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Posts Tagged ‘blu oltremare’

Yves Klein, la pittura sulla pelle

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2012

A cinquant’anni dalla sua scomparsa, in Palazzo Ducale a Genova, una retrospettiva ricorda l’artista francese del blu oltremare e delle antopometrie realizzate intingendo le modelle nel colore

di Simona Maggiorelli

Yves Klein , antropometrie

Yves Klein, artista zen alle prese con la filosofia giapponese e con le mosse di judo (era cintura nera). Ma anche pittore affascinato dalla fisicità e dalla sensualità con performances realizzate intingendo splendide ragazze direttamente nel colore. Raffinato ricercatore nell’ambito dell’astrattismo e al tempo stesso imprendibile giullare delle arti visive che si divertiva ad emulare il tuffatore degli affreschi di Pompei e le prove di volo di Leonardo da Vinci in acrobatici fotomontaggi in cui sembrava librarsi dai cornicioni dei palazzi parigini

Alter ego di Piero Manzoni in scintillanti provocazioni con (finti) lingotti d’oro nascosti nella Senna sbeffeggiando la riduzione capitalistica dell’opera d’arte a pura merce

Ma anche, e al tempo stesso, esoterico alchimista di un blu oltremare che sfidava il blu di Giotto. E molto altro ancora. Nella sua breve vita, Yves Klein (Nizza, 28 aprile 1928 – Parigi, 6 giugno 1962) sperimentò a tutto raggio le potenzialità del suo poliedrico talento di pittore, scultore, performer, teorico dell’arte, filosofo e perfino compositore

Rielaborando in modo originale gli stimoli che coglieva viaggiando in Occidente e in Oriente. Così se dal Giappone più antico mutuò l’idea del judo come danza, vicina al Teatro No, dall’America anni Cinquanta mutuò l’idea di happening che punta a coinvolgere gli spettatori, facendone parte attiva dello spettacolo, tornato a Parigi, Klein ne fece la base e il laboratorio per la creazione di suggestive Antropometrie in cui silhouettes di donne diventavano segni, tracce, di evocative presenze femminili raccontate con pochi segni essenziali.

Quadri di grandi dimensioni che Yves Klein dipingeva stendendo per terra la tela alla maniera di Jackson Pollock. Come l’inventore dell’Action painting senza usare i pennelli. Ma in questo caso lasciando che le pitture astratte e colorate prendessero forma attraverso un dripping insolito: una sorta di danza delle modelle nude sulla tela. Mentre il gesto artistico, non più solitario, si faceva dialogo di gesti, incontro pubblico e collettivo, festa. Da qui, dalla ricerca artistica che Klein amava realizzare in gruppo, ma anche dal fascino che esercitava su di lui la dura dialettica del judo sono partiti Bruno Corà e il fondatore degli Archivi Klein di Parigi, Daniele Moquay, per  costruire il percorso della mostra Judo, teatro, corpo e pittura dal 6 giugno al 26 agosto  in Palazzo Ducale a Genova.

Yves Klein

A cinquant’anni dalla scomparsa dell’artista francese, e forte della bella retrospettiva che organizzò alcuni anni fa al Museo Pecci di Prato, Bruno Corà torna così a ripercorrere la folgorante parabola di Yves Klein che il critico e curatore nei suoi scritti compara a quella del poeta Rimbaud: «I due avevano una grande quantità di stimmati comuni», nota Corà, «Entrambi sono stati folgoranti meteore, entrambi cercarono una speciale fusione fra arte e vita. Ma ad avvicinarli è anche una certa insolenza, un orgoglio, una spavalderia d’azione» nota lo studioso tratteggiando un ritratto di Yves Klein come artista romantico che cercava di rappresentare l’invisibile. In primis indagando il colore come materia viva, espressiva di per sé. Sulla strada aperta da Kandinsky, ma anche affascinato dalla ricerca di assoluto che Malevich svolgeva con il bianco o il nero di grafite. E che Yves Klein traduceva in un blu denso, vibrante, «cosmico» e ieratico.

Da left-avvenimenti

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Kapoor, forme di colore sensibile

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2011

La prima ampia antologica di Kapoor alla Royal academy of arts di Londra, la città dove ha esordito

di Simona Maggiorelli

Anish Kapoor My red homeland

Per allestire la più grande antologica di Anish Kapoor nella città, Londra, che negli anni Ottanta gli ha fatto da trampolino di lancio, il curatore Jean de Loisy ha scelto un luogo altamente significativo come Brurlington house, sede della Royal academy of arts.

