L’oro e l’azzurro
Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 25, 2003
di Simona Maggiorelli
TREVISO. La forza viva e abbagliante della luce del Midi, un viaggio mozzafiato alla scoperta del colore. Centoventi dipinti: molti capolavori assoluti di Van Gogh, Cézanne, Monet, Matisse, insieme a quadri impressionisti, Fauve, Nabis, provenienti da collezioni private e da musei sparsi per il mondo, rari da vedere. Artisti di diverso talento, con poetiche radicalmente divergenti, ma tutti ugualmente soggiogati dalla potenza del blu del Mar Mediterraneo, dal demone meridiano del sud, dai colori caldi delle terre di Provenza. Nella mostra L’oro e lazzurro, aperta fino al 7 marzo a Casa dei Carraresi, il prolifico Marco Goldin è riuscito a rendere tangibile quel certo cronotopo storico artistico che si forma all’incrocio fra l’ascissa geografica che da Marsiglia corre verso la Liguria e l’ordinata temporale che dalla seconda metà dellOttocento si incunea in un Novecento inoltrato. E lì, in quel lembo di terra, in quel radioso spazio- tempo, che alcuni dei più grandi pittori dei secoli scorsi ebbero una decisiva svolta creativa, facendo le loro realizzazioni più importanti. Van Gogh si trasferì ad Arles nel 1888, in due anni portò all’apice la sua opera di artista. Il suo sogno sarebbe stato creare con Gauguin una scuola del mezzogiorno,ma dopo le sue prime crisi, l’amico e sodale si tira indietro. Per Van Gogh sarà una ferita profondissima. Venuto dalle nebbie del nord, il pittore olandese non trovò in Provenza quel sole anche interiore che si aspettava. Un inverno molto freddo e rigido, molta neve anche suoi propri affetti. A primavera di quello stesso anno nella sua pittura restano solo rami di mandorlo in fiore dentro un vasetto dacqua, diafane visioni di germogli di albicocchi.
Quadri che visti in sequenza a Treviso trasmettono il senso di un’infinità fragilità . Ma segnalano anche una tenue apertura, sono il preludio dell’ultimo furoreggiare di gialli accesi, di campi di grano incendiati di colore , di ulivi attorti di riflessi blu e viola. Provenienti da Kansas City e da collezioni private, forse più dei coevi Lillà, questi nodosi ulivi in mostra aTreviso raccontano la vitalità febbrile, la potenza della rivolta artistica di Van Gogh, ultimo sprazzo in pennellate dense, materiche e serrate, prima del congedo, annunciato in quella famosa camera di Arles, ordinata, colorata ma sinistramente vuota, che Goldin, con colpo di teatro, incornicia in una stanza buia alla fine del percorso. Quel semplice letto rifatto, eppure così drammatico, è uno dei più forti nodi di articolazione della mostra trevigiana. Insieme alla sala Cézanne in cui si squadernano, dirimpettaie, sei differenti versioni della montagna Sainte Victoire, dal 1882 agli ultimi anni di vita: visioni via via sempre più ardite, più scomposte, quasi pre cubiste, virate a una tavolozza scura e intensa, che, superando ogni piatta mimesis, si propongono sempre più come originali e potenti immagini interiori dellartista. Tutta la prima parte della mostra fra cronologicamente ordinate riproposte del paesaggismo di Guigou, del marsigliese Monticelli, ma anche di Courbet- primi accenni di lotta contro laccademismo – precipita inequivocabilmente verso questo punto di attrazione. In questo percorso, primo segnale di un deciso oltrepassamento del descrittivismo iperazionale di ciò che si para davanti agli occhi del pittore, un rarissimo quadro di Cézanne del 1866, Strada in Provenza, dal Museo di Montreal e poi su su una ventina di eccezionali tele, dall Estaque, veduta del golfo di Marsiglia del 1878 proveniente dal Musée dOrsay di Parigi, fino alle ultime opere in cui il pittore di Aix-en Provence, per dirla con le parole di Merlau Ponty, riusciva sempre più a rendere linvisibile sotteso al visibile, il latente, la creazione autonoma dell’artista a partire dal percepito.
