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Posts Tagged ‘Punta della dogana’

In Punta, la bellezza

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 19, 2013

La mostra Prima materia in Punta della dogana

La mostra Prima materia in Punta della dogana

 Venezia.  Nello spazio espositivo restaurato dall’architetto giapponese Tadao Ando in Laguna, la mostra Prima materia punta sulla qualità delle opere, fuori dal rumore del postmodermo

di Simona Maggiorelli

La fertile babele dei linguaggi che connota l’arte contemporanea oggi è il tema della mostra, Prima materia, (fino al 31 dicembre 2014, catalogo Electa) negli splendidi spazi di Punta dellla Dogana restaurata dall’architetto giapponese Tadao Ando: una scheggia di pura bellezza – in mattoni, legno, vetro e pietra serena – incastonata nel cuore della laguna.

Su due piani, culminanti in una terrazza arabeggiante con vista sul mare, Punta della Dogana è uno spazio capace di esaltare le opere che vi sono esposte in modo impareggiabile. Talora regalando loro un’emozione che altrove, di per sé, non comunicherebbero. Era il caso del busto di cavallo impagliatoaffiorante dalla parete ideato da quel monello dell’arte contemporanea che è Maurizio Cattelan e di tante altre opere post Pop e post Minimal che troneggiavano in precedenti esposizioni dedicate alla collezione di François Pinault.

Non accade così in questa nuova mostra, curata da Caroline Bourgeois e Michael Govan, che dalla sterminata collezione del noto tycoon francese seleziona alcune presenze davvero importanti; per i motivi più diversi, come vedremo.

A fare da filo rosso a creazioni di nomi affermati del panorama internazionale come Nauman, Dumas, Pistoletto, Opalka e di maestri scomparsi da anni come Piero Manzoni, Alighiero Boetti e Mario Merz, insieme a nuovi autori provenienti da ogni parte del mondo, è l’idea che l’arte abbia in ogni epoca a che fare con la ricerca di quella che i testi alchemici medievali chiamavano “pura materia”: sostrato vitale di mente e corpo secondo alcuni oppure “aurea” del pensiero e dell’immaginazione da cui scaturisce come in un processo alchemico, secondo altri.

Zeng Fanzhi, questa terra così piena di bellezza

Zeng Fanzhi, questa terra così piena di bellezza

Riferimento che i due curatori, al di là di ogni  astratto esoterismo, sembrano leggere come quel quantum di fantasia, originale, ricca di contenuto che rende universale ogni creazione artistica degna di questo nome. Su questa base la selezione non poteva che essere esigente.

E il risultato appare coerente con le promesse quando, per esempio,ci si trova davanti alle due variazioni di Zeng Fanzhi che nelle tue grandi tele intitolate This land so rich in beauty (2010) rilegge, con un colorismo quasi espressionista, l’antica tradizione cinese della pittura di paesaggio usato per esprimere un proprio stato emotivo.

Una ricerca che, con un linguaggio assai diverso, sembra risuonare anche in alcuni quadri di Giulio Penone che, con filo di piombo e zinco, evocano sfumati e balenanti paesaggi interiori reinventando memorie delle Alpi marittime. Su tutt’altro registro si muove l’artista algerino Adel Abdessemed (classe 1971) che in una scultura di forte impatto visivo, ricrea l’altare di Isenheim, capolavoro di Mathias Grünewald: con filo spinato proveniente da Guantanamo, Abdessemed dà forma a quattro Gesù crocefissi. Quattro, per mettere al centro l’umano, evitando la trinità imposta dalla dottrina. Un’opera spettacolare e insieme corrosiva, come è nello stile di questo artista cosmopolita che, in una statua in marmo nero, ha evocato la famosa zuccata data da Zidane a Materazzi nel mondiale del 2006 e che, in occasione di una sua retrospettiva alla Fondazione Sandretto Re Baudengo a Torino ha fatto arrabbiare gli animalisti con opere che rappresentavano animali in modo crudo.

