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Lo sguardo di Wim Wenders

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 10, 2013

Foto di Wim Wenders (Electa)

Foto di Wim Wenders (Electa)

L’orizzonte sconfinato di Paris Texas, fra il deserto e qualche desolato Motel che evoca i vuoti paesaggi esistenziali dipinti da Edward Hopper.

E poi lo sguardo ipertecnologico che fa impazzire i protagonisti di Fino alla fine del mondo catturandoli in un mondo virtuale, facendoli precipitare in un’altra dimensione, all’apparenza più vera del vero. Oppure, su un versante completamente diverso, pensiamo allo scabro sguardo in bianco e nero, denso di presagi, che si posa su tetti berlinesi trasfigurandoli in un mondo abitato da angeli (Il cielo sopra Berlino).

La macchina da presa di Wenders non si limita a filmare l’oggettività delle cose ma crea immagini e paesaggi a partire dalla realtà. Nel cinema di Wim Wenders, fin dai suoi esordi, s’incontrano e si fondono più linguaggi, dalla videoarte, all’architettura, dalla pittura alla fotografia. Ora un libro dell’architetto e scrittore Carlo Truppi, Vedere i luoghi dell’anima con Wim Wenders (Electa), ne analizza gli intrecci e le inedite alchimie. Confrontando le riflessioni e le memorie dello stesso Wenders con i risultati di una ventina di fotografie realizzate dal cineasta tedesco a margine dei suoi più importanti film: scatti che colpiscono soprattutto per il loro spiccato carattere pittorico, al punto da sembrare veri e propri quadri. Con un appeal di spaesante iperrealismo scorrono davanti ai nostri occhi spazi extraurbani, “terre di nessuno”, come vecchie pompe di benzina in lande californiane semi desertiche oppure scorci metropolitani come i palazzi specchianti di Houston in Texas, cartelloni pubblicitari su muri che si ergono all’improvviso davanti allo spettatore, luccicanti lamiere d’auto in vertiginosi incroci stradali…

Wim Wenders in uno scatto di Donata Wenders

Wim Wenders in uno scatto di Donata Wenders

Ogni scatto crea un ambiente, un luogo da attraversare emotivamente, un mondo a parte, uno speciale paesaggio interiore. Chi guarda viene attratto in un inedito “cronotopo”, in un originale spazio-tempo, che più che uno spazio fisico è una dimensione mentale, un umore, un modo di sentire. I luoghi ricreati da Wenders con l’obiettivo della macchina fotografica o attraverso l’inquadratura della telecamera contagiano lo spettatore, così come i soggetti rappresentati. Come se ogni spazio urbano, ogni quartiere, ogni forma architettonica formasse una speciale stimmung o una sorta di genius loci che contagia abitanti e viaggiatori di passaggio.

Nelle sue opere, cinematografiche o fotografiche, Wenders rende visibile questo “invisibile”. I luoghi, anche quelli più anonimi o devastati, appaiono decontestualizzati e risemantizzati. Con maestria Wenders esplora quelle affinità fra architettura e cinema di cui aveva parlato, fra i primi, Ejzenstein. Che non a caso, prima di darsi al teatro e al cinema, aveva studiato architettura, come ci ricorda Antonio Somaini in un saggio contenuto nel denso volume a più mani Architettura del Novecento (Einaudi, 2012).

E se per Ejzenstein il cinema era «sintesi e memoria delle arti», per Wenders è in primis spazio pittorico, immagine bidimensionale in cui è visibile un disegno, ma anche spazio tridimensionale, con una sua costruzione architettonica, in cui la luce modella e scolpisce le forme, mente i diversi tipi di inquadratura, la relazione fra campo e fuoricampo e il montaggio contribuiscono a dinamizzare le sequenze di immagini.

