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Creatività cercasi

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 13, 2013

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Il Salone del libro che prende il via il 16 maggio ha un interessante filo rosso: il tema della creatività. E chiama artisti,  critici, filosofi e scienziati a parlare di immaginazione e fantasia. Al Lingotto fino al 20 maggio. Cercando di capire dove va la ricerca internazionale dopo la fine della stagione delle artistar. Mentre è  già cominciato il count down per la Biennale di Venezia che si aprirà il primo giugno

di Simona Maggiorelli

L’ artista è l’essere umano«più libero che esista, perché può compiere un miracolo, può creare l’opera più bella partendo dal nulla. Solo l’idea conta davvero», dice Marina Abramovic sul nuovo numero della rivista Lettera Internazionale. In un’intervista rilasciata a Gioia Costa in cui l’artista rievoca il lungo itinerario che l’ha portata dalle provocazioni “patologiche” della Body Art a una Performing Art che mescola vari linguaggi, dalla videoarte al teatro, per comunicare più profondamente con le persone. «La leggenda è finita, i templi sono diventati musei e l’artista oggi ha il compito fondamentale di comunicare con la propria intuizione. Oggi la vera scommessa è riuscire a cambiare la consapevolezza delle persone. Facendo della creatività un motore di cambiamento delle persone e del mondo», dice l’artista di Belgrado. Con accenti utopistici non troppo lontani da quelli dell’ultimo Michelangelo Pistoletto.

Non a caso parliamo di due artisti, di generazioni differenti, ma entrambi emersi a livello internazionale negli anni Settanta. «Un periodo che fu molto stimolante per l’arte» commenta il critico Luca Beatrice, che il 19 maggio sarà al Salone del Libro per presentare il suo libro Sex (Rizzoli) che indaga la rappresentazione artistica del sesso e per parlare di creatività. Che è il filo rosso della prossima edizione della fiera dell’editoria.

A Torino, dal 16 al 20 maggio,  il tema della creatività vedrà una declinazione scientifica. In particolare, il 18 maggio, con la presentazione della nuova edizione di Bambino donna e trasformazione dell’uomo dello psichiatra Massimo Fagioli ( L’’Asino d’oro edizioni) e il 17 maggio con la lectio magistralis di Ian Tattersall, autore de Signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni), in cui l’antropologo americano spiega come Homo Sapiens abbia prevalso grazie a una caratteristica specie specifica come la fantasia.
In un articolo intitolato Le artistar sono finite, trionfa la noia, su Il Giornale Luca Beatrice, di recente, ha scritto del tramonto degli “anni zero” dell’arte, imposti dal mercato e caratterizzati, per esempio, dall’ipervalutazione di artisti come Danien Hirst con i suoi squali in formaldeide «oggi andati incontro a un deprezzamento del 300 per cento». In giro si respira un’aria di «ritorno all’ordine», scrive Beatrice, ma la fine dell’euforia dei mercati «ci ha liberati dalla mondanità artefatta dell’ultimo Francesco Vezzoli e dall’arte dei pupazzi, dalle provocazioni gratuite, dalla cronaca elevata a storia a cui ci aveva abituati Maurizio Cattelan».

Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft

Nell’arte italiana oggi «c’è molto vintage – sottolinea il critico -. Non a caso alla Biennale di Venezia che aprirà il primo giugno si vedranno molte opere degli anni Settanta riportando le lancette dell’orologio su un tempo molto vitale per la nostra storia dell’arte. Senza contare che molti autori di allora sono ancora qui per raccontare quel periodo». Il lato positivo di questa «retromania è che l’arte oggi ha finito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mercato», dice a left Luca Beatrice. Anche se nel mainstream proposto dalle gallerie e dai templi internazionali del contemporaneo, dalla Tate al MoMa, continuano a dominare artisti come Vanessa Beecroft con le sue raggelate rappresentazioni di donne, modelle, bambole meccaniche, che inneggiano a un’arte che non cerca più nemmeno lo choc del sangue e delle ferite della Body Art, ma propone l’anestesia, celebrando il vuoto. «Beecroft ben rappresenta l’era inizio anni Duemila di un tardo capitalismo ormai arrivato alla frutta» commenta il condirettore del Padiglione Italia alla Biennale d’arte del 2009. «Le sue donne nude e perfette non hanno nulla di sensuale, sono l’estrema punta di una rappresentazione del sesso ridotto a ready made».

