Posts Tagged ‘Braque’
Posted by Simona Maggiorelli su novembre 29, 2013

Cézanne, Paesaggio blu
A guardarli dal vivo certi lussureggianti paesaggi di Cézanne e certi suoi scarni e incisivi ritratti, messi a confronto a Roma con i lavori di epigoni italiani, viene da pensare che Lionello Venturi avesse visto lungo quando, esule in Francia nel 1931 (perché si era rifiutato di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti) pubblicava il suo saggio su Cézanne.
Un lavoro in cui analizzava in parallelo le imperfezioni di Giotto con quelle del pittore francese: «Nulla meglio del confronto fra un paesaggio di Cézanne e uno di Giotto – scriveva – può darci l’esatta impressione della esatta intenzione a determinare la costruzione delle masse e il loro volume, a cercare il fenomeno sintetico senza nessuna preoccupazione della somiglianza con la natura». è merito di Maria Teresa Benedetti, curatrice della mostra Cézanne e gli artisti italiani, aperta fino al 2 febbraio 2014 al Complesso del Vittoriano, l’aver ricordato nel catalogo Skira che accompagna questa sorprendente collettiva quel prezioso incunabolo della critica d’arte, essenziale per avvicinarsi con cognizione di causa all’opera del solitario pittore di Aix- en Provence, l’unico artista che Picasso abbia mai riconosciuto come maestro e che, ostinato nel cercare di rappresentare il processo della visione (non meramente retinica), ci ha regalato capolavori come la serie sulla montagna Sainte-Victoire, via via sempre più scarnificata ed evanescente, via via sempre più ridotta ai suoi tratti essenziali.
Alcune di queste preziose varianti sono in mostra al Vittoriano insieme ad opere meno note come Il negro Scipione (1886) e come il magnetico Paesaggio blu, (1904-6) in cui la scomposizione della realtà secondo forme geometriche lascia il posto al ritmo fluido del colore verde – azzurro che attira lo spettatore verso la profondità della tela. Conservato a San Pietroburgo questo quadro è uno dei più emozionanti di questa esposizione che mette a confronto una ventina di opere di Cézanne, provenienti dal Musée d’Orsay, con tele di pittori italiani- da Severini a Soffici, da Morandi a Carrà e oltre -, che nella prima metà del secolo scorso si rivolgevano al maestro di Aix per uscire dalle secche di una pittura italiana attardata, ancora legata ad un naturalismo accademico d’antan. Fu così che Ardengo Soffici, più critico d’arte che artista (a Parigi si manteneva facendo disegni satirici) trasse ispirazione dalle forme solide di Cézanne, per tentare una propria via al cubismo sulla scia di Braque e Picasso. Anche se, come si vede qui, riuscì a cavarne solo aneddotiche composizioni di oggetti quando non del tutto strapaesane. Ma una lettura appiattita di Cézanne si evince anche nei tentativi di Carlo Carrà, di Mario Sironi e perfino di un giovane Giuseppe Capogrossi di estrapolarne un classicismo che nei loro lavori anni Trenta assume il sapore di un oppressivo ritorno all’ordine.
Più riuscito appare invece il tentativo di Felice Casorati che si ispirò a Cézanne nel dipingere nature morte dalla evidenza plastica quasi tridimensionale. Mentre Umberto Boccioni, con il suo ritratto di Ferruccio Busoni, è forse l’unico artista che dimostra di aver assorbito profondamente la lezione dell’inarrivabile maestro francese e di saperla ricreare in modo del tutto originale.
dal setttimanale left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su marzo 23, 2013

Picasso, nudo,1909
di Simona Maggiorelli
«Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono», annotava Cézanne. E di questa frase Braque, Picasso, Léger, Gris e molti altri fecero il proprio motto in quel primo decennio del Novecento che vide, a Parigi, la nascita del cubismo. Ad un anno dalla scomparsa di Cézanne, una retrospettiva al Salon d’Automne nel 1907 celebrava finalmente l’opera del maestro di Aix-en Provence e i giovanissimi artisti che al volgere del nuovo secolo alimentavano l’avanguardia ne rimasero profondamente colpiti.
La visione volumetrica e “onirica” di Cézanne li incoraggiava ad esplorare un modo nuovo di fare pittura, sempre meno legato alla visione retinica delle cose e sempre più figlia di una visione interiore e originale dell’artista capace di cogliere l’invisibile. Così, grazie al genio di Picasso ma anche di Braque, fu subito un grande salto, un radicale cambio di paradigma nella pittura d’Occidente. Come ci avvertono inequivocabilmente le due tele, un nudo di Picasso e un paesaggio di Braque, poste ad incipit della mostra Cubisti cubismo allestita nel Complesso del Vittoriano, a Roma (fino al 23 giugno, catalogo Skira).
Da un lato un nudo femminile del pittore spagnolo, datato 1909 (proveniente da San Pietroburgo), primitivo e potente, tracciato con pochi segni essenziali; magnetico e scultoreo, per quanto scomposto secondo una pluralità di prospettive. Dall’altro la stratificata foresta di Braque, una visone sintetica e instabile, un bagno di verdi brillanti e marroni, in cui lo spettatore ha la sensazione di poter sprofondare fino a precipitare in una quarta dimensione temporale ed emotiva.

Braque 1909
In entrambi i quadri i piani si aprano, non collimavano più, la “realtà” è ritratta da più angolature, secondo prospettive multiple. Il cubismo «non è arte dell’imitazione, ma arte di pensiero che tende ad elevarsi fino alla creazione» scrisse il poeta Apollinaire, rilanciando quel termine, cubismo, che il critico Luis Vauxcelles aveva coniato recensendo la mostra di Braque nella galleria di Kahnweiler nel 1908. Un’etichetta che diventò felicemente un marchio di fabbrica, fino alla fine degli anni Venti come racconta questa corposa e avvincente collettiva romana curata da Charlotte N.Eyerman e da Simonetta Lux, che raduna più di una decina di opere di Picasso (fra le quali una straordinaria donna accovacciata prestito del museo di Sant’Antonio in Texas) e altrettante di Braque, ma anche una miriade di dipinti di artisti sodali ai due, anche se di minor talento – come Gleizes, Metzinger, Gris, Feininger, Cendrars e molri altri – ma che restituiscono pienamente il vivace fermento artistico e creativo che animò la capitale francese per oltre un ventennio, anche dopo la prima guerra mondiale e fino al “ritorno all’ordine” degli anni Trenta.
Ma interessanti sono anche le finestre aperte da questa mostra sul cubismo russo con opere di Gontcharova e Popova e sul futurismo italiano attraverso opere e collage in stile cubista di Severini e Soffici. E ancora, da non perdere, al piano superiore del Vittoriano, la sezione dedicata alle intersezioni fra il cubismo e il teatro, con i costumi di scena e le scenografie del balletto Parade firmate da Léger ma anche quella che racconta la sperimentazione cubista nella moda attraverso le stoffe realizzate dalla pittrice Sonia Delaunay.
da left avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2013

Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)
Il 2013 dell’arte si apre nel segno del pittore spagnolo. Con mostre a Milano, Roma, Chicago e Barcellona. Che raccontano la svolta cubista. E la sua ricerca continua di un modo nuovo di fare immagini
di Simona Maggiorelli
«Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le mie tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario. Il futuro sceglierà quelle che preferisce», diceva Pablo Picasso. «È il movimento della pittura che mi interessa, l’attenzione drammatica insita nel passare da una visione all’altra. Anche quando il tentativo non è portato a fondo». E la pittrice Françoise Gilot nel libro La mia vita con Picasso racconta che poi lui le disse: «Ho sempre meno tempo e sempre di più da dire. Sono arrivato a un punto in cui il movimento del mio pensiero mi interessa di più del mio pensiero stesso!». 
Che Picasso si sia espresso o meno con queste precise parole poco importa, viene da pensare passeggiando per le sale della mostra milanese Picasso capolavori dal museo nazionale di Parigi (fino al 27 gennaio, catalogo Il Sole 24 oreCultura), tanto si attaglia e sussume l’avventura, libera, eretica, incontenibile del pittore malaguegno nell’arte del Novecento.
«La vicenda biografica di Picasso è la storia stessa della sua opera», annotava anche uno studioso rigoroso come Argan invitando a leggere la monumentale biografia di Roland Penrose L’uomo e l’artista (ora riproposta da Pgreco).
Proprio come intime e delicate pagine di un diario, benché completamente ricreate e trasfigurate, spuntano, fra gli specchi antichi di Palazzo Reale, i biondi ritratti di Marie-Thérèse Walter, la giovane amante di Picasso.E come schegge di memoria conficcate nella carne viva, ecco le aguzze scomposizioni del volto di Dora Maar, la compagna abbandonata, che piange, mostrando le unghie e urlando tutta la sua disperazione.

Picasso, studio per Les Demoiselles
E ancora, quasi a voler rappresentare tutta la intricata trama dei rapporti di Picasso con l’universo femminile, ecco il marmoreo ritratto di Olga (1917), la statuaria ballerina russa, quasi bambola di cera dal volto infinitamente triste. E poi, sempre lungo il filo della cronologia, le massicce figure femminili che corrono controvento nell’atmosfera afosa di un neoclassicismo anni Venti che si fa metafora tangibile e concreta di un pesante ritorno all’ordine. Dagli esordi con il fiammeggiante ritratto dell’amico Casagemas (1901), morto suicida, al periodo blu rappresentato a Milano da una inquietante Celestina orba, alla dirompente invenzione del cubismo, fino ai collages, agli assemblaggi di oggetti trovati, alle filiformi sculture in ferro a quadri che giocano con fantasmagorie di stampo vagamente surrealista e ben oltre. Con grande abilità e irruenza, Picasso ha saccheggiato ogni genere e stile. Ogni novità e tradizione con cui sia venuto in contatto. Riuscendo sempre a farne qualcosa di assolutamente personale, originale, inimitabile.
Così le eleganti scomposizioni cubiste di Braque, giocate sui toni del nero e marrone, accanto alla forza dirompente ed iconoclasta di quelle picassiane, ritmate da linee nere, definite e perentorie, appaiono poco più che educati esercizi di stile. Come si potrà notare anche più approfonditamente al Vittoriano a Roma, dal 7 marzo, con la mostra e il catalogo Skira Picasso, Braque, Leger e il cubismo.
Ma interessante, qui a Milano, è anche il confronto con l’unico maestro che Picasso abbia mai riconosciuto: Cézanne. Che regala ai caldi paesaggi provenzali, lucenti di arancio e verde, una evidenza e una tridimensionalità quasi scultorea. «Sarebbe bastato fare a pezzi questi dipinti… e poi ricomporli secondo le indicazioni fornite dal colore, per trovarsi di fronte a una scultura» suggeriva Picasso stesso intervistato da Cahiers d’art nel 1935.
Beninteso non si tratta qui di stabilire un meglio o un peggio, in una impossibile scala di giudizio fra protagonisti dell’arte così rivoluzionari, ma di rimarcare l’assoluta differenza che Picasso sapeva segnare ogni volta, anche quando il suo fare arte nasceva dall’arte altrui, in dialogo vivo, con pittori del passato o suoi contemporanei.

