Nell’antica pescheria di Trieste il maestro dell’Arte Povera, Janis Kounellis, presenta una nuova installazione. left lo ha incontrato
di Simona Maggiorelli
Antichi banchi di pesce e relitti di vecchie imbarcazioni. Su cui dall’alto piovono pietre, pesanti come le tempeste che colgono i pescatori al largo d’inverno. È anche una metafora del viaggio per mare e dei pericoli che i migranti devono affrontare la nuova, grande, installazione che Janis Kounellis ha realizzato nella sala degli incanti della ex pescheria di Trieste, progettata nel 1913 dall’architetto Giorgio Polli. «Uno spazio bellissimo, illuminato da grandi finestre. Ma soprattutto uno spazio “preciso”. Perché – spiega l’artista – un luogo può essere bello ma se non è preciso per un progetto, resta solo un bello spazio». Qui Kounellis ha trasportato delle vecchie barche che giacevano in depositi, «rottami che a Trieste si trovano facilmente», e le ha disposte al centro della sala con un gesto pittorico e teatrale che al nostro sguardo pare creare una scena epica alta e popolare.
«Epos? Non saprei – si schermisce lui – quello che posso dire è che, finito il lavoro, mi sono accorto che evocava una deposizione». Non una deposizione dell’amato Caravaggio o di Mantegna, autori altre volte indirettamente richiamati nelle opere di questo maestro dell’arte di origini greche. «Non c’è qui un riferimento preciso ad una tela o ad un’altra – precisa -. La storia dell’arte italiana è costellata da centinaia di deposizioni. Qui invece che un corpo viene “deposta” una barca. Sulla nuda pietra del banco del pesce. Ma il significato è lo stesso». E ugualmente tragico. «L’elemento tragico è consustanziale alla tradizione cristiana, segnata dalla brutta morte del figlio di Dio» ha detto Kounellis in una recente intervista ad Alfabeta Due: «Una storia violenta connota il cristianesimo mentre la tradizione asiatica e quella cinese, per esempio, mettono al centro filosofi come Buddha e Confucio».
Ma durante questo nostro incontro il discorso prende un’altra strada: «Quello che mi interessava qui – spiega – era l’andamento drammaturgico della deposizione. Noi abbiamo una cultura drammaturgica. E se vai a vedere tutta l’iconografia dell’arte italiana è fortemente drammaturgica». La scena teatrale è evocata in questa installazione anche da una serie di sedie vuote, poste a latere. Come raccontano i curatori di Kounellis Trieste, Davide Sarchioni e Marco Lorenzetti, nel catalogo Skira che è uscito il 7 settembre in contemporanea con l’inaugurazione di questa installazione, Kounellis torna a confrontarsi con un tema a lui da sempre caro: l’uscita dal quadro per “conquistare” una visione e una spazialità più ampia, senza tuttavia cancellare la storia della pittura. «Ho cominciato a lavorare sull’uscita dal quadro negli anni Sessanta» ci ricorda questo longevo maestro del contemporaneo che, poco più che ventenne, approdò in Italia alla fine della guerra civile greca. Mentre lavorava a una propria innovativa poetica, di fatto, continuava a studiare la tradizione, cercando il modo per rinnovarla.
«In tutti i Paesi la modernità è fatta di tradizione – dice Kounellis a left -. Altrimenti sarebbe modernismo, non sarebbe modernità. E dunque non si può negare la tradizione, fa parte della logica del nuovo ma anche del mio tentativo di pormi sempre in modo dialettico. La tradizione, per me, entra a piano titolo in questo clima di novità». Novità che per Kounellis non è mai stato nuovismo. Fine a stesso. Negli anni in cui imperava la Pop Art, insieme a Merz, Pistoletto, Fabro, Paolini, Penone e altri artisti riuscì a dare vita a un articolato progetto che Germano Celant definì Arte Povera. Un movimento che attraverso la scelta di materiali “naturali” e la ricerca di una spazialità tridimensionale rimetteva al centro l’umano, la poesia, la ricerca di un senso profondo della vita, in contrapposizione con la stolida celebrazione del mercato e della società consumistica inaugurata da Warhol e dalla sua Factory.
E oggi cosa pensa Kounellis del concettualismo autoreferenziale e delle opere gadget di artisti come Damien Hirst e Jeff Koons, che grazie a collezionisti miliardari, vanno per la maggiore nei più importanti musei del mondo? Questo tipo di globalizzazione dell’arte finisce per determinare un appiattimento delle proposte? «Un’arte globalizzata di questo tipo evidenzia la perdita del pittore, la fine della sua creatività – risponde Kounellis -. Se la gente potente impone la propria visione, il pittore è ben lontano dall’epoca dlle Demoiselles d’Avignon. Ma io non credo che questo possa succedere davvero. Certo, c’è un’iniziativa che nasce nella globalizzazione, ma quest’ultima deve essere vissuta in senso dialettico. Ognuno ha la propria identità e la deve mettere in gioco, in dialettica con gli altri. Questo è l’obiettivo. Il resto è una riduzione dell’arte a decorazione».
Non a caso Kounellis si è sempre definito internazionalista per sfuggire all’omologazione della globalizzazione? «La mia generazione è stata internazionalista e io continuo ad esserlo – approfondisce – Perché mi piacciono le persone. E’ più forte di me. E l’altro che mi attrae, che vado a trovare, ha il suo metro di cui devo sempre tenere conto». Un confronto con l’altro che di recente ha portato Kounellis anche a confrontarsi con una cultura lontana dalla nostra come quella cinese.«A Pechino sono stato 4 mesi. Sono partito con le mani vuote. Volevo andare a vedere la Cina, le sue enormi possibilità. In un mercato della Capitale – racconta – ho comprato delle ceramiche rotte: frammenti colorati risalenti a varie epoche e in particolare all’epoca del Maoismo, quando i militari entravano nelle case e rompevano tutti i serviti”borghesi” Io ho pensato di usarle per farne una scrittura ermetica fatta di frammenti». E mentre Kounellis già progetta di continuare il suo viaggio verso Oriente andando a Seul, prosegue a Roma fino al 12 settembre, la bella personale curata da Bruno Corà nella Galleria Guidi. E nella Capitale il 25 settembre lo aspetta anche l’apertura una nuova mostra alla Fondazione Volume. «Dopo un po’ che siamo in giro, nasce sempre il desiderio di tornare».
dal settimanale left-avvenimenti