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La primavera araba preconizzata dallo scrittore Lakhous

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 30, 2011

 In Italia è noto soprattutto per il best seller Scontro di civiltà  per un ascensore a piazza Vittorio,ma nel  romanzo di esordio di  Amara Lakhous, censurato in Algeria ( e che per un pelo non gli costò la vita), sono raccontate le radici della protesta mediorentale contro regimi corrotti e autoritari, che sarebbe sfociata nella rivolta di piazza Tahrir. Con il titolo Un pirata piccolo piccolo è ora pubblicato dalle Edizioni e/o. Sarà presentato il primo luglio al meeting antirazzista di Cecina organizzato dall’Arci e il 5 luglio al circolo Elsa Morante di Roma.

di Simona Maggiorelli

Amara Lakhous

La “visionaria” capacità dello scrittore algerino Amara Lakhous di anticipare gli eventi delle attuali rivolte arabe  appare davvero sorprendente leggendo Un pirata piccolo piccolo, il suo romanzo di esordio, che ora torna in libreria grazie alle Edizioni e/o. In questa “commedia nera” dai toni ironici e autoironici, un giovanissimo Lakhous offriva nel 1993 una lucida radiografia del malessere delle società mediorientali sotto regimi autoritari e corrotti. Scavando in profondità nell’insofferenza crescente che già si avvertiva ad Algeri dove giovani, intellettuali, lavoratori erano stati ricacciati ai margini della società ed erano oppressi da uno Stato di emergenza che fingeva di salvare la neonata democrazia.

«Gli ex combattenti della guerra di liberazione si erano impossessati della rivoluzione vinta contro la Francia colonialista. Avevano creato una casta di privilegiati e trasformato l’Algeria in un bottino di guerra», ricorda lo stesso Lakhous nella prefazione della nuova edizione del libro (che sarà presentato il 1 luglio al Meeting antirazzista di Cecina e il 5 luglio a Roma). Nel frattempo la violenza dell’integralismo religioso cominciava ad avvelenare ogni istanza di vero cambiamento: «fondamentalisti, autoinvestitisi di una missione salvifica tentavano di instaurare una teocrazia talebana sulle rive del Mediterraneo » annota lo scrittore noto in Italia soprattutto per il bestseller Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio.

All’epoca Amara Lakhous era uno studente che muoveva i primi passi come giornalista e scrittore. Nella cronaca come nell’arte avendo il coraggio di andare fino in fondo, senza infingimenti. «Forse ero un po’ folle, certamente spregiudicato, e non disposto a piegarmi alla censura e alla autocensura che mi veniva imposta» ci racconta Amara stesso per telefono. Fatto è, che quel suo rifiuto dei compromessi ci regala oggi un libro fortissimo e una speciale chiave di lettura di ciò che sta avvenendo in una vasta area mediorientale che va dall’ Egitto, alla Tunisia allo Yemen.

«Anche nell’1988, quando ero ancora al liceo – ricorda Lakhous – ci fu in Algeria una forte movimento giovanile; i ragazzi scesero per le strade e distrussero tutti i simboli del Partito unico. Ma la rivolta fu repressa nel sangue e i media internazionali lo scoprirono solo dopo molto tempo. Allora non c’era internet, né i social network…». Ma diversa oltreché la possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione forse era anche la mentalità e la cultura con cui si affrontava la rivolta. La scelta della non violenza, per quanto non sempre facile da attuare, sembra oggi prevalente nella protesta araba. «La non violenza è un dato nuovo, di grande importanza – commenta lo scrittore algerino -. Va di pari passo al rifiuto dell’integralismo religioso, delirante, malato che sul modello talebano vuole distruggere la cultura. Per anni – aggiunge Amara – in Algeria il fondamentalismo è stato usato come spauracchio da parte del governo. Meglio stare sotto una dittatura corrotta che almeno mi permette di leggere qualche libro e di andare al cinema, piuttosto che finire nel buio di uno stato teocratico pensavano molti miei concittadini». Avendo evidentemente perduto ogni fiducia nelle istituzioni e nella politica.

Amara Lakhous lo ha rappresentato in modo graffiante attraverso il personaggio protagonista di Un pirata piccolo piccolo, Hassinu, un quarantenne riottoso a farsi una famiglia come Dio comanda e che, raggiunta l’età in cui Maometto ebbe l’illuminazione profetica, ancora brancola nel buio, fra difficoltà economiche e acrobazie sentimentali che si ci fanno apparire in filigrana la devastante situazione di oppressione sociale delle donne algerine, costrette a sposarsi giovanissime. Usando la lingua sacra del Corano per parlare di tabù come il sesso e l’aborto, Amara Lakhous compiva così anche una sua “rivoluzione linguistica”, innestando sull’arabo dei testi sacri accenti berberi, più liberi e laici, imparati da piccolissimo come lingua materna. Quello che ne esce alla fine è davvero un piccolo miracolo letterario di franchezza e fantasia. Tanto schietto e diretto che nessuno in Algeria volle pubblicarlo. Tanto esplosivo, da fargli rischiare la vita quando nel 1995, infilato il manoscritto nello zaino, fuggì esule in Italia.