Spazio importante anche per la sua lunga storia di istituzione indipendente gestita da artisti e da architetti con l’unico scopo di promuovere l’arte e il design.

Fino all’11 dicembre, in uno spettacolare allestimento che sembra voler forzare le architetture barocche di questo palazzo di Piccadilly, sono ripercorse così tutte le fasi creative dello scultore nato nel 1954 a Bombay e che, fra Oriente e Occidente, ha saputo fare della sua opera il crocevia di tre differenti culture: inglese, indiana e irachena, nelle quali è cresciuto artisticamente (vedi left N. 1/2009). In primo piano, sensibili e friabili sculture di pigmento vermiglio, cadmio e porpora, che sembrano franare inondando la sala di colore e di calore. In esse Kapoor mescola suggestioni indiane ed echi da Yves Klein, variando però in una tavolozza più carnale il religioso blu oltremare dell’artista francese.

Anish Kapoor Mirror

Ed ecco, poco più in là, una serie di eleganti sfere di acciaio specchianti. Schegge di luce rinchiuse in forme tondeggianti e perfette. Il rincorrersi di riflessi le fa sembrare come in movimento. E non poteva mancare in una antologica di Kapoor degna di questo nome la monumentale Svayambh (2007) che è diventata l’opera simbolo dei suoi anni più recenti. Ispirata a una parola sanscrita che significa auto generato, si presenta allo sguardo come una densa striscia di cera rossa che corre lungo le sale, attraversando archi e porte. Come un organismo biologico in continua crescita oppure come solido filo di Arianna che segna la mappa più segreta di Burlington house. Ma il rosso della polvere, nell’opera di Kapoor, può assumere anche la densità drammatica del sangue sparato su una parete bianca dal cannone di Shooting into the corner (2008): un’installazione che evoca una esecuzione costringendo lo spettatore ad assistervi dalla parte del plotone. E poi, finalmente, le opere di Kapoor che mettono fra parentesi la separazione fra pittura e scultura, con le quali l’artista riesce a rimodulare, a dare nuovo ritmo e profondità agli spazi in cui sono collocate. Con un registro morbido e sensuale, giocando con opposte superfici concave e convesse, con forme che sembrano rimandare alla differenza fra femminile e maschile.

da left-avvenimenti 16 ottobre 2009

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Quel Cagliostro di Yves Klein

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 29, 2009

A Lugano una mostra dedicata all’inventore dei monocromi blu. In dialogo con l’opera della sua compagna Rotraut. Mentre esce un suo testo inedito in Italia

di Simona Maggiorelli

blu Klein

blue klein

Della «meteora» Yves Klein che ha attraversato fulminea l’avanguardia del Novecento è stato detto pressoché di tutto. E il contrario di tutto. Sussunto tout court nel Nouveau réalisme dal critico Restany, che fu suo primo mentore, è stato poi ascritto all’astrattismo per i suoi monocromi di intenso blu Oltremare, un vibrante tono di colore, passato alla storia come “blu Klein”.
Ma c’è stato anche chi lo ha etichettato «artista zen», per la sua passione per le arti orientali e per certe sue enigmatiche «ricerche sul vuoto». Per non parlare poi di quella critica che, alla fine degli anni Sessanta  lo ridusse a mero anticipatore delle performance dell’action painting e della pop art americana. Definizioni queste (ma se ne potrebbero citare molte altre) che, anche quando non alterano del tutto il contenuto della ricerca di Yves Klein, bloccano la sua poliedrica avventura nell’arte in un singolo “fotogramma”. Una parabola artistica che nell’arco di pochi anni (Klein era nato nel 1928 e morì prematuramente nel 1962) si sviluppò fra tecniche e generi diversi, passando dai monocromi ai monogold, dai rilievi planetari alle fontane di acqua, alle sculture con il fuoco, alle architetture di aria, alle antropometrie, in un continuo tentativo di fondere arte e vita. Non in senso meramente estetizzante alla Oscar Wilde. Ma facendo dell’arte e della ricerca la propria vita. E al tempo stesso tentando di non far fuori la creatività dalla vita quotidiana. Elementi della biografia e della poetica di Yves Klein che, fuori da ogni mitizzazione, emergono con chiarezza dalla mostra che il direttore del Museo d’arte di Lugano, Bruno Corà, ha voluto dedicare alla sua opera, facendola “dialogare” con quella di Rotraut, la scultrice tedesca che fu sua compagna di arte e di vita. Un paso doble che porta nelle sale del museo svizzero (fino al 13 settembre, catalogo bilingue Silvana editoriale) un centinaio di opere di Klein e 22 sculture di Rotraut: forme essenziali in ferro e colore che evocano immagini stilizzate di donne che danzano, cavalli in corsa, forme giocose e vitali che Rotraut pensa per spazi en plain air. Nella parte dedicata a Klein e realizzata in collaborazione con Daniel Moquay dell’archivio Klein di Parigi, di fatto, sono ripercorsi tutti i cicli più importanti della sua opera. A cominciare dai suoi magnetici monocromi frutto di una originale ricerca sul colore puro, lontana dalla marmorea fissità dei monocromi di Malevich e tanto più dalle razionalissime campiture di colore tipiche di Mondrian.

