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Posts Tagged ‘Lucio Fontana’

Piero Manzoni è vivo e scalpita

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 27, 2014

Piero Manzoni scultra vivente

Piero Manzoni scultra vivente

Piero Manzoni meteora effimera del Novecento o geniale sperimentatore di nuovi e differenti linguaggi? Passando dai quadri monocromi agli eventi, alle azioni molto prima della stagione dell’arte performativa anni Sessanta. Osservando l’eclettismo e la complessità del percorso dell’artista milanese si è portati a condividere quanto scrive Flaminio Gualdoni nel catalogo Skira che accompagna la mostra Piero Manzoni 1933-1963 ( in Palazzo Reale a Milano fino al 2 giugno). Specie quando il critico e curatore racconta Manzoni come un artista di grande originalità nel panorama dell’arte della prima metà del XX secolo.

Con i suoi monocromi, infatti, Manzoni ebbe il coraggio di prendere le distanze dalla bella maniera, dalla lucente pittura di De Chirico, ma anche dalla sua fredda metafisica, allora egemone in Italia. Imboccando la strada dell’astrattismo, ma senza perdere “calore” e concretezza. Anche quando Manzoni sembra muoversi verso la pittura concettuale. Nel suo fare arte, centrale era rapporto con il corpo. Specie quello della modella nuda sul quale si divertiva ad apporre la propria firma come fosse una scultura vivente!

E centrale era l’esperienza, la vita vissuta, da cui spiccava il volo la sua fantasia. L’immagine interiore ( 1957) si forma sulla tela a partire da olio e catrame. La serie dei quadri Senza titolo realizzati in quello stesso anno e ora esposti a Milano nascono impastando catrame olio e sassi. Il bianco dei suoi celebri achrome non è mai abbagliante, ma morbido color panna.

Così come la tela non è mai uno specchio rigido e teso, ma una superficie solcata da pieghe e rughe. Come la pelle di chi – diversamente da Manzoni che morì  per un infarto a soli 29 anni – ha molto vissuto. Pochi però seppero cogliere il senso e la portata della ricerca di questo ragazzo che cercava, per dirla con le sue stesse parole, «uno stupore immacolato dei sensi», convinto che «non c’è nulla da dire, nulla da capire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere».

Lontano dalla religiosità dell’esistenzialismo in voga in quegli anni, Manzoni rivolgeva uno sguardo critico e ironico anche verso un certo greve materialismo capitalista, che sfidava “brandendo” un Rotolo di pittura industriale su cui era tracciata solo una linea, sottile ed essenziale.

Fra i grandi a lui contemporanei solo Lucio Fontana riconobbe il talento di Manzoni, mentre Palma Bucarelli, che gli dedicò una retrospettiva postuma alla Galleria d’arte moderna a Roma, fu indagata per sperpero di denaro pubblico. Oggetto del contendere era la sua scelta di esporre la provocatoria Merda d’artista che Manzoni aveva realizzato nel 1961, in serie sigillata, autografata, numerata e autenticata dal notaio. Per farsi beffe di poeti vate e artisti millantatori di aura. Ma non solo. In Breve storia della Merda d’artista (Skira), Gualdoni riflette sul significato provocatorio dell’opera, riportando la storia dello scandalo e la vicenda parlamentare che vide il democristiano Guido Bernardi lanciarsi in una interrogazione che terminava con questa domanda non esattamente elegante: «Sull’uso che la signora Palma Bucarelli fa da troppo tempo del denaro del contribuente italiano non è il caso di tirare finalmente la catena?»

( Simona Maggiorelli ) dal settimanale Left

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Luciano Fabro, il dono del disegno

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 26, 2014

Fabro, esistere-insistere

Fabro, esistere-insistere

Disegno come dono, in senso stretto come regalo, omaggio d’amicizia, di affetto, di “corrispondenza di amorosi sensi”. Luciano Fabro usava ogni tipo di supporto per inviare i suoi appassionati messaggi colorati agli amici, ai suoi studenti, alle persone con cui aveva stabilito un rapporto profondo, anche se fuggevole.

La carta millimetrata, le schede di catalogazione, la carta-paglia, tutto poteva essere usato all’occorrenza, diventando all’impronta supporto prezioso per la sua libera espressione. Ed erano forme astratte che sembrano danzare sulla fragile carta, disegni in bianco e nero realizzati con gomitoli di linee nera ininterrotta, ma anche opere grafiche che hanno il respiro di progetti spaziali più ampi e strutturati, pur conservando la freschezza di schizzi tracciati di getto.

Il disegno per questo maestro dell’arte povera (scomparso nel 2007) era il prezioso antefatto dell’opera compiuta, ed era propedeutico alla realizzazione delle sue magnetiche ed essenziali sculture. Ma al tempo stesso trovava giustificazione soltanto in se stesso come libera sperimentazione, ricerca continua, apertura verso la scoperta. Come dimostra la variegata collezione di opere su carta radunata, dopo lunghe ricerche fra parenti e amici dell’artista, da Giacinto Di Pietrantonio che insieme a Bruno Corà e altri ha curato la mostra Luciano Fabro – disegno in opera, aperta fino al 4 maggio 2014 al CIAC di Foligno (dopo essere stata esposta alla GAMeC di Bergamo).

