Chi è quella misteriosa donna dallo sguardo vivo, che non si fissa sullo spettatore, ma guarda oltre? Volgendosi d’un tratto, come fosse comparso qualcuno che attrae la sua attenzione o per un accadimento improvviso. Nota come la Belle Ferronière (1490-’96) potrebbe essere l’amante di Ludovico il Moro, Cecilia Gallerani, Isabella d’Este o piuttosto Isabella d’Aragona, donna bellissima e fiera che – si narra – seppe reagire anche all’esilio.
Nei secoli si sono inseguite molte ipotesi che, però, sono sempre rimaste tali. Ciò su cui gli studiosi invece concordano è che questo magnetico ritratto del Louvre e ora al centro della mostra milanese Leonardo da Vinci 1452-1519, rappresenta un’autentica rivoluzione nella storia della pittura. Non solo per le valenze plastiche e volumetriche della figura, rese ancor più evidenti qui, in Palazzo Reale, dall’accostamento alla Dama col mazzolino scolpita dal Verrocchio. Ma per il movimento segreto che anima il dipinto e per il genio leonardiano nel rappresentare i moti della mente e l’invisibile dinamica degli affetti. Come traspare già, nelle prime sale, dalla Madonna Dreyfuss (1469) della National Gallery di Washington, per il modo in cui una giovane Maria, tutt’altro che piatta icona sacra, gioca con il figlio.
Ma la mente corre anche all’Ultima cena, affrescata in Santa Maria , ricordando l’ondata di reazioni emotive che suscita nei discepoli la frase di un umanissimo Gesù, senza aureola. Una straordinaria serie di disegni e di schizzi autografi, provenienti dai maggiori musei del mondo e in particolare dalla Royal Collection inglese, raccontano lungo il percorso la ricerca continua di Leonardo sull’espressività dei volti e dei gesti, il suo attento studio del corpo in movimento.
Un interesse verso la natura e l’essere umano nel suo complesso basato sull’intuizione e sulla «sperienza» più che sui libri canonici rifiutando la ripetizione acritica imposta dalla Chiesa e da conventicole intellettuali. Con ciò questa vasta e rigorosa esposizione, frutto di 5 anni di studio sotto la guida di Pietro C. Marani e Maria Teresa Fiorio, non alimenta il mito ottocentesco di un inarrivabile Leonardo nato dal vuoto più assoluto.
Grazie al contributo di esperti come il direttore del Museo della scienza di Firenze, Paolo Galluzzi, e di altri studiosi di rango internazionale nelle 12 sale della mostra, collegate da nessi e rimandi tematici, i due curatori hanno ricostruito filologicamente le fonti leonardiane: non solo quelle artistiche e liberamente reinterpretate (la scultura antica, Paolo Uccello, il Verrocchio, il Pollaiolo, la pittura fiamminga ecc.).
Ma anche quelle scientifiche, legate alle scoperte del proprio tempo da cui trasse spunto per le proprie originali invenzioni. Permettendo così al visitatore di comprendere meglio la vera identità di Leonardo e il suo poliedrico talento di pittore, architetto, ingegnere. Seguendo l’evoluzione del suo pensiero, attraverso gli scritti e nel disegno inteso come libera espressione, come strumento di conoscenza e poi di progettazione di macchine, edifici, scenografie teatrali, automi, ali per volare e strumenti musicali per la vita di corte. A cui prendeva parte suonando la lira e proponendo raffinati e arditi giochi letterari.
Ricchi di citazioni dai testi antichi, benché si definisse «omo sanza lettere». Sfoggiando figure letterarie come l’uccello che batté la coda sulla labbra di lui bambino. L’artista la presentò come una delle sue prime memorie d’infanzia. E Freud la interpretò in chiave omosessuale «scambiando quello che era con tutta probabilità un prestito letterario per un sogno a sfondo sessuale», come rivela lo storico dell’arte Edoardo Villata, autore del saggio Il sogno di Leonardo, pubblicato nel ricco catalogo edito da Skira (che ha prodotto la mostra con 4,5 milioni di euro).
L’unità della conoscenza e l’osmosi continua fra i diversi campi del sapere, che Leonardo collegava con sorprendenti nessi analogici, costituiscono il vero filo rosso che percorre gli oltre seimila testi autografi giunti fino a noi, insieme a un esiguo numero di dipinti e una grande messe di disegni, a penna, stilo e gesso. Un vero e proprio tesoro che permette di cogliere il processo inventivo leonardiano, di vedere all’opera la sua immaginazione creativa nell’esecuzione di rapidi schizzi, realizzati liberamente, lasciandosi prendere la mano, senza filtri razionali.
Fin dalla giovanile Veduta del Valdarno del 5 agosto del 1473, proveniente dagli Uffizi, in cui tratteggiava l’incessante trasformazione degli elementi naturali, anticipando lo sfumato, per arrivare poi, a fine mostra, alle tempestose visioni degli ultimi anni, in cui il tratto non è più rettilineo ma fatto da avvolgenti e vorticose linee curve. Le misure auree dell’uomo vitruviano a poco a poco, lasciano il posto al dinamismo e alla fresca immediatezza dei modernissimi schizzi per la Madonna con il gatto, per arrivare a realizzazioni come il vibrante profilo di cavallo bianco che appare in un guizzo di luce, in pochi suggestivi accenni, da un fondo di carta azzurra. Questa è una delle tante perle offerte, fino al 19 luglio, da questa mostra.
Come il dialogo fra Leonardo, Giovanni Bellini e Antonello da Messina che nasce dal confronto fra il Ritratto di musico (1485) dell’Ambrosiana, il Poeta laureato (1432) del pittore veneziano e il Ritratto di uomo (1465-70) dal sorriso malizioso e dallo sguardo indagatore che arriva da Cefalù. Un tris di opere in cui giunge a compimento quella trasformazione radicale della ritrattistica quattrocentesca raccontata da Enrico Castelnuovo nel saggio Ritratto e società in Italia (ripubblicato ora da Einaudi): «Nel XV secolo l’immagine dipinta o scolpita assunse un ruolo di celebrazione del potere e di una civiltà come in poche altre epoche», scriveva il grande storico dell’arte scomparso un anno fa. Un aspetto anche propagandistico che toccò il vertice nella Firenze medicea. Proprio in quella koinè in cui si formò Leonardo. Che diversamente da tanti artisti a lui coevi, abbandonò il valore celebrativo, solenne ed eroico, del ritratto (generalmente di profilo esemplato sulla monetazione antica) per rappresentare soggetti “anonimi”, straordinariamente vitali, innervati di movimento, in ritratti che ancora ci parlano.