Appare chiaro a questo punto che L’oro e lazzurro, ultimo capitolo di una trilogia di mostre che Goldin ha concepito con Treviso è solo all’apparenza una ricognizione sull’impressionismo. Si, certo, ci sono i molti Renoir che, incantato dalla bellezza della Provenza dopo un viaggio di studio con Monet, vi tornerà nel 1888 per stabilirsi definitivamente alle Collettes . Ci sono le smagliate, vaporose vedute di Bordighera e di Antibes per le quali Monet invocava una tavolozza di diamanti e pietre preziose. Ci sono i molti Seraut e Signac nel tentativo di fondere, a furia di puntini, lautenticità della sensazione con la nuova scienza della percezione . Ma più sottilmente la mostra sembra proporre una ricerca su quella speciale rivoluzione che Van Gogh e Cézanne portarono nella pittura, su quel particolare, delicato, passaggio che i due artisti ancora in epoca di imperante positivismo riuscirono a compiere, e a prezzo di isolamento e incomprensione ( tornano in mente i tanti rifiuti ricevuti da Van Gogh e le sferzanti dichiarazioni di Zola che definì l’amico Cézanne, pittore fallito, genio abortito) verso un modo di rappresentare che attraverso forzature prospettiche, attraverso uno spregiudicato uso del colore per dare evidenza e solidità agli oggetti, riusciva a rendere la profondità di una visione interiore sgombrando il campo da ogni convenzionalità.
Aiutano a rintracciare questo sottotesto della mostra trevigiana anche le frasi dartista, le dichiarazioni di poetica, brani di lettere che Goldin ha scelto da appuntare sui muri. Dare limmagine di ciò che vediamo- scriveva con molta limpidezza Cézanne- dimenticando tutto ciò che in precedenza ci era apparso davanti agli occhi . L’obiettivo è arrivare a una propria visione, grande o piccola che sia. Ognuno ha la propria.Solo così lartista può arrivare ad esprimere tutta la sua personalità.
Una generazione dopo, da percorsi diversi, ma sulla stessa scia di scoperta di una pittura di colori e figure deformate che attingono potentemente a una fantasia inconscia ( come ricreazione e trasformazione del percepito, senza essere la meccanica riproposizione di sogni) Henri Matisse si cimenta in appassionanti e leggere visioni di presenze femminili in interni rossi. Come la figura indefinita, senza i connotati lucidamente definiti di un volto che campeggia davanti a un rialzato, azzurrissimo, mare nel dipinto La donna seduta davanti alla finestra aperta del 1922 , prestito del Musée des Beaux Arts di Montreal o le molteplici, mosse, presenze femminili del Carnevale di Nizza del 21, proveniente da Berna. Addentrandosi nel Novecento, la mostra riserva ancora belle sorprese con una serie di ricche ricerche decostruttive di Braque,le brillanti vedute del porto dell’Esatque del 1906 e le “Fabbriche del Rio tinto” dell’anno successivo. Ma ,nel percorso che attraverso i colori incandescenti dei Fauve, porta al rassicurante finale dedicato al Novecento di Pierre Bonnard e alle visioni scrigno dei Nabis ( due sale di interni borghesi pieni di preziosismi e piuttosto decorativi), si resta ancora per un attimo attratti dai paesaggi dipinti da Edvard Munch a Nizza tra 1891 e 1892, opere poco sconosciute, in cui sotto la scorza della brillante tavolozza, nella ripetizione di griglie architettoniche razionali e ossessive, in paesaggi gremiti di figure, ma ugualmente chiusi in uno stranissimo vuoto pneumatico pare di rintracciare i prodromi de “L’urlo” e della crisi psichica a cui Munch andò , di lì a poco, tragicamente incontro.
dal quotidiano Europa 24 ottobre 2003
Rispondi