Picasso, L’ombra
Perfino nel confronto con quel classicista accademico di Ingres, in cui Picasso colse un lato sovversivo, ricreandone interamente il celebre Bagno turco (1862) ne Les Demoiselles d’Avignon (1907), l’opera del geniale balzo in avanti, dello strappo radicale con tutta la tradizione figurativa d’Occidente, che mandava in cantina la pittura da cavalletto e la piatta mimesi del reale.
Dalle passive odalische di Ingres, il ballo ancestrale di nude e scultoree fanciulle, rappresentate in questa antologica milanese attraverso una serie di studi preparatori. Magnetiche e lucenti come l’ebano delle statuette africane che avevano attratto l’attenzione di Picasso al Musée dell’Homme di Parigi. Ma niente affatto tornite e affabili. Anzi spigolose e aguzze, imprevedibili e selvagge nella irrazionale molteplicità di punti di visti con cui il pittore spagnolo le mette in scena. Regalando loro il fascino enigmatico e misterioso di uno sguardo spalancato su una realtà che lo spettatore non riesce a vedere. Come antiche statuette votive yemenite, eppure ultramoderne.
Gli schizzi e le tele per le Demoiselles in mostra in Palazzo Reale portano in primo piano la linea netta e potente con cui sono “scolpite”. Anche quando non sono tracciate con il carboncino o con l’inchiostro, ma con una friabile e carnale sanguigna. Ed è uno dei momenti forse più emozionanti di questa mostra. Insieme all’omaggio all’amico e rivale Matisse che in Palazzo Reale è evocato attraverso una serie di tele picassiane che si aprono come finestre su marine assolate con al centro sensuali presenze femminili, quadri come L’ombra (1957) o L’atelier La Californie (1955) dipinto subito dopo la morte di Matisse, come un commosso addio.
Con tutto ciò non ha la pretesa di voler dire qualcosa di nuovo su Picasso questa mostra curata dalla direttrice del Museo Nazionale di Picasso Anne Baldassari, neanche rispetto alle precedenti rassegne del 2001 e del 1953 che queste sale hanno ospitato. Ma offre l’occasione davvero imperdibile di rivedere circa 250 opere di Picasso, fra cui molti capolavori, mentre la loro storica sede parigina resterà chiusa per lavori fino all’estate 2013. Nel frattempo, parte di questi prestiti, ricombinati con altri, andranno a comporre, dal 20 febbraio, la grande retrospettiva che l’Art Institute di Chicago dedica a Picasso per i cento anni da quella storica esposizione del 1913 che presentò il suo lavoro al pubblico americano. Una nutrita serie degli autoritratti che raccontano i tanti travestimenti attraverso i quali Picasso – con abile mitopoiesi di se stesso – amava raccontarsi, invece, dal 31 maggio saranno esposti nel Museo Picasso di Barcellona nell’ambito della mostra Yo, Picasso.
In primo piano, il multiforme giocare picassiano con le maschere di Arlecchino, di saltimbanco dell’anima, Trickster, e Ermete Trismegisto avvezzo a tramenare con tutte le possibili alchimie pittoriche, in un movimento continuo di un pensiero per immagini che procede come un fiume in piena. Vicino al linguaggio dei sogni, nelle sue deformazioni, condensazioni, polisemie. Eppure mai preso nella trappola surrealista di tentare una trascrizione meccanica e razionale delle immagini della notte.
da left-avvenimenti del 29 dicembre 2012
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Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 6, 2011
Da Cézanne a van Gogh, tutti i colori del Mare nostrum a Genova
di Simona Maggiorelli

Van Gogh dal Museo di Otterlo
Un colore azzurro, sempre cangiante, che non ci si stanca mai di guardare. Così Vincent van Gogh raccontava il Mar Mediterraneo, dalla Provenza, dove si era rifugiato in cerca di calore e di ispirazione, con il sogno di poter dar vita – con Paul Gauguin e altri pittori- a una sorta di comune in cui il lavoro creativo diventasse condiviso e maggiore fosse la possibilità di resistere agli attacchi di chi, invece, non capiva il senso di quella loro radicale e innovativa ricerca. «Questo mare – scriveva il pittore olandese – non sai mai se sia verde o viola, non sai mai se sia azzurro, perché il secondo dopo il riflesso cangiante ha già assunto una tinta rosa o grigia». E con pennellate via via sempre più materiche e vorticose, sperimentando arditamente con i colori per renderli più espressivi, cercava di tradurre su tela quell’incessante movimento di onde e colori, che avvertiva come qualcosa di profondamente suo, quasi fosse un riflesso del suo mondo interiore.
Prima e dopo van Gogh, il Mediterraneo ha conosciuto molti altri artisti viaggiatori, anche illustri. Ma nessuno aveva mai avuto il suo ardire nel rappresentarlo. Forse anche per questo Marco Goldin ha voluto alcune delle tele che van Gogh dipinse in Provenza a fare da nerbo a questa bella mostra genovese Mediterraneo. Da Courbet a Monet a Matisse organizzata con Linea d’Ombra e aperta fino al primo maggio 2011 in Palazzo Ducale.

Cézanne, Saint Victoire
Un’esposizione evento – come ormai Goldin ci ha abituati – che inanella una straordinaria serie di capolavori, tra i quali una poco conosciuta variante della Sainte Victoire di Cézanne, il Carnevale di Nizza di Matisse e un insolitamente solare Mattino sulla promenade di Munch. Tela questa, come molte altre qui esposte, che con lungo lavoro il curatore veneto è riuscito a rintracciare in collezioni private e a farsi prestare. Accanto, fra le ottanta opere selezionate, ritroviamo dipinti di Braque e altri graditi ritorni dalle precedenti esposizioni che Goldin, negli anni, ha realizzato intorno al tema della luce e del colore del Mediterraneo. Ritroviamo così le esplosioni cromatiche dei Fauves e le variazioni impressioniste di Monet. e a questo punto il discorso della mostra si allarga, andando indietro nel tempo, fino alle visionarie marine dei romantici Turner e di Friedrich. Invitando anche a rileggere il realismo di Courbet.
da left-avvenimenti 10 dicembre 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 1, 2010
Rappresentare l’invisibile, era l’obiettivo di Mark Rohtko. Cercava una pittura fatta di solo colore. Un’intuizione geniale che, però, si scontrava con la sua “fede” nel Surrealismo e il contro il credo razionale della psiconalisi.