Una mostra che riunisce un centinaio di opere grafiche, molte delle quali caratterizzate dalla ricerca di una spazialità nuova e sfidando la bidimensionalità del disegno. Giovanissimo, Fabro era rimasto molto colpito dalla poetica di Lucio Fontana, che ebbe modo di conoscere più da vicino quando da Udine si trasferì a Milano nel 1959. A coinvolgerlo particolarmente era la sfida che l’artista italo argentino lanciava alla terza dimensione con i suoi tagli e buchi, ma anche la sua ricerca su una possibile quarta dimensione, che sembrava alludere a una spazialità non solo fisica ma interiore.

Al tempo stesso, però, Luciano Fabro continuava a essere molto legato alla tradizione più antica del disegno e a quella michelangiolesca in modo particolare. Tanto che, come insegnante in Accademia, invitava spesso i suoi allievi a studiare le opere dello scultore fiorentino apprezzandone la forte plasticità. Proprio a proposito del rapporto fra disegno e scultura, Fabro raccontava ai suoi studenti: «Ho fatto un’infinità di disegni, alcuni più precisi, altri meno, quando poi mi sono trovato con la cera, non ne ho realizzato nessuno. Ma avevo appreso disegnando il modo di vederlo in tutti i modi, per cui, pur facendolo in un altro modo, avevo già l’occhio per individuare quale era la forma». E a una studentessa che lamentava di sentirsi bloccata davanti a questo tipo di lavoro – come si legge in un dialogo pubblicato nel catalogo Silvana editoriale – rispondeva senza esitazione: «Nessuno è bloccato, io la chiamo avarizia se uno per fare una cosa deve dire: “Ecco questo approda a qualcosa”. In questo caso, invece, non sai a cosa approdi, è un atto di generosità verso il caso e può andare avanti per molto tempo». (Simona Maggiorelli)

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#LucioFontana, fra segno e disegno

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 20, 2013

Lucio Fontana, ambiente spaziale

Lucio Fontana, ambiente spaziale

Libera espressione e ricerca. Le opere su carta furono un grande spazio di sperimentazione per l’artista. Un catalogo ragionato Skira ne raccoglie seimila

di Simona Maggiorelli

Che Lucio Fontana sia stato uno degli artisti italiani più innovativi del Novecento, non ci sono dubbi. Lo è stato certamente nell’ambito della scultura, per primo aprendola a una riflessione sullo spazio che implicava un rapporto nuovo fra opera, spettatore e luogo espositivo. Ma lo è stato anche in pittura, fin dagli anni Trenta, quando si avvicinò al gruppo degli astrattisti del Milione.

Nel dopoguerra poi sarebbero arrivati i famosi Buchi che fecero scandalo alla Biennale di Venezia, e negli anni Cinquanta i Tagli, come segni di lacerazione ma anche di creazione di uno spazio nuovo che supera la bidimensionalità del quadro. E poi ancora gli Ambienti, come l’arabesco fluorescente con luce al neon installato alla Triennale del 1951 e il soffitto spaziale del 1953, che sembrano alludere, oltre la tridimensionalità, a una quarta dimensione, intesa anche come dimensione interna dell’artista.

Lucio Fontana. ambiente spaziele 2

Lucio Fontana. ambiente spaziele 2

Di questo articolato percorso, in queste settimane rendono conto variamente più mostre che – a Saronno, a Brescia a Monza e a Catanzaro – danno ulteriore riprova del grande interesse che continua a riscuotere questo straordinario artista, nato a Rosario in Argentina nel 1899 e, fino alla morte nel 1968, al lavoro fra Milano e Albissola. Ma se la sua opera di pittore e di scultore è stata (ed è) molto studiata, mancava fin qui un’analisi approfondita dei disegni di Fontana, erroneamente considerati “produzione minore” da una parte della critica. A colmare questa lacuna interviene ora un’opera importante e ponderosa come Lucio Fontana. Catalogo ragionato delle opere su carta (Skira) curata con grande perizia critica da Luca Massimo Barbero. Tre volumi in cui viene preso in esame un corpus di seimila opere su carta realizzate tra il 1928 e il 1968.

Accade così di scoprire che disegni, schizzi, “graffiti”, segni colorati, essenziali, rapidi e dinamici, sono il filo rosso che percorre senza soluzione di continuità tutto il percorso artistico di Fontana. Lungi dall’essere un mero divertissement le opere su carta rappresentano uno dei più liberi e imprevedibili ambiti di sperimentazione per Fontana. Che in questo ambito spaziò a tutto raggio fra figurativo (e sono soprattutto nudi di donna) e astrattismo.

Come mette in evidenza Enrico Crispolti nel saggio introduttivo il disegno per Fontana non ha mai una funzione preliminare o funzionale ad altro: vale di per sé, come opera autonoma e dinamica, che ai nostri occhi ha il fascino del non-finito, di una forma ancora in fieri, che si schiude davanti a noi e corre verso un futuro ancora ignoto.

Fontana, Skira

Fontana, Skira

Il gesto dell’artista appare irriflesso, immediato, vibrante. Di volta in volta si imprime sulla morbida carta come linea, come segno pittorico o inciso ma anche, nei concetti spaziali, come foratura. Diversamente dal disegno tradizionale, il segno di Fontana, inteso come motivo grafico oppure pittorico e fatto di solo colore, è libera espressione, fantasia, e mai un riflesso della realtà.