( Simona Maggiorelli)

dal settimanale left

 

Corriere della Sera 8.3.13
Wenders: «Lasciava le attrici libere di essere se stesse. Era l’unico»
«Blow up, per me esordiente, fu un faro. Un vero inno rock»

Al di là delle nuvolePochi registi hanno conosciuto Michelangelo Antonioni ( a cui Ferrara dedica una mostra dal 10 marzo in Palazzo Diamanti) da vicino come Wim Wenders. Insieme hanno realizzato Al di là delle nuvole nel 1995. Una volta Wenders ha detto che Antonioni è stato uno dei primi cineasti moderni, e uno dei primi a lavorare come un pittore. Gli chiediamo di spiegarci questa intuizione.«Antonioni aveva la mente analitica di un architetto; era uno scrittore, un pittore, e sapeva far confluire tutto questo nei film. All’epoca era una novità: di solito i registi venivano dal teatro, dalla fotografia e dalla narrativa. Inoltre, in un mezzo così monopolizzato dagli uomini, aveva il grande dono di vedere le donne e lasciare che fossero più “se stesse” di quanto era successo finora nella storia del cinema. Non dico che le capisse meglio di altri: di certo dava loro una libertà diversa di fronte alla macchina da presa. La sua modernità nasce da tutte queste cose».Che cosa la affascina nelle sue immagini?
«Le sue inquadrature erano più rigorose e controllate di quelle di chiunque altro. Fu il primo a sapere esattamente come utilizzare il CinemaScope. Altri, come Godard, si limitavano a giocarci. C’era stato Fuller, che lo usava con grande efficacia, e il western. Ma un conto è il paesaggio americano e un conto il nostro mondo, le nostre città. E in ciò Michelangelo è stato unico. Tutte le sue inquadrature erano necessarie ed evidenti. Erano un linguaggio, non solo uno strumento».
A quali suoi film è più legato?
«Ho imparato molto da “Blow-up”, che vidi proprio quando iniziavo a studiare cinema. Che film cool, sexy e intelligente! Non potevo credere che ci fossero Jeff Beck e gli Yardbirds che suonavano e spaccavano le chitarre. Un inno al rock’n’roll! Fu travolgente. Ovviamente amo molto “L’avventura”. E poi “Il grido”, “Professione reporter”, l’inquietante “Zabriskie Point”. Ogni volta si vede un regista che racconta una storia ma non ha la ricetta già pronta, e la inventa dalla base».
Anche all’estero si è parlato di «incomunicabilità»?
«È stato il termine-chiave nella ricezione dei suoi film ovunque, forse per mancanza di fantasia da parte dei critici. In ogni caso nella modernità postbellica ci fu un collasso comunicativo, di cui Antonioni fu probabilmente il primo acuto osservatore».
Quando lo conobbe di persona?
«Quando presentò “Identificazione di una donna” a Cannes, nel 1982. Così gentile, modesto e misurato: il contrario di quello che mi aspettavo. Apparì nel mio corto “Room 666”, dove fu molto acuto ed eloquente. Quando seppi dell’ictus, fu molto doloroso. Per anni cercai senza successo di aiutarlo a realizzare “Due telegrammi”, una sceneggiatura che aveva scritto prima dell’ictus. Poi fui contattato dal produttore Stéphane Tchalgadjieff, che mi chiedeva se ero disposto a fare da stand-by director, per motivi di assicurazione, durante le riprese di “Al di là delle nuvole”. Inoltre avrei scritto (con il grande Tonino Guerra) e diretto una storia-cornice attorno alle quattro “storie d’amore impossibile” tratte da “Quel bowling sul Tevere”. Accettai, non appena seppi che era stata un’idea di Michelangelo. Il progetto prese un anno della mia vita, ma fu un periodo memorabile».
Ci racconti della lavorazione di «Al di là delle nuvole».
«Ero sul set dal mattino alla sera, tutti i giorni. Cercavo di aiutare come potevo, “traducendo” i suoi desideri alla troupe. Non era sempre facile, a volte dovevo indovinare. Deve averlo fatto impazzire il fatto che non sempre capivamo che cosa avesse in testa. A volte si metteva un dito sulla fronte, per dire “Siete tutti matti”, e scoppiavamo a ridere. Il fatto che non potesse parlare non gli impedì di fare esattamente il film che voleva».
Come lavorava con gli attori?
«Il rapporto che aveva con le attrici per me rimane un po’ un mistero. Era molto speciale e diverso da quello con tutti gli altri. Ovviamente l’impossibilità di parlare qui diventava nodale e dolorosa. Ma Michelangelo aveva un modo di osservarle, e di accompagnarle con gli occhi durante ogni ripresa (posso assicurare che non aveva la stessa attenzione per gli uomini…), che dava loro molta sicurezza. A volte, finita la scena, rivolgeva loro un piccolo gesto delicato, in cui condensava le sue sensazioni».
Che cosa le manca di Antonioni?
«Quando penso a Michelangelo, rivedo il suo sorriso triste. Erano gli occhi, più che la bocca, a mostrare che sorrideva. Lo vedo che guarda Enrica. Il suo nome era una delle poche parole che riusciva a pronunciare. E vedo una lacrima nei suoi occhi. In quegli ultimi anni, a volte, era molto emozionabile, ma lo si capiva solo dal quel piccolo luccichio. Dava l’impressione di essere una persona dura, ma si commuoveva facilmente per ciò che amava». ( Alberto Pezzotta)