di Simona Maggiorelli
«Quando attorno al 1950 mi trovai per la prima volta dinanzi alle immense tele-pareti di Rothko che l’artista, nello stanzone che gli serviva allora da studio, mi faceva passare davanti agli occhi servendosi di un gioco di carrucole rimasi molto più scosso da queste vaste e amorfe superfici di colore che dalle arruffate matasse di Pollock».
Così raccontava Gillo Dorfles in un suo noto saggio degli anni Settanta e ora rielaborato per la grande retrospettiva di Mark Rothko che si apre il 6 ottobre 2007 al Palaexpo di Roma. A colpire il critico Dorfles fu «la folgorazione dei colori che coprivano la vasta superficie con dei bagliori luminescenti che sfumavano dal giallo all’arancione al rosso e dove la stesura delle tinte all’olio creava una continuità senza confini». La scommessa di Rothko era grande: tentare di rappresentare l’invisibile, scegliendo il colore e la grande dimensione delle tele per l’ impatto emotivo inequivocabile, optando per forme piatte «perché distruggono l’illusione e rivelano la verità».
Forme piatte che però, come accade per le opere più interessanti di Rothko, quelle della fine degli anni Quaranta e che formano il nucleo centrale e forte della mostra romana, riescono ad avere una straordinaria profondità, sembrando come percorse da un movimento interno. Assimilata la ricerca del cubismo ma, soprattutto, colpito dal genio rivoluzionario di Picasso e di Matisse, Rothko esprimeva un rifiuto netto della mimesis. «l’artista moderno – scriveva – si è in varia misura distaccato dalle apparenze del mondo naturale… le nature morte di Braque stanno alla tradizione della natura morta e del paesaggio quanto le doppie immagini di Picasso stanno a quelle del ritratto. Nuovi tempi! Nuove idee! Nuovi metodi!». E lungo questa strada l’americano di origini russe Mark Rothko (il vero nome era Marcus Rothkowitz) si ribella alla tradizione accademica quanto alla freddezza geometrica dell’arte astratta. Artista ribelle, anticonformista, ma anche artista intellettuale che costruisce le sue opere con gesto pittorico meditato, attento, Rothko torna a mettere al centro dell’arte la dimensione umana – racconta Oliver Wick, curatore della antologica Mark Rothko (al Palazzo delle Esposizion di Roma fino al 6 gennaio 2008, catalogo Skira) proponendo una nuova immagine dell’uomo del Rinascimento «inteso come totalità».
Ma Rothko, che sostituisce la nozione di spazio pittorico con quella di “Breathingness” (respirabilità) propone anche un nuovo rapporto con lo spettatore, improntato all’“emozione”, all’“intimità”, a una “visione dinamica”, sottolinea Wick. E quando qualcuno gli parlava della calma armonia che avrebbero emanato le sue grandi opere colorate, rimaneva stupito, perché spiega Wick, lui cercava «il potenziale cinetico», cercava di portare allo zenit la forza racchiusa nel quadro, di rendere l’equilibrio precario che c’è nell’imminenza di un cambiamento dirompente.
«È la violenza l’humus dei miei quadri», rivendicava Rothko. La violenza «che precede il dramma». E il magico e potente equilibrio in divenire che si realizza in quella rapida serie di opere tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta presto si spezza. Lo dicono opere comeNero su marrone e le altre otto tele di grandi dimensioni e molto simili fra loro che compongono il ciclo Quattro stagioni, concepite per un ristorante di New York e poi donate alla Tate Gallery di Londra. Hanno bande verticali, come finestre cieche, violacee e scure. La tonalità luminosa sul fondo di colore uniforme comunica il senso di una visione evanescente che si va sfaldando. Le tele circondano da tutti e quattro i lati lo spettatore come chiudendolo in una scatola dall’aria ferma, stagnante. Qui e ancora di più nella serialità ripetitiva e cupa degli acrilici degli ultimi anni Rothko non riusciva più a realizzare quel «laboratorio di alchimista» del colore, per dirla con Butor, con cui riusciva a far comparire sulla tela “un’oasi” di luce viva. Adesso è l’elemento del tragico a prevalere e la pittura di Rothko perde di leggerezza, si fa opaca, pesantemente materica.
Come nel suo primo periodo surrealista, formalmente abbandonato nel’47 (ma di fatto mai del tutto superato e che la mostra al Palaexpo ha il merito di documentare) sembra emergere in Rothko un pensiero di matrice esistenzialista e l’idea (sono parole sue) di una «tragica inconciliabilità», di «una violenza di base che sta al fondo dell’esistenza umana». Un’idea di conflitto interiore, di scissione insanabile che aveva evocato già nel ’43, all’epoca di quadri e disegni che riprendevano fantasmagorie surrealiste o paesaggi mitologici «in cui uomo, uccello, bestia e albero si fondono convergendo in un’unica idea tragica». E viene da chiedersi quanto questa matrice surrealista che condiziona il rapporto con la dimensione non cosciente possa aver influito nella perdita di vitalità che segnò la ricerca artistica di Rothko negli ultimi trent’anni della sua vita. Come suggerisce anche questa ampia retrospettiva romana che raccoglie una settantina di opere, Rothko non si separò mai da quella matrice di pensiero: «Il surrealista- annotava nel ’45- ha svelato il vocabolario del mito e ha stabilito una corrispondenza tra le fantasmagorie dell’inconscio e gli oggetti della vita quotidiana. Questa corrispondenza costituisce l’esperienza euforicamente tragica da cui l’artista attinge il proprio materiale». Ma con un guizzo di intuizione aggiungeva: «Ho troppo a cuore sia l’oggetto che il sogno per vederli dissolversi nell’inconsistenza vaporosa del ricordo e dell’allucinazione». Poi, però, l’annuncio del proprio suicidio artistico:«Litigo con l’arte surrealista e astratta come si litiga con il padre e la madre: riconosco l’ineluttabilità e la funzione delle mie radici». Trenta anni dopo si uccise davvero.
Da left-Avvenimenti novembre 2007
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Posted by Simona Maggiorelli su marzo 7, 2010

kandinsky
Da Cézanne a Matisse a Kandinsky e oltre. Dai musei Guggenheim di New York e Venezia all’Arca di Vercelli, i maestri dell’astrazione
di Simona Maggiorelli
Alle origini della rivoluzione dell’arte astratta. Indagando la fertile sperimentazione che, a partire da Cézanne e attraverso la scomposizione cubista, portò la pittura ad affrancarsi definitivamente dalla raffigurazione piatta e meccanica della realtà. In nome di un modo di dipingere più fedele al “sentire” dell’artista, alla sua capacità di cogliere il latente, di creare immagini irrazionali, del tutto nuove.
Un’appassionante avventura dell’arte che, di fatto, attraversa più di due secoli di storia occidentale. E che l’Arca di Vercelli, fino al 30 maggio, propone di ripercorrere con la mostra Le avanguardie dell’astrazione.
Un evento (accompagnato da un denso catalogo Giunti) che porta nella città piemontese una parte significativa della collezione Salomon e Peggy Guggenheim conservata nei musei di New York e Venezia.
Così, “smessi” per un attimo le vesti di direttore del Macro di Roma, Luca Massimo Barbero torna per questa occasione al suo precedente ruolo di curatore Guggenheim facendosi Cicerone di un viaggio complesso quanto affascinante che si snoda attraverso una cinquantina di opere, perlopiù di grandi maestri: da Cézanne a Matisse, ricostruendo in modo particolare il ruolo che il pittore di Aix-en Provence ebbe nel superamento delle riproduzione mimetica della natura.
Da Braque a Delaunay, raccontando come la scomposizione geometrica del reale avviata dal cubismo secondo una molteplicità e simultaneità di punti di vista avesse aperto la pittura europea a un’idea di spazialità non più solo fisica ma interiore. E ancora, per citare alcune delle sezioni più interessanti, da Marc a Kandinsky sottolineando la novità di una ricerca pittorica come quella del Cavaliere azzurro che – per quanto intrisa di elementi spiritualisti e religiosi- portava in primo piano la potenza evocativa del colore ed esplorava la risonanza emotiva suscitata nello spettatore da composizioni dinamiche di colori, forme e linee in movimento.
Per arrivare poi, attraverso il puro geometrismo di Mondrian a Reinhardt, alla fase discendente di questa ricerca sull’arte astratta. Ovvero al ripiegamento delle avanguardie storiche che rimasero incagliate nei cascami del surrealismo. E dopo il ’68, nell’antiestetica di Dubuffet che con l’Art brut azzerò ogni ricerca creativa scambiando per arte dal valore universale manufatti “spontanei”, realizzati da persone senza una formazione specifica e talora da malati di mente. Da un curatore attento come Barbero, in finale, forse ci saremmo aspettati qualche considerazione critica in più su questo fenomeno, nato sotto l’influenza di Foucault e dell’antipsichiatria, e che ancora oggi con la sua ideologia antiautoritaria e, al fondo, nihilista continua a esercitare un peso negativo su ampie aree di ricerca contemporanea.
da left-Avvenimenti 5 marzo 2010
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 2, 2009
di Simona Maggiorelli