«L’arte nuova non prende i suoi elementi dalla natura», scriveva del resto Fontana, già nel Manifesto Blanco del ’46. È vitale e originale forma-colore e mai calco naturalistico. Nelle opere di impronta più grafica l’uso della linea da parte di Fontana appare assai diverso da quello dei coevi protagonisti dell’informale, improntato all’automatismo surrealista. Il suo segno colorato non naufraga mai in un informe e caotico groviglio, né diventa mai sorda matassa di colore sgocciolato. E tanto meno è caos brutale come nell’art brut di Jean Dubuffet (che rivendicava l’incomunicabilità autistica). Anche quando non fa immagini riconoscibili, il segno di Fontana sembra esprimere un’intenzionalità profonda e sulla carta appare allusivo, cangiante, vitale e compatto. «È movimento nello spazio e nel tempo», per dirla di nuovo con le parole del Manifesto Blanco.

Dal settimanale left Avvenimenti

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Il bianco infinito di Savelli

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 30, 2013

maestro_del_bianco-angelo_savelliSodale di Barnett Newman e Ad Reinhardt, durante il suo periodo newyorkese, Angelo Savelli non perse mai il rapporto con la sua terra d’origine, la Calabria. Con i suoi monocromi bianchi  ha lasciato un segno importante nella storia dell’arte astratta italiana. Il Marca di Catanzaro gli rende omaggio  con una retrospettiva.

di Simona Maggiorelli

Il museo Marca di Catanzaro, dopo una serie di pregevoli iniziative dedicate alla scultura e alla pittura del secondo Novecento, ora si segnala anche per il recupero di un artista ingiustamente dimenticato come Angelo Savelli (1911-1995).

Calabrese, di Pizzo Calabro, cominciò a farsi conoscere quando si trasferì a Roma e prese a frequentare Renato Guttuso e la scuola romana. Interessato al post cubismo, Savelli trovò una propria cifra originale e coerente, quando si innamorò della pittura astratta intuendo la novità dello spazialismo di Lucio Fontana che rompeva definitivamente con l’idea di quadro bidimensionale e, attraverso i tagli e le prime installazioni, apriva una ricerca sulla terza dimensione in pittura.

Ma determinante per l’abbandono di Savelli dell’arte figurativa e per la scelta esclusiva del bianco in grandi monocromi fu anche l’incontro con l’arte di Piero Manzoni che, accanto a birbanti provocazioni come Merda d’artista, portava avanti una raffinata ricerca astrattista, nella serie Achrome, dominata dal bianco, ma riscaldato da riflessi dorati, oppure reso carnale e materico con tele grinzate che trasformavano il quadro in un dinamico bassorilievo. Grazie a prestiti della Fondazione Prada e della Fondazione VAF-Stiftung, la personale Angelo Savelli. Il Maestro del Bianco curata da Alberto Fiz e da Luigi Sansone raduna nelle sale del Museo Marca una settantina di opere – tele, sculture e ceramiche – che documentano questo suo percorso, dalle prime esperienze figurative degli anni Trenta fino a Where Am I Going una della sue ultime realizzazioni datate 1993-94.

Baricentro dell’esposizione è una data cardine nella carriera di Savelli: il 1954 quando l’artista si trasferì a New York, entrando in contatto con protagonisti della pittura informale come Barnett Newman e Ad Reinhardt. Savelli ne ricevette un input a radicalizzare la propria ricerca nell’ambito dell’astrattismo. Che Savelli riuscì a fare senza annullare mai le proprie origini e il rapporto con la propria terra come raccontano nel museo Marca quadri come White Space (che nel 1957 fu esposto nella galleria newyorkese di Leo Castelli) ma anche e soprattutto le sculture in corda bianca che evocano quelle usate dai pescatori. Da sottolineare di questa mostra è anche il tentativo dei due curatori di ricostruire che cosa realmente spinse Angelo Savelli ad un certo punto della propria carriera a ridurre la tavolozza a un solo colore, il bianco. Ciò che possiamo cogliere al primo sguardo è che il bianco di Savelli, per esempio, non ha niente a che vedere con il bianco spettrale degli irreali templi greci di De Chirico. Né con il bianco agghiacciante che appare nei quadri surrealisti di Magritte e Ernst.

Di primo acchito cogliamo la vivacità e il calore del bianco di Savelli ma è Alberto Fiz a farci capire di più quando nel catalogo Silvana editoriale che accompagna la mostra annota: «Il bianco per Savelli costituisce il luogo germinale della pittura, la vita sotterranea da cui tutto emerge». E ancora: «La sua monocromia è accidentata. tormentata. ruvida, discontinua, diseguale e il bianco non è la purezza, bensì infinito». Del resto lo stesso Savelli scriveva: «Penso che il bianco non sia un colore, lo diventa se appoggiato ad uno degli altri colori dell’arcobaleno, quindi lo chiamerei infinito».

dal settimanale left

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Arnaldo Pomodoro, il poeta della scultura

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 16, 2012

Impegno civile e una vitale voglia di ricercare. E poi le esperienze di vita  ,i  viaggi,  gli incontri che hanno alimentato il suo lavoro di artista. Il maestro Arnaldo Pomodoro si  racconta in occasione dell’uscita del libro intervista Vicolo dei lavandai.

di  Simona Maggiorelli

Ho sempre sentito in me la necessità di un coinvolgimento concreto da un punto di vista sociale» racconta Arnaldo Pomodoro a Flaminio Gualdoni che lo intervista nel libro Vicolo dei lavandai, uscito il 7 giugno per le edizioni Con-fine. Poeta della scultura che si è formato nell’antifascismo ha sempre rifiutato l’idea dell’artista chiuso nel suo studio, come torre d’avorio. Dal dopoguerra contribuendo alla rinascita del Paese con la creazione di  opere di grande valore civile in spazi pubblici.