Yves Klein

Yves Klein

Nella conferenza tenuta alla Sorbona nel 1959 – che ora l’editore O barra O edizioni pubblica in italiano insieme ad altri scritti nel volume Verso l’immateriale dell’arte, Klein mette in relazione i suoi monocromi con la ricerca sulla luce e sul colore di Delacroix, ma soprattutto con il blu di Giotto. «Considero Giotto come il vero precursore della monocromia» annota Klein in questo suo illuminante testo trascritto dalla registrazione, chiamando in causa certi “ritagli di cielo” degli affreschi di Assisi definiti «affreschi monocromi uniformi». Ma in questo prezioso volumetto si incontrano anche suggestivi frammenti di autobiografia. In uno scritto del 1960, intitolato con autoironia Yves il monocromo, Klein ricorda i giochi che faceva da bambino con il colore, il gusto di inzuppare le mani nella tinta e stamparle sulle pareti, come facevano gli uomini preistorici nelle grotte francesi che conservano straordinarie pitture rupestri. «Poi, però – ammette Klein – ho perso l’infanzia… e, adolescente, ho incontrato il nulla. Non mi è piaciuto. Ed è così che ho fatto la conoscenza del vuoto, il vuoto profondo, la profondità blu!». è l’inizio della sua avventura nell’arte. «La pittura non è più per me in funzione dell’occhio… – scrive Klein – la vera qualità del quadro, il suo essere, una volta creato, si trova oltre il visibile, nella sensibilità pittorica allo stato della materia prima». Klein detesta il rozzo materialismo, contro il quale scrive frasi fulminanti. Ma avverte anche i pericoli di una ricerca che rischiava di diventare assoluta, troppo astratta. «Monocromizzavo le mie tele con accanimento, poi si liberò il blu onnipotente che regna ancora e per sempre – scrive -. È a quel punto che non mi sono più fidato. Ho ingaggiato delle modelle nel mio studio, per dipingere non davanti a loro, ma con loro. Passavo troppo tempo in studio, non volevo restare così, solo soletto, nel meraviglioso vuoto blu che vi stava crescendo…». Parole in parte autocritiche, in parte rivelatrici di altro, che lasciano intendere che la dittatura del blu cominciava ad andargli stretta. E nella ricerca di Klein si aprì d’un tratto un nuovo ciclo, quello delle antropometrie, ricreando i giochi infantili con modelle spalmate di colore, che si muovevano «come pennelli umani». Un divertissment, ma anche una ricerca sul tema della presenza-assenza, dell’impronta, della traccia, in cui contavano, dice Klein, «non solo la forma del corpo e le sue linee» ma anche «il clima affettivo» di chi si prestava al gioco. «Quei segni pagani nella mia religione dell’assoluto monocromo – ammette Klein – mi hanno subito ipnotizzato». Opere che, al pari dei monocromi della prima ora, non mancarono di suscitare scandalo fra i benpensanti.
Nel libro di O barra O edizioni compare anche una spassosa recensione firmata da Dino Buzzati della mostra che Klein fece a Milano nel 1957. Con il titolo Blu Blu Blu fu pubblicata sul Corriere d’Informazione. Buzzati, in calce alla cronaca degli sghignazzi del pubblico, racconta che Klein a Milano vendette due opere al «modestissimo prezzo di 25mila lire al quadro». Uno dei due acquirenti era Lucio Fontana.

