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I graffiti urbani di #TitinaMaselli

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 12, 2015

Titina Maselli

Titina Maselli

L’artista che anticipò la street art, raccontata in un bel libro di Sabina De Gregori

Forte, estrosa, anticonformista. Titina Maselli (1924-2005) aveva un segno deciso e amava il colore. E lo usava senza timidezze. I suoi quadri, eredi del dinamismo di Giacomo Balla e degli esperimenti cinetici di Bragaglia, nascono all’incrocio fra astratto e figurativo, scanditi dal ritmo di linee blu elettrico, viola, rosse, gialle. Che l’artista spesso tracciava su tele stese per terra, alla Pollock, ma usando un pennello fissato ad un bastone come faceva Matisse.

Nascono così i suoi notturni urbani, grattacieli, strade come linee vitali dove, giorno e notte, scorre la vita. E poi i suoi quadri più leggeri, che evocano sagome di pugili, calciatori, icone popolari, con un linguaggio grafico d’avanguardia.

Attraverso le testimonianze di scrittori, artisti e amici della pittrice e scenografa romana, Sabina de Gregori ne racconta l’arte e la vita nel libro Titina Maselli, autoritratto involontario di una grande artista (Castelvecchi) mettendone in luce la cifra personale e insofferente verso tutte le etichette, il coraggio nel seguire il proprio “istinto”. Associata spesso alla scuola romana di piazza del Popolo, Maselli fu molto vicina a Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano ma non fu mai organica al gruppo.

Titina Maselli

Titina Maselli

Inquieta e indipendente, fin da piccola, insieme al fratello, il regista Citto Maselli, era stata spinta a studiare arte dal padre Ercole, critico militante, antifascista, che si occupava di metafisica e tonalismo; filoni che lei vedeva già antiquati. Nella casa di famiglia frequentata da intellettuali come Emilio Cecchi, Luigi e Fausto Pirandello, Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e Alberto Savinio, Titina sviluppò uno spirito cosmopolita, progressista e allergico alla Roma più provinciale e da cartolina.

Più che il glorioso passato della capitale o le sue antiche vedute, intuendo il cambiamento, già alla fine degli anni Quaranta cercava segni contemporanei e metropolitani. Anche per questo decise di trasferirsi a New York, dopo due anni di matrimonio con Toti Scialoja (che il museo Macro di Roma ricorda fino al 6 settembre 2015 con la mostra 100 Scialoja, azione e pensiero). Negli Stati Uniti osservò, curiosa, la nascente Pop art ma senza lasciarsi trascinare dalla moda.

Ciò che più le interessava era riuscire a catturare il flusso vitale, i campi di tensione che animano il paesaggio urbano, le dinamiche umane che plasmano il volto della città. Non usa il disegno, ma ci prova con un uso espressivo del colore, anti realistico. «Il suo segno-colore contiene un implicito accento gestuale ma soprattutto, assume nelle sue opere una intensità visionaria», scrive De Gregori (già autrice di monografie su Banksy e Obey), come accade appunto nella migliore street art quando potenti graffiti riescono ad accendere gli angoli più bui delle nostre città. (Simona Maggiorelli, Left)

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Matisse, l’artista che amava le donne

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 14, 2014

Matisse odalisca- Ferrara

Matisse odalisca- Ferrara

In attesa della mostra che Le Scuderie del Quirinale dedicano a Matisse dall’inizio di marzo 2015, colgo l’occasione per riproporre qui alcune note sulle mostra ferrarese e sulla monografica  alla Tate Gallery di Londra ( dedicata ai découpages di Matisse) pubblicate nel marzo 2014 su left).

di Simona Maggiorelli

Disegnare con le forbici. «Tagliare nel vivo colore mi ricorda lo sbozzare degli scultori», diceva Henri Matisse parlando dei découpages con cui, già avanti negli anni, rinnovò radicalmente la propria arte, dando vita a un versatile vocabolario di forme dai colori smaglianti e dalla forte evidenza plastica che, nelle sale della Tate Gallery, creano un flusso continuo di energia catturando il visitatore della mostra Henri Matisse the cut-outs (aperta fino al 7 settembre) in un caleidoscopico universo di fantasia. Fin dalla prima sala dove s’incontrano due singolari nature morte: una bistrata di nero e dagli abbaglianti toni acidi, l’altra più astratta, liberata da ogni mimesi. Due opere del 1940 raramente esposte che ben introducono all’ultimo, rivoluzionario, periodo dell’artista francese che, dopo aver preso le distanze dal realismo oggettivo e dall’ideologia retinica dell’impressionismo e del pointillisme di Seurat, aveva imboccato una strada divergente anche dal razionalismo geometrico del cubismo.

Matiisse, Tate Gallery

Matiisse, Tate Gallery

«Cosa fanno i realisti? Che cosa fanno gli impressionisti?», si domandava Matisse nello scritto Il mestiere del pittore. «Fanno la copia della natura. Tutta la loro arte consiste nella esattezza della rappresentazione: arte tutta oggettiva, arte di insensibilità. Al più, la loro, è annotazione edonistica». In quelle stesse pagine datate 1930 (pubblicate in Italia nel 2003 da Abscondita in Scritti e pensieri sull’arte) Matisse riconosceva al cubismo una «funzione essenziale nella lotta contro la decadenza dell’impressionismo», ma accusava Picasso e compagni di essere precipitati in un «mero materialismo» con la loro «indagine dei piani fondata sulla realtà».

Fondamentale per il pittore francese era invece l’immaginazione. («Solo l’immaginazione può dare spazio e profondità al quadro», appuntava). Come centrale era il sentire dell’artista: «Bisogna uscire dall’imitazione. Gettare via i vecchi stracci per camminare con i propri mezzi, con i propri sentimenti». Anche per questo l’interesse di Matisse più che alla natura si rivolgeva all’umano.

Con una fiducia che non si appannò neanche negli anni bui della guerra. Così, mentre persino Picasso negli anni Trenta risentiva dell’onda nera del ritorno all’ordine dipingendo pesanti figure matronali e arcaicizzanti, Matisse, «per non lasciarsi distruggere», si dedicava a onirici ritratti e nudi femminili di grande intensità emotiva come ben racconta la mostra ferrarese Matisse, la figura, la linea, la forza del colore che, fino al 15 giugno, presenta in Palazzo dei Diamanti una significativa scelta di tele e sculture fra cui varie versioni di Nudo disteso (dipinte fra il 1908 e il 1931), Grande nudo seduto e il Nudo in piedi (1907) proveniente dalla Tate, che testimonia l’apertura di Matisse all’arte africana e verso nuove forme di bellezza oltre i canoni occidentali.