Gabriella Belli, direttore del Mart
Mentre la gran parte delle istituzioni culturali è in grande sofferenza per i massicci tagli ai finanziamenti pubblici decisi dal governo Berlusconi, la direttrice del Mart di Rovereto, Gabriella Belli, segnala un dato in controtendenza, del tutto inaspettato: «L’interesse per l’arte contemporanea nel nostro Paese è in crescita». E in veste di presidente dell’Amaci (la rete nata dal “basso” che riunisce ventisette spazi museali) spiega: «Dalla lettura dei dati dell’ultimo anno risulta che gli spazi del contemporaneo hanno tenuto bene alla crisi che ha colpito tutti i musei, non solo in Italia».
L’arte contemporanea in Italia è sempre stata la Cenerentola. Non lo è più?
Sta crescendo anche da noi un mondo dell’arte composto di artisti, pubblico di appassionati e moltissimi giovani. Ma, quest’anno, ha inciso anche la Biennale di Venezia che attrae sempre pubblico straniero.
Mettersi in rete, unire le forze in progetti come l’Amaci quanto conta?
Il progetto è nato per far circolare le conoscenze e il sapere che ognuno di noi ha maturato negli anni. Anche se la rete dell’Amaci riunisce realtà diverse: musei, fondazioni, realtà piccole e grandi nate in contesti territoriali lontani fra loro. Ma c’è un dato che ci unisce sul piano gestionale: il trenta per cento delle nostre risorse viene dal privato. E la fisionomia degli sponsor va maturando. Negli anni Novanta le banche o le imprese che investivano in questo settore non esprimevano competenze specifiche. Oggi i partner privati, senza interferire nelle scelte di direzione culturale, orientano il marketing. E sono spariti gli sponsor che investono per un vantaggio politico immediato.
Defiscalizzare le donazioni potrebbe essere d’incentivo agli investimenti?
Avere un vebti per cento in meno di Iva sulle spalle per un museo significa, per esempio, poter investire di più sulla collezione permanente. I maggiori musei in Europa e nel mondo aggiornano le collezioni. Da noi è raro. Invece è importante fare investimenti lungimiranti, non effimeri, anche se daranno risultati culturali solo sul lungo periodo. Il più importante investimento, comunque, riguarda la formazione. Se fin da bambini si è “esposti” a stimoli culturali, cresce l’esigenza di arte, di cinema, di musica. La maggioranza di quei giovani diventeranno, da grandi, visitatori attenti, partecipi.
Il Mart di Rovereto è un’eccellenza riconosciuta anche all’estero. Come si diventa un modello?
Il Mart ha una bella storia alle spalle. La nostra forza è stata la continuità nel lavoro e la coerenza del progetto culturale. Favorita anche dal fatto che, casualmente, non ci siano stati cambi di direzione.
Dopo il Puskin e l’Ermitage, il Gropius-Bau di Berlino ospita fino a gennaio la sua mostra I linguaggi del futurismo. Il Mart ormai esporta progetti?
Sì, ma richiede molto sacrificio. Esportare progetti culturali è un superlavoro che non produce risultati immediati e che richiede un team di lavoro davvero motivato. I miei collaboratori, per capirci, vanno a cento all’ora. Ma occorre anche il sostegno della politica, in senso alto. Le amministrazioni locali tentine ci sostengono, capiscono l’importante di istituzioni in crescita come la nostra la nostra. Ma Rovereto fa 30mila abitanti e tutta la regione 450mila. Il Mart non può vivere solo di pubblico locale, per quanto ci segua con grande attenzione.
Come si riesce allora ad attrarre pubblico da fuori regione e dall’estero?
Con progetti culturali organici, come accennavo. Il Mart si è costruito l’ identità su progetti trasversali dedicati ad arte e scienza, arte e teatro, arte e musica. E così via. Ma anche attraverso una forte politica di investimenti nella collezione permanente. Negli anni Ottanta non avevamo da prestare. Oggi tra depositi e collezioni contiamo su 13mila opere, fra cui molti capolavori.
Al Mart è conservato un nucleo importante di opere futuriste. E a Marinetti e compagni lei dedicò una grossa mostra a Parigi.
Come valuta gli eventi del centenario 2009?
La compresenza di molte mostre ne ha penalizzate alcune. Non si può fare una mostra sul Futurismo senza opere di Boccioni. Ma la sua produzione, come è noto, non fu amplissima (morì a 37 anni). Così, alcune esposizioni del centenario risultano acefale. Senza contare che le sue opere più interessanti erano in mostra a Parigi e Londra. Parlo di quelle conservate in America perché l’Italia degli anni Cinquanta, curiosamente, le rigettò. Detto questo, ho trovato l’operazione di ricostruzione storica fatta dal Pompidou piuttosto strana: se si selezionano opere fino al 1916 o il 1918, non si vede il senso complessivo del Futurismo, anche nelle sue derive. In più esporre opere cubiste di Braque e Picasso accanto a quelle futuriste segnala uno scarto innegabile. E non a vantaggio di Severini e sodali. La grande mostra del 1986 a palazzo Grassi aveva segnato un avanzamento negli studi: l’importanza del futurismo risiede nel suo sperimentare ad ampio raggio, fra arte, cinema, teatro, moda. Nella ricerca dell’opera totale. Mostre come quella di Parigi ci fanno tornare indietro.
LA GIORNATA NAZIONALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Leone d’oro alla Biennale di Venezia 2009, Tobias Rehberger il 3 ottobre, per la quinta giornata nazionale del contemporaneo organizzata dall’Amaci (Associazione musei d’arte contemporanea italiani), presenta il suo ultimo lavoro al MAXXI di Roma. All’esterno del museo progettato da Zaha Hadid e che sarà inaugurato ufficialmente nel 2010 l’artista tedesco ha realizzato un’installazione con giochi di luci che prosegue la ricerca sviluppata in videoinstallazioni concepite come stranianti riletture di capolavori del cinema, da Welles a Kubrick. L’intervento di Rehberger nella capitale si inserisce in un calendario fittissimo di mostre ed eventi che il 3 ottobre s’inaugurano in contemporanea. Dal Museon di Bolzano in giù. In Lombardia, per esempio, parte il progetto Twister che dissemina nuovi lavori di artisti come Loris Cecchini, Massimo Bartolini, Marzia Migliora e altri nell’hinterland milanse. A Firenze, invece, la notte tra il 2 e il 3 ottobre apre i battenti EX3, il nuovo Centro per l’Arte Contemporanea di Firenze che sarà inaugurato il 29 ottobre con la personale di Rosefeldt e Tweedy.
left-avvenimenti–
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Posted by Simona Maggiorelli su luglio 10, 2009
di Simona Maggiorelli
«Quanto “tempo” è passato tra un simbolo cicladico di fertilità e uno specchio di Anish Kapoor?» si domandava lo studioso Axel Vervoordt indagando con la mostra Artempo come lo scorrere del tempo – di generazione in generazione – agisca, formi e trasfiguri il modo di rappresentare.
Nel tempo tutto umano dell’arte, raccontava Vervoordt, con quella indimenticabile rassegna veneziana del 2007, generi e stili invecchiano, diventano desueti, superati, mentre grazie alla genialità di artisti capaci di inventare immagini nuove la storia dell’arte, nei secoli, si rinnova e cambia direzione.
Basta pensare alla rivoluzione del colore di Vincent Van Gogh che, d’un tratto, rivelò l’anemia della maniera impressionista. O alla rivoluzione cubista di Picasso e Braque che mandò definitivamente in cantina un modo di dipingere che valorizzava la perizia nel riprodurre la realtà in tutti i suoi dettagli. E se Picasso sosteneva che la parola evoluzione in arte non ha nessun senso («Per me non c’è passato o futuro in arte» nella rivista The Arts 1923), è pur vero che il descrittivismo analitico “alla fiamminga” tramontò del tutto quando le avanguardie storiche aprirono la ricerca a immagini “irrazionali”, inattese, capaci di esprimere significati latenti.
E proprio questo streben verso l’ancora sconosciuto, questa tensione verso una spazialità nuova e sconfinata che ha attratto gli artisti nei secoli, è il tema che Vervoodt esplora in questa nuova tappa della sua indagine sui rapporti fra arte e tempo. Un tema sfaccettato difficile, alto, che rischia di cadere nell’astratto, ma che il critico belga affronta per interessanti suggestioni, in modo rapsodico, nella mostra In-finitum senza imporre una tesi. Lungo i quattro piani di palazzo Fortuny, a Venezia, oltre trecento opere, distribuite per sezioni.
Contro le pareti arse dal salmastro e nella penombra di sale e corridoi, opere che vanno da antichi reperti archeologi egizi alle ultime frontiere della videoarte, passando per opere di Canova, Delacroix, Rodin, Cézanne, Picasso, Rothko, Fontana e molti altri maestri.
Fra i temi indagati, la prospettiva rinascimentale letta come inizio di una spazialità nuova, il “non finito” con cui artisti come Michelangelo esprimevano la tensione verso una forma nuova. Ma anche il cosmo e il nuovo cronotopo scientifico di Einstein e l’influenza che ha avuto sull’arte del Novecento. Senza dimenticare il naufragio misticheggiante a cui andò incontro l’action painting indagando un’idea di spazio tempo derivata dallo zen alla” luce” di atemporali, quanto sinistre, mitologie junghiane che pretendevano di condannare ognuno a un primitismo violento e ancestrale, soccombente o in camicia bruna.
dal settimnale lefl avvenimenti 10 luglio 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su luglio 9, 2009
Nella mostra Picasso – Cézanne il dialogo a distanza di due artisti, protagonisti della svolta culturale che avvenne nel passaggio dall’Ottocento al Novecento
di Simona Maggiorelli