da left-avvenimenti

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Il business di Madre Teresa

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 16, 2009

Dopo la denuncia di Christopher Hitchens , la giornalista Linda Polman riapre il caso della “Santa” di Calcutta, che non dava i farmaci ai malati  e accumulava  fondi su un conto privato all’estero. Nel nuovo libro inchiesta della giornalista olandese una schietta disamina del lato scuro delle organizzazioni umanitarie, specie quelle a sfondo religioso

di Simona Maggiorelli

Tra i termini con cui le Ong descrivono i propri scopi il più ricorrente è “umanitario”. Aggettivo alto, importante, denso di significati. «Una parola che fa pensare a un interesse vero, profondo, per le persone, ma che – denuncia la giornalista olandese Linda Polman-  troppo spesso è solo una copertura per fini ben diversi. La missione umanitaria in Kossovo, per esempio, significò bombe. Era violenza e venne fatta passare come un’azione nell’interesse delle persone».

Un altro esempio di come l’aggettivo “umanitario” possa essere sbandierato con tragiche conseguenze si trova nei cosiddetti humanitarian spaces: campi profughi, spiega Polman, che creano «una illusione di sicurezza». Indicando una determinata area come sicura, di fatto, si richiamano molti profughi «ma poi non si è in grado di proteggerli realmente. Ed è ben noto che i civili nelle guerre di oggi sono diventati un obiettivo militare». Senza contare che questi campi profughi, simili a prigioni, non hanno proprio nulla di umanitario.

Oggi dei 12 milioni di profughi che ci sono al mondo 7 milioni e mezzo vivono rinchiusi per una media di 10 anni. Mentre colera e dissenteria imperano, ritrovandosi alla mercé di comandanti, di banditi e della carità dei donatori. «Ma vivere rinchiusi- dice Polman- genera frustrazione e risentimenti. Il movimento dei talebani, non a caso, è nato nei campi profughi per afgani in Pakistan». Fra le pratiche vessatorie a cui chi ha bisogno di aiuto si trova esposto, quella più odiosa, è il ricatto religioso: quella carità penosa delle Ong evangeliche e cattoliche che lo scrittore Alan Drew ha descritto nel libro Nei giardini d’acqua (Piemme) ambientato durante il terremoto del 1999 a Istanbul. Cibo in cambio di abiura delle proprie convinzioni e conversione. Questa la politica di aiuti umanitari praticata da molte Ong Usa, con la supponenza di chi pensa di esportare una cultura superiore. «E poi- chiosa Drew – noi americani ci domandiamo perché gli arabi ci odiano». Situazioni del genere «erano e sono all’ordine del giorno anche in Afghanistan e in Iraq – commenta Polman-. Vogliamo sempre qualcosa in cambio per il nostro aiuto. Se le organizzazioni umanitarie cristiane vanno ad aiutare lo fanno per conquistare anime. In Africa sono la maggioranza. Ma anche in America le Ong sono per lo più di stampo religioso. Vanno a convertire il mondo alla cristianità. Qualche volta ci riescono, nella maggior parte dei casi, no. Ma di sicuro, partono con questa missione».

Fra i molti personaggi coinvolti in questo tipo di aiuti “umanitari”, quello che ha colpito maggiormente Linda Polman è stata madre Teresa: «Ero a Calcutta quando era ancora viva e gestiva un grande ospedale. Circondato da mura altissime, era il terrore dei bambini che si sentivano dire: guarda che se non stai buono viene madre Teresa e ti porta via. Di fatto – denuncia la giornalista ospite del Festival internazionale a Ferrara- varcate quelle mura la gente moriva senza cure mediche e medicine». Dopo la scomparsa di madre Teresa alcune inchieste giornalistiche hanno portato alla luce suoi conti all’estero. «I finanziamenti che riceveva in cifre ingenti – spiega Polman – non li spendeva per l’ospedale ma li accumulava sul proprio conto».

