternazioni” le sue critiche espresse da presidente del Consiglio superiore dei beni culturali…

Il ministro ha maturato una convinzione singolare, cioè che il presidente del Consiglio superiore debba tacere. Un’idea, secondo me, contraria alla legge. E contraria alla Costituzione. Non posso assecondarla. Ho preferito fare altrimenti. In quanto cittadino non può dirmi che devo tacere. Siccome la libertà di parola è più preziosa di ogni altra ed è certamente più importante di qualsiasi carica, come ho spiegato nella mia lettera al ministro pubblicata da La Repubblica, non rinuncerò ad esercitarla da libero cittadino.

Dopo un lavoro cominciato da consigliere (anche molto critico) del ministro Giuliano Urbani, lei ha messo a punto un condiviso Codice dei beni culturali e paesaggistici che pone un freno agli archeocondoni, alle svendite, ai colpi di “finanza creativa”. La manovra varata dal Consiglio dei ministri lo scorso dicembre rischia di smantellarlo?

Anche in questo caso dico quello che penso:credo sia in atto un progetto di smantellamento. Né che ci sia una stanza dei bottoni gestita dal ministro con alcuni fedelissimi. Quello che vedo è una serie di mosse incoerenti fra loro, mentre manca una visione generale. Temo che il ministro Bondi, purtroppo, non abbia ancora una conoscenza sufficiente dei meccanismi di funzionamento del ministero a cui è proposto. Con grande candore si dichiara lieto che gli tolgano soldi dal bilancio. Non ho mai visto una cosa del genere.

Al centro della riforma Bondi c’è un progetto di valorizzazione affidato a Mario Resca proveniente dalla Mc Donald’s…

Continuo a ritenere che per la valorizzazione occorra un esperto di patrimonio culturale. Occorreva fare ciò che lo stesso ministro aveva dichiarato di voler fare, cioè un bando internazionale, per avere un esperto di primissimo piano. Il ministro Bondi non ha fatto bandi e nomina il dottor Resca che sarà certamente un bravo manager, ma certo non si intende di musei e di patrimonio d’arte. Come lui stesso dice. Insomma, non vedo perché nel caso del patrimonio culturale si debba puntare sull’incompetenza piuttosto che sulla competenza.

Il premier Berlusconi, qualche mese fa in Inghilterra, si vantò con la stampa del numero di tv e cellulari procapite in Italia, dello scudetto e di un patrimonio d’arte italiano pari al 50 per cento di quello mondiale. Oggi assistiamo al lancio del logo Museo Italia che fa tanto pensare al marchio Azienda Italia. Che ne pensa?

La favola del 50 per cento è da sfatare. Non si può fare un conto perché manca un inventario mondiale del patrimonio. In un giornale ho letto addirittura che l’Italia avrebbe il 70 per cento del patrimonio mondiale. E’ una cosa che fa morire dal ridere. Come se in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna, in Germania non avessero le loro cattedrali, i loro musei. Quanto allo slogan Museo Italia è quanto mai sinistro e negativo. L’Italia non è museo, l’Italia è un paese vivo, di cittadini. Un Paese la cui principale caratteristica è che gran parte del patrimonio artistico si trova nelle città, nelle strade, nelle piazze. Nei luoghi dove si vive. Anziché dire annettiamo anche il resto dell’Italia a uno spazio museografico immaginario, virtuale, bisognerebbe fare il contrario: proiettare i musei verso la città e fare dei musei delle città. Più in là bisogna dire che non è con gli slogan che si salva la cultura, è con i progetti e con le risorse di personale che invece manca; la cultura si salva con investimenti che invece vengono ridotti ogni giorno che passa.

Fa da controcanto allo show di Berlusconi un discorso dell’allora presidente della Repubblica Calo Azelio Ciampi sulla lungimiranza dell’articolo 9 della Costituzione. Lei lo ricorda nel libro edito da Electa, Battaglie senza eroi

E’ un discorso bellissimo,per questo amo citarlo. Nel 2003 Ciampi parlava dell’Italia che è dentro di noi; la sua è una interpretazione autentica, corrisponde perfettamente a tutta la letteratura specialistica e in particolare alle sentenze della Consulta sul significato dell’articolo 9 della Carta. La costituzione non dice che l’Italia è un museo , dice che il patrimonio paesaggistico e culturale dell’Italia va difeso in funzione dei cittadini. Cioé va difeso un elemento vivo e attivo del diritto di cittadinanza, questo credo dovrebbe essere lo spirito in cui bisognerebbe lavorare. Di questo spirito purtroppo si vedono scarse tracce in giro.

