Provocatorio, spiazzante, Maurizio Cattelan, l’artista italiano più noto all’estero, torna alla ribalta con Shit and die, un nuovo progetto per One Torino. E racconta la sua trentennale ricerca a caccia del significato nascosto delle immagini
di Simona Maggiorelli
Dopo la grande mostra antologica al Guggenheim di New York, nel 2011 Maurizio Cattelan aveva annunciato il suo ritiro. Ma ora, a sorpresa, ricompare a Torino, dove sta preparando un nuovo progetto espositivo per Artissima, in programma dal 6 al 9 novembre 2014. Con il provocatorio titolo Shit and die (citazione ironica di un’opera di Bruce Nauman) questa nuova mostra allestita in Palazzo Cavour e aperta fino al 25 gennaio 2015 promette un insolito viaggio nella storia torinese, costruito attraverso oggetti insoliti, desueti, dimenticati. «Buone cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria, reperti di archeologia industriale, pezzi di avanguardia e ombre lombrosiane.
«Forse non le definirei ombre» precisa l’artista, senza rivelare troppo del progetto nel suo concreto. «Anche Lombroso era all’avanguardia su alcune cose. Oggi sappiamo che ha completamente sbagliato il tiro, ma era comunque un uomo di scienza. Per esempio- racconta Cattelan – il museo ha una collezione sterminata e meticolosissima di riproduzioni su carta dei tatuaggi dei detenuti, con tanto di legenda e racconto biografico di ogni prigioniero. Sono documenti davvero interessanti, solo su quello ci si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film».
Mentre Cattelan si diverte a frugare in polverosi archivi, mentre si occupa di storia locale e nel Museo Lombroso si dedica all’esame critico delle tassonomie di una psichiatria positivistica e al fondo razzista, dall’altra parte dell’Oceano, una grande mostra mercato vende le sue opere più famose per cifre che oscillano dai 30mila dollari e 20 milioni.
«Si tratta di una mostra di mercato secondario di cui so poco io stesso. Non più di quello che c’è scritto sui giornali», confessa l’artista. «Quando il lavoro è venduto una prima volta se ne perde il controllo. Fa parte del patto con se stessi. È come dare un figlio in adozione, poi non puoi pretendere di decidere cosa farà da grande». Certo, sembrano passati anni luce da quando Cattelan, lasciata Padova, si aggirava per New York senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Riuscendo tuttavia a farsi strada nel mondo dell’arte. «New York è sicuramente cambiata, come il resto del mondo, ma ancora oggi – racconta – anche se stai chiuso in casa, puoi sentire l’energia della città. A soli due isolati di distanza puoi trovare 150 gallerie d’arte. 150 giovani teste che pensano, e basta una passeggiata per incontrarle. Sembra un cliché ma – sottolinea Cattelan – credo che New York possa essere un punto di svolta, come è stato per me anni fa».
Michelangelo Pistoletto dice che «ad un certo punto l’artista deve andare oltre il proprio ego e creare una costellazione». Con un atteggiamento maieutico verso i giovani talenti. Lei non ha mai fatto parte di gruppi, di movimenti precisi. Non ama le parrocchie?
Non amo le etichette, nemmeno quella di solitario: ho sempre sostenuto i giovani artisti nel modo che mi veniva più spontaneo, creando un dialogo, e lavorando in team; come in quest’ultimo caso, con Shit and die, una mostra collettiva in cui non mancano di certo i giovani artisti. Semplicemente non ho mai sentito l’esigenza di fondare una scuola, temo che avrei davvero poco da insegnare.
Da dove trae ispirazione per le sue opere? Come sono nate opere come La nona ora (1999) con papa Wojtyla o Him (2001) che mostra Hitler devoto, che prega?
Qualcuno ha detto che per avere delle idee ci vuole una buona immaginazione e un mucchio di spazzatura: probabilmente non ho abbastanza immaginazione, ma di sicuro ho un sacco di spazzatura! Scherzi a parte, credo che avere idee sia una questione di permettere alla propria mente di distrarsi a sufficienza dall’ovvio: si tratta di un compito rischioso, perché si possono scoprire cose su se stessi che forse era meglio non scoprire.
Mentre il Postmoderno produceva architetture impazzite e gadget, usando quello stesso linguaggio pubblicitario, lei denunciava il vuoto e la violenza di un certo modo di vivere metropolitano (Bidibidodidiboo 1996), additava la cultura che crocifigge la donna (Untitled 2007) e impicca la fantasia dei bambini (Untitled 2004), smascherava ideologia o religione (Ave Maria, 2007). Però non si è mai definito artista politico. Perché?
Non mi sono mai posto la questione in questi termini perché non mi ha mai interessato definirmi a priori, o prendere impegni che non potevo mantenere. Quello che ho fatto è semplicemente ricercare immagini che, in mezzo alla montagna di informazioni inutili da cui siamo sommersi ogni giorno, suscitassero una reazione a livello dello stomaco. Penso che possa essere un ottimo modo per portare in superficie la rabbia, privata della violenza.
«Il mio lavoro è sempre stato quello di prendere i pensieri miei degli altri e di farli vedere a tutti», lei dice nell’Autobiografia non autorizzata (Mondadori, 2011) firmata da Bonami. E poco prima: «Facevo l’incorniciatore di sentimenti, di stati d’animo». Rivelare il lato latente, invisibile, può essere rivoluzionario?