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La seduzione dell’in-finitum

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 10, 2009

Copertina infinitum(1)di Simona Maggiorelli

«Quanto “tempo” è passato tra un simbolo cicladico di fertilità e uno specchio di Anish Kapoor?» si domandava lo studioso Axel Vervoordt indagando con la mostra Artempo come lo scorrere del tempo – di generazione in generazione – agisca, formi e trasfiguri il modo di rappresentare.

Nel tempo tutto umano dell’arte, raccontava Vervoordt, con quella indimenticabile rassegna veneziana del 2007, generi e stili invecchiano, diventano desueti, superati, mentre grazie alla genialità di artisti capaci di inventare immagini nuove la storia dell’arte, nei secoli, si rinnova e cambia direzione.

Basta pensare alla rivoluzione del colore di Vincent Van Gogh che, d’un tratto, rivelò l’anemia della maniera impressionista. O alla rivoluzione cubista di Picasso e Braque che mandò definitivamente in cantina un modo di dipingere che valorizzava la perizia nel riprodurre la realtà in tutti i suoi dettagli. E se Picasso sosteneva che la parola evoluzione in arte non ha nessun senso («Per me non c’è passato o futuro in arte» nella rivista The Arts 1923), è pur vero che il descrittivismo analitico “alla fiamminga” tramontò del tutto quando le avanguardie storiche aprirono la ricerca a immagini “irrazionali”, inattese, capaci di esprimere significati latenti.

E proprio questo streben verso l’ancora sconosciuto, questa tensione verso una spazialità nuova e sconfinata che ha attratto gli artisti nei secoli, è il tema che Vervoodt esplora in questa nuova tappa della sua indagine sui rapporti fra arte e tempo. Un tema sfaccettato difficile, alto, che rischia di cadere nell’astratto, ma che il critico belga affronta per interessanti suggestioni, in modo rapsodico, nella mostra In-finitum senza imporre una tesi. Lungo i quattro piani di palazzo Fortuny, a Venezia, oltre trecento opere, distribuite per sezioni.

Contro le pareti arse dal salmastro e nella penombra di sale e corridoi, opere che vanno da antichi reperti archeologi egizi alle ultime frontiere della videoarte, passando per opere di Canova, Delacroix, Rodin, Cézanne, Picasso, Rothko, Fontana e molti altri maestri.

Fra i temi indagati, la prospettiva rinascimentale letta come inizio di una spazialità nuova, il “non finito” con cui artisti come Michelangelo esprimevano la tensione verso una forma nuova. Ma anche il cosmo e il nuovo cronotopo scientifico di Einstein e l’influenza che ha avuto sull’arte del Novecento. Senza dimenticare il naufragio misticheggiante a cui andò incontro l’action painting indagando un’idea di spazio tempo derivata dallo zen alla” luce” di atemporali, quanto sinistre,  mitologie junghiane che pretendevano di condannare ognuno a un primitismo violento  e ancestrale, soccombente o in camicia bruna.