Nel suo Itali spa ( Einaudi), invece, riportava un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung che stigmatizzava la politica di Tremonti e Urbani come talebana e distruttiva. Ora, con curioso ribaltamento, si legge che ci sarebbero i “talebani della conservazione”…

Fu la moderata e gentilissima Giulia Maria Crespi, in un’intervista, ad usare quella espressione per dire della distruzione del patrimonio. Ora questa parola su alcuni giornali italiani non particolarmente interessanti è diventata un modo per insultare chi difende la Costituzione. Io credo che si tratti di difenderla di fronte a uno strisciante tentativo di fare come se non esistesse. Ricorrere al diritto di cittadinanza, richiamare la libertà di parola, dire che la protezione del patrimonio e del paesaggio è un elemento essenziale dell’identità italiana.. se tutto questo significa essere talebani, allora sono io che non ho capito qualcosa.

Colpiscono in questo senso alcune dichiarazioni del professor Andre Carandini che sul Corsera parla di tentativi di santificare i beni culturali. “I magazzini dei musei – dice – sono pieni di beni impolverati con cartelli rosi dai topi e destinati all’oblio”.

Io non ricordo di aver letto questa intervista di Carandini, ma se lui ha usato questi argomenti la cosa mi addolora perché sono argomenti che sono stati usati proprio da alcuni politici. In particolare quest’ultimo sui magazzini dei musei come luoghi dell’orrore è un tema che stato lanciato da Umberto Broccoli, il nuovo sovrintendente comunale di Roma nominato dal sindaco Alemanno. Io non la penso così.Tutti i musei- non solo quelli italiani – hanno dei magazzini. Questo Broccoli forse non lo sa, ma Carandini certamente. I magazzini sono la riserva aurea dei musei. Nei magazzini ci sono cose che attendono ancora lo studio. Nei magazzini di ogni museo che si che si rispetti si fanno grandi scoperte, che poi “salgono” le scale e entrano nel museo. I magazzini naturalmente non devono essere polverosi e mal tenuti. Se ce n’è qualcuno polveroso e mal tenuto andrebbe tenuto meglio. Ma è molto difficile che ciò sia se si tagliano i fondi dei musei. E’ molto difficile che ciò sia, se non si assume nuovo personale. E’ molto difficile che ciò sia, se non assume nuovo personale; è molto difficile che ciò sia, se si tagliano i fondi dei musei. E’ molto difficile che ciò sia se non ci sono progetti culturali e solo slogan.

da Left-Avvenimenti del 6 marzo 2009

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L’archeologia non ha bisogno di Bertolaso

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 1, 2009

Roma, olearie papali

Roma, olearie papali

L’eminente archeologo Adriano La Regina in margine alla proposta di commissariamento dell’area archeologica romana avanzata dal ministro Sandro Bondi di Simona Maggiorelli

Commissariare l’area archeologica capitolina affidandola a Guido Bertolaso è un’idea non incontra il favore del più autorevole soprintendente archeologico che Roma abbia avuto: “Bertolaso – dice Adriano La Regina – può continuare a fare cose utili nel settore della protezione civile. Lui, come il dottor Mario Resca non credo siano le persone più adatte per occuparsi del patrimonio storico e artistico, che non richiede l’intervento delle loro professionalità”. Quanto agli attacchi del ministro dei beni culturali Sandro Bondi al soprintendente dell’area di Pompei, “le critiche nei confronti diPier Giovanni Guzzo – stigmatizza La Regina – dimostrano solo che il Ministro non è bene informato sulla situazione di Pompei. Guzzo ha fatto cose egregie, e se a Pompei vi sono ancora questioni da risolvere lo si deve soprattutto alle degradate condizioni sociali, politiche e amministrative del contesto. Di questo si deve far carico la politica. Quanto alla Soprintendenza è stato un grave errore creare al suo interno una struttura amministrativa autonoma e inconsapevole delle esigenze di natura scientifica e conservativa”. E i tentativi da parte del Ministro di mettere il bavaglio al Consiglio superiore dei beni culturali e a Salvatore Settis? “Bondi non ha mai dimostrato particolare riguardo verso quell’organismo, perché evidentemente preferisce il plauso ai pareri disinteressati. Del resto- aggiunge La Regina – il governo Berlusconi ha sempre cercato di dare sostegno alle esigenze del mercato d’arte, anche quando chiaramente in conflitto con l’interesse pubblico”. Ma l’attuale presidente dell’Ente Parco dell’Appia Antica non risparmia neanche il neo presidente del Consiglio superiore, Andrea Carandini, nominato in fretta e furia del ministro, a poche ore dalle dimissioni di Settis. E a proposito delle accuse rivolte da Carandini ai soprintentendenti, accusati di essere dei “talebani della conservazione”, La Regina nota: “Carandini non ama sostenere con argomentazioni pacate le proprie ragioni limitandosi abitualmente a svilire in maniera offensiva le ragioni degli altri. In queste condizioni le sue accuse ai soprintendenti di essere dei talebani della conservazione non meritano attenzione”.