Nessun discorso è neutrale, l’arte non fa eccezione. Ognuno di noi è “impegnato” e rivoluzionario a modo suo, e non è detto che dichiararlo a voce alta lo renda più vero. Il mio impegno è creare immagini che rimangano impresse per più di due secondi… le assicuro che se non è “impegnato” è comunque molto impegnativo.
Nel 1993 lei debuttò in Biennale con Bonami. Più di recente è tornato a Venezia con una installazione che ricreava Tourists (1997). Guardando i piccioni impagliati dal sotto in su, standosene lì a naso per aria, ci si sentiva “piccionescamente” complici di un mercato che spaccia per arte qualunque cosa. Una pizzicotto al pubblico perché apra gli occhi?
Credo che ogni commento e ogni interpretazione siano legittimi, ma non penso che stia a me realizzarli. Credo che non si dovrebbe pensare a chi si sta rivolgendo: nel momento in cui un lavoro viene presentato attraverso i media diventa di patrimonio pubblico e se ne perde inevitabilmente il controllo. Questo accade sia dentro sia fuori dall’istituzione: io ho sempre preferito perdere il controllo da subito, è molto più semplice che dover accettare a posteriori di averlo perso.
Al MoMa, al Pompidou, alla Tate ma anche alla Biennale di Istanbul s’incontrano quasi gli stessi artisti, una medesima estetica e modo di concepire le arti visive. Il mercato internazionale dell’arte nell’ultima ventina di anni ha imposto una sorta di pensiero unico? C’è spazio per chi voglia proporre una diversa ricerca?
Le mostre, le istituzioni e il mercato dell’arte e anche la ricerca sono inevitabilmente collegati tra loro, in quanto costituiscono una catena indissolubile che permette al meccanismo di andare avanti. Sono tutti lati di una stessa medaglia, che non credo possano essere separati. Per quanto riguarda me, ho sempre avuto bisogno di progetti paralleli su cui lavorare, un tempo erano degli intermezzi dal solito lavoro. Adesso una rivista come Toiletpaper, o curare una mostra come Shit and die, o qualsiasi altro progetto futuro sono un buon modo per continuare a lavorare. Il problema è che ci illudiamo di avere tempo e invece non ne abbiamo poi così tanto: qualsiasi cosa verrà dopo, farò del mio meglio perché non sia tempo sprecato.
dal settimnale left primo -7 novembre




















Nel 1914 il teorico della «guerra igiene del mondo» andò in Russia. E Majakovsky gli organizzò un’accoglienza ostile. Al Mart un “illuminante” confronto fra avanguardia nostrana ed europea
E in un primo momento anche Antonio Gramsci guardò con simpatia a questo svecchiamento della cultura italiana promesso dal futurismo con un’apertura internazionale. Ma di lì a poco l’inconciliabilità delle diverse posizioni esplose in modo deflagrante. E se gli interessanti tentativi di creare una arte progressista che si saldasse a una sinistra politica del costruttivista Pannaggi e dell’immaginista Paladini (artisti che ebbero qualche risonanza internazionale e rapporti costanti con l’avanguardia russa) finirono per arenarsi e rimanere isolati, con l’accordo fra Mussolini e i futuristi ogni velleità di sperimentazione, anche di Marinetti, dovette cedere il passo alla trinità “ordine, gerarchia, tradizione” imposta da Prezzolini e dal gruppo dei vociani. Ma già molti anni prima della definitiva normalizzazione del movimento futurista che avvenne negli anni 30 (con il suo leader assurto ad accademico d’Italia e gli ultimi futuristi mutati in picchiatori) durante il “leggendario” viaggio in Russia di Marinetti del 1914 si sarebbero potuti leggere segni di una fredda presa di distanza da parte di quella avanguardia russa che poi Lenin ingaggiò per dipingere i treni della rivoluzione del ’17. Pagine di storia che ora, in occasione della mostra al Mart, si possono leggere nel resoconto di uno storico dell’arte russo Vladimir Lapšin, pubblicato in catalogo. Di fatto i pittori cubo-futuristi russi snobbarono il tour marinettiano mentre artisti come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova a Olga Rozanova guardarono alla Francia non all’Italia. Senza dimenticare che fu soprattutto il poeta Majakovsky a organizzare un’accoglienza apertamente ostile alle conferenze di chi, come Marinetti, teorizzava la necessità della violenza e parlava della guerra come «sola igiene del mondo». 


Più volte ce ne siamo occupati anche in queste pagine. Dalla grande mostra al Centre Pompidou a quella dell’estate scorsa a Londra, è stato l’aspetto eclettico, imprevedibile, dissacrante, iconoclasta dell’arte di Fontana a essere portato in primo piano. Certo, i buchi di Fontana che fecero scandalo alla Biennale di Venezia del 1950 superavano in modo rivoluzionario e dirompente la bidimensionalità del quadro, sussumendo lo spazio reale in quello artistico. Mentre i successivi ambienti spaziali sembravano alludere a una tridimensionalità che non è soltanto fisica, ma anche interiore. Ma dalle prime sculture degli anni 30 ai buchi, ai tagli, alle ceramiche, fino alle originali riletture del mito dell’opera totale negli ambienti spaziali degli ultimi anni, un medesimo e rigorosissimo filo di ricerca sembra percorrere le intuizioni e le invenzioni di Fontana. La ricerca sulla luce e sul colore sono il filo rosso, come ci racconta la mostra genovese. Ma non solo. Fontana nasce scultore e, come suggerisce Enrico Crispolti nel libro