Ma chi è l’artista oggi e come trova il suo pubblico? Se nel Quattrocento e nel Cinquecento andava a bottega giovanissimo e poi, da quel trampolino riconosciuto (specie se la bottega era quella di Raffaello o di un altro artista noto) entrava direttamente nel mondo dell’arte e delle commissioni ecclesiastiche o di corte, oggi quali sono i percorsi? «Nel Quattrocento l’arte era un mestiere. Oggi non più – risponde da New York Francesco Bonami -. Ma è anche vero che ai nostri giorni il mito del “dottore” ha reso il mestiere dell’artista una professione da residuo sociale…Almeno finché uno non diventa di successo. Non a caso c’è chi dice “mia figlia si è messa con un artistoide”. L’artista è l’artistoide oggi. E poi – approfondisce Bonami che sarà al Salone del libro di Torino il 18 maggio per presentare il suo nuovo libro Mamma voglio fare l’artista (Mondadori-Electa) -. Nel ‘400 l’arte era un fenomeno per pochi oggi è per tutti. E far contenti tutti e più difficile che far contenti pochi. Secoli fa una persona che non era un nobile vedeva al massimo un paio d’immagini sacre o artistiche nella sua vita. Oggi se ne vedono milioni. Creare un’immagine o una forma nuova che dica qualcosa di nuovo o solo qualcosa è una cosa ai nostri tempi difficilissima». Inflazione di immagini a scarso tasso creativo e, dall’altro lato, stupore, se non ostilità, verso chi si cimenta con la ricerca creativa, invece di cercare un impiego sicuro, sembrano connotare i nostri anni. «La ragione ed il calcolo sono oggi l’equivalente di denaro e successo; voler comunicare qualcosa senza altri scopi della condivisione è molto sospetto», commenta il critico fiorentino, direttore artistico della Fondazione Sandretto che è stato direttore della Biennale di Venezia nel 2003 .

Intanto però il mercato internazionale dell’arte e le vetrine delle Biennali europee e americane pullulano di opere all’insegna di un violento iperaelismo tardo pop o, più spesso, di opere iperconcettuali, freddamente astratte, autoreferenziali. Tanto che il filosofo Maurizio Ferraris ha scritto: «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l’arte ma solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale. Mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove», riprendendo i fili di un suo vecchio libro, La fidanzata automatica (Bompiani). «Credo che l’arte contemporanea abbia concluso un ciclo» commenta Bonami. E promette: «Racconterò questo nel prossimo libro Dall’Orinale all’Orale dove si parte da Duchamp e si arriva a Tino Seghal quello che usa le persone che raccontano qualcosa. L’arte deve raccontare qualcosa di altro che se stessa e quindi si riparte da capo».

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Hegel

Hegel

Quella della morte dell’arte è una tesi che oramai vanta un bel tratto di storia- ricorda Tiziana Andina, docente d  Filosofia teoretica all’Università di Torino, autrice per l’editore Carocci, di Filosofia contemporanea,  ma anche di Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto. «Per primo l’ha formulata appunto Hegel. Riteneva che l’arte fosse destinata a risolversi nella filosofia, cioè in pura concettualità. Ma francamente non credo che questo avverrà mai. Penso che la previsione di Hegel non solo non si sia realizzata, ma che sia sbagliata sotto il profilo teorico. Filosofia e arte sono essenzialmente diverse, l’una non potrà mai risolversi nell’altra». Che cosa è accaduto allora? «E’ successo che la “storia dell’arte”, ovvero la narrazione elaborata nei secoli dagli esperti per leggere le opere, sembra non funzionare più – spiega Andina -. Non è più efficace per interpretare il lavoro degli artisti, frammentato in miriadi di sperimentalismi». Quando alla pratica artistica contemporanea «non credo che l’arte sia morta – dice la filosofa – e nemmeno che se la passi male. Penso piuttosto che tutta l’arte abbia molto sperimentato  propri linguaggi. Questo può apparire stucchevole o incomprensibile alla più parte delle persone, che preferiscono opere immediatamente figurative e arricchite di una connotazione emozionale». Nietzsche, però, sosteneva che le opere possono incidere sulle nostre vite in misura maggiore di quanto non riesca a fare un ragionamento ben formulato, cosa ne pensa? «Spesso l’arte ha la capacità di incidere profondamente sulle emozioni. La ragione dell’ “invidia” dei filosofi nei confronti degli artisti (pensiamo a quanto Platone maltratti gli artisti nella Repubblica ) ha probabilmente radici proprio in questa idea. Possiamo leggere dettagliate analisi filosofiche che riguardano questioni morali, ma leggere dei pensieri e delle emozioni di Raskol’nikov, in Delitto e castigo, quando prepara l’omicidio della vecchia usuraia, e poi dei suoi tormenti dopo che l’ha uccisa, ci porta a una comprensione “emozionale” di molte cose: che cosa vuole dire uccidere, che cosa significa essere esseri umani, che cos’è la compassione. Tutto questo ha una importanza grandissima per le nostre vite».

dal settimanale left, numero 18 in edicola fino al 17 maggio 2013

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Che fine ha fatto la body art

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 21, 2011

di Simona Maggiorelli

 

Franco Fondana, piscina 1984

Corpo come pennello da intingere nel colore come faceva Ives Klein per le sue enigmatiche ed evocative Antropometrie fatte di ombre, tracce, forme appena accennate. Corpo tecnologico e cyborg come nelle sculture viventi di Stelarc. Corpo ridotto ironicamente a feticcio nei tableaux vivants di Luigi Ontani. O addirittura corpo da segnare e ferire (Gina Pane e Marina Abramovic) o da manipolare e cambiare con ossessione chirurgica nelle performances ad alto tasso di masochismo a cui si sottoponeva Orlan.