«Sono molto sensibile alla responsabilità dell’arte che, secondo me, ha un carattere etico: esprime non solo un autore e uno stile suo proprio, ma anche i motivi e il senso di una civiltà», commenta il Maestro. Che subito aggiunge: «L’apporto dell’arte allo sviluppo della società è fondamentale e lo è soprattutto in questo periodo di grande incertezza e di profonde trasformazioni: le opere d’arte sono un riferimento decisivo della percezione nello spazio-tempo in cui oggi viviamo. E proprio da questa consapevolezza è nata l’idea della mia Fondazione qui a Milano.
Un artista può aiutare a “curare” la città dal degrado e della perdita di identità?
Certamente, oggi c’è l’esigenza di ritrovare la vitalità e l’entusiasmo per la cultura e per le arti. C’è bisogno di sviluppare un senso di vita in comune e una progettualità armoniosa, globale, proiettata verso il futuro.

Quando lei arrivò a Milano la città viveva un momento di straordinaria vivacità sul piano culturale e artistico. Un suo vicino era Lucio Fontana. Come lo ricorda e che memorie ha di quella stagione?
Ho incontrato Lucio Fontana nel 1954 a Milano, dove mi ero appena trasferito da Pesaro: fu lui a introdurmi nell’ambiente artistico milanese. Per tanti artisti più giovani Fontana è stato maestro nel  comprendere le capacità e i percorsi di ricerca individuali attraverso il suo formidabile senso del nuovo: anche per me è stato come un padre che mi ha stimolato, incoraggiato, sempre seguito. Ricordo il suo sorriso così espressivo ed ironico, quel suo modo di parlare con semplicità, ma sempre con grande acume. Si muoveva con gesti tanto vivaci ed espressivi che potevi vedere idealmente l’intreccio dei suoi segni, gli arabeschi costruiti con il neon, da lui utilizzato come mezzo artistico prima di chiunque altro, a dimostrazione dello spirito inventivo che ha animato tutto il suo lavoro.
Pomodoro, ContinuumLa sua arte è percorsa da un rinnovamento e da una tensione continua. Ad alimentarla è stata la sua esperienza di vita?
Sì, penso ad esempio al mio primo viaggio negli Stati Uniti, dove sono andato nel 1959, grazie ad una borsa di studio del ministero degli Affari esteri. Quell’esperienza ha avuto un’importanza fondamentale. L’impatto con lo spazio americano e con l’estrema vitalità che animava
in quegli anni l’ambiente artistico è stato enorme. Ma il passaggio decisivo avviene nella saletta di Brancusi al MoMA di New York. E’ qui che ho una “folgorazione”: osservando le sculture di Brancusi sento che mi  emozionano al punto di aver voglia di distruggerle e così le immagino come tarlate, corrose; mi viene così l’idea di inserire tutti i miei segni all’interno dei solidi della geometria, e cioè dentro un’immagine essenziale, pura, astratta.
Molto importanti nel suo lavoro sono la memoria, la storia, i segni che hanno lasciato le culture che ci hanno preceduto. Come nacque il suo interesse per le antiche scritture del Vicino Oriente e per le iscrizioni a caratteri cuneiformi che poi lei ha ricreato in alcuni suoi capolavori?
Ho sempre subito il grande fascino di tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici, dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti. La ricerca sul segno, d’altra parte, emerge costante in tutto il mio lavoro. Si tratta di diversi elementi modulari, di serie di segni leggeri e ritmici: cerco, nei miei Papiri ad esempio, come nel gruppo di opere recenti intitolate Continuum, di mettere in evidenza la musicalità e la poesia, e forse per questo mi sento vicino ai musicisti e ai poeti.
E quello per le incisioni rupestri dei Camuni? La creatività, l’arte, la capacità di realizzare immagini di valore universale connotano i punti più alti della storia umana fin dal paleolitico?
Senza dubbio. E’ l’espressione artistica la prima e fondamentale forma di comunicazione e relazione tra gli uomini. La forza dell’arte
dipende dalla sua capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche.
Per me “fare arte” è un atto di libertà che si deve compiere in modo semplice e rigoroso senza alcuna visione strumentale. Per me l’ideale
è ambientare le opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni. La scultura supera così il limite di un’arte chiusa
nei musei e nelle collezioni private e diventa dominio di tutti, diventa il modo di inventare un nuovo spazio e mutare il senso di una
piazza, di un ambiente.

 

Arnaldo Pomodoro

Sessant’anni di  ricerca di un maestro
Scavare dentro le forme, scoprirne  i fermenti interni, come a portare alla luce la ricchezza di un universo interno sconosciuto e affascinante. Nascono così le sfere sgranate di Arnaldo Pomodoro, percorse da fessure che ne lasciano intravedere i nuclei vitali. Ma centrali nella poetica dell’artista (classe 1926) sono anche Cippi e Papiri, alveari di segni che alludono a una scrittura misteriosa di cui si è perduto il codice e che evocano una cultura diversa da quella occidentale. Così come l’altera ed elegante serie di stele ispirate all’antico tempio della regina di Saba che colpì la fantasia dello scultore in Yemen. Il viaggio come «metafora della vita», come tensione verso la scoperta del nuovo è sempre stato una fonte di ispirazione per Pomodoro fin da quando, giovanissimo, cercava una via di uscita dall’opprimente autarchia fascista attraverso viaggi
immaginari in America, grazie alla collana di  Cesare Pavese ed Elio Vittorini per Einaudi. Gli anni Cinquanta e Sessanta saranno poi prendono avvio le grandi sculture pubbliche, non solo in Italia: opere nate in rapporto profondo con la storia, con le dinamiche culturali dei contesti in cui oggi vivono come fossero organismi che mutano nel tempo.   s.m