da left- avvenimenti

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I passi silenziosi di Chen Zen

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 15, 2011

Negli spazi  della galleria arte Continua a San Gimignano, fino a gennaio, una importante retrospettiva del cinese Chen Zen. Artista “cult” che negli anni di esilio a Parigi ha molto riflettuto sui temi esistenziali e di gande respiro filosofico Tra Oriente e Occidente

di Simona Maggiorelli

chen zen

Somparso prematuramente a Parigi nel Duemila e presto diventato una figura quasi mitica dell’arte contemporanea internazionale, Chen Zen è ricordato ora in una intensa retrospettiva organizzata da Galleria Continua a San Gimignano: lo spazio d’avanguardia che per primo l’ha portato in Italia facendo conoscere il lavoro di questo schivo e appartato artista cinese anche da noi.
Con il titolo Les pas silencieux – che ben rappresenta l’attraversamento di Chen Zen, quasi in punta di piedi, della scena di fine Novecento – questa antologica riunisce (dal 10 settembre al 28 gennaio) alcune delle opere più significative realizzate fra il 1990 e il 2000. Così, nel suggestivo spazio dell’ex cinema teatro dell’Arco dei Becci – sul palcoscenico, in platea, nelle sale attigue e nel giardino – si ritrovano disseminate sculture emblematiche come la serie di ideogrammi di cera che, in forma di fragili casette,  evocano poeticamente una lingua madre da abitare, ma anche ormai lontana e quasi irreale, come fredda e astratta risuonava la parola “patria” alle orecchie di Chen Zen che dal 1986  viveva esule in Francia.

chen zen house

Ma qui a San Gimignano si ritrovano anche gli strani strumenti musicali costruiti con materiali poveri, con cui Chen Zen, riprendendo antiche tradizioni della Cina pre-imperiale, invitava idealmente il pubblico a crearsi un proprio percorso di “musicoterapia” utilizzando il contrasto fra le risonanze scure e profonde di tamburi e  quelle chiassose delle campane. Che si tratti di sculture sonore (come Un interrupted voice del 1988 o come la Biblioteche musicale del 2000) o che si tratti di aeree installazioni luminose (come Le bureau de change del 1996, ricreato in questa mostra) oppure di strane creature di vetro, leggere e trasparenti, come quelle della collezione Pinault, troviamo sempre un filo rosso di riflessione filosofica ed esistenziale a legarle in un percorso unitario. Un pensiero che Chen Zen attingeva alla più antica tradizione culturale cinese riletta alla luce di un’esperienza personale spesso anche dura, fatta di sradicamento e poi anche di lotta contro la malattia dopo che, all’età di venticinque anni, gli fu diagnosticata una anemia emolitica.

Negli ultimi tempi, in modo particolare, l’opera di Chen Zen cercò di nutrirsi anche di questa esperienza tentando di darle un significato. Mentre accanto alla dialettica bipolare fra  yin e yang, si affacciavano sempre più spesso temi della filosofia buddista. Come racconta l’opera Six Roots/Memory del 2000 qui riproposta e che rappresenta i sei stadi della vita secondo la tradizione  buddista.

da left -avvenimenti

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Morte a Venezia

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 8, 2011

Punta della dogana, e il cavallo di Cattelan

Negli spazi di Punta della Dogana e nella Biennale d’arte va in scena la crisi delle arte visive. Negli splendidi spazi dell’ex porto monumentale restaurato da Tadeo Ando  la mostra Elogio del dubbio mette in mostra il presente globalizzato

di Simona Maggiorelli

Sculture contemporanee o gigantografie di oggetti di consumo? Ironico iperealismo o involontaria apologia di un mondo globalizzato fatto di sole merci? Un dubbio neanche troppo amletico assale il visitatore della mostra Elogio del dubbio allestita fino al prossimo dicembre (catalogo Electa) nei suggestivi spazi di Punta della Dogana a Venezia.