Affascinato dalla forza delle linee, dalle proporzioni non razionali e dall’essenzialità di alcune piccole sculture africane in legno scovate per caso in una bottega del lungo Senna, il pittore cominciò a interessarsi all’arte cosiddetta “primitiva”, allargando lo sguardo anche alla statuaria mediorientale più antica e a quella cambogiana.

109_640Una passione che non lo abbandonò mai come si evince anche da alcuni cut-outs in mostra alla Tate, come l’elegante Donna con anfora del 1953 che Matisse realizzò in azzurro su fondo panna e poi, giocando sul negativo, in bianco su fondo azzurro. Le due silhouettes, accostate in una sorta di chiasmo, appaiono stilizzate, prive di ogni dettaglio superfluo, decantate in un segno potentissimo. In questo dittico che rievoca la posa di piccole statue babilonesi conservate al Louvre, Matisse riesce a fondere originale avanguardia e richiami all’antico.E il pensiero corre ai nudi scelti da Isabelle Monod-Fontaine per la retrospettiva di Ferrara e che rimandano implicitamente a una lunga tradizione che va da Michelangelo a Ingres. Ma in questi cut-outs realizzati nel dopoguerra Matisse sembra raggiungere una sintesi plastica persino maggiore.

Più ancora del colore nei découpages conta la linea che definisce i contorni, la forza e la vitalità del tratto. Come nel disegno e nelle incisioni in linoleum, in cui determinante è il gesto dell’artista. «Ho sempre pensato che questo mezzo tanto semplice – rifletteva Matisse – richiedesse la sensibilità di un suonatore di violino. Basta stringere un po’ le dita che tengono la sgorbia perché “il suono” muti da dolce a forte». Cambiando così il senso e l’espressione dell’intera opera.

Tanto più se si tratta non di una singola incisione ma di una serie più complessa e articolata di opere in rapporto fra loro, come i pezzi di un puzzle, pensate per trasformare creativamente il contesto architettonico in cui sono inserite.

Matisse  cut up

Matisse cut up

L’esposizione londinese curata da Nicholas Cullinan del MoMa di New York e dal direttore della Tate Nicholas Serota lo rende ben evidente, ricostruendo filologicamente la disposizione originale dei cut-outs e, quando non è stato possibile, offrendo una interessante documentazione fotografica.

Così si scopre che durante la Seconda guerra mondiale, vivendo isolato ma in costante contatto con la moglie e la figlia Marguerite che partecipavano attivamente alla Resistenza, Matisse cercava inconsapevolmente di opporre alla distruzione e alla tragedia circostante la vivacità delle gouaches e dei découpages della serie Jazz, in cui danzano acrobati e personaggi fiabeschi mentre si celebra il funerale di Pierrot e un solitario Icaro sembra spiccare il volo in un cielo costellato di esplosioni.

Ma soprattutto visitando questa importante retrospettiva londinese si scopre che il grande murale realizzato dall’artista nella propria camera (nonostante la malattia lo costringesse a letto) era di fatto una umbratile boscaglia di forme fluttuanti rosse, verdi, blu, gialle, fissate in combinazioni mobili con delle semplici puntine.

Henri Matisse - The Parakeet and the Mermaid 1952 (detail)Una tecnica che, insieme all’uso di un carboncino montato alla sommità di un lungo bastone, permetteva a Matisse di studiare e orchestrare ampie composizioni prima di ritagliare le singole forme e incollarle. Più audace ancora risulta il progetto realizzato negli anni Cinquanta a Nizza, in cui – grazie all’aiuto di Lydia Delectorskaya, musa, modella e preziosa collaboratrice – Matisse riuscì a creare uno spazio in cui ampi murali formavano una sinfonia di forme e di colori di forte impatto emotivo, che dalla parete si estendevano al pavimento, trasformando l’intera stanza in una sorta di pulsante “organismo” di segni astratti.

La pittura in questo modo diventava architettura dilatando lo spazio oltre il reale; dando vita a una creazione tridimensionale in cui, per dirla ancora con Matisse, «tutti i colori cantano insieme». Il quadro non era più confinato in una cornice ma, soprattutto, non bastava più a se stesso come oggetto isolato.
Ciò che conta per Matisse è il movimento, la leggerezza, la Joie de vivre che emerge dalla composizione di ogni opera e dal ritmo musicale, quasi sinestetico, che le varie forme colorate generano se messe in sequenza o squadernate in altre combinazioni. A partire da piccoli esperimenti legati a scenografie teatrali come quella per il Rosso e nero (1937) dei Balletti Russi, passando per libri d’arte come Jazz (1941-47) e progetti editoriali come Verve, (tutti in mostra alla Tate Gallery) il maestro francese si emancipò dagli esordi fauve legati solo all’uso espressivo e antinaturalistico del colore per arrivare a preconizzare le moderne installazioni.

dal settimanale left marzo 2014

Dopo Londra, la mostra Cut-outs è eapprodata al MoMa di New York. Ecco il link del New York Times per una visita virtuale: http://www.nytimes.com/interactive/2015/02/06/arts/a-walk-through-the-gallery-henri-matisse-the-cut-outs-at-the-museum-of-modern-art-in-new-york.html?smid=tw-nytimes

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Motherwell, l’anti Warhol

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2013

Robert Motherwell Jeune Fille

Robert Motherwell Jeune Fille

Quando in un’intervista per la Bbc David Sylvester chiese a Robert Motherwell se si riteneva, come Pollock, un pittore dell’Action painting rispose: «Dipende dall’enfasi che si dà alla parola azione. Se il senso è che il dipinto è un’ attività, sì. Se il senso è: come un cowboy con la pistola carica che si mette a sparare all’impazzata, o se il senso è che sta tutto nel gesto, allora no».

Teorico dell’arte e artista astratto fra i più interessanti dell’avanguardia statunitense del Novecento (come si può leggere nel libro Interviste con artisti americani edito da Castelvecchi) Motherwell rivendicava il carattere irrazionale del dipingere e una propria ricerca sulla creazione di immagini capaci «di esprimere ciò che succede dentro gli esseri umani».