Quando molti anni dopo, nel 1968, la rivista Art et Création chiese a Fontana un ricordo di Yves Klein, l’artista italo-argentino ripose di getto: «Klein era una cosa incredibile. Non era solo una simpatia epidermica, ma tutta la sua personalità mi interessava». E alla domanda fatidica: che cosa rappresentava la sua opera? «Yves Klein rappresentava lo spirito nuovo. Diverso dai pittori espressionisti come Rothko, che si occupa della vibrazione luminosa dello spazio. Diverso da Pollock che vuole distruggere lo spazio, farlo esplodere, rompere il quadro. Diverso da me che cerco uno spazio altro. Lui era per l’infinito». Una riflessione che meriterebbe un intero saggio.

dal left- Avvenimenti   22 maggio 2009

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L’oro e l’azzurro

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 25, 2003


di Simona Maggiorelli

Cèzenne a Treviso

TREVISO. La forza viva e abbagliante della luce del Midi, un  viaggio mozzafiato alla scoperta del colore. Centoventi dipinti: molti capolavori assoluti di Van Gogh, Cézanne, Monet, Matisse,  insieme  a quadri impressionisti, Fauve,  Nabis, provenienti da collezioni private e da musei sparsi per il mondo, rari da vedere. Artisti di diverso talento, con poetiche radicalmente divergenti, ma tutti ugualmente soggiogati dalla potenza del blu del Mar Mediterraneo, dal demone meridiano del sud, dai colori caldi delle terre di Provenza. Nella mostra “L’’oro e l’azzurro”, aperta fino al 7 marzo  a Casa dei Carraresi, il prolifico Marco Goldin è riuscito a rendere tangibile quel certo cronotopo storico artistico che si forma all’’incrocio fra l’’ascissa geografica che da Marsiglia corre verso la Liguria e l’’ordinata temporale che dalla seconda metà dell’Ottocento si ’incunea in un Novecento inoltrato. E’ lì, in quel  lembo di terra, in quel radioso spazio- tempo, che alcuni dei più grandi pittori dei secoli scorsi ebbero una decisiva svolta creativa, facendo le  loro realizzazioni più importanti. Van Gogh  si trasferì ad Arles nel 1888, in due anni portò all’apice la sua opera di artista. Il suo sogno sarebbe stato creare con Gauguin una “scuola del mezzogiorno”,ma dopo le sue prime crisi, l’’amico e sodale si tira indietro. Per Van  Gogh sarà una ferita profondissima.  Venuto dalle nebbie del nord, il pittore olandese non trovò in Provenza quel sole anche interiore che si aspettava. Un inverno molto freddo e rigido, molta neve anche suoi propri affetti. A primavera di quell’o stesso anno nella sua pittura restano solo rami di mandorlo in fiore dentro un vasetto d’acqua, diafane visioni di germogli di albicocchi.

Braque

Quadri che visti in sequenza  a Treviso  trasmettono il senso di un’’infinità fragilità . Ma segnalano anche una tenue apertura, sono il preludio dell’ultimo furoreggiare di gialli accesi, di campi di grano incendiati di colore , di ulivi attorti di riflessi blu e viola.  Provenienti da Kansas City e da collezioni private, forse più dei coevi Lillà, questi nodosi ulivi in mostra aTreviso raccontano la vitalità febbrile, la potenza della rivolta artistica di Van Gogh, ultimo sprazzo in pennellate dense, materiche e serrate, prima del congedo, annunciato in quella famosa “ camera di Arles”, ordinata, colorata ma sinistramente vuota, che Goldin, con colpo di teatro, incornicia in una stanza buia alla fine del percorso. Quel semplice letto rifatto, eppure così drammatico, è uno dei più forti nodi di articolazione della mostra trevigiana. Insieme alla sala Cézanne in cui si squadernano, dirimpettaie, sei differenti versioni della montagna Sainte Victoire, dal 1882 agli ultimi anni di vita: visioni via via sempre più ardite, più scomposte,  quasi “pre cubiste”, virate a una tavolozza scura e intensa, che, superando ogni piatta mimesis, si propongono sempre più come originali e potenti immagini interiori dell’artista.  Tutta la prima parte della mostra fra cronologicamente ordinate riproposte del paesaggismo di Guigou, del marsigliese Monticelli, ma anche di Courbet- primi accenni di lotta contro l’accademismo – precipita  inequivocabilmente verso questo punto  di attrazione. In questo percorso, primo segnale di un  deciso oltrepassamento del descrittivismo iperazionale di ciò che si para davanti agli occhi del pittore, un rarissimo quadro di Cézanne del 1866, ‘Strada in Provenza’, dal Museo di Montreal e poi su su  una ventina di eccezionali tele, dall’  ‘Estaque, veduta del golfo di Marsiglia’  del 1878 proveniente dal Musée d’Orsay di Parigi, fino alle ultime opere in cui il pittore di Aix-en Provence,  per dirla con le parole di Merlau Ponty, riusciva sempre più a rendere “l’invisibile” sotteso al visibile, il latente, la creazione autonoma dell’’artista a partire dal percepito.