Lo raccontava qualche anno fa anche Christopher Hitchens nel libro La posizione della missionaria (Minimum fax). «Madre Teresa, che il Vaticano ha fatto santa – aggiunge ora Polman – ha scippato un sogno umanitario. Il problema siamo noi che vogliamo credere in queste illusioni, che vogliamo ostinatamente credere che madre Teresa fosse una gran donna che aiutava i poveri. Se andiamo a guardare i libri dei conti, se facciamo un po’ di ricerche, invece, si scopre che la storia delle Ong religiose ha sempre un dark side». Un lato oscuro da cui purtroppo non sono del tutto esenti anche molte Ong che si professano laiche, neutrali e disinteressate, come la stessa Polman documenta nel suo nuovo libro L’industria della solidarietà (Bruno Mondadori).Pur non dimenticando alcuni obiettivi positivi raggiunti, né tanto meno le persone che in missioni umanitarie o di peace keeping hanno perso la vita, la giornalista traccia un disincantato ritratto del fenomeno Ong (l’Onu ne ha conteggiate più di 37mila, ndr) troppo spesso eterodirette dai governi che le finanziano, prese da febbre da contratto, ipercompetitive nel contendersi fondi ingenti e più dedite a indagini di mercato che alla vera e propria risoluzione dei problemi.

Il caso dell’Etiopia ne è un chiaro esempio: tremila Ong sul territorio hanno un budget di oltre un miliardo di dollari l’anno. «Fame e carestie sono diventate un business – dice la giornalista – mentre nel Paese poco o nulla sembra cambiare». Le Ong si dicono apolitiche ma questo le rende ricattabili, precisa Polman. «Si dicono indipendenti dalla politica ma non potranno mai esserlo realmente, perché dipendono dai soldi che ricevono dai governi, i quali le spingono a investire dove è loro più utile. Durante la Guerra fredda accadeva lo stesso, Usa e Urss investivano in quei Paesi che potevano servire nello scacchiere. Oggi – prosegue Polman – qualcosa di simile accade per l’Iraq e per l’Afghanistan. Ricevono i nostri soldi perché abbiamo un interesse militare là, non perché amiamo quei Paesi. Ma le Ong non ci diranno mai nulla di questo meccanismo perverso. Hanno tutto l’interesse ad alimentare un sogno di un loro imparziale e neutrale intervento in aiuto a chiunque ne abbia bisogno». Oggi al mondo si contano 70 Paesi donatori. Ciascuno con una propria agenda. Salvo che nella guerra contro il terrorismo, alcuni Paesi vanno di pari passo, «per cui l’Italia – sottolinea Polman – segue l’America in Afghanistan». E non è da trascurare il fatto che, in media, il 70 o 80 per cento dei soldi è investito nel Paese donatore stesso. Di fatto si tratta di aiuti fantasma: tutto il cibo che viene donato dagli Usa, per esempio, è cresciuto, cucinato, impacchettato, distribuito da aziende a stelle e strisce. Ed è stato valutato che le spese di ricostruzione dell’Iraq, il più grande progetto Usa della storia, sarebbero potute costare fino al 90 per cento in meno se la ricostruzione di strade, ponti, fabbriche ecc. fosse stata affidata a società irachene anziché Usa. Oltre alle guerre, anche gli aiuti umanitari sono un business con ottimo ritorno economico!

Se ne è accorto anche lo star system di Hollywood e attori e registi corrono a ingaggiare consiglieri per le loro campagne di beneficenza. «Posso capire che le Ong cerchino chi fa audience – commenta Polman -. è più carino vedere in tv George Clooney che vedere solo un campo profughi. Ma così si prende un personaggio che non sa esattamente di cosa si sta parlando semplicemente per dire: sono in questo campo profughi, manda dei soldi alla nostra organizzazione e risolveremo il problema per te. Ma la soluzione al problema è molto più complessa e non basta regalare 10 euro a una Ong. Così non dai informazioni e non fai un’analisi di ciò che accade. Alla fine – conclude Polman – significa che non stai affatto risolvendo il problema, lo stai solo coprendo”.

– da left- avvenimenti, 16 ottobre 2009

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Le sette vite di Shahrazad

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009

di Simona Maggiorelli

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Shirin Neshat

Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad.  «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana.  E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009  – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.

is50164lMa che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la  marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi  che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente.  Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”.  Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.

Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del  Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.

Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più.  Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».

Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros  nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772  d.C)  e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un  trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini.  Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60  parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.

da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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L’Italia non è un museo

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 1, 2009

Il presidente Napolitano e il professor Settis

Il presidente Napolitano e il professor Settis

Il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis risponde al ministro Sandro Bondi: “ La cultura non si fa con gli slogan” di Simona Maggiorelli

Professore, il ministro Bondi pretende di ridurre a rango di “esternazioni” le sue critiche espresse da presidente del Consiglio superiore dei beni culturali…

Il ministro ha maturato una convinzione singolare, cioè che il presidente del Consiglio superiore debba tacere. Un’idea, secondo me, contraria alla legge. E contraria alla Costituzione. Non posso assecondarla. Ho preferito fare altrimenti. In quanto cittadino non può dirmi che devo tacere. Siccome la libertà di parola è più preziosa di ogni altra ed è certamente più importante di qualsiasi carica, come ho spiegato nella mia lettera al ministro pubblicata da La Repubblica, non rinuncerò ad esercitarla da libero cittadino.