Con un tratto fortemente espressivo che lo porterà negli anni Sessanta a diventare l’anti Warhol. Con la mostra Robert Motherwell, i primi collage (catalogo Peggy Guggenheim Collection, aperta fino all’8 settembre) il  museo Guggenheim di Venezia ci permette ora di mettere a fuoco un periodo cruciale della produzione di questo poliedrico artista nato ad Aberdeen, Washington, nel 1915, laureato in filosofia e architettura e che fu tra i protagonisti della Scuola di New York insieme a Mark Rothko, William Baziotes e Barnett Newman.

Motherwell collage

Motherwell collage

Curata da Susan Davidson l’esposizione in Laguna offre uno strepitoso focus sui primi dieci anni di attività di Motherwell, dai guazzi ed acquarelli del 1941 alle opere pittoriche della fine anni Quaranta nel segno dell’Informale. Fortissima e riconoscibile è la radice europea di questi collage esposti in Palazzo Venier dei Leoni e che sembrano rielaborare suggestioni picassiane. Ma vi si possono ravvisare anche tratti giocosi alla Mirò e quei tagli essenziali che rendono potenti le figure deformate di Matisse. Artisti che Motherwell ebbe modo di studiare durante un soggiorno in Francia nel 1938-39.

Ma nella scelta di una tavolozza di colori caldi molto contò per lui anche la lezione del surrealista cileno Sebastian Matta. Fu lui, di fatto, a introdurlo alla pratica dei Papier collé. E fu ancora Matta a presentargli la collezionista Peggy Guggenheim che lo invitò ad esporre in una collettiva con Baziotes e poi insieme allo stesso Pollock, nel settembre del  1944. Un percorso, quello che lega Motherwell ai suoi illustri “colleghi”, che dal 24 settembre si potrà approfondire a Milano quando in Palazzo Reale aprirà la grande mostra dedicata a Pollock con importanti prestiti anche di Rothko, de Kooning, Kline e di molte altre personalità di primo piano dell’arte statunitense del secolo scorso. Intanto come prezioso precedente, ma non solo consigliamo di visitare questa personale di Motherwell da cui si evince  la sorpresa dell’artista che, dopo i primi esercizi pittorici, trovò nella tecnica del collage la possibilità di sperimentare nuove e impreviste strade dell’astrattismo. Tagliare, strappare, incollare la carta  gli permetteva di inserire elementi dal mondo del reale, come gli slogan politici della rivoluzione messicana. E originalissimo risulta il suo modo di comporre parole e tratti di pennello, linee nere potenti e macchie di colore. (simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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L’arte africana, liberata dal pregiudizio etnografico

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 3, 2013

Artista Zande, Congo, Sanza antropomorfa

Artista Zande, Congo, Sanza antropomorfa

Lungo il corso del Niger, dove fiorì il più ricco filone di arte africana. Dal Cameron, dove il fiume scaturisce, fino alla foce, attraversando valli fertili dove varie etnie, per secoli, hanno vissuto in pace. I venti secchi del Sahara, le piogge abbondanti, l’alternanza di foreste, savane e pascoli hanno creato qui un ambiente insolitamente accogliente per la presenza umana. La pesca e il commercio, poi, hanno favorito l’incontro e lo scambio culturale.

In questo fitto intreccio di rapporti si è sviluppata, in modo particolare fra il IX al XVIII secolo, una grande tradizione d’arte. Qui per secoli sono state realizzate preziose sculture in legno (e più raramente in avorio), maschere per la danza e per proteggersi dagli spiriti maligni, statuette che celebrano la fertilità, totem e oggetti decorati secondo codici a cui alcuni artisti africani continuano ad attingere ancora oggi.

E mentre la Biennale dell’arte di Malindi in Kenya curata da Achille Bonito Oliva, fra le molte opere contemporanee di artisti provenienti da differenti regioni di questo sterminato continente, presenta (fino al 28 febbraio) anche una piccola selezione di opere che ancora traggono linfa dalle radici più antiche dell’arte africana, una importante esposizione di arte nigeriana al Musée du Quai Branly di Parigi offre proprio una disamina dell’arte più tradizionale attraverso l’esposizione di 150 sculture e maschere, magnetiche e suggestive, come quelle che- immaginiamo – stregarono Picasso e Matisse al Musée dell’Homme.

Furono proprio gli artisti delle avanguardie storiche ad aprire l’Occidente all’arte proveniente dal continente nero. Fino a quel momento, nell’Europa colonialista, considerata  una mera curiosità etnografica.

Come ha sottolineato Maria Grazia Messina, nel suo bel libro Le muse d’Oltremare (Einaudi) furono soprattutto artisti come Picasso con opere dirompenti come Les Demoiselles d’Avignon a cogliere e a saper ricreare in modo originale la potenza espressiva dell’arte africana, la forza immaginativa di sculture realizzate con grande essenzialità tecnica.

artista malese, copricapo in forma di antiolope

artista malese, copricapo in forma di antiolope

Ma per gran parte del Novecento, è mancata una attenta disamina dell’arte africana, fuori dai pregiudizi etnocentrici, e da pregiudizi coloniali, da parte degli studiosi; è mancato quello studio sistematico capace di far comprendere al pubblico occidentale le differenti caratteristiche storiche, formali e simboliche dell’arte africana  nelle sue varie periodizzazioni.

Una lacuna particolarmente evidente in Italia e che uno studioso rigoroso come Ezio Bassani, negli anni, ha contribuito a colmare. E in modo particolarmente approfondito nel suo nuovo, denso, lavoro Arte africana, uscito di recente per Skira.  Che oltre a chiarire la datazione, la storicità, i rapporti con i primi committenti europei, offre una mappa del variegato mosaico di stili dell’arte africana. Ma al contempo mette in luce alcuni elementi che – quasi fossero delle costanti antropologiche – si ritrovano nelle varie tradizioni “regionali”.

A cominciare dall’assenza di rappresentazioni paesaggistiche per dare spazio in maniera prioritaria alla rappresentazione della figura umana, maschile e femminile.