La body art, specie in questa sua ultima feroce declinazione, ha conosciuto il suo momento di auge dopo il ‘68 e nei primi anni ‘80 quando fra le cosiddette avanguardie furoreggiavano pensiero debole e violente filosofie transgender, che pretendevano di rottamare l’identità sessuale ( in quanto «ostacolo alla liberazione dal capitale e dall’ideologia»). A ripercorrere oggi reperti video e scatti fotografici che documentano quelle pratiche si ha la sensazione di trovarsi davanti a un cumulo di macerie. Traumatofilia, volontà di scioccare lo spettatore , esibizionismo. E’ ciò che oggi appare più evidente in quelle esperienze. Poco o nulla vi si trova che possa dirsi arte, creazione di immagini nuove, universali. Di più. A rileggere la storia della body art – come invitano a fare in modi diversi Per-corsi di arte contemporanea (Skira) di Francesca Alfano Miglietti e Il corpo nell’arte contemporanea (Einaudi) di Sally O’Reilly – appare evidente che anche l’impatto iconoclasta, di rottura, che avevano allora certe sperimentazioni sia svanito, senza lasciare traccia. O quasi. Così dopo gli happening selvaggi, dopo il caos e l’autodistruzione, il corpo torna protagonista dell’arte contemporanea come presenza statuaria, svuotata ed estetizzante. L’allure patinata delle riviste di moda dilaga nelle rappresentazioni anni ‘90 di corpi atletici e quasi plastificati alla Mapplethorpe. Così come nelle visioni silenziose, nei ritratti di dee haute couture realizzati da un autore raffinato come Franco Fontana. Proprio una serie di nudi firmati Fontana sono messi a confronto con ritratti anni ‘70 di Arno Rafel Minkkinen, dal 18 marzo, nelle sale della Fondazione Bottari Lattes di Monforte d’Alba in una mostra che lascia intendere quale sia stato il passaggio culturale che si è compiuto negli ultimi quarant’anni. E lo si può leggere ancor più chiaramente nella collettiva Community al Marca di Catanzaro ( fino al 27 marzo catalogo Electa). In un percorso che dalle feste dei figli dei fiori fotografate da Gabriele Basilico arriva fino alle anestetizzate modelle di Vanessa Beecroft

 

 

da left-avvenimenti

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Gli anni zero dell’arte

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 26, 2010

di Simona Maggiorelli

Punta della dogana, venezia

Jeff Koons, tulips

Nell’ultima decina d’anni il mondo dell’arte ha conosciuto una vita frenetica. Una crescita esorbitante del mercato, che ha risentito relativamente della bolla economica perché l’arte è stata vista dalle élite come bene rifugio.

Ma al tempo stesso- ecco il fatto positivo- con le nuove biennali del Sudest asiatico e africane, (che hanno rafforzato la tendenza glocal delle Biennali di Venezia e di Berlino)  il circuito delle proposte si è internazionalizzato e molte frontiere sono cadute. Così molti artisti di talento provenienti da Paesi poveri hanno potuto farsi conoscere all’estero: dalle Filippine all’Africa nera.

Un fenomeno di allargamento del canone internazionale dell’arte che ha coinvolto grandemente anche un paese in ascesa economica come la Cina, anche se  in questo orizzonte globalizzato del nuovo millennio  l’Impero celeste si è limitato a riversare sul mercato occidentale e orientale una piatta e seriale produzione new pop.

E non pare un fatto  causale. Se è vero, infatti, che il mondo dell’arte si è allargato geograficamente è altrettanto vero che il pensiero egemone nel mondo dell’arte degli ultimi dieci anni è stato, pervasivamente, quello anglo-americano: fra assordanti riedizioni della pop art e nuove ondate di razionalismo puritano dal Nord Europa in veste di minimalismo concettuale. Curiosamente…. come opposte facce di una stessa medaglia.

