di Simona Maggiorelli

Giorgione Danae
VENEZIA. Solo nove opere. Ma che, nella loro misteriosa essenzialità, formano un potente iato nella catena di capolavori delle Gallerie dell’Accademia. Dopo ori bizantineggianti , dopo le addensate tele di Carpaccio pullulanti di figure in ordinate cornici architettoniche, dopo il trionfo della luce nella pittura tonale di Veronese e la teatralità drammatica di Tintoretto, nell’ultima sala – poco prima dell’uscita, come in una bolla – si apre il potente silenzio delle tele di Giorgione.
Un silenzio denso di segni inquieti, difficili da decifrare, nella celebrata Tempesta. La silenziosa ma fremente presenza femminile della Laura di Vienna. L’intensità dello sguardo muto con cui la splendida Vecchia con in mano un cartiglio su cui è scritto “Col tempo” sembra invocare clemenza per i segni che la vita le ha lasciati incisi sulla pelle. Ma soprattutto, a incipit della mostraGiorgione. Le meraviglie dell’arte” curata da Giovanna Nepi Scirè, il magnetico silenzio che emana dalla Pala di Castelfranco di recente restaurata nei laboratori dell’Accademia e con la supervisione dell’Opificio delle pietre dure di Firenze.
Protetta in una teca climatizzata e illuminata da luci laterali, la Pala sembra venire incontro allo spettatore: il restauro ha restituito una radiosa luminosità ai colori. Liberata dalla patina grigia, la Madonna in trono si staglia con un’evidenza monumentale, come se fosse tridimensionale scultura, invece che pittura. Mentre la misteriosa verticalità che Giorgione dette alla struttura allungata del trono, ancor più, sembra dare a tutto il complesso un moto ascensionale. Potenza d’immagine e allusività criptica del messaggio. Qui allo zenit, nella tristezza che vela lo sguardo della Madonna, in contrasto con il chiarore albeggiante del paesaggio che si apre alle sue spalle. Quella speciale mistura di evocatività, intimismo, scandaglio interiore che fin dai tempi del Vasari ha contribuito a dare al pittore di Castelfranco Veneto un allure romantica e di mistero, qui c’è tutta. Un’aura di intrigante segretezza , non solo determinata dalle poche notizie biografiche che abbiamo su Giorgione, prematuramente scomparso a 33 anni nell’epidemia di peste che colpì Venezia nel 1510, ma anche, e soprattutto, dettata dalla complessità delle sue rare opere ( il catalogo di Giorgione raggiunge appena il numero di venticinque ), dalla genialità di immagini che, in tempi in cui le ragioni della committenza pesavano parecchio, riuscivano ad essere libere dalla rigidità e dalle imposizioni del canone.

Giorgione, i tre filosofi
Rafforzano questa tesi l’incontro dal vivo con queste nove opere di Giorgione per la prima volta in sequenza, ma anche, sul piano degli studi, i tre importanti contributi pubblicati nel catalogo edito da Marsilio. Approfondendo lo studio dei pochi documenti esistenti e rigettando l’ipotesi di un incontro fra Giorgione e Leonardo a Venezia, Antonio Gentili tratteggia l’immagine di un pittore geniale e isolato, dedito a studi di astrologia, poco propenso a dirsi integralmente cattolico e per questo lasciato ai margini dalle grandi commissioni ecclesiastiche , che il più giovane Tiziano, invece, riusciva a raccogliere a piene mani. Un profilo di artista appartato, tormentato, anticonformista, che richiama la figura del ragazzetto scalzo appoggiato a una roccia fuori dalla città murata dell’unico disegno autografo rimasto, prezioso prestito del museo di Rotterdam alla mostra veneziana. E’ soprattutto alla luce dei nuovi esami radiografici dei “Tre filosofi” di Vienna che Gentili rafforza i suoi convincimenti. Sotto la versione definitiva del quadro ora a Venezia affiorano segnali astrologici e più nette connotazioni dei tre personaggi come patriarchi e simboli delle tre religioni monoteistiche, l’ebrea, la cristiana e l’islamica, da Giorgione poste pariteticamente sullo stesso piano, equiparate nel grado di importanza, e tutte ugualmente giudicate prossime a un epocale tracollo. Più forzata e capziosa – come ha notato per primo Antonio Pinelli – appare invece la seconda parte del saggio di Gentili, là dove ipotizza un Giorgione filo ebreo, contagiato da una visione saturnina e apocalittica derivata da una certa committenza ebraica. Se è vero come è vero che tutta l’opera di Giorgione è pervasa da una sottile inquietudine, da un allusività drammatica, da un rigorismo morale interiorizzato e forte, con Bernard Aikema la seconda delle tre firme in catalogo, viene piuttosto da ascriverla al rapporto continuo che Giorgione ebbe con pittori e incisori tedeschi.