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Tintoretto, il teatro delle passioni

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 23, 2012

Tintoretto, autoritratto 1548

Artista dal segno inquieto e nervoso, nel secondo Cinquecento aprì una nuova stagione nella pittura emancipata dal razionalismo della propspettiva rinascimentale. Una importante antologica ne ripercorre l’opera alle Scuderie del Quirinale. Colmando una lacuna. Basta dire che l’ultima mostra di Tintoretto in Italia  risale al 1937

di Simona Maggiorelli

Bellezza, esattezza, armonia non abitano più qui. Nell’ultimo scorcio di Cinquecento è finita la stagione della aurea classicità raffaellesca.

Lo splendore del colorismo veneto, sotto il vento rigido della Riforma, già si smorza in una tavolozza terrea e austera. Mentre i sensuali impasti di colore e la pagana celebrazione delle forme femminili, nell’ultimo intenso atto dell’arte di Tiziano, lasciano il posto a inquieti notturni

Anche attraverso le maglie strette della fiera indipendenza veneziana, ora che la Serenissima ha perso il primato di porta d’Oriente e di regina del mare, comincia a filtrare tetra l’ombra della Controriforma spalleggiata dal dominio spagnolo.

Così dai vasti orizzonti e dai paesaggi lirici di Bellini, Giorgione e Tiziano (di cui ora racconta la mostra Tiziano e la nascita del paesaggio moderno in Palazzo Reale a Milano) quasi d’un tratto si precipitin una catacomba, in quell’antro oscuro e misterioso dove Tintoretto accende la scena del Ritrovamento del corpo di San Marco. Sotto una fuga di archi appena rischiarati dalle torce, nella tensione che segna i gesti nervosi e concitati dei protagonisti di quest’opera dipinta nel 1563-64 si compie simbolicamente un radicale passaggio di stile e di visione pittorica: dall’armonia e dalla morbidezza di linee del Rinascimento agli scorci arditi, alle contorsioni e ai drammatici chiaro-scuri di un Manierismo che nell’arte di Jacopo Robusti detto Tintoretto (1519-1594) già precipita nel Barocco.

Tintoretto, Il ritrovaento del corpo di San Marco

Per questo è difficile non dar ragione a Vittorio Sgarbi quando dice che in questa sua importante antologica di Tintoretto che si apre il 25 febbraio alle Scuderie del Quirinale (la prima, in Italia dal 1937!) non poteva mancare quest’opera chiave. Che invece Brera non ha voluto concedere. In compenso però, sfidando l’idea che le opere del Robusti risultino poco comprensibili fuori dal loro originario contesto veneziano, Sgarbi ha organizzato un percorso che comprende una quarantina di dipinti di Tintoretto, punteggiato di veri capolavori.

A cominciare dal visionario Trafugamento del corpo di San Marco fino alla poetica e suggestiva Santa Maria Egiziaca. Un percorso e un lavoro di elaborazione critica ( nel catalogo edito da Skira) da cui emerge con forza l’originalità del segno pittorico di Tintoretto, inquieto, dinamico, libero e fugace nel tratteggiare ciò che è essenziale. In modo ficcante e sintetico senza preoccuparsi delle rifiniture. Ma da questa attesa mostra romana emerge anche il suo essere stato un ritrattista ”spietato” nel cogliere la verità più profonda sui volti. E il suo ardito sperimentare scorci, prospettive inusuali e persino vorticose, come nella luminosa ricreazione della leggenda di San Giorgio e il drago con l’eroe retrocesso sullo sfondo e in primo piano una principessa in fuga che sembra precipitarsi verso di noi, fuori dal quadro.

Tintoretto, il trafugamento del corpo di San Marco

Per non dire poi delle grandi macchine teatrali, dei grandi telieri come il Miracolo dello schiavo dove l’episodio sacro è tramutato in dramma umanissimo mentre il punto di vista dello spettatore è lo stesso  degli astanti assiepati intorno allo schiavo: una straordinaria summa della capacità di Tintoretto di creare scene dinamiche, in movimento, che sembrano accendersi d’un tratto e altrettanto presto svanire.

Un dinamismo che fa sembrare immediatamente ingessate e inerti molte pale di Raffaello e di altri maestri del Rinascimento. Stigmatizzato da Vasari e dai contemporanei come frettolosità, imperizia o addirittura furore fu proprio quel tratto individuale e originalissimo dello stile di Tintoretto, in seguito, ad accendere l’interesse di molte generazioni di pittori. Guadagnandogli la simpatia e l’interesse di El Greco e di Velazquez, dei Romantici e oltre, arrivando fino alle avanguardie della pittura astratta e all’informale. Non è un caso che un pittore tutto sommato poco attento alla tradizione pittorica come Pollock, giovanissimo, studiò a lungo riproduzioni di opere di Tintoretto interessandosi soprattutto a opere tarde come il Paradiso che sembra realizzata quasi soltanto con filamenti di luce. Un uso della luce (e dell’ombra) che l’artista veneziano emancipò completamente dalla prospettiva rinascimentale. Basta pensare al biancheggiare delle quinte architettoniche nel Trafugamento del corpo di San Marco in vivo contrasto con il cadavere del santo che appare immerso nell’ombra, benché sia in primissimo piano. Un uso completamente irrazionale della luce che, come è stato notato, aprì la strada alla rivoluzione di Caravaggio.