 

Biennale Venezia diretta da Birnbaum

Le sette sorelle. Nell’orizzonte globalizzato- nota Achille Bonito Oliva – Metropolitan, Whitney, MoMa, Guggenheim, Tate Modern, Centre Pompidou e Ludwig in Germania, le cosiddette sette sorelle impongono il pensiero unico dell’arte degli anni duemila. “I curatori di queste istituzioni – prosegue Abo- si passano gli artisti e stabilizzano così un movimento senza movimento… di fondo il prodotto che emerge in questa circolazione bloccata è sempre analitico, astratto, tecnologico, legato alla cultura puritana anglosassone, ad una sensibilità per cui il genius loci è azzerato e ad emergere è sempre il segno forte dell’arte e della cultura americana”. L’ultima Biennale di Venezia curata nel 2009 dallo svedese Daniel Birnbaum, nonostante le migliori intenzioni che emergevano fin dal titolo Fare mondi,ne è stata un esempio lampante: negli spazi della Biennale il respiro bloccato di una esposizione politically correct, quanto anemica, ecumenica quanto frutto di una raggelata e spinoziana geometria delle passioni. Mentre negli spazi di punta della Dogana andava in scena il volto glamourous, sprezzante delle misure e dei costi, dell’arte -gadget  di marca anglo americana.

 

Marc Queen Kate Moss as Syren

Ma, al fondo, che cosa è davvero accaduto in questo primo decennio degli anni zero del nuovo millennio?

Se l’angelo di Klee, mentre è rapinosamente trascinato verso il futuro, guardasse alle macerie che gli ultimi anni hanno lasciato dietro di sé vedrebbe soprattutto cumuli di cadaveri e  scene di distruzione. Dalle bombe “intelligenti” di Bush, all’11 settembre, dalla guerra Usa in Afghanistan agli attentati di Mumbay e di Londra… Uno scenario tragico che l’arte contemporanea che ha dominato le scene delle gallerie, delle riviste e delle aste negli ultimi dieci anni (abdicando a se stessa) perlopiù ha bellamente ignorato – e non parliamo di cronaca che non pertiene all’arte – ma  nella rappresentazione allegorica e traslata. E nelle gallerie che fanno tendenza e poi al Moma come da Christie’s è stato tutto un tripudio di grandeur, di cieca euforia, di scelte estetizzanti e sorde alla complessità e alla drammaticità del reale. Così, eccezion fatta per alcuni artisti giovani o provenienti da aree di crisi del mondo (dall’iraniana Shirin Neshat alla serba Marina Abramovic, all’albanese Adrian Paci, solo per fare qualche esempio) a tenere la scena dal Duemila a oggi sono stati una manciata di ricchi artisti globtrotter come Damien Hirst, Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Marc Queen. A loro è andata pressoché tutta l’attenzione dei media.

E il teschio tempestato di diamanti ideato da Hirst  ( ancora nell’anno 2011 celebrato in Palazzo Vecchio a Firenze) è andato sulle copertine delle riviste patinate, così come un decennio prima le foto delle top model Naomi Campbell e Cindy Crawford. Per tutta risposta, in questo gioco di specchi, Marc Queen ha “incartato” in foglia d’oro zecchino la sua statua-ritratto della modella Kate Moss. Compiacere il pubblico con icone a uso e consumo del nuovo millennio oppure cercare lo scandalo. Il vecchio e consunto Andy Wharol ancora docet. E soprattutto fa vendere.

 

Damien Hirst

Questa è la new religion di Hirst e degli ex Young british artists (YBAs) scoperti alla fine del secolo scorso dal pubblicitario Charles Saatchi, nel frattempo, diventato potente gallerista. E se Hirst si spaccia per il cantore moderno della britannica triade letteraria «la morte, la carne, il diavolo», alla resa dei conti, appare piuttosto come un abile confezionatore di scintillanti oggetti “taumaturgici” per placare la paura di morire di tycoon e finanzieri di alto bordo. La sua, più che arte è “artefattualità”, annota Gillo Dorfles in Fatti e fattoidi (Castelvecchi). «Nei nostri tempi adulterati e massmedializzati – scrive il grande decano della critica – l’importante non è più il vero ma il verosimile. Se guardiamo all’arte degli ultimi anni scorgiamo una quantità di pratiche che sono dubbie». Evidente, sottolinea Dorfles, il camuffamento operato dalla body art (da quella anni Settanta e Ottanta di Orlan a quella cyborg): ci si fanno incisioni sul corpo oppure ci si munisce di elettrodi «per alterare la vera personalità senza acquisirne una nuova». E poi riguardo alle «strategie simulazionali» di Hirst o di Koons, Dorfles sbotta: «Dobbiamo avere il coraggio di dire che si tratta di feticci più che opere d’arte». Del resto come altro giudicare lo squalo in formaldeide di Hirst? «Per coprire un deficit di iniziativa personale – spiega Dorfles – l’arte si fa massimamente spettacolare». E oggi richiede che l’artista sia anche e soprattutto un abile mercante. Il giapponese Murakami in questo caso surclassa tutti con opere come The oval Buddha, una scultura di cinque metri in platino e costata quanto un film hollywoodiano indipendente. Ma per entrare nel gotha degli artisti-re mida della prima decade del XXI secolo, non servono tanto le idee quanto avere fiuto da finanziere. Per cui il solito Hirst ha direttamente venduto all’asta le sue opere (prima che le sue pecore sotto spirito si squaglino) saltando il sistema dei galleristi. Feticizzazione dell’oggetto, il mercato che prende il posto della critica d’arte nel decretare ciò che vale e da parte degli artisti degli anni zero dell’arte perfetta conoscenza di quel processo di mitizzazione che fa di un oggetto uno status symbol. Ma per questo urgono collezionisti con portafoglio “a organetto”.

