Posts Tagged ‘Hitler’
Posted by Simona Maggiorelli su marzo 12, 2016

papa Pio XII e Hitler
Il responsabile dei più atroci esperimenti nazisti, Menghele, fu protetto da una rete di rapporti internazionali, in Argentina e Paraguay. Ma si calcola anche che attraverso la ratline «la più grande via di contrabbando per i criminali di guerra nazisti» siano arrivati in Argentina circa 60mila colpevoli di crimini nazisti. Intanto Priebke ha vissuto fino alla morte in Italia fiero del proprio nazismo. Capò e «nazisti della porta accanto», ovvero gregari e complici della Shoah, dopo la fine della guerra, hanno fatto carriera negli Usa e in altri Paesi. Gerarchi ed ex ufficiali delle SS, colpevoli di atroci crimini contro l’umanità, celati sotto nuove identità, hanno giocato un ruolo di primo piano nella rete internazionale dello spionaggio e dell’estremismo nero nell’ultimo mezzo secolo. Complice la Chiesa. Perché «molti esponenti della gerarchia cattolica, quando non il Vaticano stesso- scrive Guido Caldiron ne I segreti del Quarto Reich – avevano sostenuto più o meno apertamente durante il conflitto regimi e movimenti fascisti, che facevano riferimento al cattolicesimo una delle proprie principali armi propagandistiche, in particolare nei Paesi dell’Europa dell’Est alleati con Hitler e Mussolini».
Ricostruisce tutte queste trame, denunciando le responsabilità anche di alleati e del Vaticano, il giornalista Caldiron in questo nuovo libro appena uscito- come il suo precedente che indagava le destre estreme- per l’editore Newton Compton. Da queste cinquecento pagine di ricostruzioni minuziose e documentate sulla fuga dei criminali nazisti e la rete che li ha protetti emergono vicende che mettono alla sbarra non solo Pio XII, di cui si conoscevano le pesantissime responsabilità, ma anche una diffusa rete di prelati collaborazionisti.
Nel libro Caldiron riporta, fra molti documenti e testimonianze, anche quella di Simon Wiesenthal: «In molti casi la Chiesa si spinse ben oltre il tollerare la costruzione di comitati di aiuto e prese l’aspetto di un autentico favoreggiamento dei criminali» scrisse il noto cacciatore di nazisti. Sottolineando che «principale via di fuga per i nazisti si rivelò essere il cosiddetto itinerario dei conventi, tra l’Austria e l’Italia. Sacerdoti della Chiesa cattolica romana, soprattutto frati francescani dettero il loro aiuto all’Odessa nello spostare clandestinamente i fuggiaschi da un convento all’altro, sinché essi non venivano accolti a Roma, in luoghi come il convento di via Sicilia che apparteneva all’ordine francescano e che divenne un regolare centro di transito di criminali nazisti». Il fenomeno, riporta Caldiron, «si sviluppò progressivamente a partire dal 1946 e raggiunse l’apice tra il ’48 e il ’49, per assottigliarsi a partire dal 1951». Ma interessante – fra molto altro perché questo libro è zeppo di notizie cadute in un comodo oblio per molti – sono anche i capitoli dedicati all’amnesia italiana rispetto al passato fascista, complici le mancate epurazioni in seguito all’amnistia togliattiana.
«L’assenza di una Norimberga italiana, la rapida archiviazione del capitolo dell’epurazione degli ex fascisti e le ripetute amnistie non avrebbero inciso solo , sul lungo periodo, nel formarsi di una memoria storica parziale e con ampie zone d’ombra nel nostro Paese e nel breve termine sulle sorti personali dei personaggi coinvolti ma – sottolinea Caldiron – avrebbero anche reso possibile il rapido rinserrarsi delle fila di coloro che dall’immediato dopoguerra sarebbero stati ribattezzati come neofascisti».
Scrive Guido Caldiron nell’introduzione di Quarto Reich Newton Compton (2016):
«Dopo il 1945 migliaia, forse addirittura decine di migliaia, di criminali di guerra nazisti e fascisti (tedeschi, austriaci, croati, ungheresi, belgi, francesi, ucraini e di molte altre nazionalità, compresi moltissimi italiani) trovarono rifugio e si rifecero una vita in America latina, in Medio Oriente o nella Spagna del dittatore Francisco Franco; e questo senza che nessuna indagine li riguardasse, protetti da una fitta rete di complicità, poi progressivamente rivelatasi e resa pubblica negli ultimi decenni anche grazie all’apertura degli archivi di molti Paesi e di alcune organizzazioni internazionali. Complicità e coperture che coinvolgevano settori della Chiesa cattolica e dello stesso Vaticano, dell’intelligence occidentale, a cominciare da quella statunitense, e di diversi governi sia tra le democrazie dell’Occidente sia tra i regimi autoritari di America latina e mondo arabo, con effetti più estesi e sistematici nel clima della Guerra fredda. Una fitta trama di segreti, di appoggi e di omissioni che, proprio a partire dalle ricerche condotte da Simon Wiesenthal e da quanti ne hanno proseguito l’opera fino ai giorni nostri – e dopo un’ampia consultazione delle fonti storiche e delle inchieste giornalistiche che in settant’anni sono state dedicate a questo tema –, il presente libro intende ricostruire, per illustrare le condizioni storiche e le scelte della politica che resero possibile la fuga di così tanti nazisti e collaborazionisti, nonché la lunga, se non totale, impunità di cui costoro hanno potuto godere, talvolta fino a oggi. […]
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A una perlomeno sospetta inazione avrebbe fatto seguito il tentativo di proteggere in molti casi i carnefici anziché le vittime della seconda guerra mondiale. Per esempio, la pensava così Gitta Sereny, giornalista austriaca, ma londinese d’adozione, autrice già negli anni Settanta di uno dei testi più noti e scioccanti sul nazismo e sulle protezioni di cui godettero molti suoi esponenti nel dopoguerra: In quelle tenebre. Il testo era frutto dei lunghi colloqui avuti con Franz Stangl, un ufficiale delle SS, austriaco e cattolico, che aveva dapprima partecipato al programma di eutanasia dei disabili promosso dal Terzo Reich, quindi diretto i campi di sterminio di Sobibór e di Treblinka e che, dopo il 1945, sarebbe riuscito a trovare rifugio in Brasile grazie all’aiuto di una rete di sacerdoti apertamente filofascisti14. Nelle conclusioni della sua celebre inchiesta, tradotta in tutto il mondo, Sereny si poneva un interrogativo esplicito sull’atteggiamento mostrato dal Vaticano e dai suoi vertici fin da quando il piano criminale dei nazisti, già prima dello scoppio della guerra, aveva cominciato a prendere forma. Se papa Pio XII, si chiedeva infatti la giornalista, fin dall’inizio avesse preso una decisa posizione contro l’eutanasia, contro il sistematico indebolimento per mezzo del lavoro forzato, la fame, la sterilizzazione e lo sterminio, delle popolazioni dell’Europa orientale, e infine contro lo sterminio degli ebrei, ciò non avrebbe potuto influire sulla coscienza dei singoli cattolici direttamente o indirettamente coinvolti in queste azioni al punto da indurre i nazisti a cambiare la loro politica? Altrettanto netta la risposta indicata da Sereny: Una presa di posizione inequivoca, e ampiamente pubblicizzata, assunta alle prime voci di eutanasia, e accompagnata da una minaccia di scomunica per chiunque partecipasse a qualunque volontaria azione di assassinio, avrebbe fatto del Vaticano un fattore formidabile col quale fare i conti, e avrebbe almeno in certa misura – e forse profondamente – influenzato gli eventi successivi. @simonamaggiorel
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 22, 2011

Maurizio Ferraris
Con un convegno a Bonn e una lectio magistralis al Festivalfilosofia, il docente dell’Università di Torino lancia un manifesto per il New Realism. E apre la discussione pubblica
di Simona Maggiorelli
Mentre si annuncia un convegno internazionale che riunirà il Gotha della filosofia a Bonn per discutere della necessità di un New Realism (dopo anni di ammorbante Pensiero debole) anche in Italia si accende il dibattito sulla proposta lanciata dal filosofo dell’Università di Torino Maurizio Ferraris. Che sabato 17 settembre ne parlerà in una lectio magistralis, in piazza a Carpi nell’ambito del Festivalfilosofia di Modena. Ad ottobre, poi, uscirà per i tipi di Guanda il suo nuovo libro L’anima e l’iPad .