Dopo un lavoro cominciato da consigliere (anche molto critico) del ministro Giuliano Urbani, lei ha messo a punto un condiviso Codice dei beni culturali e paesaggistici che pone un freno agli archeocondoni, alle svendite, ai colpi di “finanza creativa”. La manovra varata dal Consiglio dei ministri lo scorso dicembre rischia di smantellarlo?

Anche in questo caso dico quello che penso:credo sia in atto un progetto di smantellamento. Né che ci sia una stanza dei bottoni gestita dal ministro con alcuni fedelissimi. Quello che vedo è una serie di mosse incoerenti fra loro, mentre manca una visione generale. Temo che il ministro Bondi, purtroppo, non abbia ancora una conoscenza sufficiente dei meccanismi di funzionamento del ministero a cui è proposto. Con grande candore si dichiara lieto che gli tolgano soldi dal bilancio. Non ho mai visto una cosa del genere.

Al centro della riforma Bondi c’è un progetto di valorizzazione affidato a Mario Resca proveniente dalla Mc Donald’s…

Continuo a ritenere che per la valorizzazione occorra un esperto di patrimonio culturale. Occorreva fare ciò che lo stesso ministro aveva dichiarato di voler fare, cioè un bando internazionale, per avere un esperto di primissimo piano. Il ministro Bondi non ha fatto bandi e nomina il dottor Resca che sarà certamente un bravo manager, ma certo non si intende di musei e di patrimonio d’arte. Come lui stesso dice. Insomma, non vedo perché nel caso del patrimonio culturale si debba puntare sull’incompetenza piuttosto che sulla competenza.

Il premier Berlusconi, qualche mese fa in Inghilterra, si vantò con la stampa del numero di tv e cellulari procapite in Italia, dello scudetto e di un patrimonio d’arte italiano pari al 50 per cento di quello mondiale. Oggi assistiamo al lancio del logo Museo Italia che fa tanto pensare al marchio Azienda Italia. Che ne pensa?

La favola del 50 per cento è da sfatare. Non si può fare un conto perché manca un inventario mondiale del patrimonio. In un giornale ho letto addirittura che l’Italia avrebbe il 70 per cento del patrimonio mondiale. E’ una cosa che fa morire dal ridere. Come se in Francia, in Spagna, in Gran Bretagna, in Germania non avessero le loro cattedrali, i loro musei. Quanto allo slogan Museo Italia è quanto mai sinistro e negativo. L’Italia non è museo, l’Italia è un paese vivo, di cittadini. Un Paese la cui principale caratteristica è che gran parte del patrimonio artistico si trova nelle città, nelle strade, nelle piazze. Nei luoghi dove si vive. Anziché dire annettiamo anche il resto dell’Italia a uno spazio museografico immaginario, virtuale, bisognerebbe fare il contrario: proiettare i musei verso la città e fare dei musei delle città. Più in là bisogna dire che non è con gli slogan che si salva la cultura, è con i progetti e con le risorse di personale che invece manca; la cultura si salva con investimenti che invece vengono ridotti ogni giorno che passa.

Fa da controcanto allo show di Berlusconi un discorso dell’allora presidente della Repubblica Calo Azelio Ciampi sulla lungimiranza dell’articolo 9 della Costituzione. Lei lo ricorda nel libro edito da Electa, Battaglie senza eroi

E’ un discorso bellissimo,per questo amo citarlo. Nel 2003 Ciampi parlava dell’Italia che è dentro di noi; la sua è una interpretazione autentica, corrisponde perfettamente a tutta la letteratura specialistica e in particolare alle sentenze della Consulta sul significato dell’articolo 9 della Carta. La costituzione non dice che l’Italia è un museo , dice che il patrimonio paesaggistico e culturale dell’Italia va difeso in funzione dei cittadini. Cioé va difeso un elemento vivo e attivo del diritto di cittadinanza, questo credo dovrebbe essere lo spirito in cui bisognerebbe lavorare. Di questo spirito purtroppo si vedono scarse tracce in giro.

Nel suo Itali spa ( Einaudi), invece, riportava un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung che stigmatizzava la politica di Tremonti e Urbani come talebana e distruttiva. Ora, con curioso ribaltamento, si legge che ci sarebbero i “talebani della conservazione”…

Fu la moderata e gentilissima Giulia Maria Crespi, in un’intervista, ad usare quella espressione per dire della distruzione del patrimonio. Ora questa parola su alcuni giornali italiani non particolarmente interessanti è diventata un modo per insultare chi difende la Costituzione. Io credo che si tratti di difenderla di fronte a uno strisciante tentativo di fare come se non esistesse. Ricorrere al diritto di cittadinanza, richiamare la libertà di parola, dire che la protezione del patrimonio e del paesaggio è un elemento essenziale dell’identità italiana.. se tutto questo significa essere talebani, allora sono io che non ho capito qualcosa.