Cézanne Bagnanti
«Il rapporto di Picasso con Cézanne è un dialogo infinito, cominciato molto presto e proseguito fino alla morte dell’artista spagnolo», racconta Bruno Ely, direttore del musée Granet di Aix-en Provence dove, fino al 27 settembre, è aperta una rassegna dedicata ai due maestri. «Un dialogo che Picasso, di 42 anni più giovane, aveva cominciato in gioventù durante il primo periodo espressionista e poi aveva continuato in quello rosa. Per arrivare poi alla svolta cubista e alle Demoiselles d’Avignon, un’opera che non sarebbe mai esistita senza le Grandi bagnanti di Cézanne». Per non dire, prosegue Ely, del Picasso collezionista (a cui la mostra dedica una sezione). «Picasso aveva acquistato tre opere importanti come Vista dall’Estaque, Le bagnanti e Château noir, fra le più belle a mio avviso del maestro di Aix. Alla fine degli anni Cinquanta, poi, con la sua compagna Jacqueline decise di trasferirsi nel castello di Vauvenargues. Scherzando diceva di essersi comprato la montagna Sainte Victoire in originale».
Strano personaggio Picasso. Lui che rivendicava di non avere padri in arte, diceva che Cézanne era stato «il suo unico e solo maestro», ammettendo di aver passato anni a studiare i suoi quadri, diventandone uno dei massimi conoscitori (così nei dialoghi con Brassaï). Temperamento e carattere diversissimo dal suo, Picasso riconosceva al pittore di Aix una ricerca che nessuno aveva mai fatto, una rivoluzione delle forme, che inaugurava una nuova strada nell’arte, fuori dalla mimesi della natura, aprendo la rigida gabbia razionale della prospettiva rinascimentale a una diversa profondità e a una pluralità di punti di vista.
Nel suo appartato studio di Aix-en Provence, Cézanne aveva dedicato tutto se stesso a questa ricerca di un diverso modo di rappresentare la realtà, per come appariva all’artista. «Lavorava solo, senza allievi, senza ammirazione da parte della sua famiglia, senza l’incoraggiamento di giurie», annotava il filosofo Maurice Merleau-Ponty ne Il dubbio di Cézanne (in Senso e non senso, Il Saggiatore). E non mancarono gli attacchi feroci: pittura da «bottinaio ubriaco» scriveva nel 1905 un critico francese, mentre l’“amico” Zola parlava di lui come di «un genio abortito». Invecchiando, lo stesso Cézanne cominciò a pensare che la novità della sua pittura potesse essere dovuta solo a un «disordine della vista».
Nella lunga e variata sequenza di quadri che Cézanne dedicò alla Saint Victoire che svetta su Aix en Provence, invece, andò ben oltre il lavoro degli impressionisti che cercavano il vedere istantaneo, il flash, la piattezza dell’istante. Ma ancor più chiaramente si mosse nella direzione opposta a quella intrapresa da Monet che arriverà a dissolvere ogni forma nel colore. Inconsapevolmente (come ha notato per primo Merleau-Ponty) Cézanne arrivò a rappresentare sulla tela il primo formarsi della visione come immagine indefinita che emerge dal progressivo aggregarsi di macchie di colore. è lo stesso processo della visione quello che Cézanne cerca di rappresentare. In questo modo introducendo nel quadro la durata, un tempo interiore specificamente umano.
Dopo di lui la pittura non avrebbe più potuto essere mera, accademica, registrazione del dato oggettivo o trascrizione di un ricordo cosciente. L’arte, per essere davvero tale, doveva essere creazione di immagine, a partire da una propria, personalissima, elaborazione dei rapporti con gli altri, a partire da un vissuto interiore. Picasso, forse più di ogni altro artista delle avanguardie storiche, intuì l’importanza di questa svolta. «Ciò che lo avvicinava particolarmente a Cézanne – nota ancora Bruno Ely – è che entrambi avevano trovato una propria visione in maniera antidogmatica, senza dipingere opere a tesi». E se su questa strada di “apertura all’irrazionale” anche Van Gogh e Matisse (seppur su piani diversi) avevano fatto un proprio originale percorso, a mettere in particolare sintonia Picasso con Cézanne fu il fatto che il maestro di Aix aveva realizzato la sua rivoluzionaria svolta attraverso una ricerca sulle forme più che sul colore.Detto altrimenti, anche se sommariamente, ad attrarre l’attenzione di Picasso sulle potenti nature morte di Cézanne fu il modo in cui lui trattava la forma-colore. Nei suoi quadri pesche e oggetti acquistano una straordinaria solidità e forza volumetrica, mentre la prospettiva ortogonale lascia il posto a un complesso intersecarsi di piani che si aprono e si chiudono in profondità.
Ma ancor più Picasso amava certi suoi ritratti in cui la figura di madame Cézanne, quella del figlio, oppure l’immagine apparentemente comune di due giocatori a carte appaiono sottilmente deformate, sfuggenti a una logica di proporzioni e misure, acquistando così un’espressività e un significato più allusivo e complesso. Picasso ne era rimasto colpito quando vide la retrospettiva che il Salon d’Automne dedicò a Cézanne nel 1907, a un anno dalla sua morte. Ma già nei primissimi del Novecento, appena arrivato a Parigi dalla Spagna, Picasso aveva cominciato a riflettere e a lavorare su quanto Cézanne aveva dipinto, ma anche annotato a latere nei quaderni: affermazioni come «la natura è all’interno» trovavano una particolare risonanza in Picasso che tentava di passare dalla deformazione onirica tipica delle inquiete figure del periodo blu alla violenta scomposizione cubista. Una scomposizione della figura che lasciava intravedere un’immagine fin lì invisibile. Linee spezzate e vertiginose che in opere come Les demoiselles del 1907 fanno emergere il contenuto e il movimento vitale di una forma latente.
In primo piano potenti immagini di donna costruite con triangoli e losanghe e che richiamano alla mente il celebre passo di una lettera di Cézanne in cui scriveva che, per trovare una nuova volumetria in pittura, bisogna «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono». Passo di cui Braque e compagni fecero una sorta di manifesto cubista. Anche per questo sarebbe stato interessante poter vedere al musée Granet – nel dialogo che si squaderna in una cinquantina di opere dei due maestri – anche un confronto fra questo capolavoro di Picasso conservato a New York e le Les grandes baigneuses di Cézanne di Londra e di Philadelphia. Ma le complicate politiche dei prestiti internazionali non l’hanno consentito. In compenso in questa mostra di Aix si può confrontare dal vivo un primo piano di madame Cézanne e un possente ritratto cubista di Fernande Olivier. Si “toccano con mano” i debiti cézanniani del cubismo analitico nel Ritratto di Ambroise Vollard di Picasso appeso accanto a quello che gli fece il pittore francese. Ma soprattutto si può capire qualcosa di più di un quadro enigmatico come Il ragazzo che conduce un cavallo (1905-6), opera dalla lunga gestazione ed evoluzione. All’epoca, con il nudo, una tavolozza quasi monocroma e il richiamo all’essenzialità dell’antico, Picasso cercava una via di uscita dalla teatralità e dall’aneddotica del periodo rosa. Qui si realizza pienamente che la trovò non solo nel rapporto con l’arte fenicia esposta al Louvre, ma anche e soprattutto nel rapporto con il Grande bagnante (1885) di Cézanne.
da left-Avvenimenti 26 giugno 2009
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 25, 2003
di Simona Maggiorelli

