Il fascino della vita zingara
Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 13, 2013
di Simona Maggiorelli
Ultimi giorni per vedere una mostra affascinante come Bohèmes al Grand Palais di Parigi. Di fatto due esposizioni in una: la prima dedicata alla cultura zingara e l’altra alla vita ribelle di quegli artisti che nell’Ottocento sceglievano di vivere come nomadi, per una esigenza di libertà interiore, di ricerca, per un netto rifiuto di una società borghese sempre più positivista e basata solo sul calcolo e sul guadagno.
Merito del curatore Sylvain Amic è aver voluto esplicitare questo nesso che percorre come un fiume carsico la pittura più viva e fertile del XIX secolo.
Ma anche, e ben più tragicamente, il Novecento quando zingari e artisti d’avanguardia, bollati come degenerati, furono perseguitati dal nazismo.
Attraverso un centinaio di opere e inanellando capolavori di artisti dai linguaggi espressivi assai diversi – da Corot a Courbet da Van Gogh a Turner e oltre – la mostra Bohèmes ( aperta fino al 14 gennaio) mette a fuoco un modo di intendere la pittura che si ribellava agli accademismi, all’establishment cristallizzato, recuperando una struggente e viva sensibilità, vissuta a fior di pelle. Raccontando come gli emarginati, i vagabondi, gli anarchici e gli artisti che sfidavano la società ricca e inerte si trovarono idealmente ad incontrarsi.
Sotto la cupola trasparente del Grand Palais, il percorso espositivo inizia, non a caso, con immagini di zingari visti attraverso lo sguardo dei grandi maestri, da quelli immaginifici disegnati da Leonardo da Vinci in un disegno conservato a Londra, alle scene di vita in carovana raffigurate analiticamente nelle incisioni di Callot, fino ai nomadi ritratti come soggetti “esotici” da Delacroix.
Fin dal Medioevo gli zingari venivano chiamati “egiziani”, erano trattati con diffidenza per i loro furti e al tempo stesso ammirati per la loro libertà. Il fascino romantico dell’Oriente rafforzò questa visione. Così ecco pittori come Dehodencq, ma anche come innovatori radicali come Manet che si lasciarono ispirare dagli zingari di Spagna. Mentre Diaz de la Peña, Bellet e Poisat si fecero quasi etnografi per raccontarne la vita.
Il vento del socialismo influì sulle menti più aperte della Bohème. Portando Van Gogh sulla strada di Corot e dell’epica degli umili, per quanto intrisa di religiosità spartana e protestante. Sul versante più tipicamente romantico spicca, invece, Gustave Courbet, l’autore dello “scandaloso” L’origine del mondo e del Manifesto del bohèmien, superbamente rappresentato in mostra dal celebre autoritratto con la pipa del 1846, non solo dal più teatrale ritratto in cui appare con lo sguardo sgranato, come colto di sorpresa da una realtà nuova e sconvolgente.
Un modo di intendere la Bohème, quello di Courbet, che trovò assonanze nei versi di Baudelaire e fu reso estremo e maudit da Rimbaud e Verlaine. Transitando poi nella prima avanguardia delle folli notti parigine, di arte, amori e assenzio, raccontate da Degas e vissute fino a rimetterci la pelle da Modigliani e Toulouse-Lautrec. A percorrere l’intera mostra sono giochi di assonanze, “corrispondenze di amorosi sensi”, ma anche scivoloni nel melodramma. Basta pensare alla Bohème di Murger a cui si ispirò Puccini.
dal settimanale left-avvenimenti 12 gennaio 2013
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