Colpiscono in questo senso alcune dichiarazioni del professor Andre Carandini che sul Corsera parla di tentativi di santificare i beni culturali. “I magazzini dei musei – dice – sono pieni di beni impolverati con cartelli rosi dai topi e destinati all’oblio”.

Io non ricordo di aver letto questa intervista di Carandini, ma se lui ha usato questi argomenti la cosa mi addolora perché sono argomenti che sono stati usati proprio da alcuni politici. In particolare quest’ultimo sui magazzini dei musei come luoghi dell’orrore è un tema che stato lanciato da Umberto Broccoli, il nuovo sovrintendente comunale di Roma nominato dal sindaco Alemanno. Io non la penso così.Tutti i musei- non solo quelli italiani – hanno dei magazzini. Questo Broccoli forse non lo sa, ma Carandini certamente. I magazzini sono la riserva aurea dei musei. Nei magazzini ci sono cose che attendono ancora lo studio. Nei magazzini di ogni museo che si che si rispetti si fanno grandi scoperte, che poi “salgono” le scale e entrano nel museo. I magazzini naturalmente non devono essere polverosi e mal tenuti. Se ce n’è qualcuno polveroso e mal tenuto andrebbe tenuto meglio. Ma è molto difficile che ciò sia se si tagliano i fondi dei musei. E’ molto difficile che ciò sia, se non si assume nuovo personale. E’ molto difficile che ciò sia, se non assume nuovo personale; è molto difficile che ciò sia, se si tagliano i fondi dei musei. E’ molto difficile che ciò sia se non ci sono progetti culturali e solo slogan.

da Left-Avvenimenti del 6 marzo 2009

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L’archeologia non ha bisogno di Bertolaso

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 1, 2009

Roma, olearie papali

Roma, olearie papali

L’eminente archeologo Adriano La Regina in margine alla proposta di commissariamento dell’area archeologica romana avanzata dal ministro Sandro Bondi di Simona Maggiorelli

Commissariare l’area archeologica capitolina affidandola a Guido Bertolaso è un’idea non incontra il favore del più autorevole soprintendente archeologico che Roma abbia avuto: “Bertolaso – dice Adriano La Regina – può continuare a fare cose utili nel settore della protezione civile. Lui, come il dottor Mario Resca non credo siano le persone più adatte per occuparsi del patrimonio storico e artistico, che non richiede l’intervento delle loro professionalità”. Quanto agli attacchi del ministro dei beni culturali Sandro Bondi al soprintendente dell’area di Pompei, “le critiche nei confronti diPier Giovanni Guzzo – stigmatizza La Regina – dimostrano solo che il Ministro non è bene informato sulla situazione di Pompei. Guzzo ha fatto cose egregie, e se a Pompei vi sono ancora questioni da risolvere lo si deve soprattutto alle degradate condizioni sociali, politiche e amministrative del contesto. Di questo si deve far carico la politica. Quanto alla Soprintendenza è stato un grave errore creare al suo interno una struttura amministrativa autonoma e inconsapevole delle esigenze di natura scientifica e conservativa”. E i tentativi da parte del Ministro di mettere il bavaglio al Consiglio superiore dei beni culturali e a Salvatore Settis? “Bondi non ha mai dimostrato particolare riguardo verso quell’organismo, perché evidentemente preferisce il plauso ai pareri disinteressati. Del resto- aggiunge La Regina – il governo Berlusconi ha sempre cercato di dare sostegno alle esigenze del mercato d’arte, anche quando chiaramente in conflitto con l’interesse pubblico”. Ma l’attuale presidente dell’Ente Parco dell’Appia Antica non risparmia neanche il neo presidente del Consiglio superiore, Andrea Carandini, nominato in fretta e furia del ministro, a poche ore dalle dimissioni di Settis. E a proposito delle accuse rivolte da Carandini ai soprintentendenti, accusati di essere dei “talebani della conservazione”, La Regina nota: “Carandini non ama sostenere con argomentazioni pacate le proprie ragioni limitandosi abitualmente a svilire in maniera offensiva le ragioni degli altri. In queste condizioni le sue accuse ai soprintendenti di essere dei talebani della conservazione non meritano attenzione”.