” La scultura è il mezzo prevalente con  cui si sono espressi gli artisti africani del passato- scrive Bassani – questo spiegherebbe l’assenza di rappresentazione del paesaggio, come peraltro aveva scritto Michelangelo.

“La figura umana – aggiunge – evocativa di personaggi importanti nella comunità, reali o simbolici, o di entità che facilitano il contatto con il soprannaturale, è il soggetto quasi esclusivo della loro creazione”.

PAGINA 67Inoltre  la figura umana è perlopiù rappresentata isolata, collocata in uno spazio assoluto di cui si appropria.  “In genere- prosegue Bassani – il soggetto rappresentato è immobile  non compie gesti, al più li sggerisce con piccole irregolarità che rompono la simmetria e la frontalità e trasformano l’opera in un organismo vivente”.

Altra caratteristica che connota  gran parte dell’arte africana tradizionale è il fatto che l’opera non risulta sia mai preceduta da studi, schizzi e abbozzi, è realizzata in rapporto diretto e immediato con il legno o la materia che si è scelto di scolpire.

E’ da sottolineare anche che l’artista africano tradizionale perlopiù resta anonimo. Ma anche se “non gode dello status di assoluta libertà riservato ai suoi colleghi dell’Occidente del nostro tempo, è un creatore consapevole di opere valide in sé, autonomamente espressive e generatrici di conoscenza e di emozioni. Perché- puntualizza Bassani – se il tema di ogni opera d’arte, anche africana, è dettato dal gruppo per cui è creata, essa deve la sua forma al genio dell’autore che l’ha realizzata”.   ( Simona Maggiorelli  Dal settimanale Left)

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Come sono diventato Picasso

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2013

Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)

Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)

Il 2013 dell’arte si apre nel segno del pittore spagnolo. Con mostre a Milano, Roma, Chicago e Barcellona. Che raccontano la svolta cubista. E la sua ricerca continua di un modo nuovo di fare immagini

di Simona Maggiorelli

«Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le mie tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario. Il futuro sceglierà quelle che preferisce», diceva Pablo Picasso. «È il movimento della pittura che mi interessa, l’attenzione drammatica insita nel passare da una visione all’altra. Anche quando il tentativo non è portato a fondo». E la pittrice Françoise Gilot nel libro La mia vita con Picasso racconta che poi lui le disse: «Ho sempre meno tempo e sempre di più da dire. Sono arrivato a un punto in cui il movimento del mio pensiero mi interessa di più del mio pensiero stesso!».

Che Picasso si sia espresso o meno con queste precise parole poco importa, viene da pensare passeggiando per le sale della mostra milanese Picasso capolavori dal museo nazionale di Parigi (fino al 27 gennaio, catalogo Il Sole 24 oreCultura), tanto si attaglia e sussume l’avventura, libera, eretica, incontenibile del pittore malaguegno nell’arte del Novecento.

«La vicenda biografica di Picasso è la storia stessa della sua opera», annotava anche uno studioso rigoroso come Argan invitando a leggere la monumentale biografia di Roland Penrose L’uomo e l’artista (ora riproposta da Pgreco).

Proprio come intime e delicate pagine di un diario, benché completamente ricreate e trasfigurate, spuntano, fra gli specchi antichi di Palazzo Reale, i biondi ritratti di Marie-Thérèse Walter, la giovane amante di Picasso.E come schegge di memoria conficcate nella carne viva, ecco le aguzze scomposizioni del volto di Dora Maar, la compagna abbandonata, che piange, mostrando le unghie e urlando tutta la sua disperazione.

Picasso, studio per Les Demoiselles

Picasso, studio per Les Demoiselles

E ancora, quasi a voler rappresentare tutta la intricata trama dei rapporti di Picasso con l’universo femminile, ecco il marmoreo ritratto di Olga (1917), la statuaria ballerina russa, quasi bambola di cera dal volto infinitamente triste. E poi, sempre lungo il filo della cronologia, le massicce figure femminili che corrono controvento nell’atmosfera afosa di un neoclassicismo anni Venti che si fa metafora tangibile e concreta di un pesante ritorno all’ordine. Dagli esordi con il fiammeggiante ritratto dell’amico Casagemas (1901), morto suicida, al periodo blu rappresentato a Milano da una inquietante Celestina orba, alla dirompente invenzione del cubismo, fino ai collages, agli assemblaggi di oggetti trovati, alle filiformi sculture in ferro a quadri che giocano con fantasmagorie di stampo vagamente surrealista e ben oltre. Con grande abilità e irruenza, Picasso ha saccheggiato ogni genere e stile. Ogni novità e tradizione con cui sia venuto in contatto. Riuscendo sempre a farne qualcosa di assolutamente personale, originale, inimitabile.

Così le eleganti scomposizioni cubiste di Braque, giocate sui toni del nero e marrone, accanto alla forza dirompente ed iconoclasta di quelle picassiane, ritmate da linee nere, definite e perentorie, appaiono poco più che educati esercizi di stile. Come si potrà notare anche più approfonditamente al Vittoriano a Roma, dal 7 marzo, con la mostra e il catalogo Skira Picasso, Braque, Leger e il cubismo.

Ma interessante, qui a Milano, è anche il confronto con l’unico maestro che Picasso abbia mai riconosciuto: Cézanne. Che regala ai caldi paesaggi provenzali, lucenti di arancio e verde, una evidenza e una tridimensionalità quasi scultorea. «Sarebbe bastato fare a pezzi questi dipinti… e poi ricomporli secondo le indicazioni fornite dal colore, per trovarsi di fronte a una scultura» suggeriva Picasso stesso intervistato da Cahiers d’art nel 1935.

Beninteso non si tratta qui di stabilire un meglio o un peggio, in una impossibile scala di giudizio fra protagonisti dell’arte così rivoluzionari, ma di rimarcare l’assoluta differenza che Picasso sapeva segnare ogni volta, anche quando il suo fare arte nasceva dall’arte altrui, in dialogo vivo, con pittori del passato o suoi contemporanei.

Picasso, L'ombra

Picasso, L’ombra

Perfino nel confronto con quel classicista accademico di Ingres, in cui Picasso colse un lato sovversivo, ricreandone interamente il celebre Bagno turco (1862) ne Les Demoiselles d’Avignon (1907), l’opera del geniale balzo in avanti, dello strappo radicale con tutta la tradizione figurativa d’Occidente, che mandava in cantina la pittura da cavalletto e la piatta mimesi del reale.