 

Cattelan, Hitler

I collezionisti di zeri. «Oggi ai collezionisti d’arte non interessa tanto l’opera ma il suo valore» scrive Francesco Bonami in Irrazionalpopolare (Einaudi). E questo non riguarda solo un tycoon come Pinault proprietario di marchi come Gucci e Ysl, nonché patron di Punta della dogana e di Palazzo Grassi a Venezia (dove espone la sua collezione privata fatta di opere monumentali, impossibili da mettere in casa). E non si tratta di un caso isolato nel ristretto quanto facoltoso mondo del collezionismo anni duemila.«Lo spirito di emulazione dilaga» avverte Bonami. Per cui due oligarchi ucraini si sono contesi la tela di un giovane pittore canadese sconosciuto, fino a 13 milioni di dollari «solo per dimostrare chi fra i due era più ricco e idiota». Ecco la logica dei ricchissimi happy few che hanno tenuto in piedi il drogato sistema dell’arte degli anni zero: «Se Pinault ce l’ha, lo voglio anch’io».

 

Cattelan, l'amore salva la vita

Il cattelanesimo, ci spiega ancora Bonami, è stata l’altra religione che ha contribuito al gioco degli art addicted degli anni zero. Il suo idolo è Maurizio Cattelan, quello che si è fatto conoscere con l’asino all’università di Padova per la sua laurea honoris causa e con i fantocci di bambini impiccati in piazza a Milano. Grande provocatore, sapiente manager di se stesso, Cattelan ha riportato l’arte italiana sulla scena internazionale (a ruota sono emersi poi i più giovani Francesco Vezzoli e Vanessa Beecroft). «Maestro indiscusso nel dragare e risputare immaginari», ricorda Andrea Lissoni ne Gli anni zero 2001-2009 (Isbn edizioni) ha diretto con Massimiliano Gioni la Biennale di Berlino del 2006, caposaldo d’invenzione e innovazione. «Il Fiorello delle arti plastiche» sarà il guru dell’arte anche della prossima decade? Gratta gratta, in questo quadro rischia che ci sia da augurarselo dal momento che, in questo circo barnum di nuovo millennio è, stando a Bonami, uno dei pochi «che sa rompere le scatole a una società che dà molto per scontato, violenza ai minori compresa, ma che si ribella quando la rappresentazione di quella violenza gli arriva sotto casa, disturba il traffico e fa rabbrividire le mamme e i babbi con le tasche piene di ovetti kinder e videogiochi dove più se ne ammazzano meglio è».

da left-avvenimenti

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Fieramente cosmopoliti

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 17, 2009

Contaminazione di discipline e dialogo fra diverse forme espressive. A Torino va in scena la più grande mostra mercato italiana del contemporaneo.  Artissima raccontata al settimanale Left-Avvenimenti  dal direttore artistico Andrea Bellini