Davanti ad opere come Hanging heart, lo sgargiante cuore di plastica firmato Jeff Koons, così come di fronte ai suoi assemblaggi di papere e canotti gonfiabili, il sospetto è che l’arte contemporanea (specie nelle sue declinazioni americane) si sia ridotta a puro gadget. Portando alle estreme conseguenze la lezione di  Andy Warhol che dipingeva barattoli di zuppa Campbell’s.

Hanging heart di Jeff Koons

Analogamente, di fronte ai manichini di donna fatti a pezzi da Paul McCarthy e alle sue grottesche rappresentazioni di donne-oggetto viene da domandarsi se questo suo estremo esercizio di realismo caricaturale colga nell’intento di rappresentare (e denunciare) la distruzione dell’immagine femminile messa in atto dalle società occidentali più “avanzate” o se non ne diventi, piuttosto, inconsapevole amplificatore.

Certo è, che questa mostra curata da Caroline Bourgeois con opere della collezione François Pinault (al pari della Biennale dell’arte) riesce pienamente a rappresentare il momento di crisi che l’arte contemporanea sta attraversando: fra grandeur, gigantismo, dismisura e disseccato minimalismo concettuale, fra autoreferenzialità e rinuncia a creare immagini nuove, profonde, dense di senso, universali.

Un fenomeno specifico delle arti visive di questo inizio del XXI secolo e che, ci pare di poter dire, non riguarda così massicciamente altre discipline, come per esempio l’architettura. Prova ne è anche la splendida ricreazione degli spazi antichissimi di Punta della Dogana (l’ex porto monumentale affacciato sul Canal Grande e sulla Giudecca) compiuta dall’architetto giapponese Tadao Ando, con travi a vista, scale di pietra serena e magnifiche finestre ad arco che si aprono su un vero capolavoro d’arte: la città di Venezia.

da left-avvenimenti 3 luglio 2011

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Gli anni zero dell’arte

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 26, 2010

di Simona Maggiorelli

Punta della dogana, venezia

Jeff Koons, tulips

Nell’ultima decina d’anni il mondo dell’arte ha conosciuto una vita frenetica. Una crescita esorbitante del mercato, che ha risentito relativamente della bolla economica perché l’arte è stata vista dalle élite come bene rifugio.

Ma al tempo stesso- ecco il fatto positivo- con le nuove biennali del Sudest asiatico e africane, (che hanno rafforzato la tendenza glocal delle Biennali di Venezia e di Berlino)  il circuito delle proposte si è internazionalizzato e molte frontiere sono cadute. Così molti artisti di talento provenienti da Paesi poveri hanno potuto farsi conoscere all’estero: dalle Filippine all’Africa nera.

Un fenomeno di allargamento del canone internazionale dell’arte che ha coinvolto grandemente anche un paese in ascesa economica come la Cina, anche se  in questo orizzonte globalizzato del nuovo millennio  l’Impero celeste si è limitato a riversare sul mercato occidentale e orientale una piatta e seriale produzione new pop.

E non pare un fatto  causale. Se è vero, infatti, che il mondo dell’arte si è allargato geograficamente è altrettanto vero che il pensiero egemone nel mondo dell’arte degli ultimi dieci anni è stato, pervasivamente, quello anglo-americano: fra assordanti riedizioni della pop art e nuove ondate di razionalismo puritano dal Nord Europa in veste di minimalismo concettuale. Curiosamente…. come opposte facce di una stessa medaglia.