Giorgione, ritratto Ludovisi
E in particolare con la pittura di Durer che fu a Venezia dal 1505 al 1507. Dal rapporto con l’opera del tedesco sicuramente nacque il potente autoritratto che Giorgione realizzò dipingendosi come un David saturnino, con uno sguardo bruciante di malinconia .Un timbro di struggente malinconia che Salvatore Settis indaga ora nella Pala di Castelfranco, per la prima volta arrivando a darle una data certa , il 1504, l’anno in cui morì giovanissimo Matteo Costanzo, soldato e rampollo di una famiglia nobile siciliana stabilitasi a Castelfranco. Il padre Tuzio commissionò la Pala a Giorgione, prova ne è la presenza dello stemma di famiglia che campeggia sul quadro. A partire da questa attestazione Settis rilegge il trono della Madonna come sarcofago di porfido, simbolo regio in Sicilia e in questo caso precisa allusione al titolo di viceré di Cipro che Tuzio Costanzo poteva vantare, sperando prima o poi di poter tornare a mettere le mani sui propri possedimenti. E proprio in questa chiave funebre, Settis spiega lo sguardo di tristezza che si accende sul volto della Madonna e del bambino.
Ma le novità e le scoperte di questa preziosa mostra di Giorgione ( in attesa di un’antologica che fin qui non si è potuta realizzare per difficoltà di prestito e rischi eccessivi nel trasporto delle opere ) riguardano anche inaspettati ritrovamenti, come quello del “Putto alato”, un frammento della facciata del Fondaco dei Tedeschi, a cui Giorgione lavorò nel 1508, a due anni dalla morte, e del quale si credeva fosse rimasta solo la diafana immagine della “Nuda”, energica e tondeggiante figura femminile senza volto, di cui oggi si intravedono solo i solidi contorni. Messi l’uno accanto all’altro, due preziosi tasselli di un tutto purtroppo andato irrimediabilmente perduto. Ma qualcosa della libertà e della leggerezza delle immagini che una volta campeggiavano sulle pareti del Fondaco veneziano affrescato da Giorgione ci arriva attraverso la figura in dissoluzione di questo putto che si arrampica su un ramo rigoglioso di frutti. Si sapeva che era stato acquistato da Ruskin nella seconda metà dell’Ottocento, ma poi se ne erano perse le tracce, fino alla recente ricomparsa in una collezione privata. Altra nuova acquisizione, il “Cristo portacroce” della Scuola Grande di San Rocco che dopo anni di accesi dibattiti è stato definitivamente sussunto al ridottissimo catalogo di Giorgione. Un Cristo malinconico e dolcissimo, immagine sfumata per la stesura sottile del colore ma anche per le tante mani di devoti che vi si sono posate sopra, visto che la tela per molto tempo rimase collocata sul pilastro dell’abside.
La mostra, nella Galleria dell’Accademia, resterà aperta fino al 22 febbraio 2004. Poi “La tempesta” e “La vecchia”, per quattro mesi saranno esposti al Kunsthistorisches di Vienna.
Dal quotidiano Europa, 12 novembre 2003
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