Dalle passive odalische di Ingres, il ballo ancestrale di nude e scultoree fanciulle, rappresentate in questa antologica milanese attraverso una serie di studi preparatori. Magnetiche e lucenti come l’ebano delle statuette africane che avevano attratto l’attenzione di Picasso al Musée dell’Homme di Parigi. Ma niente affatto tornite e affabili. Anzi spigolose e aguzze, imprevedibili e selvagge nella irrazionale molteplicità di punti di visti con cui il pittore spagnolo le mette in scena. Regalando loro il fascino enigmatico e misterioso di uno sguardo spalancato su una realtà che lo spettatore non riesce a vedere. Come antiche statuette votive yemenite, eppure ultramoderne.

Gli schizzi e le tele per le Demoiselles in mostra in Palazzo Reale portano in primo piano la linea netta e potente con cui sono “scolpite”. Anche quando non sono tracciate con il carboncino o con l’inchiostro, ma con una friabile e carnale sanguigna. Ed è uno dei momenti forse più emozionanti di questa mostra. Insieme all’omaggio all’amico e rivale Matisse che in Palazzo Reale è evocato attraverso una serie di tele picassiane che si aprono come finestre su marine assolate con al centro sensuali presenze femminili, quadri come L’ombra (1957) o L’atelier La Californie (1955) dipinto subito dopo la morte di Matisse, come un commosso addio.

Con tutto ciò non ha la pretesa di voler dire qualcosa di nuovo su Picasso questa mostra curata dalla direttrice del Museo Nazionale di Picasso Anne Baldassari, neanche rispetto alle precedenti rassegne del 2001 e del 1953 che queste sale hanno ospitato. Ma offre l’occasione davvero imperdibile di rivedere circa 250 opere di Picasso, fra cui molti capolavori, mentre la loro storica sede parigina resterà chiusa per lavori fino all’estate 2013. Nel frattempo, parte di questi prestiti, ricombinati con altri, andranno a comporre, dal 20 febbraio, la grande retrospettiva che l’Art Institute di Chicago dedica a Picasso per i cento anni da quella storica esposizione del 1913 che presentò il suo lavoro al pubblico americano. Una nutrita serie degli autoritratti che raccontano i tanti travestimenti attraverso i quali Picasso – con abile mitopoiesi di se stesso – amava raccontarsi, invece, dal 31 maggio saranno esposti nel Museo Picasso di Barcellona nell’ambito della mostra Yo, Picasso.

In primo piano, il multiforme giocare picassiano con le maschere di Arlecchino, di saltimbanco dell’anima, Trickster, e Ermete Trismegisto avvezzo a tramenare con tutte le possibili alchimie pittoriche, in un movimento continuo di un pensiero per immagini che procede come un fiume in piena. Vicino al linguaggio dei sogni, nelle sue deformazioni, condensazioni, polisemie. Eppure mai preso nella trappola surrealista di tentare una trascrizione meccanica e razionale delle immagini della notte.

da left-avvenimenti del 29 dicembre 2012

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A Matisse piace caldo

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2012

Matisse Le cirque (1947)

Matisse Le cirque (1947)

Un’esplosione di colori e di forme gioiose che si librano nell’aria. Torna in libreria  jazz il libro del ritorno alla vita dopo la guerra  al ritm osincopato del jazz. Quella musica del diavolo che i nazisti avrebbero voluto bandire come musica degenerata

Simona Maggiorelli

Disegnare con le forbici. «Ritagliare nel vivo del colore che mi ricorda lo sbozzare diretto degli scultori» annotava Matisse. Fidandosi sempre della mano che si muove, tracciando linee,  senza programmi e pensieri preconcetti.

«La mano non è che il prolungamento della sensibilità e dell’intelligenza più profonda» scriveva il pittore francese. Nacque così, portando al massimo sviluppo l’esperienza dei Papiers découpés, un  volume unico nel suo genere come Jazz, che Matisse pubblicò nel 1947 con la complicità di un editore sensibile e colto come Tériade.  Quasi fosse un inno alla vita umana che ripende a pulsare dopo l’orrore della guerra. Proprio al ritmo indiavolato del jazz, la musica nuova e sincopata che i nazisti pretendevano di silenziare stigmatizzandola come musica degenerata.

Non un libro illustrato, ma un vero e proprio libro d’arte, come sottolinea giustamente Francesco Poli nella prefazione all’edizione in fac-simile che Electa pubblica come strenna. Un’opera totale, un’esplosione di colore, in cui arte visiva e scrittura trovano una segreta composizione. La nitida calligrafia di Matisse, morbida ed elegante, in queste pagine fluisce come segno pittorico, emulando gli amati modelli cinesi e giapponesi. Un effetto raggiunto senza usare i pennelli, come chiederebbe la tradizione orientale, ma utilizzando solo del semplice inchiostro. La linea della scrittura di Matisse si rivela essere la colonna dorsale di questa opera matura che rivoluzionò il mondo della grafica.

Ed è sempre la linea poi, come segno grafico, a dare movimento alle improvvisazioni cromatiche di figure gioiose che sembrano librarsi dallo sfondo  della pagina. Immagini dal timbro forte e vibrante che ricreano memorie infantili del circo, la meraviglia e l’emozione di giocolerie e acrobazie che sfidano la forza di gravità.

In Jazz (più che  nelle edizioni di versi di Mallarmé e di altri poeti illustrate di Matisse)  incontriamo figure dalle forme semplificate: a un tempo ingenuamente naif e raffinatissime nella loro essenzialità. Lontane da ogni mimesi e descrittività naturalistica sono immagini evocative, oniriche, che rimandano a qualcosa di invisibile che va al di là della loro sagoma deformata ma tutto sommato riconoscibile. Come nel celebre Nudo blu le immagini di Jazz sono bidimensionali eppure per nulla piatte. Matisse le ha liberate dalla griglia geometrizzante della prospettiva rinascimentale, ma anche da certa “razionale” scomposizione cubista alla Braque.

Dare il senso della profondità senza l’aiuto della prospettiva, (tradizionale o multidirezionale che fosse) era una delle “magie” che Matisse sapeva fare meglio. Lasciando che il calore emotivo della sua visione interiore riscaldasse la scena e la profondità della sua fantasia diventasse la profondità stessa del quadro. Basta pensare a un dipinto come La stanza rossa (1908).