Professor Ferraris, Pensiero debole e Postmoderno hanno imperversato per anni.
Con quanto danno?
I danni sono venuti soprattutto attraverso il populismo, che ha ricevuto un potente anche se in buona parte involontario fiancheggiamento ideologico da parte del Postmoderno. E queste ricadute non hanno riguardato solo le élites più o meno vaste interessate alla filosofia o all’arte postmoderna ma anzitutto una massa di persone che forse di Postmoderno non hanno mai sentito parlare, o quasi, e che subiscono gli effetti del populismo mediatico, compreso il primo e il più grande: la convinzione che si tratti di un sistema senza alternative.

Duchamp Gioconda con i baffi
Il filosofo Richard Rorty diceva che non esiste una realtà, «out there», là fuori. Mentre Gianni Vattimo in Addio alla verità sostiene che la verità è sempre dispotica. Ora, lui si dice di sinistra, addirittura comunista. Ma come si può trasformare se stessi e la società a partire da un così assoluto nihilismo?
Bertrand Russell raccontava che a una cena una signora gli disse: “Trovo che il solipsismo sia una bellissima teoria, e vorrei fondare una associazione di solipsisti”. Il nichilista che pensa di trasformare il mondo non è meno paradossale di quella signora. Se non c’è verità e realtà come si può capire se si sta trasformando se stessi e il mondo o se invece si pensa solo di farlo? A parte questo autoinganno, c’è un problema più grosso: se c’è una dottrina che sostiene che non ci sono fatti, solo interpretazioni le vittime di soprusi non potranno neppure lamentarsi, chiedere giustizia, organizzare una reazione, appunto perché l’ideologia dominante è che non ci sono fatti e che la verità la si costruisce come la costruiscono certi telegiornali. Così le vittime subiranno senza avere la speranza che, un giorno, giustizia sarà fatta, il che significa che subiranno ingiustizia due volte.
Una rinuncia così totale alla ricerca della verità non rischia di dissolvere ogni ricostruzione storica, obbligandoci a restare muti e inerti di fronte a ogni forma di negazionismo?
Questo è il problema maggiore. Curiosamente, la “scuola del sospetto”, l’idea che si debba dubitare di tutto ciò che viene assunto come ovvio e viene dichiarato pubblicamente, nasce come esercizio critico, ma può avere esiti a dir poco dogmatici: chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato. Una specie di condono tombale cala su tutte le tragedie dell’umanità. Certo, Cartesio diceva che una volta nella vita, se si vuol essere filosofi, si deve mettere in dubbio tutto. Ma, appunto, diceva che è una specie di esercizio da farsi una volta sola e in veste di filosofi. Nella vita di tutti i giorni, invece, il dubbio sistematico è una posizione insostenibile (anche gli scettici si scansano se vedono che gli sta venendo addosso un tram), e va a finire che uno dubita solo di ciò che gli fa comodo dubitare.

Barthes e Foucault
A partire dal ‘68 si è registrato uno strano fenomeno: ogni proposta di un pensiero forte sulla realtà umana (anche se radicato nella realtà, anche se sottoposto a verifica) è per la sinistra – specie quella di matrice foucaultiana – sempre fascista. Perché?
Perché il ‘68 è stato l’estensione al mondo sociale della pratica iper-ironica delle avanguardie. Si trattava sempre di mettere i baffi alla Gioconda, di usare le parole tra virgolette, soprattutto se queste parole erano “verità” e “realtà”. Il colmo l’ha toccato Roland Barthes quando (scherzando ma non troppo) ha detto che «la lingua è fascista», perché ha norme e regole. A questo punto il vero parlante antifascista sarebbe lo sgrammaticato e l’analfabeta, il vero medico antifascista sarebbe quello che non sa curare!
Derubricare l’adesione al nazismo di Heidegger a scelta privata è lecito? O bisogna aprire gli occhi su quello che molti maestri del ‘68 e teorici del pensiero debole non hanno voluto vedere: ovvero che il pensiero stesso di Heidegger è nazista? E perché i filosofi irresponsabilmente non hanno voluto vedere questa pericolosa consustanzialità?

Heidegger, 1933
Non è assolutamente lecito considerare il nazismo di Heidegger una “questione privata”. Anche perché, come lei dice, il pensiero di Heidegger è consustanziale al nazismo. Molti filosofi di sinistra – ma non tutti, per esempio non Habermas – non hanno voluto vedere tutto questo. In parte anche perché vederlo non era facilissimo, nel senso che l’adesione al nazismo era presentata come un incidente di percorso superato già nel ‘34 (era l’autodifesa di Heidegger), e i testi di Heidegger che circolavano a sinistra non erano certo il Discorso di rettorato (tradotto molto tardi: in italiano, addirittura nel 1988), ma testi apparentemente più innocui, in cui si diceva che il linguaggio è la casa dell’essere e che l’uomo abita poeticamente. Tranne che poi anche in quei testi emergevano sprazzi inquietanti, per esempio, in un corso su Nietzsche del 1940, un elogio del Blitzkrieg in corso, oppure, nella intervista allo Spiegel del 1966 e pubblicata alla sua morte (Ora in Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda ndr), la tesi secondo cui paragonava la Shoah all’agricoltura meccanizzata. Ma, a prescindere da questi sprazzi, quello che non si è visto in generale, è che il pensiero heideggeriano nel suo insieme è iper-gerarchico, e che l’appello al nichilismo e alla volontà di potenza, l’insistenza sulla Decisione, l’abbandono della nozione tradizionale di “verità”, sono una adesione profonda e non opportunistica al Führerprinzip. Non è privo di ironia il fatto che questo pensiero sia diventato un punto di riferimento essenziale per filosofi che militavano a sinistra e che si volevano anti-autoritari. Anche se tra questi filosofi c’è stato chi come Habermas ha denunciato subito l’equivoco e chi ha lavorato su Heidegger, ma senza rimuoverne i caratteri inquietanti, come ha fatto Derrida (ma è proprio lui che mi ha aperto gli occhi su Heidegger). Vista nell’insieme comunque la ricezione è stata indulgente talora sino alla cecità.
Il Pensiero debole – dice Rovatti – è nato come critica al potere della metafisica. Ma poi è diventato esso stesso discorso fumoso e astratto. La stessa pratica della decostruzione proposta da Derrida non ha finito per fiaccare ogni ricerca in una continua e sempre rimandata diffrazione del senso bloccandola in una paralizzante indecidibilità?
Il Pensiero debole, la Decostruzione, il Postmoderno, sono cose molto diverse, come sottolineava giustamente Aldo Rovatti, anche se tra loro c’è una “somiglianza di famiglia” e dei temi comuni… Diciamolo con semplicità: è molto più facile decostruire che non costruire, anche se, ne sono pienamente convinto, ogni costruzione degna di questo nome richiede una decostruzione, un momento critico della tradizione, come in effetti è sempre avvenuto tra grandi filosofi: Aristotele ha decostruito Platone, ma se si fosse limitato a questo non sono sicuro che ce ne ricorderemmo ancora. Inversamente, se sono convinto che ci ricorderemo ancora per secoli di questo grande e controverso filosofo che è Jacques Derrida, è perché non è stato semplicemente un decostruttore; è stato anche un grande costruttore, ha lavorato in modo originale e propositivo sulle nozioni di sovranità, amicizia, giustizia. Cosa che ovviamente non si può dire di altri decostruttori.
Intervenendo nel dibattito fra New Realism e Postmoderno, Emanuele Severino sul Corriere della Sera abbozza uno sferzante paragone: «Maurizio Ferraris parla di verità… Anche Benedetto XVI a Madrid ha invitato i giovani a cercare La Verità». Perché la verità dovrebbe essere appannaggio della religione e non degli esseri umani?