Cèzenne a Treviso
TREVISO. La forza viva e abbagliante della luce del Midi, un viaggio mozzafiato alla scoperta del colore. Centoventi dipinti: molti capolavori assoluti di Van Gogh, Cézanne, Monet, Matisse, insieme a quadri impressionisti, Fauve, Nabis, provenienti da collezioni private e da musei sparsi per il mondo, rari da vedere. Artisti di diverso talento, con poetiche radicalmente divergenti, ma tutti ugualmente soggiogati dalla potenza del blu del Mar Mediterraneo, dal demone meridiano del sud, dai colori caldi delle terre di Provenza. Nella mostra L’oro e lazzurro, aperta fino al 7 marzo a Casa dei Carraresi, il prolifico Marco Goldin è riuscito a rendere tangibile quel certo cronotopo storico artistico che si forma all’incrocio fra l’ascissa geografica che da Marsiglia corre verso la Liguria e l’ordinata temporale che dalla seconda metà dellOttocento si incunea in un Novecento inoltrato. E lì, in quel lembo di terra, in quel radioso spazio- tempo, che alcuni dei più grandi pittori dei secoli scorsi ebbero una decisiva svolta creativa, facendo le loro realizzazioni più importanti. Van Gogh si trasferì ad Arles nel 1888, in due anni portò all’apice la sua opera di artista. Il suo sogno sarebbe stato creare con Gauguin una scuola del mezzogiorno,ma dopo le sue prime crisi, l’amico e sodale si tira indietro. Per Van Gogh sarà una ferita profondissima. Venuto dalle nebbie del nord, il pittore olandese non trovò in Provenza quel sole anche interiore che si aspettava. Un inverno molto freddo e rigido, molta neve anche suoi propri affetti. A primavera di quello stesso anno nella sua pittura restano solo rami di mandorlo in fiore dentro un vasetto dacqua, diafane visioni di germogli di albicocchi.