«Abbiamo abbandonato il modello, la prospettiva, abbiamo rifiutato tutte le influenze, gli strumenti acquisiti. Ci siamo affidati al colore: il colore ci ha permesso di rendere la nostra emozione senza mescolare e senza reimpiegare i vecchi mezzi costrittivi», scriveva Matisse, che giudicò sempre capziosa la contrapposizione fra arte astratta e figurativa. Non ricalcate dal vero, eppure non del tutto irriconoscibili, i suoi uomini e donne che si tengono per mano e si muovono in cerchio nella Danza (1910) rappresentano un universale umano, quell’ invisibile, quella realtà interiore, che ci caratterizza più  profondamente.

dal settimanale left-avvenimenti

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In Viaggio con Matisse

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 25, 2012

di Simona Maggiorelli

Matisse,La Falesia d’Aval e il cottage di Etretat,1920

Negli ultimi anni si è molto discusso se abbia senso l’attuale corsa alla costruzione di grandi musei, visivamente anche spettacolari come quelli creati da archistar com Frank Ghery, ma che finiscono per essere delle scatole intercambiabili, contenitori di un grande numero di pitture e sculture decontestualizzati dal territorio in cui sono inseriti e dalla storia delle opere stesse.

È stato l’ex direttore del Museo Picasso di Parigi, Jean Clair ad aprire la querelle con un duro J’accuse contro il Louvre intenzionato a prestare parte della propria collezione al nascente museo di Abu Dhabi. Poi a quel suo acuminato pamphlet (edito in Italia da Skira) hanno fatto eco studiosi come Salvatore Settis stigmatizzando la diffusione di un modello americano che concepisce i musei come “cattedrali nel deserto”; un tipo di organizzazione espositiva che, se può avere una sua ragione Oltreoceano dove la storia dell’arte non ha una tradizione millenaria, poco senso ha da noi dove la tutela ha radici antiche. Ma soprattutto l’Italia (come ricorda anche Philippe Daverio nel suo nuovo L’arte di guardare l’arte  appena uscito per Giunti)  si caratterizza per un “museo diffuso” sul territorio, con palazzi storici, chiese, castelli che sono tutto il contrario di contenitori anonimi. Proprio per questo, con l’idea di valorizzare alcuni edifici di pregio, in un ideale Grand Tour  – in questo caso di opere, non di artisti -, il Ministero per i Beni culturali ha organizzato in collaborazione con la Fondazione Bemberg di Tolosa la mostra Viaggio in Italia: un trittico di esposizioni che lungo la costa adriatica, fa tappa nel Castello di Miramare a Trieste, nella Rocca di Gradara e nel Castello Normanno-Svevo di Bari, facendone teatri di capolavori di Lucas Cranach, di maestri fiamminghi, ma anche di pittori delle avanguardie storiche come Matisse.

Ma veniamo alle singole esposizioni aperte fino al 30 ottobre. Nel Castello a picco sul mare triestino la mostra “Sì dolce è il tormento: l’amore in tre capolavori” propone un affascinante assolo di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), “rivale” di Dürer e amico di Lutero, nonché autore di nudi femminili misteriosi e sensuali come in Venere e Cupido, qui insieme al caustico Il vecchio innamorato e alla scena mitologica Diana e le ninfe sorprese da Atteone.

Signac, Alberi in fiore, fine del XIX secolo

La Rocca di Gradara, intanto, ospita una piccola summa di arte dalle Fiandre. Con la Madonna in tessuti arabesque di Van der Weyden che influenzò la pittura italiana nel secondoQuattrocento. La lezione leonardesca, invece, si nota nello sfumato di Isenbrandt, rappresentato nelle Marche da una Madonna col bambino della prima metà del Cinquecento. E ancora, la penetrazione psicologica del ritratto fiammingo è raccontata da una tela di Benson, maestro di Bruges, mentre il realismo nordico e grottesco dalla corrosiva Scena di locanda di Pieter Brueghel. Infine ecco anche il San Girolamo di Patinir, innovatore delle vedute paesaggistiche, tra descrizione naturalistica e visionarietà.

Il Castello di Bari, invece, si apre all’avanguardia maturata tra Ottocento  e primo Novecento, con il pointilliste Signac e il suo Alberi in fiore, un olio in cui la ricerca scientifica sul contrasto simultaneo del colore diventa il fulcro di un’arte a dire il vero assai razionale. E se Pierre Bonnard già cercava di prendere le distanze dall’impressionismo con il suo onirico scorcio parigino Il ponte dei Santi Padri, fu Matisse a fare un vero salto di qualità verso una pittura che cercava l’essenziale e la sintesi di una forma latente e più profonda dietro la percezione oggettiva.

da left Avvenimenti

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Kandinsky e la svolta dell’arte astratta

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2012

Al Mar di Aosta una grande mostra indaga il percorso del pittore russo nell’astrattismo. In un modo di dipingere che, dice Gillo Dorfles fu un movimento di liberazione

di Simona Maggiorelli

kandinsky, composizione

In quella svolta fondamentale per l’arte moderna che si realizzò fra Ottocento e Novecento Wassily Kandinsky (1866-1944) ebbe un ruolo di primo piano nell’aprire il canone occidentale alla pittura astratta. Lui che si era formato nella Russia zarista, religiosa e più arcaica e che aveva iniziato a dipingere dopo i trent’anni, fu tra i primi artisti ad avere il coraggio di abbandonare l’esteriorità illustrativa dell’impressionismo; fra i primi a liberarsi dell’ingombrante necessità di riprodurre oggetti riconoscibili, per dedicarsi alla creazione di forme originali, dinamiche, dense di senso, perché nate da un proprio vissuto interiore ( «E’ bello ciò che nasce da una necessità interiore. E’ bello ciò che è interiormente bello» annotava in pagine autobiografiche).

Così, mentre Matisse e Picasso rompevano con il dettato dell’accademia e della pittura da cavalletto per lasciarsi andare a figurazioni deformate e stranamente “scomposte”, Kandinsky – in un inedito confronto fra musica e pittura – prese a sperimentare giochi di forme-colori che nulla avevano a che fare con la mimesi della realtà.