di Simona Maggiorelli

Andrea Bellini

Andrea Bellini

La migliore finestra sulla contemporaneità e sui giovani artisti». Così, senza sprezzatura, si autopresenta Artissima 16, la fiera torinese che sotto la guida di Andrea Bellini è diventata tout court un festival internazionale delle arti e un efficace radar di nuove tendenze. Quest’anno aprendo alla performance e alle contaminazioni fra differenti linguaggi grazie ad “Accecare l’ascolto” (il titolo è “rubato” a Carmelo Bene) vera e propria rassegna nella rassegna che, dal 6 all’8 novembre, dissemina happening al teatro Regio, al Carignano, alla Cavallerizza e in altri teatri di Torino. «Il fatto è – racconta il direttore di Artissima – che l’arte va in tutte le direzioni, secondo linguaggi e modalità espressive molte diverse. E gli artisti migliori sanno parlare del loro tempo e sanno farlo con un linguaggio innovativo. In arte non è importante solo ciò che si dice ma anche “come” lo si dice». E la scelta dei linguaggi espressivi ad Artissima 2009 non potrebbe essere più vasta: dalle sperimentazioni multimediali dei più giovani ai ritorni al concettuale, all’arte povera e perfino all’happening anni Settanta. Anni di un’avanguardia già storica che Bellini non ha conosciuto direttamente (essendo nato nel 1971) ma che ha frequentato oltreoceano negli sviluppi e nelle filiazioni newyorkesi anni Novanta. Ex redattore di Flash art negli Stati Uniti ma anche appassionato di arte preistorica, Bellini non ama compartimentazioni e steccati. E con spirito fiduciosamente cosmopolita afferma: «Non vedo aspetti negativi nella globalizzazione: il mondo dell’arte oggi è semplicemente più grande e più interconnesso. Viviamo un’epoca di straordinarie trasformazioni, bisogna avere coraggio e provare a capirle senza paure e inutili pregiudizi». Neanche verso le nuove tecnologie e il loro massiccio ingresso nell’immaginario di artisti d’Occidente e d’Oriente. Il trentunenne artista cinese Cao Fei, che si è imposto all’attenzione internazionale raccontando per immagini il veloce scorrere della vita metropolitana, per Artissima 16 ha realizzato una piattaforma pubblica per la creatività su Second life.
Bellini, la realtà virtuale è davvero una nuova frontiera d’arte?
Il web è un’altra strada che l’arte può percorrere, niente di più o di meno. In realtà gli artisti che riescono a dire qualcosa di originale facendo ricorso alle tecnologie del web sono veramente pochi. Tra questi c’è sicuramente il giovane artista americano Paul Chan e ovviamente Cao Fei che all’Astra presenta un video di Second life in anteprima mondiale, di fronte al quale ballerini danzano su coreografie ispirate al teatro di propaganda cinese anni Cinquanta.
Al contempo un maestro  come Pistoletto presenta ad Artissima, in una nuova versione scenica, una sua storica performance.
Michelangelo Pistoletto è una figura centrale dell’arte del nostro tempo: è stato tra i primi, tra il ’66 e il ’67, a percorrere la strada di un’estetica relazionale, basata sulla collaborazione con il pubblico e con artisti di altre discipline. Anno uno – Terzo paradiso, che presentiamo al Teatro Regio è un lavoro particolarmente significativo: si tratta di una scultura vivente o di un quadro parlante, se si preferisce l’immagine, che mette in scena la storia dell’umanità. Il Terzo paradiso è il paradiso che, per l’artista, dobbiamo realizzare oggi in terra, dove natura e cultura trovano un nuovo e più alto equilibrio.
La crisi, si dice, si è fatta sentire a scoppio ritardato nel mercato dell’arte.Dall’ ossservatorio di Artissima come vede la situazione?
In realtà la crisi nel mondo dell’arte, che appena l’anno scorso si preannunciava disastrosa, non è stata così dura. A oggi non è paragonabile a quella dei primi anni Novanta. Vediamo infatti già i primi segni di ripresa, il mercato si sta muovendo. Per i collezionisti è un momento buono per comprare: i galleristi sono più disposti a trattare sui prezzi e a cedere le opere più importanti.
Si parla da tempo di una sua direzione del Castello di Rivoli ( Bellini è diventato condirettore con Beatrice Merz alla fine del 2009 ndr), una delle realtà più importanti per l’arte contemporanea in Italia. Alla guida del museo guidato per vent’anni da Ida Gianelliquali sarebbero le sue priorità?
A ogni generazione spetta il compito di ripensare, anche in modo radicale se necessario, i modi in cui la cultura contemporanea viene proposta e dunque fruita.
E cosa suggerirebbe al ministro della Cultura, Sandro Bondi, per sostenere la ricerca dei giovani artisti italiani oggi  perlopiù costretti a  emigrare?
Suggerirei: conoscenza, diffusione, accademie e musei. In primis pianificare una politica culturale per la conoscenza e la diffusione dell’arte contemporanea in Italia. E poi concentrare gli sforzi nella riforma delle accademie di Belle arti: è fondamentale ripensare i luoghi in cui gli artisti si formano. Ma bisogna anche cominciare a lavorare sulla rete museale. In realtà la lista delle richieste sarebbe lunga: il nostro sistema dell’arte contemporanea è indietro rispetto a quello di altri Paesi europei. In questo senso mi sembra che il ministro Bondi debba ancora dimostrare se è realmente interessato all’arte del nostro tempo.