Ma profondamente innovativa fu anche la sua concezione dello spazio. Nell’Ultima cena, per esempio, il tavolo posto di sbieco sembra risucchiare lo spettatore verso la profondità della tela. Liberando la spazialità dalla rigida griglia prospettica, Tintoretto inglobava l’ambiente fuori dal quadro cancellando ogni soluzione di continuità fra spazio della rappresentazione e spazio della fruizione dell’opera. Con un’intuizione che sarebbe piaciuta molto a Lucio Fontana. Così come la forma aperta della sua pittura con molti elementi appena accennati e che stimolano  la fantasia dello spettatore.Come tante porte invisibili che chi guarda desidera aprire.

da left-avvenimenti

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Quando Ileana inventò Rauschenberg

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 2, 2011

Nello storico spazio  di Dorsoduro del Guggenheim di Venezia una selezione di opere della collezione Sonnabend

di Simona Maggiorelli

Rauschenberg, Pilgrim (1960)

Una giovane donna dall’aria malinconica, distaccata, lontana. Così appariva, in bianco e nero, Ileana Shapira in una foto d’epoca che ora campeggia sulla copertina di una fortunata biografia scritta da Manuela Gandini per l’editore Castelvecchi. Quella ragazza di buona famiglia, nata a Bucarest, ebrea, ricchissima, moglie diciassettenne del grande gallerista Leo Castelli e poi del letterato Michael Sonnabend , di fatto, è stata il deus ex machina. L’artefice diretta o indiretta, di moltissima parte della scena artistica del secondo Novecento.

Al pari di un’altra signora dell’arte, Peggy Guggenheim, ma da una posizione più riservata e schiva. Anche se non meno tenace nell’annettere alla propria “scuderia” opere di avanguardia, che sapessero raccontare il proprio tempo, aspirando a diventare a loro modo classiche. Così a quattro anni dalla scomparsa di Ileana, il museo Guggenheim di Venezia le dedica un omaggio, fino al 2 ottobre, ospitando la mostra Ileana Sonnabend, un ritratto italiano curata da Antonio Homem e da Philip Rylands e che raccoglie una selezione di opere della collezione Sonnabend, – una settantina in tutto – legate dal filo rosso dell’amore di Ileana per il Belpaese.

In primo piano, così, un bianco e magnetico Concetto speziale di Lucio Fontana e opere scabre ed essenziali di maestri dell’Arte povera (Kounellis, Pistoletto, Paolini, Zorio, Merz, Calzolari, Anselmo), ma ecco anche il new Pop di Rotella e i collage di Rauschenberg d’ispirazione italiana, realizzati proprio per la gallerista, che insieme a Castelli, si fece mentore del lavoro dell’artista statunitense.

Ileana Sonnabend

E poi ancora i freddi geometrismi di minimalisti come Dine e Sol Lewitt e, sul versante opposto, la cifra neoselvaggia di artisti come Baselitz e Kiefer che forse, più di tutti, risuonavano nella passione di Ileana per l’arte, coltivata fin da giovanissima in ambito mitteleuropeo, con piglio nomade e cosmopolita.

Come del resto lo fu la sua vita, trascorsa fino a 94 anni tra Parigi, Venezia e New York. Proprio nella Grande mela con il triestino Leo Castelli , Ileana Shapira diventò la “regista” di gran parte dell’arte americana anni Sessanta e Settanta. Insieme lanciarono i principali protagonisti del minimalismo ma anche dell’arte processuale e concettuale. E proprio grazie alla galassia di gallerie che Ileana e Leo, ciascuno a suo modo, contribuirono a far nascere nel quartiere di Soho, New York rilanciò la propria leadership culturale nel mercato internazionale dell’arte. E se quel legame esigente e complesso fra i due non poteva rimanere compresso nell’ambito di un matrimonio, per tutta la vita Ileana e Leo furono complici, sodali e sottilmente rivali sapendo di tracciare le linee della storia dell’arte del XX secolo.

da left-avvenimenti 2011

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La scultura è morta. Viva la scultura

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 25, 2010

di Simona Maggiorelli

Maurizio Cattelan

Ormai da vari decenni la parola scultura è diventata desueta nel mondo dell’arte. In Italia a praticarla in linea con la tradizione, in un senso poetico alto, di fatto sono rimasti Arnaldo Pomodoro e pochi altri appartati maestri. Cercando perlopiù di riattualizzarne il significato di intervento civile nel tessuto urbano. Per il resto, come esemplifica bene la panoramica internazionale contenuta in Scultura oggi di Judith Collins uscita di recente per Phaidon, questa pratica antichissima di creare forme nuove con scalpello e lime è diventata qualcosa di radicalmente altro. Incontrando l’architettura, la videoarte e la performance, la scultura si è fatta intervento ambientale, installazione, percorso plurisensoriale, esplorazione di una spazialità nuova, non più intesa solo in senso fisico, ma anche come apertura di uno “spazio” interiore.

Un processo cominciato già con i primi, avanguardistici, ambienti di Lucio Fontana che pure veniva da una solida  pratica di ceramica tutta tradizionale. Nella prima metà del Novecento proprio nelle mani di artisti e anticipatori del contemporaneo come lui la scultura si è liberata da ogni rigida convenzione. Ma anche e soprattutto da ogni accento retorico e ideologico. Poi ad alcuni fatti di cronaca, per quanto non attinenti strettamente all’arte, alcuni critici e artisti hanno voluto attribuire un significato in relazione a questo passaggio.