Nell’esortare i giovani alla ricerca della verità (si intende, ed è una limitazione che non va trascurata, nel quadro di una “verità superiore”, quella della fede) il papa fa il suo mestiere, così come lo fa quando ricorre all’epistemologia anarchica di Feyerabend per sostenere che Bellarmino non aveva poi tutti i torti nel condannare Galileo. Quelli che secondo me non fanno il loro mestiere sono i filosofi che invitano a dire addio alla verità, o gli epistemologi che sostengono che le teorie scientifiche sono delle specie di “visioni del mondo” senza una particolare pretesa di verità. A questo punto, ovviamente, lasciando il monopolio della verità ad altri. La strategia da seguire, ovviamente, è tutta un’altra: riconoscere quanta importanza abbia, nella vita umana, la verità, e impegnarsi nella sua ricerca e possibilmente nella sua pratica, perché spesso la verità è sotto gli occhi di tutti, solo è difficile da attuare.

Jacques Derrida
Nel suo Ricostruire la decostruzione (Bompiani) si legge: « Il programma del pensiero postmoderno prevedeva la liberazione sessuale, a partire dal progetto di rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari. Ma “l’attivismo sessuale” non ha prodotto liberazione sociale…». Perché secondo lei?
In parte perché è scattato un meccanismo peraltro già studiato da Horkheimer e Adorno. Il sovrano concede al popolo libertà sessuale, e in cambio tiene per sé non solo la libertà sessuale ma anche tutte altre libertà che non sono concesse agli altri. Da questo punto di vista, non c’è niente di più conveniente, anche dal punto di vista economico, della concessione della libertà sessuale. I sudditi se la vedono tra loro, non sono necessarie strutture costose, per esempio buone università (come sarebbe nel caso che il sovrano concedesse al popolo la libertà di studio), e non ci sono ricadute rischiose (per esempio il fatto che i sudditi si stufino del sovrano, come sarebbe nel caso che il popolo si istruisse e prendesse coscienza). In questo senso, l’attivismo sessuale è stato molto più efficace, per paralizzare eventuali prese di coscienza, del panem et circenses, appunto perché non richiede neppure la concessione di pane o di giochi. Basta un discorso pubblico in cui si dice che “le persone a casa loro fanno quello che vogliono”, il cui vero significato è spesso: “le persone a casa loro fanno quello che voglio”.
La filosofia di Derrida è un curioso pastiche di vecchio e nuovo, lei ha detto in un convegno in sua memoria. Aggiungendo che il suo rifarsi alla psicoanalisi «è stato un enorme arcaismo». In Filosofia per dame (Guanda) poi lei scrive: «La psicoanalisi si è industriata a ridurre tutte le colpe a sensi di colpa non facendo un buon servigio all’umanità»…
L’ombra maggiore della psicoanalisi, a mio avviso, è proprio quella contenuta nel brano che lei riporta: la confusione tra sensi di colpa e colpe vere e proprie, che fa sì ,per uno psicoanalista, Hitler sia essenzialmente uno che ha avuto una infanzia difficile!
da left-avvenimenti del 9 settembre 2011
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 7, 2011
di Simona Maggiorelli

Maurizio Cattelan
Quando mesi fa alla Biennale di Venezia, con una flotta di spettatori e appassionati d’arte, ci siamo ritrovati a naso in su per rimirare la lunga teoria di piccioni impagliati che Maurizio Cattelan ha schierato sui cornicioni, c’è venuto più di un dubbio che l’artista padovano volesse farsi beffe del nostro piccionesco ammirare un’opera di fatto inesistente. Il messaggio, a quanto pare, non era passato così forte e chiaro alla Biennale del 1997 dove per la prima volta Cattelan aveva tirato fuori dal cilindro i suoi assorti e attoniti piccioni. E memore di quel “perseverare… diabolicum” che rimbombava nella sua infanzia cattolica, ora ci riprova, reiterando la trovata alla personale che dal 4 novembre 2011 gli dedica il Guggenheim Museum di New York.
Mettendo ancora una volta a dura prova il malcapitato critico: gesto di rottura contro il mummificato sistema dell’arte internazionale? Barzelletta artistica? Opportunismo di mercato? Trovata pubblicitaria? Quando si parla di Maurizio Cattelan, l’artista italiano più pagato e gettonato del momento, saltano le categorie e sale l’imbarazzo nel leggere e interpretare opere e azioni artistiche che sembrano esaurirsi in un simpatico gesto provocatorio.
Come quella volta che, per vendicarsi delle esuberanti confidenze sessuali di un gallerista, Cattelan lo convinse a comparire in un Tableau vivant travestito da coniglio rosa. «Avevo obbligato il gallerista a indossare la sua ossessione» dice Cattelan al critico e sodale Francesco Bonami. «Così, sotto forma di arte, si poteva vedere la mania di una persona. La galleria era una trappola per fare fesse le ragazze – racconta Cattelan in Autobiografia non autorizzata (Mondadori) -. Ma ora le ragazze che arrivavano, anziché essere affascinate dal giovane, ne ridevano a crepapelle».

Wojtila visto da Cattelan
Altrove avrebbe detto poi che quella buffa mascherata poteva essere anche un autoritratto. Come quando, nel 2001, Cattelan si è ”incarnato” in un pupazzo che spunta dal pavimento del museo di Rotterdam rappresentando così il suo essere «un abusivo dell’arte» (lo confessa a Catherine Grenier nel nuovo libro intervista Un salto nel vuoto, Rizzoli).
O come quando ha raccontato sé stesso come un orsetto che pericolosamente va in triciclo su un filo sospeso a mezz’aria mentre il pubblico lo spia dal buco della serratura.
Ma sarebbe anche ingiusto dire che Cattelan sia solo questo. Come ricorda la curatrice della mostra newyorkese Nancy Spector nel catalogo Maurizio Cattelan All (Guggenheim Skira), l’artista padovano è stato anche capace di ideare immagini dirompenti come papa Wojtyla colpito da un meteorite ne La nona ora (1999) e ha osato denunciare la criminale pazzia di Hitler rappresentandolo mentre prega in ginocchio (Him , 2001).
La Spector ha appeso quella statua a fili invisibili lasciandola sinistramente a dondolare nel vuoto, insieme ad altre immaginifiche “creature” dell’universo Cattelan, dall’asinello con la tv in groppa, al cavallo con la scritta INRI, senza dimenticare il Pinocchio riverso nella fontana di Franck Llloyd Wright, ideato nel 2008 proprio per il Guggenheim.
da left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su luglio 11, 2010
Una religione molto “terrena”. Tesori nascosti, scandali e affari della Chiesa, nel nuovo libro dello storiografo Claudio Rendina
di Federico Tulli

Ratzinger
Dalla Cappella Sistina, a Città del Vaticano, c’è una piccola porta un po’ defilata che è sempre chiusa. Quasi invisibile, serve a dividere uno dei luoghi d’arte più famosi e visitati al mondo da uno dei siti meno noti e più segreti della Santa sede. Chiusa al pubblico, essa nasconde all’occhio dei comuni mortali il sacrario apostolico vaticano. L’ambiente si sviluppa in diverse sale dislocate su tre piani, dove sono custoditi tra le varie stanze oggetti e paramenti di valore storico, e capolavori di arte orafa e tessile di epoche diverse. Un tesoro dal valore inestimabile.