A SPASSO PER LA FIERA
Al terzo giro di boa del suo mandato per Artissima, Andrea Bellini punta su un finale da record. Non solo per il numero e la qualità delle gallerie  arrivate al Lingotto di Torino da ogni parte del mondo. Ma anche per la vivacità del programma di mostre, di incontri e di spettacoli che punteggiano Artissima 16. Dal 6 all’8 novembre,  141 espositori e più di mille artisti animano la grande fiera torinese ma il pubblico di collezionisti, conoscitori e appassionati d’arte che frequenta le mostre mercato del contemporaneo, nel capoluogo piemontese, non avrà solo occasione di  guardare per comprare ma anche di partecipare per conoscere più da vicino il lavoro di grandi maestri del passato e i nuovi talenti. Tante, tantissime le proposte da non perdere di vista. A cominciare da Present future, il padiglione riservato alla ricerca e alle sperimentazioni proposte da artisti delle nuove generazioni. Scelti da un gruppo di curatori indipendenti e internazionali, i sedici progetti esposti e realizzati ad hoc per Artissima 16 mescolano i linguaggi della pittura, della fotografia, dell’istallazione. Fra i nomi degli emergenti  qui rappresentati troviamo quello di Karim Ghelloussi (vedi foto), di Adrien Issika  e Stepahnie Barbier ma anche quelli dei nostri Paolo Chiasera e Luca Francesconi. Il 6 novembre la giuria assegna il premio Illy al miglior progetto dei sedici esposti (www.illy.com).  Grandi installazioni di artisti di primo piano della scena internazionale, invece, caratterizzano la sezione Costellations. Qui, fra le altre, sono esposte opere di Marina Abramovic, di Santiago Serra e Franz West. E ancora Accecare l’ascolto, con performance e spettacoli in cui teatranti e artisti visuali lavorano assieme. E poi  The store dove si possono acquistare multipli, poster riviste e molte altre proposte di 30 artisti emergenti. Ma da quest’anno, accanto ad Artissima fumetto e Artissima volume (che propone performance live e concerti) c’è anche Artissima cinema con quaranta opere filmiche, video e documentari d’arte. La rassegna, dal titolo Black curtains, è curata da Rosalee Goldberg, direttrice della storica rassegna newyorkese Performa. Il programma completo delle iniziative su www.artissima.it.

da Left-Avvenimenti del 7 novembre 2009

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Con le armi della creatività

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 29, 2008

Da Saramago a Marquez, da Abramovic a Quédraogo. Scrittori, artisti, registi e videomaker insieme per i diritti umani di Simona Maggiorelli

abramovic

Qualche anno fa il filosofo Domenico Losurdo, a proposito di diritti umani, invitava a tornare a riflettere sul nazismo e sulla sua  distruzione sistematica del concetto universale di uomo. Riflessione essenziale anche perché le radici di quel tipo di pensiero nazista, non ancora del tutto lette e interpretate, restano subdolamente ancora attive. In forme più o meno mascherate. Magari nascoste sotto una evangelica battaglia a stelle e strisce contro il terrorismo. Come quella in cui si sono cimentate due generazioni di presidenti Bush e che ancora vede decine di internati nel carcere di Guantanamo, senza diritti, torturati e condannati in base a confessioni estorte con la violenza. In un micidiale combinato disposto di violenza fisica e psichica. Di fronte a tutto questo, le giustissime battaglie in difesa dei diritti umani troppo spesso non bastano, sembrano non incidere. Per questo, con le armi non convenzionali del cinema, della letteratura, delle arti figurative, artisti da ogni parte del mondo in Storie di diritti umani (Electa in collaborazione con l’Alto commissariato per i diritti umani) invitano ad approfondire la riflessione, ad andare avanti nel cercare un modo di parlare di diritti umani che sia potente e incontrovertibile. Garcia Marquez, Kaled Hosseini, Josè Saramago, Assia Djebar, Toni Morrison, Mo Yan a molte altre voci autorevoli della scena letteraria internazionale in questo volume che racconta un’opera filmica a più mani, intrecciano il proprio sguardo con quello di registi e performer come il maestro del cinema Idrissa Quédraogo e l’artista Marina Abramovic che da sempre nel proprio lavoro denunciano, con un’urgenza poetica fortissima, il dramma dei diritti umani violati. In Africa, nella ex Jugoslavia, in Cina, in Thailandia e in moltissimi altri Paesi; compresi gli Stati Uniti. Perché, come emerge in questo libro a più voci, non basta l’affermazione di un generico diritto alla felicità, basato sulla rivendicazione dei diritti naturali come quello che si legge nella Dichiarazione di indipendenza americana del 4 luglio 1776. Affermazione generica e, oltretutto, quanto mai ipocrita se si pensa al genocidio degli indiani ma anche alle stragi di civili che gli Usa hanno fatto in Iraq con armi proibite dai trattati internazionali. Ma forse – come è stato notato da altri – anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui si sono da poco celebrati i sessant’anni, pur facendo affermazioni importantissime, manca del tutto di una riflessione su quella identità umana, più profonda, su cui si basa ogni diritto umano, e che permetterebbe di respingere le tesi confuse e religiose di chi parla di diritto naturale o di astratta sacralità della vita. creatMa c’è anche un’altra considerazione da fare. La suggerisce la stessa Abramovic in alcune sue brucianti opere dedicate alla memoria del genocidio nella ex Jugoslavia (ora raccolte in una monografia edita da Phaidon), ma anche in questo suo nuovo video dedicato ai bambini del Laos: la battaglia per i diritti umani non può fermarsi solo alla denuncia e al rifiuto della violenza fisica e della distruttività tangibile della guerra. Dalle sue performance e dai suoi lavori di videoarte emerge in filigrana anche la rappresentazione di una violenza invisibile, che all’apparenza non sparge sangue, ma che può essere più terribile delle bombe. Il filosofo Losurdo ne accennava, appunto, in quel suo libro Heidegger e l’ideologia della guerra (Bollati Boringhieri) quando parlava di quella modalità heideggeriana di “essere per la morte” che implica l’eliminazione (l’annullamento) dell’altro per la propria sopravvivenza. E se la riflessione razionale dei filosofi arriva fino a un certo punto, quella di alcuni artisti, anche se inconsapevolmente, sembra suggerire di più. Left 52-53/08

