Posted by Simona Maggiorelli su luglio 18, 2013

Uruk, tavoletta con scrittura cuneiforme IV secolo a.C
L’antichissima città di Uruk (da cui deriva il nome dell’Iraq), dove circa 5mila anni fa prese vita il primo sistema di scrittura, è al centro di una importante mostra al Pergamonmuseum di Berlino. Fino all’8 settembre, con il titolo Uruk- 5000 Years of the Megacity vengono presentati al pubblico i risultati delle campagne di scavi archeologici della German oriental society e del German archeological institute (Gai) iniziate prima dell’invasione statunitense in Iraq nel 2003.
In questo percorso espositivo sono riuniti per la prima volta reperti conservati in varie collezioni tedesche. Con l’aggiunta di prestiti provenienti da collezioni archeologiche inglesi, francesi e svizzere. Parliamo dunque di una mostra di grande rilevanza che si propone di far conoscere al pubblico i risultati scientifici ottenuti negli ultimi dieci anni di ricerche, proponendo altresì un viaggio a ritroso nei due secoli di avventure archeologiche che hanno riguardato questo sito fondamentale per lo studio della Mesopotamia e del Vicino Oriente. La vicenda archeologica di Uruk – come ricorda anche l’agile volume monografico Uruk la prima città (Laterza) di Mario Liverani – comincia nel XIX secolo grazie all’impresa dell’esploratore inglese William Kennett Loftus, ma il vero inizio degli studi si ebbe nel 1912 proprio grazie al lavoro di un team di archeologi tedeschi. «Sebbene siano passati più di cento anni da allora, però il lavoro da fare è ancora enorme», dice Markus Hilgert, presidente della German oriental society e docente all’università di Heidelberg.
«Ad oggi solo il 5,5 per cento del sito archeologico è stato veramente esplorato», precisa l’archeologa Margarete van Ess. «Nonostante questo – dichiara la direttrice scientifica del Gai – le nostre acquisizioni recenti permettono di aggiungere particolari molto importanti per ricostruire la genesi della città e di quello che fu probabilmente il sistema più antico di scrittura, non solo in Mesopotamia». I risultati degli scavi permettono di mettere a fuoco il quadro di una città che aveva un sofisticato sistema politico e amministrativo. Dall’inizio del III millennio a.C. Uruk contava ben 40mila abitanti. E fin dal 3200 a.C. (circa) qui apparve un sistema di scrittura cuneiforme. A Uruk sono state ritrovate 5mila tavolette di argilla con questo tipo di scrittura. E quasi l’80 per cento di esse contiene liste di parole riguardanti l’amministrazione pubblica. Secondo l’archeologo Hans Nissen dell’università di Berlino «non fu la religione a determinare la nascita della scrittura. Ma furono le necessità economiche poste dalla società del IV millennio a.C.». I testi religiosi e storici compariranno alcuni secoli più tardi nel corso del III millennio, a opera di Sumeri e Accadi, come si può leggere ne Il vicino Oriente antico, dalle origini ad Alessandro Magno, un volume di 450 pagine più apparati multimediali curato da Lucio Milano, docente di Storia del Vicino Oriente antico all’università Ca’ Foscari. In questo libro edito da EncycloMedia i contributi di Gian Maria Di Nocera e di Massimo Maiocchi permettono di ripercorrere la storia di Uruk, che conobbe un rapido processo di urbanizzazione dalla prima metà del IV millennio, ma anche la straordinaria fioritura culturale che questa città sud-mesopotamica conobbe nel corso di un intero millennio egemonizzando l’intorno anche dal punto di vista degli stili architettonici, con i suoi templi bianco, rosso e grigio alla sommità della collina, terrazzamenti e ampie zone residenziali. (Simona Maggiorelli)
dal settimanale left-Avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 2, 2009
di Simona Maggiorelli

Gabriella Belli, direttore del Mart
Mentre la gran parte delle istituzioni culturali è in grande sofferenza per i massicci tagli ai finanziamenti pubblici decisi dal governo Berlusconi, la direttrice del Mart di Rovereto, Gabriella Belli, segnala un dato in controtendenza, del tutto inaspettato: «L’interesse per l’arte contemporanea nel nostro Paese è in crescita». E in veste di presidente dell’Amaci (la rete nata dal “basso” che riunisce ventisette spazi museali) spiega: «Dalla lettura dei dati dell’ultimo anno risulta che gli spazi del contemporaneo hanno tenuto bene alla crisi che ha colpito tutti i musei, non solo in Italia».
L’arte contemporanea in Italia è sempre stata la Cenerentola. Non lo è più?
Sta crescendo anche da noi un mondo dell’arte composto di artisti, pubblico di appassionati e moltissimi giovani. Ma, quest’anno, ha inciso anche la Biennale di Venezia che attrae sempre pubblico straniero.
Mettersi in rete, unire le forze in progetti come l’Amaci quanto conta?
