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Happy birthday #Shakespeare. Poeta dall’animo libero

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 23, 2014

quote-tell-me-where-is-fancy-bred-or-in-the-heart-or-in-the-head-william-shakespeare-310270Shakespeare straordinario indagatore della psicologia umana e attento alle nuove idee di Giordano Bruno .

Così lo racconta il filosofo della scienza  Giulio Giorello su left, a 450 anni dalla nascita del Bardo.

E in occasione dell’uscita del libro Noi che abbiamo l’animo libero, scritto con il genetista Edoardo Boncinelli e pubblicato da Longanesi

 

 di Simona Maggiorelli

Shakespeare “scienziato” della mente, capace di raccontare le passioni con lingua nuova, viva e poetica. Ma anche gli scacchi dell’animo umano, il delirio, la pazzia. Indagandola senza infingimenti, senza censure. Da un lato la fantasia, l’immaginazione, il sogno. Dall’altra il buio di chi ha perso ogni dimensione di rapporto con l’altro essere umano e con la realtà. Il delirio vorticoso di Macbeth, la schizoidia lucida e omicida di Lady Macbeth. Shakespeare non giudica i suoi personaggi. Non li sovrasta. Resta sullo sfondo, quasi sparisce per lasciar loro libertà d’azione.

Macbeth, Orson Welles

Macbeth, Orson Welles

«Shakespeare è tutti e nessuno», scriveva Borges. E il fatto che le sue “creature” non siano più manovrate da una volontà divina, da un telos, dall’ineluttabilità di un tragico destino, li rende liberi. Come Cleopatra che, nota il filosofo Giulio Giorello nel libro Noi che abbiamo l’animo libero (Longanesi), incarna l’aspirazione ad andare oltre i limiti, verso l’infinito con il suo «eroico/erotico furore» nel dramma Antonio e Cleopatra.

Nell’inquietudine di Amleto, invece, intinge la penna Edoardo Boncinelli eleggendolo a personaggio simbolo dell’universo shakespeariano in questo libro scritto a quattro mani, che esce in occasione dei 450 anni dalla nascita di Shakespeare. Volume in cui il genetista e il filosofo della scienza, con due saggi e un lungo dialogo, rendono omaggio al teatro del Bardo «come il vero, grande, teatro della modernità». «Shakespeare annuncia e mette in scena le crisi che segnano il trapasso dal medioevo all’età moderna», spiega Giorello.

«A cominciare dall’abbandono di una politica “cristiana” per un agire sul piano statuale machiavelliano. È la fine del mondo chiuso a cui ci aveva abituato la tradizione aristotelica e si intravede l’universo infinito. Dietro ad Amleto e dietro a Cleopatra – rileva il filosofo – scorgo le ombre lunghe di Niccolò Machiavelli e di Giordano Bruno. È una mia lettura. Ma non sono l’unico a vederla così. In un bel libro Nuovo cielo e nuova terra (Il Mulino 1990), Gilberto Sacerdoti scrive che la dismisura della passione in Antonio e Cleopatra trova il suo corrispettivo in un cosmo infinito in tutte le direzioni». Al centro c’è il rapporto fra i due amanti .«La passione diventa un valore, che trionfa sul tempo al di là e nonostante la morte», notava già l’anglista Derek Traversi in un’edizione Einaudi del dramma uscito negli anni Sessanta.

Gustave Moreau - Cleopatra

Gustave Moreau – Cleopatra

L’epoca di Shakespeare, insomma, non è più imperniata su due autorità assolute, il re e il papato. Con la Riforma, la Chiesa di Roma non è più unica, e con le grandi scoperte scientifiche di Copernico, Brahe, Keplero, Galileo la terra non è più al centro dell’universo. Intanto nuove avventure e conquiste si giocano sulle rotte atlantiche alla scoperta di nuovi mondi.

 «La società non era più incardinata su una realtà mondana e una spirituale», ribadisce Giorello. «Non che il papa e l’imperatore venissero meno, ma cominciarono i primi esperimenti di Stati nazionali, anche se a volte presero la forma di un assolutismo di nuovo tipo. Costruito nel sangue delle guerra civili e in particolare nel conflitto fra Riforma e Controriforma. Sotto questo profilo l’esperienza politica di Shakespeare è peculiarmente inglese. L’aristocrazia si suicida nella Guerra delle due Rose ed emerge una nuova realtà politica, come raccontano Enrico IV, Enrico V e la parabola sanguinaria di Riccardo III. Mentre nell’Enrico VIII, ormai ammesso nel canone shakespeariano, affiora il processo della rivoluzione inglese: l’Inghilterra diventa molto forte sui mari, ma è anche un laboratorio politico in cui, dopo l’età di Shakespeare, si sperimenterà il primo tentativo repubblicano della storia inglese».