Agli inizi del nuovo millennio, per esempio, l’abbattimento della statua di Saddam Hussein in Iraq è stato letto anche come la fine di un certo modo di intendere la scultura. Nell’immaginario collettivo, insomma, quella sequenza di immagini rimbalzata sui media da un capo all’altro del mondo non avrebbe incarnato solo un sogno di democrazia, ma avrebbe simboleggiato anche la definitiva impraticabilità di un genere di scultura che ha cantato le lodi di ideologie dittatoriali diventandone totem e feticcio. Proprio da qui, dalla morte della scultura come monumento, è partita la riflessione che il curatore Fabio Cavallucci svolge con la XIV edizione della Biennale internazionale di scultura di Carrara, intitolata, non a caso, Postmonument e raccontata in un omologo catalogo Silvana editoriale.

Cai Guo-Qiang head on

E ancora nell’orizzonte bianco delle cave di marmo da cui Michelangelo trasse interi blocchi intonsi per i suoi capolavori ecco ardere le capanne rosso fuoco fotografate da Giorgio Andreotta Calì e galleggiare, come in levitazione, le sagome umane rivestite d’oro di Liu Jianhua oppure ecco comparire fantasmagorie di animali firmate dal cinese Cai Guo Quiang. E ancora sculture di bottoni che miniaturizzano scenari urbani, archi costruiti con staccionate di sedie intrecciate, mulini che fendono l’aria nel cuore dell’agorà pubblico. Tutto si mescola e acquista nuovi significati in questi antichi contesti. Sotto la guida di Castellucci la Biennale 2010 si fa immaginifica Wunderkammer. Amplificata da fiabeschi percorsi paralleli nel Castello Ruspoli di Fosdinovo dove giovani videoartisti come Emanuele Becheri e Riccardo Benassi reinventano gli spazi con filmati e installazioni. Nel frattempo, insieme al grande artista cileno Alfredo Jaar, questi stessi giovani sperimentatori accendono di nuove luci e significati anche la Cattedrale e il Battistero di Carrara.

da left-avvenimenti del 25 giugno 2010

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Il macro si fa città museo. Nel segno di Odile Decq

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 28, 2010

Dal 1 giugno il museo di arte contemporanea di via Reggio Emilia a Roma riapre i  battenti, ridisegnato dall’architetto francese  e con una serie di interessanti mostre che aprono in contemporanea

di Simona Maggiorelli

Macro di Roma

Curve, linee architettoniche sinuose, eleganti. E percorsi che seguono traettorie pendenti che danno al passo una piacevole sensazione di incertezza. Ma anche una grande attenzione ai giochi di luce, come alle pause e alle zona d’ ombra. Si presenta così il nuovo Macro di Roma riletto dall’architetto francese Odile Decq. Quando le donne progettano scelgono un vocabolario diverso da quello rigidamente monumentale. Lo suggerisce la morbidezza di linee che l’archistar anglo-irachena Zaha Hadid ha saputo dare al suo avveniristico MAXXI (che ora apre definitivamente al pubblico) ma lo fa pensare anche il nuovo museo di arte contemporanea di via Reggio Emilia che la Decq ha trasformato in una sorta di pubblico agorà dotandolo di un cortile aperto con fontana e una ampia parete a vetrata su cui scorre l’acqua.

Luce naturale, acqua, trasparenze, certo. Ma poi diversamente dalla Hadid che ha fatto dei colori chiari la propria cifra, la ex ragazza punk rock Odile Decq sceglie lucido basalto della Cambogia come rivestimento del Macro.  E all’interno, proprio nel cuore del museo, crea un rosso auditorium da 150 posti che sembra sollevarsi dal pavimento come un astronave. Così in scintillante nuova veste che ricorda il suo gusto dark per gli abiti neri e il rossetto che spicca sulla pelle chiara, Odile ha presentato ieri il suo Macro. Che già dal 1 giugno non sarà più solo bella scatola vuota, ma cantiere d’arte attivissimo con l’inaugurazione in contemporanea di sette personali di artisti europei e americani e con nuovi percorsi di opere appartenenti alla collezione permanente del museo collocate nei nuovi spazi.

Così se nella piccola galleria s’incontrano, tra le altre, opere-manifesto come Il Teatrino di Lucio Fontana e Sottosopra azzurro in alabastro di Ettore Spalletti, accanto alla Superficie bianca di Enrico Castellani e alla spugna imbevuta di blu Klein (con cui l’artista francese rappresentava il proprio ), nel foyer invece c’è la stele Alfabeto che l’artista Nunzio ha affidato al Macro in comodato. Nella sala grande campeggia la montagna di oggetti in acciaio con cui l’indiano Subodh Gupta ha costruito la sua ironica Offerta per gli dei avidi, ma anche le grandi vele gialle, arancio e bianche dell’immaginario veliero evocato dal greco Kounellis. E il viaggio continua sulle passerelle abitate di opere di Jenny Holzer nel v-tunnel dove è proiettato un celebre incunabolo di videoarte firmato Bruce Nauman e perfino sulla terrazza dove Arthur Duff ha creato ad hoc per questa occasione Synophses, una installazione site specific che “bagna” i visitatori di raggi di luce colorata.