«Ci sono le pianete di Urbano VIII e Leone XII, i manti di Pio IX e Leone XIII, e poi anelli, calici, piviali con gemme incastonate per oltre 6.000 manufatti, mitrie. Tra cui quella più famosa usata da Pio IX per la proclamazione dell’Immacolata concezione e riutilizzata da Giovanni Paolo II nel 1987 per le celebrazioni dell’anno mariano. E ancora, i triregni di Pio IX e Leone XIII, gli anelli ingioiellati, i pastorali, i sei candelabri con la croce di Leone XII, tutto d’oro. Come sono d’oro i razionali con gemme e smeraldi usati per agganciare i piviali. E c’è anche la toletta da viaggio di Pio IX. È fatta di legno, tartaruga e avorio, ha un interno in velluto rosso e contiene sette rasoi, ciascuno per un giorno della settimana.Che difatti vi è inciso sopra. Forse per non sbagliarsi». Circa venti anni fa Claudio Rendina ha varcato quella porticina e, «grazie al solito monsignore compiacente», è riuscito a vedere l’immenso tesoro che vi è custodito. Pochi sanno della sua esistenza. Un paio di anni fa è stata organizzata a Spoleto la mostra Santi e papi in terra d’Umbria in cui vennero esposti alcuni dei pezzi, quasi nessuno tra quelli più pregiati. Calcolarne il valore è praticamente impossibile. Di certo non potrà più farlo Rendina. «Oggi – racconta lo storiografo e romanista facendosi una risata di gusto – se torno da quel monsignore mi prende a calci nel sedere». Già perché nel frattempo Rendina ha scritto libri come La Santa casta della Chiesa e I peccati del Vaticano, andando a soddisfare la sua curiosità investigativa anche in altre stanze che il Vaticano fa di tutto per mantenere al riparo da occhi indiscreti. Oggi, sempre per Newton Compton, lo scrittore completa la trilogia con L’oro del Vaticano. In cui ricostruisce la complessa rete patrimoniale della Chiesa cattolica fornendo un utile strumento di comprensione anche per le vicende che negli ultimi mesi hanno coinvolto diversi appartenenti alle gerarchie ecclesiastiche. Non ultimo, il caso dell’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, indagato per corruzione dalla Procura di Perugia per gli appalti sui Grandi eventi, e tirato in ballo nei giorni scorsi in un’intercettazione dell’inchiesta della Procura di Napoli su Trenitalia.
L’elenco dei beni, finanziari e immobili, di proprietà del Vaticano dice di un’organizzazione politico-religiosa ben lontana dallo spirito di umiltà e povertà che la stessa Chiesa propaganda ogni giorno. È d’accordo?
Assolutamente sì. È l’indignazione che mi provoca questo “doppio registro” ad aver ispirato l’indagine storica da cui muove questo libro. Esaminando gli aspetti finanziari e patrimoniali che sono alla base dell’esistenza di Città del Vaticano ho incrociato tutta una serie di fatti che poco si sposano con lo spirito apostolico invocato dalle alte sfere della Chiesa. Dal rifiuto della legge sulle guarentigie del 1871 ai Patti di Mussolini del 1929, al Concordato di Craxi dell’84, passando per le vicende dell’Istituto opere religiose, mi sono sempre trovato davanti un apparato organizzato per gestire al meglio le ricchezze sconfinate via via accumulate tramite le diverse fonti di approvvigionamento sparse in tutto il mondo. Mi riferisco, solo per citarne alcune, all’Elemosineria apostolica, ai guadagni della Sacra rota, allo sfruttamento di santuari e pellegrinaggi, alla vendita di monete, medaglie e francobolli, alle offerte nelle chiese. Per non dire poi dell’immenso patrimonio immobiliare distribuito nelle diocesi dell’intero pianeta. Infine, ma questo è un caso unico al mondo, dei 4,5 miliardi di euro che ogni anno l’Italia dà alla Chiesa tra ottopermille, finanziamenti e agevolazioni fiscali.
Rendina, chi gestisce ora tutto questo tesoro?
Oggi, senza dubbio l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica costituita da Paolo VI nel 1967. La potremmo definire una sorta di ministero che amministra l’assegnazione degli immobili, la gestione della circolazione del denaro, dei flussi di pellegrini e così via. Fino a coprire tutti i beni di proprietà della Santa sede, destinati a fornire i fondi necessari all’adempimento delle funzioni della curia romana.
E l’Istituto opere religiose che ruolo ha?
Lo Ior è la cassa del Vaticano, il forziere dov’è custodito tutto il denaro che arriva a Roma dalle diverse “fonti”. E qui rimane fino a quando non ce n’è troppo. Quello, per così dire, in eccesso finisce alle Isole Cayman dove c’è il Fort Knox del Vaticano. Il fortino inespugnabile.
Cayman è sulla lista grigia dell’Ocse. È cioè uno dei Paesi che pur essendosi impegnati a rispettare le regole fiscali internazionali non le hanno concretamente applicate.
Alle Cayman ci sono due «quasi parrocchie», così le definisce l’Annuario pontificio, ufficialmente distaccate dall’arcidiocesi di Kingston in Giamaica, con il ruolo di Missio sui iuris, cioè come “terra di missione” apostolica. In realtà di spirituale c’è ben poco come il nome e il Vaticano vorrebbero far credere. Le quasi parrocchie fanno direttamente capo a Roma e sono rette dal cardinale Adam Joseph Maida, che è membro dello Ior.
L’otto per mille è una “fortuna” solo italiana?
Ci fu un’istituzione simile ottenuta dal cardinal Pacelli, futuro Pio XII, quando era nunzio apostolico nella Germania di Hitler. Ma a quei tempi e in quei luoghi la Chiesa di Roma versava veramente in cattive acque e questo è l’unico caso oltre al nostro. Nel mondo non esistono altre situazioni simili. Peraltro tutti i vescovadi nel mondo hanno proprietà immobiliari esentasse che insieme alle offerte garantiscono loro un’adeguata sopravvivenza. Questo vale anche per l’Italia. Come a dire che l’ottopermille è una forzatura senza senso. Con tutti i miliardi che si ritrovano in cassa e senza che si capisca bene che cosa se ne facciano. Visto che fino a oggi è capitato solo una volta con Paolo VI che a un papa venisse in mente di vendere parte del tesoretto e donare il ricavato
ai poveri.
da left-avvenimenti del 9 luglio 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 30, 2010
Studiosi italiani, francesi e tedeschi, in un interessante volume interdisciplinare, indagano le responsabilità di Heidegger e di intellettuali cattolici fascisti nella creazione di un’ ideologia folle
di Simona Maggiorelli

La difesa della razza
In un Paese di incentivi in busta paga ai poliziotti che arrestano dei clandestini, di medici che potrebbero denunciare immigrati non in regola con il permesso di soggiorno e, soprattutto, in un Paese dove la classe dirigente cerca di piegare i programmi scolastici a questo tipo di “cultura”, rischia di non scandalizzare troppo che il razzismo online da noi sia cresciuto del quaranta per cento rispetto al 2008.
E basta fare una rapida ricerca sul web per scoprire che nella scrittura “disinvolta” che circola su facebook come nello slang di certi social network compaiano termini tristemente noti come razza, forza, «italiani veri», «stranieri invasori», «razza padana»… Parole che richiamano un universo di orrori nazisti e fascisti che lasciano senza fiato. Perché, viene da chiedersi, nonostante il ricordo ancora vivo dei massacri novecenteschi assistiamo oggi a questi rigurgiti? Perché vigoreggia una delle peggiori concezioni dell’uomo che si siano conosciute nella storia, ovvero quella fondata su una inesistente suddivisione del genere umano in razze? è un problema di “memoria corta”? O piuttosto il frutto della mancata interpretazione e “neutralizzazione” delle premesse concettuali della antiscientifica e violenta ideologia della razza che così, inopinatamente, continua a essere riproposta? E’ proprio questa la tesi che la ricercatrice Sonia Gentili sostiene e argomenta con passione in una nuova iniziativa editoriale di Carocci, il libro Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento.
Un volume scritto a più mani, complesso e “militante” (per l’acribia con cui propone strumenti critici di lettura della storia). Qui l’italianista dell’università La Sapienza, con la collega Simona Foà, ha radunato contributi multidisciplinari di studiosi italiani, tedeschi e francesi che riportano in primo piano le responsabilità di pensatori come Heidegger nel dare fondamento filosofico e “sacralità” al nazismo.
Ma anche il ruolo giocato dai fascisti cattolici italiani – dal germanista Guido Manacorda ad Auro d’Alba, a Giovanni Papini e altri firmatari del Manifesto della razza – nel risemantizzare in senso cattolico concetti chiave dell’ideologia fascista come, per esempio, «bella morte», fede, impero, guerra, mistica, ordine nuovo e razza… «I loro modelli di pensiero negli anni Trenta furono perfettamente collimanti con le convinzioni dei principali attori del Vaticano» scrive Patrick Ostermann nell’importante saggio Il concetto cattolico fascista di razza pubblicato nel volume.