 

Biennale Venezia diretta da Birnbaum

Le sette sorelle. Nell’orizzonte globalizzato- nota Achille Bonito Oliva – Metropolitan, Whitney, MoMa, Guggenheim, Tate Modern, Centre Pompidou e Ludwig in Germania, le cosiddette sette sorelle impongono il pensiero unico dell’arte degli anni duemila. “I curatori di queste istituzioni – prosegue Abo- si passano gli artisti e stabilizzano così un movimento senza movimento… di fondo il prodotto che emerge in questa circolazione bloccata è sempre analitico, astratto, tecnologico, legato alla cultura puritana anglosassone, ad una sensibilità per cui il genius loci è azzerato e ad emergere è sempre il segno forte dell’arte e della cultura americana”. L’ultima Biennale di Venezia curata nel 2009 dallo svedese Daniel Birnbaum, nonostante le migliori intenzioni che emergevano fin dal titolo Fare mondi,ne è stata un esempio lampante: negli spazi della Biennale il respiro bloccato di una esposizione politically correct, quanto anemica, ecumenica quanto frutto di una raggelata e spinoziana geometria delle passioni. Mentre negli spazi di punta della Dogana andava in scena il volto glamourous, sprezzante delle misure e dei costi, dell’arte -gadget  di marca anglo americana.

 

Marc Queen Kate Moss as Syren

Ma, al fondo, che cosa è davvero accaduto in questo primo decennio degli anni zero del nuovo millennio?

Se l’angelo di Klee, mentre è rapinosamente trascinato verso il futuro, guardasse alle macerie che gli ultimi anni hanno lasciato dietro di sé vedrebbe soprattutto cumuli di cadaveri e  scene di distruzione. Dalle bombe “intelligenti” di Bush, all’11 settembre, dalla guerra Usa in Afghanistan agli attentati di Mumbay e di Londra… Uno scenario tragico che l’arte contemporanea che ha dominato le scene delle gallerie, delle riviste e delle aste negli ultimi dieci anni (abdicando a se stessa) perlopiù ha bellamente ignorato – e non parliamo di cronaca che non pertiene all’arte – ma  nella rappresentazione allegorica e traslata. E nelle gallerie che fanno tendenza e poi al Moma come da Christie’s è stato tutto un tripudio di grandeur, di cieca euforia, di scelte estetizzanti e sorde alla complessità e alla drammaticità del reale. Così, eccezion fatta per alcuni artisti giovani o provenienti da aree di crisi del mondo (dall’iraniana Shirin Neshat alla serba Marina Abramovic, all’albanese Adrian Paci, solo per fare qualche esempio) a tenere la scena dal Duemila a oggi sono stati una manciata di ricchi artisti globtrotter come Damien Hirst, Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Marc Queen. A loro è andata pressoché tutta l’attenzione dei media.

E il teschio tempestato di diamanti ideato da Hirst  ( ancora nell’anno 2011 celebrato in Palazzo Vecchio a Firenze) è andato sulle copertine delle riviste patinate, così come un decennio prima le foto delle top model Naomi Campbell e Cindy Crawford. Per tutta risposta, in questo gioco di specchi, Marc Queen ha “incartato” in foglia d’oro zecchino la sua statua-ritratto della modella Kate Moss. Compiacere il pubblico con icone a uso e consumo del nuovo millennio oppure cercare lo scandalo. Il vecchio e consunto Andy Wharol ancora docet. E soprattutto fa vendere.

 