Il progetto è nato per far circolare le conoscenze e il sapere che ognuno di noi ha maturato negli anni. Anche se la rete dell’Amaci riunisce realtà diverse: musei, fondazioni, realtà piccole e grandi nate in contesti territoriali lontani fra loro. Ma c’è un dato che ci unisce sul piano gestionale: il trenta per cento delle nostre risorse viene dal privato. E la fisionomia degli sponsor va maturando. Negli anni Novanta le banche o le imprese che investivano in questo settore non esprimevano competenze specifiche. Oggi i partner privati, senza interferire nelle scelte di direzione culturale, orientano il marketing. E sono spariti gli sponsor che investono per un vantaggio politico immediato.
Defiscalizzare le donazioni potrebbe essere d’incentivo agli investimenti?
Avere un vebti per cento in meno di Iva sulle spalle per un museo significa, per esempio, poter investire di più sulla collezione permanente. I maggiori musei in Europa e nel mondo aggiornano le collezioni. Da noi è raro. Invece è importante fare investimenti lungimiranti, non effimeri, anche se daranno risultati culturali solo sul lungo periodo. Il più importante investimento, comunque, riguarda la formazione. Se fin da bambini si è “esposti” a stimoli culturali, cresce l’esigenza di arte, di cinema, di musica. La maggioranza di quei giovani diventeranno, da grandi, visitatori attenti, partecipi.
Il Mart di Rovereto è un’eccellenza riconosciuta anche all’estero. Come si diventa un modello?
Il Mart ha una bella storia alle spalle. La nostra forza è stata la continuità nel lavoro e la coerenza del progetto culturale. Favorita anche dal fatto che, casualmente, non ci siano stati cambi di direzione.
Dopo il Puskin e l’Ermitage, il Gropius-Bau di Berlino ospita fino a gennaio la sua mostra I linguaggi del futurismo. Il Mart ormai esporta progetti?
Sì, ma richiede molto sacrificio. Esportare progetti culturali è un superlavoro che non produce risultati immediati e che richiede un team di lavoro davvero motivato. I miei collaboratori, per capirci, vanno a cento all’ora. Ma occorre anche il sostegno della politica, in senso alto. Le amministrazioni locali tentine ci sostengono, capiscono l’importante di istituzioni in crescita come la nostra la nostra. Ma Rovereto fa 30mila abitanti e tutta la regione 450mila. Il Mart non può vivere solo di pubblico locale, per quanto ci segua con grande attenzione.
Come si riesce allora ad attrarre pubblico da fuori regione e dall’estero?
Con progetti culturali organici, come accennavo. Il Mart si è costruito l’ identità su progetti trasversali dedicati ad arte e scienza, arte e teatro, arte e musica. E così via. Ma anche attraverso una forte politica di investimenti nella collezione permanente. Negli anni Ottanta non avevamo da prestare. Oggi tra depositi e collezioni contiamo su 13mila opere, fra cui molti capolavori.
Al Mart è conservato un nucleo importante di opere futuriste. E a Marinetti e compagni lei dedicò una grossa mostra a Parigi.
Come valuta gli eventi del centenario 2009?
La compresenza di molte mostre ne ha penalizzate alcune. Non si può fare una mostra sul Futurismo senza opere di Boccioni. Ma la sua produzione, come è noto, non fu amplissima (morì a 37 anni). Così, alcune esposizioni del centenario risultano acefale. Senza contare che le sue opere più interessanti erano in mostra a Parigi e Londra. Parlo di quelle conservate in America perché l’Italia degli anni Cinquanta, curiosamente, le rigettò. Detto questo, ho trovato l’operazione di ricostruzione storica fatta dal Pompidou piuttosto strana: se si selezionano opere fino al 1916 o il 1918, non si vede il senso complessivo del Futurismo, anche nelle sue derive. In più esporre opere cubiste di Braque e Picasso accanto a quelle futuriste segnala uno scarto innegabile. E non a vantaggio di Severini e sodali. La grande mostra del 1986 a palazzo Grassi aveva segnato un avanzamento negli studi: l’importanza del futurismo risiede nel suo sperimentare ad ampio raggio, fra arte, cinema, teatro, moda. Nella ricerca dell’opera totale. Mostre come quella di Parigi ci fanno tornare indietro.
LA GIORNATA NAZIONALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Leone d’oro alla Biennale di Venezia 2009, Tobias Rehberger il 3 ottobre, per la quinta giornata nazionale del contemporaneo organizzata dall’Amaci (Associazione musei d’arte contemporanea italiani), presenta il suo ultimo lavoro al MAXXI di Roma. All’esterno del museo progettato da Zaha Hadid e che sarà inaugurato ufficialmente nel 2010 l’artista tedesco ha realizzato un’installazione con giochi di luci che prosegue la ricerca sviluppata in videoinstallazioni concepite come stranianti riletture di capolavori del cinema, da Welles a Kubrick. L’intervento di Rehberger nella capitale si inserisce in un calendario fittissimo di mostre ed eventi che il 3 ottobre s’inaugurano in contemporanea. Dal Museon di Bolzano in giù. In Lombardia, per esempio, parte il progetto Twister che dissemina nuovi lavori di artisti come Loris Cecchini, Massimo Bartolini, Marzia Migliora e altri nell’hinterland milanse. A Firenze, invece, la notte tra il 2 e il 3 ottobre apre i battenti EX3, il nuovo Centro per l’Arte Contemporanea di Firenze che sarà inaugurato il 29 ottobre con la personale di Rosefeldt e Tweedy.
left-avvenimenti–
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