Da altri lavori emergono invece le responsabilità di scienziati che leggevano Darwin “da destra” insieme a quelle, più note, di scienziati direttamente arruolati all’eugenetica hitleriana. Ed emerge anche, con chiarezza, che non ci fu mai vera opposizione fra razzismo a base biologica e quello di marca spiritualista e cattolica. «L’opposizione fra i due filoni fu usato come una sorta di specchietto per le allodole, per coprire le vere assonanze e nei giochi di potere per scaricare quegli intellettuali che non servivano più al potere. Lo fece anche Hitler con Heidegger accusandolo di spiritualismo ma – non esita a dire Gentili – il pensiero dell’autore di Essere e tempo funzionò addirittura da ponte. Basta dire che, sostenendo un’idea spiritualistica dell’uomo, Heidegger finiva poi per raccontarlo in una chiave sostanzialmente biologizzata, attraverso una grande metafora biologica».
Più in generale tra Italia e Germania nel secolo scorso si strutturò una solidarietà molto forte fra cultura idealistica e una certa cultura biologica che, in funzione anti darwiniana, recuperò un’idea di vita umana che sfuggirebbe a ogni riduzione a materia e all’osservazione. «Era un pensiero biologico – spiega la studiosa romana – che recuperava una concezione di ciò che è “vitale” come sostanzialmente “spirituale”. Il nemico era Darwin e la sua idea che la vita sia in continua evoluzione». Il pericolo comune per riduzionisti e idealisti, insomma, era il Darwinismo, «una concezione del vivente – dice Gentili – in continuo cambiamento e adattamento all’ambiente». Ma, se Martin Heidegger e con lui il filosofo italiano Giovanni Gentile vengono radicalmente messi alla sbarra in questo libro, assai interessante è anche la sezione di Cultura della razza e cultura letteraria del Novecento in cui vengono esaminate le responsabilità di pensatori settecenteschi e ottocenteschi che furono inconsapevoli anticipatori delle teorie della razza.
A cominciare da Fichte che scrisse del primato del popolo tedesco basato sul suo «vitalismo» e coniò una sorta «di ideologia della guerra». Per arrivare al Volkseele di Herder che indirettamente giocò un ruolo importante nella creazione del mito del genio nazionale e di un nazionalismo basato sul mito fondante di “origo”. Ma non solo.
Nel libro sono ricostruite puntualmente anche le responsabilità di Karl Jaspers nell’offrire indiretto supporto al concetto nazista di storia come destino segnato dalla propria energheia tedesca. «Di fatto – spiega ancora Sonia Gentili – si tratta di modi di pensare violenti. Ma non basta condannare moralmente l’accaduto per essere al riparo dalla ripetizione della barbarie. Il problema più grosso – aggiunge – è che un certo modo di concepire la storia e l’uomo persiste ancora oggi. Sto parlando di una mentalità essenzialista basata sulla tradizione aristotelica e sull’idea di anima cristiana.Con la crisi del soggetto universale illuministico in epoca primo romantica queste idee ripresero largamente piede. Questo modo di concepire l’umano, che implica un rapporto di prepotenza sull’altro, ci mette seriamente nei guai. è un retaggio novecentesco che porta a costruire la nostra società sull’esclusione e non sull’inclusione».
Ma su cosa si basa al fondo questa ideologia novecentesca di una razza superiore che spinge verso la negazione del diverso e che nel nazismo divenne annientamento dell’altro? «Al fondo c’è un’idea di soggettività fondata sulla forza vitale – nota Gentili-. Su questo si basa la costruzione della razza di tipo novecentesco che ha dietro l’antropologia heideggeriana, ovvero il pensiero che la razza buona sia quella forte». Un modo malato e violento di concepire l’essere umano che fu dei nazisti ma anche dei cattolici fascisti, ribadisce la studiosa. «Nello sviluppo dei rapporti di collaborazione e, direi, di vera e propria continuità fra il mondo cattolico e il nazismo – ricostruisce Gentili – in Italia svolse un ruolo di primo piano una figura terribile come quella del fiorentino Guido Manacorda. La sua concezione spiritualistica della razza fu fatta propria da molti cattolici attraverso Agostino Gemelli che sostituì al materialismo razzista l’idea che esista un “carattere” spirituale psicologico che individua le razze. Gemelli fu una figura chiave nell’aggiornamento del concetto di essenza dell’anima in chiave di gruppo di tipo razzista». E se pochi conoscono la figura di questo psicologo che si fece francescano e che annovera fra i suoi scritti articoli come La filosofia del cannone e il libro Il nostro soldato, manuale per rendere il militare una macchina da esecuzione, molto più nota è la vicenda di Karl Gustav Jung che in quegli stessi anni, indossata la camicia bruna, parlava impunemente di «inconscio ariano». Nel libro il suo caso non viene analizzato ma Sonia Gentili commenta: «La sua storia rappresenta uno degli aspetti più pericolosi di questa vicenda. E cioè il fatto che le concezioni dell’uomo che si sono sviluppate dai primissimi anni del Novecento fino agli anni Quaranta hanno innervato profondamente e tragicamente la psicologia. Ma per altri versi bisognerebbe parlare anche di Freud sul quale anche in Francia si sta aprendo finalmente un dibattito». Rispetto alle polemiche che ha suscitato Le crépuscule d’une idole di Michel Onfray (che sarà pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie), «la critica a Freud è salutare – chiosa Sonia Gentili – perché va posto il problema della concezione freudiana dell’uomo che è astratta. L’uomo secondo Freud è sostanzialmente determinato da pulsioni di tipo violento. Ancora una volta c’è un’idea di forza alla base. E su questo secondo il padre della psicoanalisi si baserebbero sempre i rapporti di ognuno di noi con gli altri. Anche se è difficile dire quanto nella cultura freudiana questo sia un dato di osservazione dell’epoca, resta comunque una concezione inaccettabile». Gli antidoti? «Pensatori come Ernesto de Martino, come Antonio Gramsci, ma anche Emanuel Levinàs con il suo ribaltamento dell’“essere per la morte” di Heidegger in un più umano “essere per altro”, hanno offerto degli spunti importanti. Ma anche Levinàs a ben vedere – precisa poi Gentili – aveva un retroterra di tipo teologico». Contro le ideologie della razza un aiuto può venire dalla moderna psichiatria che non ha più un’idea di inconscio perverso filogeneticamente ereditato, inconoscibile e immodificabile? «Assolutamente sì. In un articolo apparso pochi giorni a su Libération – conclude Gentili – il mio amico Hervé Hubert esplicitava il nesso stretto che c’è fra la critica della concezione freudiana dell’individuo e la necessità di creare un legame sociale, un modo di stare insieme su basi diverse. Per questo la reazione di certi intellettuali francesi è stata estremamente sentita».
da left-avvenimenti 28 maggio 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 1, 2009
di Simona Maggiorelli
Tra la fine del 1997 e la primavera del 1998, dopo la tracheostomia a cui fu sottoposto suo malgrado e l’esperienza della rianimazione, Piergiorgio Welby concepì l’idea di un romanzo autobiografico. Un’opera che sarebbe stata il suo cantiere aperto fino alla fine, quando ormai senza voce, senza più la possibilità di scrivere o dipingere, la sua vita era diventata «solo un doloroso guardare il bianco del soffitto». Una tortura feroce per lui che era stato fin da giovanissimo poliedrico artista convinto che la creatività nasce dalle esperienze, dai rapporti, dalle passioni e non standosene rinchiuso ermeticamente in uno studio.
Proprio lui che – come ricorda Francesco Lioce che in casa di Welby trascorse gli anni dell’università – amava scrutare i cieli «quelli che gli richiamavano alla memoria certi dipinti di Cézanne e…i cieli di Renoir, morbide epifanie di corpi femminili,sensuali, carnosi…». Le donne., appunto. Sono le vere protagoniste di questo romanzo di una vita.