Damien Hirst

Questa è la new religion di Hirst e degli ex Young british artists (YBAs) scoperti alla fine del secolo scorso dal pubblicitario Charles Saatchi, nel frattempo, diventato potente gallerista. E se Hirst si spaccia per il cantore moderno della britannica triade letteraria «la morte, la carne, il diavolo», alla resa dei conti, appare piuttosto come un abile confezionatore di scintillanti oggetti “taumaturgici” per placare la paura di morire di tycoon e finanzieri di alto bordo. La sua, più che arte è “artefattualità”, annota Gillo Dorfles in Fatti e fattoidi (Castelvecchi). «Nei nostri tempi adulterati e massmedializzati – scrive il grande decano della critica – l’importante non è più il vero ma il verosimile. Se guardiamo all’arte degli ultimi anni scorgiamo una quantità di pratiche che sono dubbie». Evidente, sottolinea Dorfles, il camuffamento operato dalla body art (da quella anni Settanta e Ottanta di Orlan a quella cyborg): ci si fanno incisioni sul corpo oppure ci si munisce di elettrodi «per alterare la vera personalità senza acquisirne una nuova». E poi riguardo alle «strategie simulazionali» di Hirst o di Koons, Dorfles sbotta: «Dobbiamo avere il coraggio di dire che si tratta di feticci più che opere d’arte». Del resto come altro giudicare lo squalo in formaldeide di Hirst? «Per coprire un deficit di iniziativa personale – spiega Dorfles – l’arte si fa massimamente spettacolare». E oggi richiede che l’artista sia anche e soprattutto un abile mercante. Il giapponese Murakami in questo caso surclassa tutti con opere come The oval Buddha, una scultura di cinque metri in platino e costata quanto un film hollywoodiano indipendente. Ma per entrare nel gotha degli artisti-re mida della prima decade del XXI secolo, non servono tanto le idee quanto avere fiuto da finanziere. Per cui il solito Hirst ha direttamente venduto all’asta le sue opere (prima che le sue pecore sotto spirito si squaglino) saltando il sistema dei galleristi. Feticizzazione dell’oggetto, il mercato che prende il posto della critica d’arte nel decretare ciò che vale e da parte degli artisti degli anni zero dell’arte perfetta conoscenza di quel processo di mitizzazione che fa di un oggetto uno status symbol. Ma per questo urgono collezionisti con portafoglio “a organetto”.

 

Cattelan, Hitler

I collezionisti di zeri. «Oggi ai collezionisti d’arte non interessa tanto l’opera ma il suo valore» scrive Francesco Bonami in Irrazionalpopolare (Einaudi). E questo non riguarda solo un tycoon come Pinault proprietario di marchi come Gucci e Ysl, nonché patron di Punta della dogana e di Palazzo Grassi a Venezia (dove espone la sua collezione privata fatta di opere monumentali, impossibili da mettere in casa). E non si tratta di un caso isolato nel ristretto quanto facoltoso mondo del collezionismo anni duemila.«Lo spirito di emulazione dilaga» avverte Bonami. Per cui due oligarchi ucraini si sono contesi la tela di un giovane pittore canadese sconosciuto, fino a 13 milioni di dollari «solo per dimostrare chi fra i due era più ricco e idiota». Ecco la logica dei ricchissimi happy few che hanno tenuto in piedi il drogato sistema dell’arte degli anni zero: «Se Pinault ce l’ha, lo voglio anch’io».

 

Cattelan, l'amore salva la vita

Il cattelanesimo, ci spiega ancora Bonami, è stata l’altra religione che ha contribuito al gioco degli art addicted degli anni zero. Il suo idolo è Maurizio Cattelan, quello che si è fatto conoscere con l’asino all’università di Padova per la sua laurea honoris causa e con i fantocci di bambini impiccati in piazza a Milano. Grande provocatore, sapiente manager di se stesso, Cattelan ha riportato l’arte italiana sulla scena internazionale (a ruota sono emersi poi i più giovani Francesco Vezzoli e Vanessa Beecroft). «Maestro indiscusso nel dragare e risputare immaginari», ricorda Andrea Lissoni ne Gli anni zero 2001-2009 (Isbn edizioni) ha diretto con Massimiliano Gioni la Biennale di Berlino del 2006, caposaldo d’invenzione e innovazione. «Il Fiorello delle arti plastiche» sarà il guru dell’arte anche della prossima decade? Gratta gratta, in questo quadro rischia che ci sia da augurarselo dal momento che, in questo circo barnum di nuovo millennio è, stando a Bonami, uno dei pochi «che sa rompere le scatole a una società che dà molto per scontato, violenza ai minori compresa, ma che si ribella quando la rappresentazione di quella violenza gli arriva sotto casa, disturba il traffico e fa rabbrividire le mamme e i babbi con le tasche piene di ovetti kinder e videogiochi dove più se ne ammazzano meglio è».

da left-avvenimenti

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