Braque
Quadri che visti in sequenza a Treviso trasmettono il senso di un’infinità fragilità . Ma segnalano anche una tenue apertura, sono il preludio dell’ultimo furoreggiare di gialli accesi, di campi di grano incendiati di colore , di ulivi attorti di riflessi blu e viola. Provenienti da Kansas City e da collezioni private, forse più dei coevi Lillà, questi nodosi ulivi in mostra aTreviso raccontano la vitalità febbrile, la potenza della rivolta artistica di Van Gogh, ultimo sprazzo in pennellate dense, materiche e serrate, prima del congedo, annunciato in quella famosa camera di Arles, ordinata, colorata ma sinistramente vuota, che Goldin, con colpo di teatro, incornicia in una stanza buia alla fine del percorso. Quel semplice letto rifatto, eppure così drammatico, è uno dei più forti nodi di articolazione della mostra trevigiana. Insieme alla sala Cézanne in cui si squadernano, dirimpettaie, sei differenti versioni della montagna Sainte Victoire, dal 1882 agli ultimi anni di vita: visioni via via sempre più ardite, più scomposte, quasi pre cubiste, virate a una tavolozza scura e intensa, che, superando ogni piatta mimesis, si propongono sempre più come originali e potenti immagini interiori dellartista. Tutta la prima parte della mostra fra cronologicamente ordinate riproposte del paesaggismo di Guigou, del marsigliese Monticelli, ma anche di Courbet- primi accenni di lotta contro laccademismo – precipita inequivocabilmente verso questo punto di attrazione. In questo percorso, primo segnale di un deciso oltrepassamento del descrittivismo iperazionale di ciò che si para davanti agli occhi del pittore, un rarissimo quadro di Cézanne del 1866, Strada in Provenza, dal Museo di Montreal e poi su su una ventina di eccezionali tele, dall Estaque, veduta del golfo di Marsiglia del 1878 proveniente dal Musée dOrsay di Parigi, fino alle ultime opere in cui il pittore di Aix-en Provence, per dirla con le parole di Merlau Ponty, riusciva sempre più a rendere linvisibile sotteso al visibile, il latente, la creazione autonoma dell’artista a partire dal percepito.
Appare chiaro a questo punto che L’oro e lazzurro, ultimo capitolo di una trilogia di mostre che Goldin ha concepito con Treviso è solo all’apparenza una ricognizione sull’impressionismo. Si, certo, ci sono i molti Renoir che, incantato dalla bellezza della Provenza dopo un viaggio di studio con Monet, vi tornerà nel 1888 per stabilirsi definitivamente alle Collettes . Ci sono le smagliate, vaporose vedute di Bordighera e di Antibes per le quali Monet invocava una tavolozza di diamanti e pietre preziose. Ci sono i molti Seraut e Signac nel tentativo di fondere, a furia di puntini, lautenticità della sensazione con la nuova scienza della percezione . Ma più sottilmente la mostra sembra proporre una ricerca su quella speciale rivoluzione che Van Gogh e Cézanne portarono nella pittura, su quel particolare, delicato, passaggio che i due artisti ancora in epoca di imperante positivismo riuscirono a compiere, e a prezzo di isolamento e incomprensione ( tornano in mente i tanti rifiuti ricevuti da Van Gogh e le sferzanti dichiarazioni di Zola che definì l’amico Cézanne, pittore fallito, genio abortito) verso un modo di rappresentare che attraverso forzature prospettiche, attraverso uno spregiudicato uso del colore per dare evidenza e solidità agli oggetti, riusciva a rendere la profondità di una visione interiore sgombrando il campo da ogni convenzionalità.
Aiutano a rintracciare questo sottotesto della mostra trevigiana anche le frasi dartista, le dichiarazioni di poetica, brani di lettere che Goldin ha scelto da appuntare sui muri. Dare limmagine di ciò che vediamo- scriveva con molta limpidezza Cézanne- dimenticando tutto ciò che in precedenza ci era apparso davanti agli occhi . L’obiettivo è arrivare a una propria visione, grande o piccola che sia. Ognuno ha la propria.Solo così lartista può arrivare ad esprimere tutta la sua personalità.

Cézanne L'estaque
Una generazione dopo, da percorsi diversi, ma sulla stessa scia di scoperta di una pittura di colori e figure deformate che attingono potentemente a una fantasia inconscia ( come ricreazione e trasformazione del percepito, senza essere la meccanica riproposizione di sogni) Henri Matisse si cimenta in appassionanti e leggere visioni di presenze femminili in interni rossi. Come la figura indefinita, senza i connotati lucidamente definiti di un volto che campeggia davanti a un rialzato, azzurrissimo, mare nel dipinto La donna seduta davanti alla finestra aperta del 1922 , prestito del Musée des Beaux Arts di Montreal o le molteplici, mosse, presenze femminili del Carnevale di Nizza del 21, proveniente da Berna. Addentrandosi nel Novecento, la mostra riserva ancora belle sorprese con una serie di ricche ricerche decostruttive di Braque,le brillanti vedute del porto dell’Esatque del 1906 e le “Fabbriche del Rio tinto” dell’anno successivo. Ma ,nel percorso che attraverso i colori incandescenti dei Fauve, porta al rassicurante finale dedicato al Novecento di Pierre Bonnard e alle visioni scrigno dei Nabis ( due sale di interni borghesi pieni di preziosismi e piuttosto decorativi), si resta ancora per un attimo attratti dai paesaggi dipinti da Edvard Munch a Nizza tra 1891 e 1892, opere poco sconosciute, in cui sotto la scorza della brillante tavolozza, nella ripetizione di griglie architettoniche razionali e ossessive, in paesaggi gremiti di figure, ma ugualmente chiusi in uno stranissimo vuoto pneumatico pare di rintracciare i prodromi de “L’urlo” e della crisi psichica a cui Munch andò , di lì a poco, tragicamente incontro.
dal quotidiano Europa 24 ottobre 2003
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