Con il titolo Ocean Terminal esce ora per Castelvecchi. Postumo, non finito. Piergiorgio non aveva voluto che il romanzo fosse pubblicato prima, perché lì accennava a una brutta esperienza con la droga e aveva pudore a parlarne. Specie da quando il giovane Lioce, venuto a Roma dalla Sicilia, lo aveva eletto a fratello e amico. «Nei miei primi anni a Roma ho attrversato un aforte crisi, sono stato sul punto di spezzarmi – ricorda lo stesso Lioce nella postfazione -. E anche in questo fu decisivo il rapporto con Piergiorgio. La sua stanza era stata per sei anni una finestra aperta sul mondo. Lui si accorgeva delle mie debolezze, delle mie difficoltà…mi stimolava di continuo con l’ironia dei suoi paradossi».
Parole che evocano un Piergiorgio “maestro”, attento a sollecitare la parte migliore del ragazzo. Diversissimo da quello che compare dalle torrenziali pagine del romanzo in cui Welby non nasconde la sofferenza che gli procura la distrofia muscolare, ma al tempo stesso non smette di interrogarsi su ciò che vede e legge. Così frugando fra queste sue righe (che lasciano trasparire un grande amore per Céline, per Lucrezio e la poesia) s’incontrano dolorose considerazioni, ma anche invettive e improvvise schiarite.
Amaro, Piergiorgio Welby si rivolge ai poster di Ho Chi Min e del Che appesi in camera: «che cazzo ne sapete voi- scrive – della guerra che combatto ogni giorno! Delle ritirate, delle imboscate, delle umilianti rese incondizionate. Mi hanno fatto prigioniero il giorno stesso che sono nato. Io ancora non lo sapevo ma i miei cromosomi malati sì che lo sapevano…regalo di un Dio logico, di un Dio sadico, il Dio degli imbecilli che quando tutto va bene lo ringraziano pregando, ma se le cose vanno male se la prendono con l’umanità».
E poi inaspettati frammenti di leggerezza come quando, alla Bianciardi, Piergiorgio Welby si diverte a discettare sulle forme femminili su «culi come pianeti aristotelicamente perfetti, rotonde epifanie dell’esistenza di Dio…».
Più in là, lasciando sullo sfondo pensieri più importanti, fantastica su cosa sarebbe accaduto se Hitler nel 1906 fosse stato ammesso all’Accademia di Belle Arti e i suoi acquerelli fossero finiti in mostre. «Probabilmente il logorroico Adolf – annota Welby – invece di scrivere Mein Kampf avrebbe scritto Mein Kunstkampf con grande sollievo del popolo eletto e degli elettori di mezzo mondo». E non sono pochi i passi di Ocean Terminal in cui emerge con chiarezza il pensiero non violento e profondamente democratico del leader Radicale che dal 2002 scelse di fare della sua malattia uno strumento politico per la conquista di diritti civili per tutti. Emblematiche le sue considerazioni sulle bombe «intelligenti» scaricate sulla Serbia: «L’hanno chiamato disastro umanitario – annota- e tutti ci credono, anestetizzati dai Lerner, dai Vespa, dai Costanzo. Ma a parte l’ossimoro, che cazzo vuol dire… se è un disastro non è umanitario, se è umanitario non è un disastro…». E ancor più sul sogno americano di Enola Gay: «Quella era una bomba dimostrtiva! – scrive – Una bomba democratica! Una bomba a Stelle&strisce che assicura la pace! Come diceva quel vecchio puttaniere di Kant, Zum ewigen Frieden, iscritti a forza nel club della pace eterna».
dal settimanale left-avvenimenti dicembre 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 3, 2009
di Simona Maggiorelli
Perché la transessualità è diventata un fenomeno così attraente e con un mercato così florido oggi in Italia?». Si chiede il vicedirettore de La Repubblica Massimo Giannini sulla web tv del quotidiano fondato da Scalfari. Domanda che non nasce solo dai fatti di cronaca che hanno portato alla luce relazioni pericolose fra personaggi della politica, prostituzione e droga. Ma anche dalla constatazione delle centinaia e centinaia di annunci che ogni giorno campeggiano su internet e che riguardano il mercato della prostituzione trans. Ma accanto all’attenzione che i media più democratici giustamente dedicano al tema dei diritti civili dei trans e a quella legittimazione del personaggio Vladimir Luxuria che – per dirla con Filippo Ceccarelli – «è stata inverata in quel laboratorio di consenso che sono i reality» assistiamo anche a un fenomeno culturale, che in Italia (diversamente da Paesi come la Francia o gli Stati Uniti) è ancora di nicchia e riguarda l’incontro fra le “nuove frontiere” del femminismo e la galassia transgender; un intreccio di cui si è fatto bandiera in passato il quotidiano Liberazione e oggi il quotidiano diretto da Piero Sansonetti, proponendo l’universo queer come avanguardia di un nuovo pensiero di sinistra. Un fenomeno che riguarda piccole testate, si dirà, ma che ha alle spalle la forza di iniziative che raccolgono un largo pubblico come la rassegna Gender Bender, nata per iniziativa di una delle realtà gay più forti e radicate, il Cassero di Bologna.
Un colpo di grazia sferrato da un’energica “karateka” dal piede laccato di rosa è l’immagine guida della settima edizione di questa kermesse internazionale che – recita il programma – «presenta i prodotti della cultura contemporanea, legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale». Così, dal 3 al 7 novembre, negli spazi del Cassero, cinema danza e teatro, performance, mostre e installazioni di arti visive, ma anche una ridda di incontri e convegni per aprire una finestra su quella che il gay lesbian center emiliano definisce l’umanità prossima ventura, quella più aperta, più emancipata. «Realizzando percorsi di senso inediti tra fenomeni culturali e comunicativi apparentemente lontani e contraddittori – spiegano gli organizzatori – ci proponiamo di andare oltre le norme e gli stereotipi del maschile e del femminile, per raccontare le trasformazioni divenute parte integrante del nostro immaginario». Le immagini scelte per illustrare il programma propongono patinati scatti di incontri lesbo e omosex, messinscene en travesti e variopinte performance trans, ma anche immagini choc come quella che era stata scelta a simbolo dell’edizione 2008: una donna travestita da uomo che assomiglia sinistramente a Hitler.
Per rispondere a questa congiuntura politica che ha portato escort e trans alla ribalta, la scelta tematica dell’edizione di quest’anno riguarderà, invece, «le molteplici letture che ruotano attorno all’identità femminile contemporanea». Nel mirino di Gender Bender 2009, insomma, c’è in primis l’immagine della donna proposta dai media e che in Italia appare quanto mai «schiacciata su due dimensioni altrettanto riduttive: da una parte corpo rappresentato come una merce di seduzione e di scambio economico, dall’altra vittima senza parola». Quella che parte dal Cassero, dunque, vuole essere una dichiarazione di guerra per la definitiva rottamazione di tutte le stereotipie e delle figure ipostatizzate in cui si è cercato di rinchiudere la donna. Quanto mai auspicata e auspicabile dopo secoli e secoli di condanna del desiderio della donna, di cancellazione del corpo e di negazione dell’identità femminile contro la quale logos occidentale e Chiesa, in alleanza, sono andati con armi al napalm.
Ma il mezzo scelto per compiere questa storica rivoluzione lascia più di qualche dubbio. Almeno in chi scrive. Può il “gioioso” naufragare in identità multiple, in transito fra maschile femminile, essere davvero pensiero nuovo, progressista e rivoluzionario? Rilanciando ad altri, più esperti, il compito di andare a fondo nel descrivere lo specifico della sessualità umana, noi qui ci limitiamo a notare macroscopicamente che dietro la “cultura” del transgender torna, estremizzata, certa annosa confusione sessantottina, un pensiero contraddittorio, antiscientifico e antidentitario che ha già fatto abbastanza danno alla Sinistra, senza contare che, negli ultimi quarant’anni, è stato messo radicalmente in discussione da nuove scoperte nell’ambito della psichiatria e sul funzionamento della mente umana.