Left-Avvenimenti del 6 marzo 2009

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Nuove mappe letterarie

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 10, 2005

Il canone occidentale scricchiola. Sulla scena internazionale una carica di nuove autrici: le voci più interessanti vengono dall’Asia, dal Medioriente, dall’Africa e dai Caraibi. Molte di loro sono state ospiti di Lingua Madre alla Fiera del Libro di Torino: Simona Maggiorelli ne ha raccolto il messaggio

Un luogo quasi magico, fatato. Carico di frutti. Uccelli multicolori sugli alberi. E fontane da cui sgorgano gocce di diamante. Montagne svettanti, cariche di neve e nel mezzo dell’altopiano assolato, la città di Kabul, cosparsa di ville e minareti. Così raccontava il paese in cui la famiglia aveva vissuto da oltre 900 anni il padre della scrittrice e giornalista Saira Shah. “Da bambina mi faceva narrazioni straordinarie di quella terra, per me, lontanissima”, ricorda la giovane autrice e giornalista, nata in Inghilterra e solo di recente, dopo la guerra, tornata a ritroso sulle strade dell’emigrazione della sua famiglia. Il suo L’albero delle storie (Rizzoli, pag. 309, 16,50 euro), presentato alla Fiera del libro di Torino il 7 maggio, è uno straordinario racconto di viaggio, evocativo, pieno di poesia e, insieme, di forte denuncia. “Questa volta non mi interessava fare la cronaca dei fatti, non volevo fare un intervento giornalistico – dice Saira, autrice nel 2000 del documentario scandalo Sotto il velo – , ma trasmettere al lettore un po’ di quel fascino che emana da quella terra antichissima, dalla sua millenaria cultura, dalla visione del mondo e dai valori di quell’Islam moderato in cui sono stata allevata”. Valori, dice, come la tolleranza, lo spirito di indipendenza, il coraggio, la dignità. “L’islam che mio padre mi ha trasmesso è quello di un maestro afgano come Baghawi di Herat – dice ad Avvenimenti. Sosteneva che un’ora di riflessione vale più di una notte di preghiera e che le donne sono la metà gemella degli uomini, con le stesse opportunità”. Un contrasto durissimo con ciò che accade oggi, con storie come quella, feroce, toccata qualche giorno fa a una giovane afgana, lapidata, come vuole la religione dei talebani, perché adultera. (Mentre il suo amante se la cavava con qualche frustata sulla pubblica piazza). Che dire allora dei talebani? E come sono riusciti a prendere il potere? “Certamente ancora oggi i talebani controllano larga parte del paese, ma non tutto – spiega Saira – . Non sono gruppi omogenei fra loro, ma hanno avuto mezzi economici per imporre la legge della violenza. E dal punto di vista religioso sono d’accordo con quei musulmani che denunciano l’analfabetismo dei talebani. Non conoscono veramente l’Islam. Solo alcuni sono persone colte, ma la gran parte di loro è di un’ignoranza abissale”. Ne L’albero delle storie racconta di loro, dei loro scempi, registrati viaggiando attraverso il paese devastato dalla guerra, percorso a bordo di un camion, con indosso il burka e con il cuore in gola per la paura; aiutata dalle attiviste della “Revolutionary association of the women” che, al suo fianco, rischiavano la vita come lei e più di lei: “prima la tortura e poi una pallottola in testa o più semplicemente la scomparsa nel nulla di Pul i Charki”. Saira non risparmia accuse, ai talebani, ma anche agli invasori stranieri. “Se gli Stati Uniti avessero davvero voluto – accenna – avrebbero potuto sgominare una volta per tutte i talebani. Ma non l’hanno fatto”. E, con amarezza, aggiunge: “Nella sua storia l’Afghanistan ha dovuto registrare due devastazioni. Due superpotenze, l’Urss prima e poi gli Usa, l’hanno invaso, devastato e poi se ne sono andate, lasciando il paese, come è oggi, in ginocchio, senza che l’opinione internazionale più se ne curi”.