Mario Schifano, Macro

Ma al di là delle operazioni scenografiche e d’effetto la novità più importante del nuovo Macro è la ripresa dell‘attività espositiva temporanea, con una sala dedicata a un lavoro interattivo di Gilberto Zorio e un progetto speciale dedicato alle metamorfosi su parete di Luca Trevisani. E poi ancora una personale dell’artista portoghese Louro e la presentazione di nuove opere degli americani Hashimoto e Aarong Young e dello spagnolo. E non è finita qui. in questo mettere a valore e ricreare ogni angolo spicchio, cantuccio o esterno che sia, il museo romano diretto da Luca Massimo Barbero offre anche una passeggiata fra i triangoli e le losanghe a colori con cui ilmaestro francese Daniel Buren ha ridisegnato una delle passerelle esterne del museo,per quello che viene chiamato il “belvedere” e ch , in questo caso, permette davvero un punto di vista nuovo, da fuori, su una parte della collezione permanente conservata all’interno del Macro. Collezione che, proprio in questi giorni, si è arricchita di un’opera nuova, The innocent del videoartista americano Bill Viola.

dal quotidiano Terra del 28 maggio 2010

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La vis imaginativa di un maestro

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 5, 2009


Due saggi indagano il non finito in Michelangelo e la potenza del suo “occhio interiore”

di Simona Maggiorelli

Michelangelo,_battaglia_dei_centauri,_casa_buonarroti

Michelangelo, Centauromachia

La potenza dei Prigioni di Michelangelo che sembrano emergere dalla pietra grezza con uno sforzo sovrumano è al centro del nuovo lavoro Isabelle Miller Capolavori incompiuti, da poco uscito in Italia per l’editore Angelo Colla. Un saggio in cui si analizza il fascino dell’imperfetto e quel certo modo di fare arte che lascia trasparire la tensione creativa piuttosto che il dettaglio analitico e le rifiniture.

Nei bozzetti di Canova, nelle sculture incompiute di Rodin oppure nei bassorilievi in creta di Lucio Fontana si percepisce il divenire dell’opera, quasi potesse restare aperta a ulteriori significati e assorbire col tempo nuove sfumature attraversando temperie culturali diverse. Una qualità del “non finito” di durare e “ricrearsi” nella storia che Michelangelo intuì giovanissimo. Facendone la chiave della sua Centauromachia, conservata in Casa Buonarroti a Firenze.  Un bassorilievo che gli studiosi hanno spesso considerato immaturo per certi “difetti”, che farebbero sospettare una non perfetta padronanza delle proporzioni nell’anatomia dei corpi e della prospettiva geometrica. Del resto, come ricorda Forcellino in Michelangelo. Una vita inquieta (Laterza), quando riprese il tema della lotta dei centauri da fonti dantesche e, su suggerimento del Poliziano, dalle Metamorfosi di Ovidio era un diciassettenne che si era appena affrancato dalla bottega del Ghirlandaio grazie a Lorenzo de’ Medici che, intuendone il talento, l’aveva voluto fra gli intellettuali umanisti che frequentavano il suo giardino di corte. Sta di fatto, però, come notano Sergio Risaliti e Francesco Vossilla in Michelangelo. La zuffa dei centauri (Electa), «un lunare e nascosto Michelangelo intervenne più volte con gli scalpelli a perfezionare quell’immagine di tumulto», senza che il rilievo ricevesse mai l’ultima mano. Secondo la tesi dei due autori, l’artista era ben consapevole del valore di quel lavoro e con gli scalpelli, e poi, settantenne con l’aiuto del biografo ufficiale, Ascanio Condivi, «riuscì in un’altra impresa: far credere che la Zuffa dei centauri fosse perfetta prima del 1492». Come opera di un talento precoce e geniale. Ma a ben vedere Michelangelo non aveva bisogno di apologia.

La genialità dell’opera stava già nel fatto che avesse ripreso il tema caro all’Umanesimo liberamente, senza lasciarsi imbrigliare dal valore allegorico di vittoria della ragione sugli istinti. Al «bulicame» dei centauri di dantesca memoria sostituì figure dalla bellezza quasi greca (aspetto che accentuerà dopo il ritrovamento del Laocoonte). E non ebbe timore di usare quelle deformazioni che, in una visione di insieme, gli permisero di rendere il senso di un corpo umano in movimento nello spazio. Con la Centauromachia era già fuori dalla perfezione bidimensionale di Botticelli. Inoltre, come suggeriscono Risaliti e Vossilla in questo loro breve e affascinante saggio, Michelangelo rilegge la lezione leonardiana dello sfumato in chiave plastica, riuscendo a dare profondità e ombre al bassorilievo. Al tempo stesso, abbandonando lo schema di piani parelleli tipico dello stiacciato di Donatello, riesce a costruire una molteplicità di punti di vista che nel non finito lasciano aperta la porta della fantasia. Per dare una spazialità interna all’opera, poi, non usa la cauta raspa, ma la grandina e lo scalpello fino alla pelle del marmo, sapendosi fermare prima della rottura. «La capacità molto precoce di Michelangelo – scrive Forcellino – era quella di vedere il marmo nella sua tridimensionalità, indipendentemente dal disegno che si può tracciare sulla sua superficie». Il marchigiano Condivi già scriveva nel 1553 della «potentissima vis imaginativa» del maestro. La forza espressiva della Centauromachia era già tutta nell’immagine interiore dell’artista. La rappresentazione così emergeva dalla pietra viva e reale, nelle sue linee essenziali. E non c’era alcun bisogno di completare le parti scabre.

da left-avvenimenti 4 settembre 2009

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