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Dora Maar, Kiki e le altre

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 20, 2006

Shirin Neshat

Shirin Neshat

Immagini di donna, ritratti, rappresentazioni, ma poi anche scatti, installazioni, videoclip. Nel quattrocentesco castello di Vigevano, più di duecento opere di centocinquanta artisti, dalle avanguardie storiche ad oggi per raccontare le molteplici trasformazioni dell’immagine femminile nei linguaggi della pittura, della scultura e della fotografia. Passando dalle Salomé e dalle numerosi varianti di “Giuditta” dipinte di Klimt. Per arrivare , nella sezione italiana, alle più posate fidanzate e spose, alla madre di Boccioni, alle “invasate” di Sagantini e alle altre maschere ottocentesche. Per arrivare poi, finalmente, alla grande svolta degli anni dieci del novecento, con le oniriche deformazioni di Matisse e le folgoranti scomposizioni di Picasso, che non si accontenta dell’immagine da cartolina di una bella donna, come la bruna Dora Maar, ma scomponendo la figura, punta a raccontare su tela quell’emozione, quella traccia intima, che resta, al fondo, dopo un rapporto. Poi però quella ricerca di una rappresentazione che non sia solo mimesis, che non sia fotografia e calco, sembra arrestarsi. Negli anni Sessanta, lo stordimento delle euforiche icone pop di Warhol.

Le immagini fumettistiche e plastificate degli epigoni come Tom Wesselmann. Che si appiattiscono sulla raffigurazione fumettistica della donna come oggetto. Su questa linea si colloca anche la Marylin strappata di un décollage di Mimmo Rotella, per quanto meno arida delle seriali versioni pop made in Usa.

Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft

E oggi? Ad essere etichettato come nuovo è il modo di rappresentare la donna che pesca nelle immagini patinate della moda. I riflettori illuminano l’atonia delle seriali donne manichino della più giovane e celebrata delle artiste italiane, Vanessa Beecroft, che rende tangibile l’invisibile violenza esercitata sulle donne con l’esibizione di magrezze impossibili e volti immobili, cerei, che esibiscono una totale anestesia psicologica.
Proposte, più morbide e vitali, vengono da artiste oggi trenta-quarantenni che mescolano i linguaggi – pittura, fotografia e video – per raccontare un punto di vista femminile inquieto, complesso, contemporaneo: dalle poesie visive di Monica Banfo alle eleganti calligrafie su pelle dell’iraniana Shirin Neshat, fino alle appassionate videoperformances della slovena Marina Abramovic.
Il critico d’arte Luca Beatrice le ha radunate tutte fra le mura di questo spettacolare castello alle porte di Pavia, disseminandole nelle scuderie, nelle logge, nella torre del Bramante, nella strada coperta che conduceva alle stanze private di Ludovico il Moro. Dal 20 maggio al 30 luglio 2006 formano l’intrigante corpus della mostra La donna oggetto. Miti e metamorfosi al femminile 1900-2005, un progetto ambizioso in cui Beatrice si propone, con la complicità di Beatrice Buscaroli, Massimo Sciaccaluga e Laura Carcano (responsabili di altrettante sezioni della mostra), di ripercorrere gli ultimi due secoli di storia dell’arte, raccontando il passaggio della donna, da modella e musa ispiratrice a protagonista di primo piano della scena dell’arte. Con una interessante finestra, A tribute, su quindici artiste italiane – fra le altre Marinella Senatore, Alessandra Spranzi, Donatella Spaziani, Elisabeth Aro, Anna Galtarossa -, pensata come una sorta di collettiva monografica, come una mostra nella mostra.
Il catalogo è pubblicato da Umberto Allemandi. ( Simona Maggiorelli, Left)

left maggio 2006

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