Centrale in questa congiuntura, sottolinea il filosofo, «è la decisione di Enrico VIII di divorziare dalla Chiesa romana per fare un esperimento nazionale: la Chiesa anglicana». Con fantasia il grande Bardo affresca una nuova politica nell’ambito di una nuova cosmologia. «È questo – dice Giorello – che lo rende affascinante. Nei suoi drammi non c’è più la politica cristiana. Non c’è il diritto divino dei re. Ma vi troviamo la consapevolezza che la politica è opera umana e come tale è fallibile».

Per questo anche se l’ambizioso piano di Antonio e Cleopatra naufraga nella battaglia di Azio nel 31 a.C, il dramma omonimo non è una tragedia che celebra il fallimento come punizione. Anzi. In Lezioni su Shakespeare (Adelphi) il poeta W.H.Auden scriveva che è un testo che esprime un profondo rifiuto del dolore: «Lo splendore della poesia rispecchia lo splendore del mondo». I versi celebrano «la passione amorosa, l’ambizione, ma anche la fedeltà e il tradimento, la prudenza, l’audacia… Non c’è tratto umano che non sia reso nella moltitudine di personaggi» annotava il poeta. Arrivando a dire: «Se dovessimo dare alle fiamme tutte le opere di Shakespeare, tutte tranne una, io sceglierei Antonio e Cleopatra». «Sono assolutamente d’accordo», gli fa eco Giorello. «È una delle opere più complesse, più sofisticate di Shakespeare: ci offre l’immagine di una donna bellissima e molto coraggiosa, un’immagine femminile che è un continuo banco di prova per le virtù maschili che spesso si rilevano inadeguate rispetto all’identità che aveva la regina d’Egitto. Questo è un aspetto anticonformista di Shakespeare. Se c’è un poeta che ha davvero “l’animo libero”, è proprio lui». Anche nell’uso delle fonti. Come Giorello ricordava già in precedenti lavori, Tradimenti (Longanesi, 2012) e in Lussuria (Il Mulino, 2010).

Giorello e Boncinelli

Giorello e Boncinelli

 Mentre Euripide e Platone e poi il Cristianesimo si erano accaniti nel deturpare l’immagine e l’dentità della donna  e Dante condanna «Cleopatras lussuriosa», il drammaturgo inglese si rifà direttamente a  Plutarco. «Lo riprende in modo fedelmente infedele, gettando una nuova luce sul racconto», approfondisce Giorello.  Che aggiunge:«Quello di Shakespeare è il grande teatro della coscienza, nel senso in cui usava questa locuzione Giordano Bruno: la nostra coscienza talora mette in scena la guerra civile con se stessa. Questo è il punto di fondo sia delle commedie che delle tragedie».

Proprio il fascino che il pensiero bruniano esercitò sulla parte più anticonformista dell’intellettualità inglese, da Marlowe a Shakespeare, è uno dei fili rossi che percorre carsicamente Noi che abbiamo l’animo libero. «Io e Boncinelli, in realtà, non ci siamo addentrati nella diffusione del pensiero bruniano in Inghilterra (dove soggiornò fra il 1583 e il 1585 ndr). Su cui hanno scritto Hilary Gatti e Gilberto Sacerdoti, esperti bruniani e interpreti della più intelligente critica shakespeariana. Ma possiamo dire che, anche se Shakespeare non sposa la visione del Nolano come convinzione soggettiva, la conosceva bene e la fa diventare grande materia poetica».

E mentre c’è chi ipotizza che in Pene di amor perdute il personaggio di Berowne rimandi proprio al Nolano, risulta immediatamente evidente l’assonanza fra il drammaturgo e il filosofo quando si parla, per esempio, di immaginazione, che per l’anticristiano Bruno, non è più «maligna fantasia»

. A unirli poi, come nota Nadia Fusini nel libro Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni in Shakespeare (Mondadori, 2010), è anche e soprattutto un profondo interesse verso l’umano.

Tanto che, riflettendo sulla capacità shakespeariana di cogliere e scandagliare le profondità della psiche, il critico Harold Bloom è arrivato a dire che Shakespeare ha inventato la natura umana. «Io non so se abbia inventato la natura umana – commenta Giorello – perché grandi opere e cantori della natura umana ci sono stati anche prima di lui, dal poema di Gilgamesh della tradizione sumera e accadica, a Omero, a Virgilio a Dante ecc. Ma con Steven Dedalus di Joyce mi sento di dire che ciò che Shakespeare racconta non è la natura umana, ma la nostra natura umana».

