Il sogno dell’uomo nuovo
Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 27, 2011
Al PalaExpo di Roma una grande retrospettiva dedicata ad Aleksander Rodčenko e all’avanguadia russa
di Simona Maggiorelli
“Il nostro dovere è sperimentare”, “Dobbiamo rivoluzionare il nostro pensiero visivo” annotava Aleksander Rodčenko ancora, nel 1928. La ricerca continua, intesa come sperimentazione di linguaggi e forme espressive sempre nuove, è il messaggio forte che ci ha lasciato come pittore, fotografo, grafico, illustratore e inventore di nuove discipline artistiche fra cinema e fotomontaggio, ma anche come straordinario testimone di un’epoca nelle pagine del suo coraggiosissimo diario. Ed è questo filo rosso di appassionata ricerca di una visione nuova e di una fantasia diversa e più profonda a dare, ancora oggi, una grande energia alle sue opere. Anche perché, per lui, come per l’amico Majakovskij e per gli altri giovani artisti che aderirono alla rivoluzione russa e alla rivista LEF, il nuovo non era una categoria astratta, ma aveva a che fare con il sogno del socialismo, di una società più giusta in cui la tecnica potesse servire a emancipare l’uomo dalla fatica e dallo sfruttamento, mentre l’arte e la letteratura aprivano la strada all’Uomo nuovo.
Un sogno, un’utopia che – come la stessa tribolata biografia di Rodčenko (1891 -1956) ci racconta – si sarebbe presto infranto contro il muro del regime stalinista. Una parabola tragica che l’artista russo percorse per intero, passando dal medioevo della Russia zarista, ai concitati e fertili anni della rivoluzione, fino alle purghe di regime di cui fu una delle tante vittime. Ma, come ci fa vedere e quasi toccare con mano la bella retrospettiva Aleksander Rodčenko aperta fino all’8 gennaio nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma, senza mai perdere del tutto la speranza di una svolta, senza mai piegarsi alle circostanze, cercando semmai quei rari interstizi dove potersi ancora esprimere pienamente come artista. Come quando negli ultimi anni, ingabbiato dalla censura sovietica Rodčenko scovò l’area franca del circo e si mise a fotografare maschere da clown, realizzando opere insieme poetiche e altamente tragiche nel farsi metafora di un socialismo reale che dei valori della rivoluzione aveva fatto una maschera inquietante.
Ma la mostra romana che ha il pregio di essere una retrospettiva quasi completa del lavoro fotografico di Rodčenko (e che resterà documentata da un catalogo Skira) senza trascurare queste ultime fasi del suo lavoro, ha il merito soprattutto di riportarci, d’un tratto, al centro di quella esplosione creativa, in quella ribollente fucina di idee che fu la Russia nei primi anni del Novecento e fino alla rivoluzione. Riesce a farlo in un percorso che squaderna sequenze straordinarie di scatti, dedicate alla città, al lavoro, allo sport e, soprattutto, al cinema. Così ecco le visioni ripidissime, dal basso all’alto, che catapultano lo spettatore verso un immaginario futuro; ecco gli scorci verticali e aguzzi che fanno sembrare le povere città sovietiche capitali in frenetico movimento e punteggiate da architetture immaginifiche, costruite solo con l’obiettivo. Accanto a queste elegantissime sequenze in bianco e nero, spiccano immagini più note: i colorati montaggi, le locandine e i manifesti come quello celeberrimo che ritrae Lilija Brik che porta la mano alla bocca come fosse un megafono. Un’immagine presto diventata icona e poi riprodotta in centinaia di manifesti pubblicitari. Insieme alle geniali locandine realizzate per il cinema d’avanguardia di Eisenstein. Che ora Antonio Somaini rilegge in una importante monografia Einaudi dedicata al grande cineasta dell’avanguardia russa e al gruppo di artisti che collaborò ai suoi capolavori.
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