dal settimnale lefl avvenimenti  10 luglio 2009

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L’oro e l’azzurro

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 25, 2003


di Simona Maggiorelli

Cèzenne a Treviso

TREVISO. La forza viva e abbagliante della luce del Midi, un  viaggio mozzafiato alla scoperta del colore. Centoventi dipinti: molti capolavori assoluti di Van Gogh, Cézanne, Monet, Matisse,  insieme  a quadri impressionisti, Fauve,  Nabis, provenienti da collezioni private e da musei sparsi per il mondo, rari da vedere. Artisti di diverso talento, con poetiche radicalmente divergenti, ma tutti ugualmente soggiogati dalla potenza del blu del Mar Mediterraneo, dal demone meridiano del sud, dai colori caldi delle terre di Provenza. Nella mostra “L’’oro e l’azzurro”, aperta fino al 7 marzo  a Casa dei Carraresi, il prolifico Marco Goldin è riuscito a rendere tangibile quel certo cronotopo storico artistico che si forma all’’incrocio fra l’’ascissa geografica che da Marsiglia corre verso la Liguria e l’’ordinata temporale che dalla seconda metà dell’Ottocento si ’incunea in un Novecento inoltrato. E’ lì, in quel  lembo di terra, in quel radioso spazio- tempo, che alcuni dei più grandi pittori dei secoli scorsi ebbero una decisiva svolta creativa, facendo le  loro realizzazioni più importanti. Van Gogh  si trasferì ad Arles nel 1888, in due anni portò all’apice la sua opera di artista. Il suo sogno sarebbe stato creare con Gauguin una “scuola del mezzogiorno”,ma dopo le sue prime crisi, l’’amico e sodale si tira indietro. Per Van  Gogh sarà una ferita profondissima.  Venuto dalle nebbie del nord, il pittore olandese non trovò in Provenza quel sole anche interiore che si aspettava. Un inverno molto freddo e rigido, molta neve anche suoi propri affetti. A primavera di quell’o stesso anno nella sua pittura restano solo rami di mandorlo in fiore dentro un vasetto d’acqua, diafane visioni di germogli di albicocchi.

Braque

Quadri che visti in sequenza  a Treviso  trasmettono il senso di un’’infinità fragilità . Ma segnalano anche una tenue apertura, sono il preludio dell’ultimo furoreggiare di gialli accesi, di campi di grano incendiati di colore , di ulivi attorti di riflessi blu e viola.  Provenienti da Kansas City e da collezioni private, forse più dei coevi Lillà, questi nodosi ulivi in mostra aTreviso raccontano la vitalità febbrile, la potenza della rivolta artistica di Van Gogh, ultimo sprazzo in pennellate dense, materiche e serrate, prima del congedo, annunciato in quella famosa “ camera di Arles”, ordinata, colorata ma sinistramente vuota, che Goldin, con colpo di teatro, incornicia in una stanza buia alla fine del percorso. Quel semplice letto rifatto, eppure così drammatico, è uno dei più forti nodi di articolazione della mostra trevigiana. Insieme alla sala Cézanne in cui si squadernano, dirimpettaie, sei differenti versioni della montagna Sainte Victoire, dal 1882 agli ultimi anni di vita: visioni via via sempre più ardite, più scomposte,  quasi “pre cubiste”, virate a una tavolozza scura e intensa, che, superando ogni piatta mimesis, si propongono sempre più come originali e potenti immagini interiori dell’artista.  Tutta la prima parte della mostra fra cronologicamente ordinate riproposte del paesaggismo di Guigou, del marsigliese Monticelli, ma anche di Courbet- primi accenni di lotta contro l’accademismo – precipita  inequivocabilmente verso questo punto  di attrazione. In questo percorso, primo segnale di un  deciso oltrepassamento del descrittivismo iperazionale di ciò che si para davanti agli occhi del pittore, un rarissimo quadro di Cézanne del 1866, ‘Strada in Provenza’, dal Museo di Montreal e poi su su  una ventina di eccezionali tele, dall’  ‘Estaque, veduta del golfo di Marsiglia’  del 1878 proveniente dal Musée d’Orsay di Parigi, fino alle ultime opere in cui il pittore di Aix-en Provence,  per dirla con le parole di Merlau Ponty, riusciva sempre più a rendere “l’invisibile” sotteso al visibile, il latente, la creazione autonoma dell’’artista a partire dal percepito.