Left-Avvenimenti del 6 marzo 2009

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Effetto Mc Donald’s

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 1, 2009

La tutela dei beni culturali in pasto a manager dei fast food. Le ultime trovate della finanza “creativa” del trio Tremonti, Bondi e Carandini di Simona Maggiorelli


calabria-bronzi-di-riace-1-archeologia-arteCi risiamo. Il lupo Giulio Tremonti perde il pelo (travestendosi da Robin Hood con la naufragata tax anti ricchi) ma non perde il vizio (la svendita del patrimonio d’arte e del paesaggio, spiagge comprese). Ora il ministro dell’Economia, in “società” con Sandro Bondi, procede al taglio di oltre un milione di euro al ministero dei Beni culturali nel triennio 2009-2011.

Quando perfino il collega del centrodestra Sarkozy, Oltralpe, per far fronte a questa congiuntura di crisi prevede di dare 100 milioni di euro all’anno alla cultura, come riporta un’indagine europea comparata messa a punto da Federculture.

Nel frattempo in Italia, da più parti, a cominciare dalle associazioni di chi lavora nelle soprintendenze (per non dire dei moltissimi e autorevoli nomi dell’archeologia e dell’arte di livello internazionale) fioccano accuse al governo Berlusconi e ai suoi ministri di voler delegittimare le competenze professionali e scientifiche nell’ambito della tutela e della valorizzazione. C’è il sospetto che si voglia liquidare la rete delle soprintendenze territoriali per favorire una sbrigativa privatizzazione delpatrimonio nazionale, a furia di slogan emergenziali.

Fin qui, in estrema sintesi, le responsabilità di questo governo di destra, incompetente e versato solo ai propri interessi privati.

Ma quel che fa più male è che un autorevole archeologo come Andrea Carandini, docente di archeologia classica alla Sapienza di Roma, si sia prestato a questo “gioco”. Per molti anni, al fianco di Salvatore Settis in varie campagne di scavo, Carandini è autore di libri anche popolari come Remo e Remolo (Einaudi) nonché presenza gettonatissima delle lezioni di archeologia all’Auditorium di Roma organizzate dall’editore Laterza.

Da parte sua il professor Carandini non si è fatto scrupolo di prenderne il posto svestendosi rapidamente degli abiti di studioso e ribaltando d’amblé molte dichiarazioni pubbliche fatte negli anni in difesa della cultura e dell’arte. Un rapido cambio alla Fregoli, per indossare la casacca adatta alle logiche di marketing dell’azienda Italia di marca berlusconiana che vorrebbe i fragili bronzi di Riace come cimeli da mostrare in Sardegna ai potenti del G8. E indirettamente a sostegno della campagna di valorizzazione del Museo Italia affidata dal governo al manager Mario Resca proveniente dalla catena Mc Donald’s e che già parla dell’opportunità di mutare edifici storici e d’arte in alberghi a cinque stelle. Per farsi un’idea del “Resca pensiero” basta fare un giro sul sito http://www.demaniore.com dove il Nostro lancia la sua campagna per i “nuovi hotel della cultura”.

Nel frattempo voci di corridoio sempre più insistenti parlano di un possibile avvicendamento al ministero dei Beni culturali: Bondi potrebbe lasciare il posto al senatore Quagliarello, quello che in Senato accusava di omicidio chi si era opposto al decreto berlusconiano, “Salva Eluana”. Cosìdetto dai teodem, dagli esponenti di centrodestra e dal Corriere della Sera che l’ha stampato a caratteri cubitali.


da Left-Avvenimenti del 6 marzo 2009

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Ma la vera chimera è il museo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su gennaio 21, 2006