La lingua dei sensi

Il suo primo libro, Caffè Babilonia (Pomegranate soup) è già stato tradotto in 8 lingue, ai capi opposti del mondo. «Una risposta davvero inaspettata», esclama Marsha, occhi luminosi e grandi, su un volto ancora da ragazzina che dimostra meno dei suoi 28 anni. «Tutto è successo così all’improvviso – dice la scrittrice iraniana presente alla Fiera del per presentare il libro edito da Neri Pozza -, una vera sorpresa, del tutto inaspettata».
A conquistare è stata la freschezza con cui Marsha Merhan racconta di tre sorelle che, con prelibatezze persiane, creano scompiglio in un paese irlandese. «L’unico vero scopo che mi ero data – racconta – era dare un po’ di gioia ai lettori». E puro piacere sensuale, che mobilita tutti e cinque i sensi, si sprigiona dalle pagine di questo romanzo, in parte autobiografico: di vero c’è la fuga con la famiglia dalla rivoluzione kohmeinista, l’infanzia in Argentina dove i genitori di Marsha avevano aperto un caffè persiano, e poi l’Irlanda dove ora la scrittrice vive. «Una storia un po’ complicata la mia – accenna-, con molti approdi fra diverse culture. Quando lasciai l’Iran – racconta – avevo due anni. E la maggior parte dei mie ricordi si legano agli odori, ai sapori. Il profumo delle spezie e dell’acqua di rose, l’odore dei gelsomini, i cancelli scolpiti di casa dei miei nonni, piccole cose, delicate. A Teheran non ho dovuto subire persecuzioni o violenze, come è accaduto a molti della mia famiglia». Nei primi anni 80 era cominciata la rigida imposizione del velo, e le vessazioni della polizia su chi dissentiva dai principi del neo stato teocratico. Ma in Iran oggi molte cose potrebbero cominciare a cambiare, sostiene Mehran: « Basta dire che il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. In Iran oggi moltissimi sono i ragazzi educati, colti, esigenti, inquieti, alla ricerca». Notizie che filtrano anche attraverso la rete, frequentatissima dai giovani iraniani. «Un paio di anni fa comunicavo via internet con una ragazza iraniana. Con immagini d’arte fotografava l’underground di Teheran e i locali di ritrovo, dove i giovani vanno per un caffè, per fumare e parlare. Discutono di filosofia, di politica, di arte, con lo stesso fervore con cui il loro coetanei occidentali parlano delle ultime tendenze di moda e di attori. Non servono a nulla, mi disse un giorno, scoraggiata: “le mie foto non cambiano nulla”. Il pensiero che il talento di giovani come lei possa andare sprecato mi pare tristissimo. Ma penso che un cambiamento pacifico possa avvenire, spero che accada nel tempo di una generazione» Tornare là però, per Marsha Mehran è più impossibile. Una solida e stratificata tessitura di differenti culture è il segno della sua scrittura. Esuberante, seducente, con ricette persiane a fare da stuzzicante incipit ad ogni capitolo. «Anche l’arte culinaria è un linguaggio – assicura la scrittrice-. Non c’è niente che curi e che unisca di più di un pasto preparato con cura». E poi parlando di “lingua madre”, uno dei fili rossi di questa fiera del libro, racconta: «scrivo in inglese, sogno in inglese ma la mia “anima” è persiana. E questo dualismo mi ha accompagnata da quando sono nata. A Buenos Aires – racconta -frequentavo la Scottish Accademy. Così fin da piccolissima ho imparato ad esprimermi in tre ritmi diversi: spagnolo nella strada, inglese a scuola e lingua farsi a casa. Ogni sera i miei genitori pretendevano che prima di andare a dormire dicessi: “Shab-e kher! Buenas Noches! Goodnight!” Non c’è possibilità per me di separare questi tre elementi, l’est, l’ovest, il persiano, l’inglese. La considero una gran fortuna».
Una ricchezza multietnica e moderna contro cui cozzano gli opposti fondamentalismi: del terrorismo islamico e del governo Bush. «Sono tempi precari, quelli che viviamo – suggerisce Meheran -, ma anche stimolanti. Negli Usa ho abitato per anni in città multiculturali come Miami e New York. Non ho mai visto un tale miscuglio di colori, tanta bellezza nelle differenze, come a NY. Certo ci sono anche tensioni, problemi. Ma la città attrae proprio perché è aperta, inclusiva. C’è di che riflettere. Si può sviluppare un forte senso di identità e di tradizione, anche accogliendo una molteplicità di altre tradizioni forti. Ci vuole tempo, pazienza e rispetto. Ma, forse, anche coraggio».