Appare chiaro a questo punto che“ L’’oro e l’azzurro”, ultimo capitolo di una trilogia di mostre  che Goldin ha concepito con Treviso è solo all’apparenza una ricognizione sull’’impressionismo. Si, certo, ci sono i molti Renoir che, incantato dalla bellezza della Provenza dopo un viaggio di studio con Monet, vi tornerà nel 1888 per stabilirsi definitivamente alle Collettes . Ci sono  le smagliate, vaporose vedute di Bordighera e di Antibes per le quali Monet invocava una tavolozza di diamanti e pietre preziose. Ci sono i molti Seraut e Signac nel tentativo di fondere, a furia di puntini, “l’autenticità della sensazione” con la nuova scienza della percezione . Ma  più sottilmente la mostra sembra proporre una ricerca su quella speciale rivoluzione che Van Gogh e Cézanne portarono nella pittura, su quel particolare, delicato, passaggio che i due artisti ancora in epoca di imperante positivismo riuscirono a compiere, e a prezzo di isolamento e incomprensione ( tornano in mente i tanti rifiuti ricevuti da Van Gogh e le sferzanti dichiarazioni di Zola che definì l’’amico Cézanne, pittore fallito, genio abortito) verso un modo di rappresentare che attraverso forzature prospettiche, attraverso uno spregiudicato uso del colore per dare evidenza e solidità  agli oggetti, riusciva a rendere la profondità di una visione interiore sgombrando il campo da ogni convenzionalità.
Aiutano a rintracciare questo sottotesto della mostra trevigiana anche le frasi d’artista, le dichiarazioni di poetica, brani di lettere che Goldin ha scelto da appuntare sui muri. “ Dare l’immagine di ciò che vediamo- scriveva con molta limpidezza Cézanne- dimenticando tutto ciò che in precedenza ci era apparso davanti agli occhi “. L’’obiettivo è arrivare a “ una propria visione, grande o piccola che sia”. Ognuno ha la propria.“Solo così l’artista può arrivare ad esprimere tutta la sua personalità”.

Cézanne L'estaque

Una generazione dopo, da percorsi diversi, ma sulla stessa scia di scoperta di una pittura di colori e figure deformate che attingono potentemente a una fantasia inconscia ( come ricreazione e trasformazione del percepito, senza essere la meccanica riproposizione di sogni)  Henri Matisse si cimenta in appassionanti e “leggere” visioni di presenze femminili in interni rossi. Come la figura indefinita, senza i connotati lucidamente definiti di un volto che campeggia davanti a un rialzato, azzurrissimo, mare nel dipinto “La donna seduta davanti alla finestra aperta” del ’1922 , prestito del Musée des Beaux Arts di Montreal o le molteplici, mosse, presenze femminili del “Carnevale di Nizza” del ’21, proveniente da Berna.  Addentrandosi nel Novecento, la mostra riserva ancora belle sorprese con una serie di ricche ricerche decostruttive di Braque,le brillanti vedute  del porto dell’Esatque del 1906 e le “Fabbriche del Rio tinto” dell’anno successivo. Ma ,nel percorso che attraverso i colori incandescenti dei Fauve, porta al  rassicurante finale dedicato al Novecento di Pierre Bonnard  e alle visioni scrigno dei Nabis ( due sale di interni borghesi pieni di preziosismi e piuttosto decorativi), si  resta ancora per un attimo attratti dai paesaggi dipinti da Edvard Munch a Nizza tra 1891 e 1892, opere poco  sconosciute, in cui sotto la scorza della brillante tavolozza,  nella ripetizione di griglie architettoniche razionali e ossessive, in paesaggi gremiti di figure, ma ugualmente chiusi in uno stranissimo vuoto pneumatico pare di rintracciare i prodromi de “L’’urlo” e della crisi psichica a cui Munch andò , di lì a poco, tragicamente incontro.

dal quotidiano Europa 24 ottobre 2003

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