Simona Maggiorelli

“La Costituzione non è un ferrovecchio. e l’articolo 9 che parla di tutela non è fra i meno importanti». La denuncia di Salvatore Settis è dura e precisa. Dalle pagine di Repubblica e, dal vivo, nel ciclo di conferenze sul papiro di Artemidoro che sta facendo in giro per l’Italia (il 26 gennaio sarà a Roma), il professore punta il dito sulla deriva del sistema dei beni culturali. «Fra lotte di potere, spartizioni, favoritismi che alimentano il gigantismo burocratico del ministero» e sempre più scarsi interventi sul territorio, con le soprintendenze locali messe in ginocchio da continui tagli, «il ministero – avverte Settis – diventa un mostro con una testa sempre più grande e un corpo sempre più gracile». E spesso, come accade al Museo Egizio di Torino, il rimedio rischia di essere peggiore della male: con la trasformazione della struttura pubblica, in fondazione privata, guidata da un consiglio di amministrazione senza nemmeno un egittologo. Ma il caso del primo museo archeologico italiano, intorno al quale si è acceso, finalmente, un ampio dibattito, è solo la punta di un iceberg di crisi che tocca anche molti altri prestigiosi musei italiani, se non ancora svenduti a fondazioni, abbandonati a se stessi.

Prova ne è lo stato in cui versa l’archeologico di Firenze, per importanza il secondo museo egizio d’Italia. Con una vasta collezione darte greca, etrusca e romana mediceo-lorenese.Qui è conservata la potente Chimera del V, VI secolo avanti Cristo, scoperta nel 1553 e restaurata dal Cellini. Ma anche la statua bronzea del nobile etrusco detto l’Arringatore. E poi il grande cratere di Ergofimos dipinto da Kleitiras, l’idolino ritrovato nel ‘500 e le teste di filosofi greci ripescate dalle acque della Meloria. Mentre decine di opere e reperti di questo museo, per mancanza di spazi e di sale attrezzate, restano stipate, nei depositi. Da anni si parla del restauro delle sale in piazza Santissima Annunziata per dare respiro alla collezione conservata nella storica di via della Colonna. Ma quelle sale che ospitarono i restaurati bronzi di Riace non sono state più riaperte al pubblico. E sono trascorsi venticinque anni. «Non c’è stato nessun impegno serio di investimento da parte del ministero, questo è il punto, e le risorse della soprintendenza sono ridotte all’osso», denuncia la direttrice Carlotta Cianferoni. Che da qualche settimana è anche, ad interim, soprintendente dei beni archeologici della Toscana. Per non lasciare scoperto il ruolo lasciato da Angelo Bottini da quando è stato trasferito a Roma per prendere il posto di Adriano La Regina. Intanto nello storico museo fiorentino, fondato nell’Ottocento e sopravvissuto al disastro dell’alluvione del ’66, i disagi e i problemi si assommano. Le 50mila persone che, all’anno, visitano il museo (gli Uffizi e l’Accademia ne hanno circa un milione) sono costrette a un percorso a ostacoli. Nei giorni di festa trovano la porta chiusa. D’estate poi il clima torrido delle sale sconsiglia del tutto le visite. «Quest’anno non abbiamo potuto accendere i condizionatori – racconta costernata la direttrice -. Il motivo è banale: mancavano i soldi». E quanto a un orario più in sintonia dei musei d’Europa? «Non abbiamo abbastanza personale. Siamo sotto organico di almeno un venti per cento -racconta-. Su 39 custodi, almeno 12 sono precari. Gli altri, per lo più part time». Di nuove assunzioni, poi, neanche a parlarne: sono bloccate da anni. E in queste condizioni diventa davvero difficile fare progetti di valorizzazione del patrimonio. Ma la soprintendente non si arrende. «Abbiamo appena riaperto il laboratorio di restauro – rilancia — e fra qualche mese potremo riaprire il secondo piano, riallestendo una parte delle collezioni medicee. Insomma qualcosa si riesce a fare, anche se il museo avrebbe bisogno di interventi ben più strutturali, in vista di un rilancio. Ma – avverte Cianferoni – i problemi più grossi restano per la soprintendenza. Il nostro ruolo di controllo sul territorio è a rischio. Sono molti gli scavi, i cantieri da ispezionare, ma solo nei casi più urgenti riusciamo a mandare i nostri tecnici». E su questo il governo drammaticamente tace. Nessuna risposta dal ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione. Mentre curiosamente si fa sentire il ministro Alemanno, lanciando un’idea per fare cassa: trasformare i bookshop in supermercati. L’iniziativa è già partita agli Uffizi. Fra le monografie di Botticelli, di Leonardo e di Michelangelo spuntano il Brunetto, l’olio Laudemio, il vin santo, l’aceto, la grappa. E 54 etichette di vini, acquistabili anche on line. La gestione è affidata a Buonitalia, una società creata dal ministero delle politiche agricole per valorizzare i prodotti dell’agroalimentare italiano. Quando si dice che il cibo è arte.

Europa, 21 gennaio 2006

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