Così nell’elogio dell’indifferenziato proposto dai teorici del transgender, echi del modello Cohn-Bendit si mescolano ai discorsi sul corpo di Foucault allievo di Heidegger (per l’autore di Essere e tempo, val la pena di ricordare, non esiste un universale dell’uomo, esiste solo una frantumazione delle pratiche). Quella proposta dal transgender ci appare, al fondo, come l’ultima frontiera del pensiero debole e postmoderno. Pensatrici femministe come Judith Butler stigmatizzano qualsiasi affermazione che riguardi l’identità sessuata degli esseri umani come «residuo di essenzialismo identitario», mentre giovani filosofe in ascesa come Michela Marzano (che Nouvel Observateur include fra i cinquanta pensatori più influenti di Francia e attesissima per una lectio magistralis a Gender Bender) affida a libri come Straniero nel corpo. Le passioni e gli intrighi della ragione (Giuffré) e al monumentale Dictionnaire du corps, pubblicato nel 2006 per i tipi delle Presses Universitaires de France, le sue riflessioni, a sostegno dellle tesi foucultiane e a latere del transgender.
Su un punto tutti gli ospiti del Cassero sembrano essere d’accordo: il rapporto di desiderio, irrazionale, dialettico, fra due identità diverse di uomo e di donna è un fardello da cui liberarsi. E torna a occhieggiare l’idea lacaniana che l’oggetto del desiderio e la sua soddisfazione non possano esistere. Mentre con Freud si celebrano le forme “inevitabilmente” polimorfe della sessualità. Dagli epigoni di Foucault, poi, un invito a fare buio sull’identità sessuata di ciascuno di noi. E la domanda torna insistente: può un pensiero di questo tipo dirsi una ricerca progressista e d’avanguardia sulla realtà più profonda dell’essere umano?
da left-avvenimenti Italia borderline del 30 ottobre 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2009
Complici le case d’aste e certa politica. 25mila opere ritrovate , un milione di pezzi ricettati, ladri e mercanti che agiscono indisturbati. Le pagine più nere del patrimonio archeologico italiano raccontate da Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira)
di Simona Maggiorelli

maschera di avorio II sec a.C.
«Quale obbligo avevamo di restituire il torso di Mitra di Bassano romano mai dichiarato rubato?» domanda seraficamente la ex curatrice delle collezioni del Getty museum di Los Angeles, Marion True, durante l’udienza dello scorso marzo del processo che a Roma la vede imputata, insieme al mercante d’arte Robert Hecht, per 35 reperti d’arte che l’accusa sostiene essere stati trafugati in Italia e acquistati dal Getty. Fra questi anche il marmo dipinto, detto Trapezophoros del IV secolo a.C. restituito dal Getty nell’agosto 2007.
Il processo True ha avuto un’ennesima udienza in questo mese di maggio ma di fatto, a causa della solita lungaggine dei procedimenti giudiziari in Italia, va avanti da anni e non si sa quando su questa brutta storia si potrà mettere la parola fine. Nel frattempo la domanda della signora True (mentre la dice lunga sulla sua attività di direttrice di museo) riporta in primo piano le gravi falle del sistema di tutela del patrimonio archeologico italiano, di cui si avvantaggiano da sempre tombaroli, mercanti di frodo, collezionisti, case d’aste e perfino importanti musei come hanno rivelato di recente l’affaire Getty e le ammissioni di colpa di musei come il Fine Arts di Boston. Falle, va detto subito, non certo ascrivibili a cattiva volontà e a scarso impegno da parte dei nostri archeologi e storici dell’arte, che ogni giorno fanno salti mortali in soprintendenze territoriali sempre più depauperate di ogni mezzo da parte del governo.
«Il primo strumento di prevenzione dei furti è la catalogazione dei reperti» ricorda utilmente l’ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali Salvatore Settis (mesi fa frettolosamente sostituito dal ministro Bondi). Un rilievo, quello del professore, che in ogni altro Paese europeo suonerebbe ovvio. Non così in Italia, dove – come ricostruisce puntualmente Fabio Isman nel suo I predatori dell’arte perduta (Skira) – dal dopoguerra a oggi hanno agito e agiscono quasi indisturbati ladri, ricettatori e mercanti d’arte “anfibi”, capaci di muoversi altrettanto bene nel mercato nero come nelle alte sfere del mondo ufficiale dell’arte. Grazie a porti franchi di stoccaggio dei reperti in Svizzera e in alcuni altri Paesi compiacenti.
Ma anche e soprattutto grazie alla complicità di grandi case di aste che, così come la mafia fa con i soldi sporchi, danno una nuova identità ai pezzi d’arte di dubbia provenienza, “battendoli” pubblicamente. Di fatto un sistema di riciclaggio, per un giro di soldi da capogiro. Per queste vie, scrive Isman, è avvenuto «un sistematico saccheggio del sottosuolo della penisola», una razzia che «dal 1970 alla metà degli anni 2000 ha coinvolto forse 10mila persone, e milioni di reperti». Un fenomeno che non ha eguali in nessuno Stato occidentale: una depredazione capillare, “di massa” che ha arricchito vari grandi musei al mondo, dagli Usa al Giappone, nonché facoltosi collezionisti italiani, “incoraggiati”, dal 1994 in poi, dalla incultura dell’illegalità sostenuta dai governi Berlusconi con condoni e disegni di legge su archeocondoni e su proposte di vendita o di noleggio di opere conservate nei depositi dei musei. E le cose potrebbero peggiorare ancora se dovesse passare il divieto delle intercettazioni a scopi investigativi proposto dal ministro Alfano. Senza uno strumento di indagine così importante il lavoro dei carabinieri del nucleo di Tutela del patrimonio risulterebbe pressoché impossibile. Senza intercettazioni, per esempio, non si sarebbero potute sventare le frodi di un insospettabile “Mozart”, un anziano signore austriaco che faceva la guida per comitive straniere fra Roma antica e l’Etruria, e nel frattempo radunava «a Linz, dove Hitler voleva fare il suo museo, una collezione di 600 reperti trafugati in Italia». L’operazione Mozart è una delle tante storie di cronaca nera del patrimonio d’arte che attraversano il libro inchiesta di Isman, costruito dal cronista de Il messaggero collazionando una folta messe di documenti e di riscontri. «Ho seguito 15 processi e ho sentito 306 persone coinvolte in processi sul saccheggio del patrimonio culturale degli ultimi decenni», racconta Isman stesso. In alcuni casi si tratta di vicende sottratte allo stillicidio di notizie quotidiane di furti e ritrovamenti per essere ricomposte in quadri organici. In altri casi, come quello clamoroso che riguarda il Getty e i furti di un mercante d’arte come Giacomo Medici, Isman prosegue e completa con piglio da giallista il lavoro di due colleghi, Peter Watson e Cecilia Todeschini, autori di The medici Conspiracy un libro uscito nel 2006 per Public affairs press e stranamente non ancora tradotto in italiano.
da Terra del 26 maggio 2009
Il libro
Il sacco del Belpaese
Pubblicato sul settimanale left: E’ la cronaca di un impressionante saccheggio di siti di primaria importanza. E non parliamo dell’Iraq invaso dalle truppe anglo-americane, né dell’Afghanistan dove i talebani hanno distrutto antiche statue di budda. Parliamo dell’Italia e dei furti di tombaroli che, da generazioni, “lavorano” nel centro sud. Sotto l’occhio indulgente dei clienti del mercato nero dell’arte: da politici firmatari di archeo condoni a direttori di musei come il Getty che, per anni, ha acquistato pezzi di arte trafugati in Italia e “ripuliti” nel giro delle aste. Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira) scrive che si tratta di un milione gli oggetti trafugati e ricettati. Fra l’inchiesta e il reportage la sua è una ricostruzione appassionata di molte pagine nere della tutela dell’arte. Accanto alle vicende, ai personaggi inquisiti, un utile apparato di rassegne stampa e di documenti dei nuclei di carabinieri specializzati.