Appare chiaro a questo punto che“ L’’oro e l’azzurro”, ultimo capitolo di una trilogia di mostre  che Goldin ha concepito con Treviso è solo all’apparenza una ricognizione sull’’impressionismo. Si, certo, ci sono i molti Renoir che, incantato dalla bellezza della Provenza dopo un viaggio di studio con Monet, vi tornerà nel 1888 per stabilirsi definitivamente alle Collettes . Ci sono  le smagliate, vaporose vedute di Bordighera e di Antibes per le quali Monet invocava una tavolozza di diamanti e pietre preziose. Ci sono i molti Seraut e Signac nel tentativo di fondere, a furia di puntini, “l’autenticità della sensazione” con la nuova scienza della percezione . Ma  più sottilmente la mostra sembra proporre una ricerca su quella speciale rivoluzione che Van Gogh e Cézanne portarono nella pittura, su quel particolare, delicato, passaggio che i due artisti ancora in epoca di imperante positivismo riuscirono a compiere, e a prezzo di isolamento e incomprensione ( tornano in mente i tanti rifiuti ricevuti da Van Gogh e le sferzanti dichiarazioni di Zola che definì l’’amico Cézanne, pittore fallito, genio abortito) verso un modo di rappresentare che attraverso forzature prospettiche, attraverso uno spregiudicato uso del colore per dare evidenza e solidità  agli oggetti, riusciva a rendere la profondità di una visione interiore sgombrando il campo da ogni convenzionalità.
Aiutano a rintracciare questo sottotesto della mostra trevigiana anche le frasi d’artista, le dichiarazioni di poetica, brani di lettere che Goldin ha scelto da appuntare sui muri. “ Dare l’immagine di ciò che vediamo- scriveva con molta limpidezza Cézanne- dimenticando tutto ciò che in precedenza ci era apparso davanti agli occhi “. L’’obiettivo è arrivare a “ una propria visione, grande o piccola che sia”. Ognuno ha la propria.“Solo così l’artista può arrivare ad esprimere tutta la sua personalità”.

Cézanne L'estaque

Una generazione dopo, da percorsi diversi, ma sulla stessa scia di scoperta di una pittura di colori e figure deformate che attingono potentemente a una fantasia inconscia ( come ricreazione e trasformazione del percepito, senza essere la meccanica riproposizione di sogni)  Henri Matisse si cimenta in appassionanti e “leggere” visioni di presenze femminili in interni rossi. Come la figura indefinita, senza i connotati lucidamente definiti di un volto che campeggia davanti a un rialzato, azzurrissimo, mare nel dipinto “La donna seduta davanti alla finestra aperta” del ’1922 , prestito del Musée des Beaux Arts di Montreal o le molteplici, mosse, presenze femminili del “Carnevale di Nizza” del ’21, proveniente da Berna.  Addentrandosi nel Novecento, la mostra riserva ancora belle sorprese con una serie di ricche ricerche decostruttive di Braque,le brillanti vedute  del porto dell’Esatque del 1906 e le “Fabbriche del Rio tinto” dell’anno successivo. Ma ,nel percorso che attraverso i colori incandescenti dei Fauve, porta al  rassicurante finale dedicato al Novecento di Pierre Bonnard  e alle visioni scrigno dei Nabis ( due sale di interni borghesi pieni di preziosismi e piuttosto decorativi), si  resta ancora per un attimo attratti dai paesaggi dipinti da Edvard Munch a Nizza tra 1891 e 1892, opere poco  sconosciute, in cui sotto la scorza della brillante tavolozza,  nella ripetizione di griglie architettoniche razionali e ossessive, in paesaggi gremiti di figure, ma ugualmente chiusi in uno stranissimo vuoto pneumatico pare di rintracciare i prodromi de “L’’urlo” e della crisi psichica a cui Munch andò , di lì a poco, tragicamente incontro.

dal quotidiano Europa 24 ottobre 2003

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