La lingua della ribellione

«Scrivo in inglese. Ma ho sempre avuto un rapporto molto complesso con questa lingua. Continuo a lottare per farle dire ciò che io vorrei. Perché, come ogni altra lingua contiene i residui della sua storia. Ma, come ogni altra lingua, non può opporre resistenza alla forza dell’esperienza e del pensiero». Così, con dolorosa passione, racconta il suo corpo a corpo quotidiano con la lingua del potere la scrittrice, poetessa e saggista caraibica Dionne Brand a Torino per presentare il suo nuovo romanzo Il libro dei desideri (What we all long for) edito da Giunti. La sua storia, ma anche uno dei suoi romanzi più forti e intensi, Di luna piena e di luna calante (Giunti), hanno radici a Trinidad, dove Brand è nata nel 1953. Una storia quella del romanzo che ce l’ha fatta conoscere, scandita da mattini lussureggianti nel verde e nel rosso dei campi di cacao. Di un rosso che “sa di sangue marcio” come dice la protagonista Marie Ursele, arrivata come schiava dall’Africa. Un giorno, deciderà di giocarsi la vita per far arrivare, ai “sordi” latifondisti, la protesta sua e dei compagni. «La storia di Marie si basa su fatti realmente accaduti a Trinidad – racconta Brand – Una donna che si chiamava Thisbe nel 1802, progettò un suicidio di massa fra gli schiavi di una piantagione. Per questo impiccata, il suo corpo mutilato, fu arso, la testa portata in giro come trofeo.“Questo è un sorso d’acqua rispetto a ciò che ho dovuto sopportare”, disse mentre le mettevano il cappio al collo».Una storia che è anche un grande affresco della storia di Trinidad, raccontata attraverso 150 anni. Terra amatissima da Brand nonostante l’esilio volontario, da 35 anni a Toronto.«La mia eterogeneità, il mio senso di libertà – racconta – lo devo all’essere cresciuta a Trinidad fra culture diversissime». Esperienza poi continuata nella ancora più multicultare Toronto. E dal cuore della città canadese è nata l’ispirazione per questo nuovo Il libro dei desideri, storia di emigrazione e di un’interminabile fuga dagli anni 70 agli anni 90 di una famiglia vietnamita. «Un romanzo – racconta la stessa Brand – che parla delle vite che si incrociano nella metropoli, del caso che le fa ritrovare, di passione giovanile e oblio….». Una storia forte e romantica, ma che non fugge da uno sguardo critico sul presente. «È difficile per me avere speranze positive sugli scenari internazionali» accenna Brand passando ala politica, l’altra sua passione. «Viviamo in tempi segnati dall’imperialismo americano, da corporazioni capitalistiche che controllano la sfera pubblica. Mentre nuovi razzismi richiamano vecchi razzismi. Non so cosa potrà accadere – dice con preoccupazione -. Il gap che va crescendo fra paesi poveri e ricchi non è un fenomeno naturale, né si tratta di un frutto del capitalismo che possa essere corretto e controllato da organismi come l’IMF o la banca mondiale. È un gap è deliberato e atroce”. Ma subito aggiunge: “Detto questo, in questo momento mi trovo a scrivere un libro di poesia. Una contraddizione assoluta. Ma c’è una parte di me che pensa che scrivere sia importante. Una parte di me insopprimibile, malgrado l’evidenza dica esattamente il contrario».

La lingua del viaggio

La lingua madre? «Ognuno ha la sua, originale», racconta Anita Rau Badami, autrice del romanzo rivelazione Il passo dell’eroe (Marsilio). Epos familiare, ironico e avvincente, che curiosamente ha fatto, di lei nata 38 anni fa in India, una delle voci emergenti della letteratura nordamericana. «Il passo dell’eroe – racconta Badami – è un passo classico nella danza indiana, quello dell’eroe nell’ora dell’attacco da parte dei demoni». Ma a guardar bene, suggerisce, «anche un uomo qualunque, un padre di famiglia, ha il suo passo dell’eroe. È lo stile, assolutamente personale, con cui ognuno di noi affronta le prove, le sfide, i drammi che la vita ci mette davanti». Accade così nel corale affresco di una famiglia indiana che Badami racconta in questo suo affascinante romanzo, in cui si alternano sette voci diverse, sette diverse figure di donne e uomini nel raccontare la vita nelle piccole case disagiate, nelle strette viuzze di Madras sovraffollate, in cui l’attaccamento a antichi riti va di pari passo con l’ultimo modello di computer. «Una società contraddittoria, ma che ha un suo fascino potente – racconta Badami -ho dei parenti là, mi sono nutrita dei loro racconti». Nostalgia di una terra lontana come può esserlo l’India dal Canada? «Sono emigrata all’inizio degli anni 90 – racconta – per seguire mio marito che lavorava qua. Ciclicamente, però, penso di tornare nella mia terra, così piena di gente che parlano, che fanno festa, in cui sai tutto di tutti, ma quando sono là poi mi manca il silenzio dei quartieri canadesi, l’aria metropolitana che si respira qua». Una vita sempre a metà fra due o più mondi quella di Badami, sempre all’incrocio di differenti culture. «Almeno tre, di sicuro- esclama Anita -. Ho sempre avuto a riferimento tre diverse lingue madri, l’inglese che parlavano tutti in casa, l’hindi che avevo imparato a scuola e il kannada, la lingua con cui mia madre ci sgridava. Lo parlava anche mio padre, ma con un dialetto diverso. Insomma sarebbe un vero caos per me dire: questa è la mia lingua madre». Una storia cominciata quando era piccolissima e il lavoro del padre, ufficiale delle ferrovie indiane costringeva di tanto in tanto tutta la famiglia a trasferirsi in una nuova zona. «Avevo una valigia verde allora che ogni volta riempivo con i miei giocattoli e vestiti, elettrizzata dalla prospettiva di una casa nuova e di fare nuovi amici. Quando mio padre andò in pensioni e non ci furono più viaggi, per me fu un momento tristissimo. Da grande poi mi sono accorta che quella valigia verde era diventata un baule pieno di storie e di personaggi da raccontare».

da Avvenimenti, n.17

: 10 maggio 2005

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