Kandinsky, cupo-chiaro 1928

E’ del 1910 il suo primo acquerello astratto. Ed è del 1912 l’avvio di quella indagine sullo “spirituale dell’arte” che in Russia, dopo una prima vicinanza al suprematismo, lo aveva portato ad allontanarsi da Malevic e dalla sua ricerca della forma assoluta depurata da ogni sentimento, ma anche a prendere le distanze dalla celebrazione della macchina di Tatlin vicino alla Rivoluzione di ottobre e concentrato sulla funzione progettuale ed operativa dell’arte. Un costruttivismo, il suo, che Kandinsky giudicava ottusamente materialistico. Come racconta, dallo scorso 26 maggi e fino al 21 ottobre, la mostra Wassili Kandinsky e l’arte astratta fra Italia e Francia curata da Alberto Fiz nel Museo archeologico di Aosta ciò che interessava al fondatore del Blaue Reiter era poter utilizzare il proprio sentire come strumento di indagine della realtà. La rappresentazione non era lo scopo della sua pittura. Ma la creazione di forme-colore, vibranti, dotate «di un suono interno».

La sfida era, per lui, la ricerca di un effetto sinestetico. Nascono così le sue prime improvvisazioni e più complesse  composizioni. Ma anche tutta quella serie di Kleine Welten (1922) che compongono il vivace portfolio di litografie a colori, di xilografie e puntesecche ora in mostra ad Aosta. Accanto a dipinti a olio come Appuntito tondo (1925), Rosso a forma appuntita (1925), Bastoncini neri (1928) e altri opere coeve provenienti da collezioni private e raramente mostrate in pubblico.

Con lo stilizzato e orientaleggiante Cupo-chiaro sono il cuore di questa esposizione che dedica ampio spazio all’astrattismo geometrico che Kandinsky andò maturando intorno al 1926, anno della pubblicazione di Punto linea e superficie (Adelphi): il testo teorico in cui Kandinsky, dopo essersi occupato a lungo della “psicologia” del colore, comincia a interessarsi alla “psicologia” delle forme, recuperando il valore del disegno e sperimentando un’astrazione fatta di curve, cerchi, triangoli, linee. Forme che si incontrano e talora si compenetrano, sospese, fra contrasti e bilanciamenti, in uno spazio bianco senza profondità.

W.Kandinsky, Balancement,1942

«Usando solo quelle forme che un interno impulso faceva nascere in me, spontaneamente», scriveva il pittore. Se agli inizi l’obiettivo per lui era attingere all’«inaudita forza espressiva del colore», poter esprimere il proprio mondo interiore realizzando «quella promessa inconscia ma piena di sole che vibrava nel cuore», ora poteva creare forme colorate e astratte. Infischiandosene delle convenzioni figurative.

Ma in una direzione del tutto diversa rispetto a Mondrian ossessivamente intento nella ricerca delle strutture logiche e impersonali del reale. L’aver sottolineato con chiarezza questo punto non è l’unico elemento di merito di questa retrospettiva che rilegge l’intera opera di Kandinsky in parallelo con quella di artisti che a lui si ispirarono. In particolare facendo dialogare tele di Dorazio, di Magnelli, del gruppo Forma1 e di Dorfles con l’ultima produzione dell’artista russo, popolata di creature biomorfe che paiono danzare sulla tela. Dal ‘33, avvicinandosi ad Arp e a Mirò, Kandinsky cominciò a dipingere immaginifici organismi e, strani, magnetici geroglifici. E’ questo il  suo periodo meno studiato.  Il più sottovalutato. Fin da quando, fuggito dalla Germania dopo la chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti, l’artista russo si trovò del tutto isolato a Parigi, non compreso, giudicato inattuale dai tardo cubisti e dai surrealisti. «Sebbene fosse stimato in tutto il mondo, in Francia era conosciuto da pochi», ricorda la moglie Nina in Kandinsky ed io (Abscondita). «All’epoca il cubismo, dopo un inizio difficile, godeva di una grandissima considerazione. E si cercava in tutti i modi di impedire la concorrenza dell’arte astratta. Oggi so – scriveva Nina nel ‘76 – che Parigi era allora in ritardo di vent’anni rispetto agli sviluppi dell’arte internazionale». Dopo la sua morte Kandinsky sarebbe diventato un punto di riferimento per l’informale in Europa e per l’action painting di Pollock in America, ma il suo ultimo decennio di vita fu di assoluta solitudine, non potendo tornare in Germania dove nel 1935 il nazismo condannava l’avanguardia come arte degenerata. E neanche trovar riparo nella Russia del realismo socialista. «E’ davvero curioso» Kandinsky notava amareggiato «che i nazisti e i comunisti abbiano dimostrato la stessa cecità riguardo all’arte astratta». Una cecità inaccettabile, specie per una cultura che si voleva progressista, sottolinea oggi Gillo Dorfles intervistato nel catalogo della mostra edito da Mazzotta. «La grande novità», ricorda, «fu uscire dalla rappresentazione e dall’oleografia di immagini fotografiche. Finalmente gli spazi della creatività si allargavano a territori fin lì sconosciuti, rompendo con il realismo. L’astrattismo fu un movimento di liberazione».

da left-avvenimenti

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Quelle muse di oltremare

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 13, 2012

Due mostre, in Francia e in Italia, raccontano di un’arte africana fin dall’antichità niente affatto primitiva. Intanto al Musée du Quai Branly a Parigi si indaga il mito della nascita del selvaggio

di Simona Maggiorelli

Quando le navi coloniali cominciarono a portare nei porti europei maschere e sculture lignee dall’Africa, la reazione fu  quella di considerarli al più manufatti curiosi ed esempi di folklore. Per una ristretta cerchia di antropologi furono anche oggetto studio ma quasi sempre osservati attraverso la lente deformante del pregiudizio razzista. Concorrendo così alla creazione di quel mito del selvaggio e del primitivo che, in Occidente, è sopravvissuto per molta parte del Novecento.