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Posted by Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009
Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair
di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937
Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair
Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya
Goya ha rappresentato in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Leviathan (1651)
Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge – non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490
«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato – nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi, in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma, la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.
da left-avvenimenti del 21 marzo 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2008
Finalista del Premio Vallombrosa von Rezzori lo scrittore argentino José P. Feinmann parla del suo romanzo verità
di Simona Maggiorelli
«L’ombra di Martin Heidegger aduggia tutta la filosofia dell’Occidente, impedisce di pensare liberamente. È una scena della distruzione dell’umano quella che si profila dal punto di vista del pensiero. Basta dire che Foucault, Deleuze, Guattari e Derrida furono suoi “allievi”. E che tutta la filosofia nordamericana di oggi è dominata da Heidegger». Così lo scrittore argentino José Pablo Feinmann nella serata finale del premio Vallombrosa von Rezzori a Firenze, racconta l’idea e i motivi che lo hanno portato a scrivere un romanzo filosofico sull’autore di Essere e tempo. Un libro, L’ombra di Heidegger (tradotto e pubblicato in Italia da Neri Pozza) che alla forza argomentativa di un saggio aggiunge l’appeal della narrazione romanzesca. Contenendo, come ogni opera letteraria che si rispetti, molte più intuizioni di quante si riescano a sfiorare nell’arco di un’intervista. Tentando in filigrana, pagina dopo pagina, un’indagine delle radici naziste del pensiero heideggeriano. Non accontentandosi, l’autore, di ricostruire i fatti che portarono Heidegger a aderire al nazismo e a pronunciare il famigerato discorso del ’33, quando accettò di diventare rettore nel nome di Hitler.
Professor Feinmann, Heidegger attaccava la modernità dicendo che è «un’età in cui crescono i deserti devastati della tecnica». Eppure, lei dice, il suo pensiero è dominante oggi negli Usa. Come si spiega?
Penso che questo origini da un problema intrinseco agli Stati Uniti che hanno due culture: una accademica che ha fatto suo il pensiero di Heidegger e la critica della tecnica, e l’altra bellica, che ha fatto della tecnica una efficace macchina di distruzione. E alla fine il problema bellico degli Usa non mette in questione il pensiero di Heidegger. Anzi, lui avrebbe potuto dire: è il mio pensiero realizzato, questa tecnica distruggerà il mondo. Per il filosofo tedesco la tecnica è «l’oblio dell’essere», siccome però nessuno vede come è fatto l’essere secondo Heidegger, allora rozzamente si potrebbe dire che per lui la tecnica è l’oblio di tutto ciò che ci avvicina al divino. Insomma, va ben oltre Cartesio, il quale continuava a porre l’uomo come soggetto davanti al mondo.
E la tecnica con cui il nazismo praticò lo sterminio?
Heidegger credette di vedere nel nazismo una relazione diversa con la tecnica. Che poi non c’era. Questa tecnica del nazismo diventò, appunto, la tecnica dei campi di sterminio. Ma c’è un altro fatto. Heidegger, eludendo Marx, criticò il tecnocapitalismo. E qui vengo al punto. Heidegger è un moloch contro il pensiero di Marx. Nel 1966 tutti i pensatori francesi, Foucault, Deleuze Guattari, Derrida- che in questo forse toccò l’acme- sostituirono Marx con Heidegger. Il marxismo ha fallito, dissero. Abbiamo bisogno di altro. E credettero di vedere il nuovo in Nietzsche e Heidegger. Anzi,non in Nietzsche propriamente, ma nella lettura che ne faceva Heidegger.
In una nota intervista pubblicata postuma, Foucault dice che Heidegger è stato il suo maestro.
Sì, lo confessa apertamente. E questo non è vero solo per lui. Lo è ancor di più per Lacan, che arriva al livello del
plagio. Tutto il pensiero di Lacan, di fatto, si riduce a venti concetti presi da Heidegger. Lacan non cita, copia direttamente. Tutto questo avveniva nella sinistra francese negli anni 50 e 60. Dissero che Marx non era più necessario. Ma la cosa urgente non era liberarsi dell’autore de Il capitale, perché il comunismo, di fatto, era già caduto. E per rimpiazzare Marx che cosa avevano a portata di mano? Quello che loro ritenevano essere un grande pensatore e che, guarda caso, faceva una critica al capitalismo, anche se da destra. Nasce così una sorta di heideggerismo di sinistra. Questo è quello a cui si applica con sommo talento la filosofia francese dimenticando, negando anche l’ultimo pensatore marxista che fu Sartre. Tutta la French theory è un annullamento di Marx e di Sartre. Ma va detto che anche la scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, in particolare, erano heideggeriani.
Nel romanzo, però, il protagonista prima di suicidarsi ricorda che tutti leggevano L’essere e il nulla di Sartre. Viene da chiedersi come un pensiero progressista e di sinistra, come quello del ‘68, per esempio, poi possa essersi riferito a Heidegger che teorizza l’essere per la morte. E per la morte dell’altro, in particolare.
La filosofia francese non ha tanto ripreso da Heidegger l’idea dell’essere per la morte. Ma come dicevamo prima, piuttosto, ha ripreso la critica alla modernità capitalistica e il decentramento del soggetto. Togliere il soggetto dalla centralità porta all’idea di decostruzione. Ma in questo modo ciò che si decostruisce, soprattutto, è la storia perché si distrugge l’idea di totalità. Come effetto compaiono rivendicazioni parziali: il femminismo, la parcellizzazione del multiculturalismo, eccetera. Sparisce l’idea che il soggetto possa cambiare il mondo e se stesso.
Quello che sparisce è l’idea stessa della rivoluzione. Resta l’idea della differenza, di tutte le differenze, ma si perde quella della soppressione dell’ordine capitalista. Certamente in Heidegger non c’è la lotta di classe. E non c’è in Foucault, ce ne sono altre, diverse, c’è la rivoluzione testuale. Al di là del testo, diceva Derrida, non c’è nulla, ma al di là di Mein Kampf c’è Auschwitz. Piaccia o no a Derrida.
In Italia, come del resto in Francia, Heidegger continua però a essere intoccabile per l’establishment filosofico…
Emmanuel Faye ha apportato nuovi documenti. Hanno provato a distruggerlo. Heidegger è onnipresente. In Francia, in particolare, sembra che non possano pensare senza di lui.
Nel suo suo libro il protagonista dice: «Non pensavo al destino metafisico del nostro popolo in base al Mein Kampf, bensì in base a Heidegger». Come si può dire di un filosofo: è nazista ma è un grande pensatore?
«È una sorta di schizofrenia. Hannah Arendt stessa diceva che Heidegger aveva i suoi momenti di assenza, diceva che a volte era come come Anassimandro che camminava guardando per aria e cadde in un pozzo. Alcuni dicono, invece, che il suo dirsi nazista era solo un fatto burocratico. Sono dei negazionisti. Negano le prove, l’evidenza. Non ci sono solo i documenti di Faye, ma anche quelli pubblicati da molti altri a cominciare da Victor Farias. Che è un filosofo, per giunta sudamericano. Un uomo del Terzo mondo che detronizza il genio della filosofia tedesca. Un colpo al cuore dell’Occidente.
Nel suo romanzo si racconta anche il rapporto devastante che Heidegger ebbe con Hannah Arendt.
Sì, Heidegger ne fece la sua amante. Non abbandonò mai sua moglie per lei. Molto vile in tutto questo. Lo posso ben dire io: un certo giorno sono tornato a casa e ho detto a mia moglie, me ne vado con un’altra. Heidegger si comportò da vile borghese. Nonostante tutto questo Hannah Arendt torna da lui dopo la guerra.
Era superiore a lui, dice qualcuno.
Certamente. Ma davanti a lui non si azzardava nemmeno a dirsi filosofa. Si diceva pensatrice politica. Era irretita da Heidegger. Che peraltro aveva cercato di sbolognarla a Jaspers, indirizzandola a studiare con lui. Dopo tutto questo lei decide di tornare da Heidegger. Questa è la fine del femminismo. Stabilisce una complicità continua con lui e dopo la guerra lo aiuta anche.
Scrivere un romanzo è un modo di uscire dalla gabbia della filosofia occidentale che, in fondo, è stata sempre e solo logos?
Scrivo romanzi, in realtà, perché mi piace molto. Adesso per esempio mi occupo di un detective di Los Angeles che si chiama Carter. E’ un detective privato e assassino, fanatico, sessista e razzista, odia i negri, meno gli indiani perché abitavano quella terra prima di lui. I musulmani no, non li odia, ne ha paura. Per andare a fondo nell’analisi della paranoia dell’impero nordamericano questo personaggio mi dà molte più opportunità di un saggio di mille pagine. Left 21/08
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