Uno stigma che, purtroppo, l’Europa colonialista non applicò solo alle opere d’arte razziate in Africa (come nelle Americhe o in Oceania) ma anche a chi li aveva realizzate. A ricordarcelo ora è una importante mostra al Musée du Quai Branly a Parigi, che fino al 3 giugno, ripercorre, in un ampio itinerario scientifico, ben cinque secoli di storia e di «invenzione occidentale del “selvaggio”. Dai nativi americani raccontati dalla flotta di Colombo fino alle donne etiopi fotografate come “souvenir” e poi “esposte” in pubblico, in modo ridicolo e crudele, nella Mostra coloniale di Parigi nel 1931. Senza dimenticare vicende agghiaccianti come quella di Ota Bota, un giovane pigmeo del Congo che fu mostrato a New York in una gabbia insieme ad una scimmia. O come quella di Saartjie Baartman, detta «La Venere Ottentotta», che per le sue forme “generose” fu costretta ad esibirsi a Londra e, da morta, fu impagliata.

Accanto a questo inaccettabile museo degli orrori ideato dai conquistadores occidentali di ogni epoca, lo spettacolare Musée du Quai Branly progettato da Jean Nouvel offre, per fortuna, anche ampie possibilità di vera conoscenza dell’arte africana. Fin dalle epoche più antiche niente affatto “primitiva”. Maschere dalle forme essenziali, dalle linee forti e decise ci “vengono incontro”, magnetiche, lungo le sale. Accanto a raffinati lavori di intarsi dal forte effetto pittorico.

Ma soprattutto a colpire è la scultura che nel “continente nero” si è espressa in un’infinita varietà di modi e di stili a seconda delle aree, delle epoche, delle personalità degli artisti di cui, di rado, ci è giunto il nome. Alle sculture africane che colpirono profondamente la fantasia di pittori come Picasso e Matisse e prima ancora di Gauguin  fra Ottocento e Novecento, invece, è dedicata una rassegna in Italia.

Fino al 29 aprile nella Pinacoteca comunale di Gaeta la mostra Creatività, magia e spiritualità dell’arte africana presenta centoquaranta maschere provenienti da differenti regioni africane. «Agli inizi del Novecento la scoperta delle maschere africane che provenivano dalle colonie provocò una autentica rivoluzione nell’arte europea», ribadisce il curatore Giorgio Agnisola che ha ideato questa mostra per far conoscere al pubblico quelle “muse di Oltremare” a cui Maria Grazia Messina ha dedicato, anni fa, un appassionato libro edito da Einaudi.

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La bella follia di inizio Novecento

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 7, 2011

In mostra a Ferrara l’avanguardia che segnò una svolta storica. Da Matisse a Modigliani a Picasso, quando Parigi era fucina creativa di talenti

di Simona Maggiorelli

Modigliani Nudo 1917

Un Monet come non te lo saresti mai aspettato, scuro, vibrante, potente nel reinventare radicalmente la solita visione di un ponte sulle ninfee,  apre la danza de Gli anni folli, la mostra aperta fino all’8 gennaio in Palazzo Diamanti a Ferrara. Dando il la ad una esposizione che si offre come un appassionato viaggio nella Parigi di inizio Novecento, quando la capitale francese era una un’autentica fucina di talenti e di nuove tendenze. La rivoluzione del colore compiuta da Van Gogh in soli dieci anni, davvero brucianti, era appena alle spalle.

E ancora forte sui giovani artisti di Montparnasse e di Montmatre era l’influenza di Cézanne, il fascino delle sue figure oniriche e deformate, dalle braccia lunghissime. Pur venendo da esperienze diversissime, e avendo sviluppato poetiche quanto mai distanti, i due maestri avevano inaugurato una ricerca e un modo nuovo di dipingere che, per la prima volta, dopo più di un secolo di rigida pittura d’accademia, superava la visione piatta e razionale della realtà.

Picasso, 1924

Perfino Claude Monet, negli ultimi anni, ebbe inaspettatamente il coraggio di rimettersi in discussione e di riaprire i giochi della ricerca a partire dalla pennellata densa e materica di Van Gogh e dalle forme solide eppure senza contorni di Cézanne

Ci invita a pensarlo anche questa tela di Monet che arde di verdi, marroni e viola, questo Ponte giapponese a Giverny a cui il pittore impressionista lavorò tra il 1918 e il 1924 e che la curatrice, Maria Luisa Pacelli, ha scelto significativamente come incipit di questa collettiva che ripercorre tutto l’arco fra le due guerre.

E l’eco della solitaria ricerca di Cézanne (che era morto nel 1906) si avverte fortissima anche nell’evidenza plastica, quasi scultorea e tridimensionale, dei ritratti di Amedeo Modigliani, che proprio negli anni della bohème parigina, a contatto con artisti immigrati da tutto il mondo e studiando le opere del maestro di Aix-en Provence, riuscì a realizzare un proprio linguaggio originale, liberandosi del provincialismo macchiaiolo assorbito durante la prima formazione livornese. A Ferrara, oltre al celebre nudo del 1917 conservato al Guggenheim Museum di New York, si può vedere un raro e solare ritratto di fanciullo, Ragazzo con pantaloni corti (1918) proveniente da Dallas, che dallo sgabello dove è seduto sembra scivolare in avanti verso lo spettatore, come il celebre ritratto della moglie di Cézanne. Ma per ricreare l’aria di libertà e di fermento creativo che si respirava nella Parigi di inizio Novecento non potevano mancare in mostra anche alcune testimonianze della stagione cubista: opere pittoriche di Georges Braque, di Juan Gris e dei più tardivi Fernand Léger e Robert Delaunay che ( qui come del resto nei grandi musei di Parigi ) finiscono per sembrare degli esercizi di stile se paragonate alla potenza espressiva delle figure decostruite e scomposte  di Picasso. Accade qui per un tardivo Tavolino rotondo di Braque degli anni Venti e che le curatrici della mostra hanno messo crudelmente a confronto con una coeva natura morta di Picasso, in cui  gli oggetti appaiono stagliati su due diverse tonalità di fondo rosso, tracciati da linee nere, nette come incisioni sulla tela.  In quegli anni Venti, però, anche Picasso avrebbe risentito di un generale e torvo vento di riflusso che lo avrebbe portato a rifugiarsi in matronali figure femminili che paiono scimmiottare l’antico (Maternità, 1921). Per lui sarà solo la crisi di un momento. Non così per Derain, per Campigli, Severini e certo De Chirico che, nel calco dall’antico, caddero senza un filo di ironia. Mentre i surrealisti deviarono verso sogni iperlucidi, bizzarrie gelide e senza fantasia.

da left-avvenimenti

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