Dal settimanale left

 

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Il segno vivo di Leonardo

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 29, 2013

Leonardo, tronco d'uomo di profilo

Leonardo, tronco d’uomo di profilo

Fra i maggiori studiosi di Leonardo da Vinci, l’inglese Martin Kemp qualche anno fa scriveva: «Girare per la Gran Bretagna, dalla Cornovaglia a Edimburgo, esaminando i disegni, usando lenti d’ingrandimento, orientando la luce è meglio d’una medicina. Ogni disegno comunica immancabilmente un brivido che nemmeno la miglior riproduzione in facsimile può riprodurre. Le tracce lasciate dalla mano di Leonardo muovendo la matita, il gresso, la punta di metallo o il pennello sulla superficie della carta sono l’espressione del suo tocco vivo».

«Un tocco – sottolineava Kemp nel libro Leonardo, nella mente del genio (Einaudi) – che dà a tutto ciò che egli ha disegnato un senso profondo di vitalità, esterna e interiore».

E al segno vico e vibrante di Leonardo, alla sua capacità di dare con pochi tratti essenziali espressività ai volti e movimento alla rappresentazione è dedicata la mostra Leonardo Da Vinci. L’Uomo universale che si  è aperta il 29 agosto ( fino al primo dicembre, catalogo Giunti editore) alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Una mostra, attesissima, perché la curatrice Annalisa Perissa è riuscita a radunare più di una cinquantina di fogli autografi, grazie a importanti prestiti del Louvre, del British Museum, degli Uffizi e di altre istituzioni museali internazionali.

Ma molto interesse c’è anche per le venticinque opere grafiche conservate proprio nel Gabinetto dei disegni diretto da Perissa e rarissimamente esposti in pubblico, perché per la loro fragilità, necessitano di essere conservati in caveau climatizzati e al buio.

Leonardo tre figure femminili danzanti

Leonardo tre figure femminili danzanti

Fra questi ci sono le splendide figure femminili dette Le danzatrici, studi di botanica (preludio alla grande varietà di piante raffigurate , per esempio, ne La Vergine delle rocce) e poi fogli in cui l’arte incontra la scienza come il celebre Uomo vitruviano che in mostra figura accanto a studi sulle proporzioni del corpo umano provenienti dalle collezioni reali di Windsor e dalla Biblioteca Reale di Torino.

E ancora straordinarie, per urgenza comunicativa e capacità di rappresentare il turbine emotivo dello scontro, sono i dieci disegni preparatori della Battaglia di Anghiari che Leonardo dipinse nel salone dei Cinquecento di Firenze e andata perduto.

Immaginifico, visionario, in questi disegni esposti a Venezia Leonardo mostra la sua vena imprevedibile, la fantasia, la capacità di inventare immagini del tutto nuove. Ma oltre alla “maraviglia” questa mostra veneziana offre la possibilità di comprendere più da vicino “la mente di Leonardo”, potendo osservare  da vicino il suo modo di usare il disegno come strumento di indagine conoscitiva e il suo fare ricerca procedendo in ambiti differenti, in contemporanea, secondo il principio dell’unità nella varietà.
Un disegno per Leonardo doveva essere  sia  funzionale che bello. Doveva svolgere una funzione di rappresentazione quanto di indagine. Una duplicità di aspetti che  Leonardo teneva in gran conto anche  quando si occupava di studi di sul corpo umano come si può evincere dai disegni di anatomia presenti in questa esposizione; studi in cui la forma conta tanto quanto la sua funzione. Non a caso il  genio del Rinascimento  aveva eletto a  sua guida l’esperienza rifiutando dogmi religiosi e superstizion.i (Simona  Maggiorelli)

dal settimanale left Avvenimenti

 

 

 
Corriere 29.8.13
Leonardo da Vinci
Mosso da «paura e desiderio»
Nella caverna delle leggi fisiche. Per creare le sue macchine
di Giulio Giorello

Ansioso di contemplare «varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura», come racconta lui stesso in un appunto del Codice Arundel (British Museum, Londra), Leonardo si addentra «in una gran caverna», provando insieme «paura e desiderio»: il timore è prodotto dalla «minacciosa e scura spelonca» ma è vinto dalla curiosità di «vedere se là dentro fusse alcuna miracolosa cosa». Tali «miracoli» non nascono per prodigi sovrannaturali ma in base a leggi fisiche di cui la mente umana, quando è accorta e sottile, sperimenta gli effetti e talora ne escogita l’imitazione nei congegni meccanici. L’intreccio di paura e desiderio intesse così tutto il cammino dell’ «artista» tra osservazione del mondo e invenzione di macchinari. Come Leonardo ebbe a scrivere altrove: «non vedi tu questi diversi animali e così alberi, erbe, fiori, varietà di siti montuosi e piani, fonti e fiumi», che ci vengono offerti dalla natura, ai cui «artifizi» l’attività degli esseri umani aggiunge «città, edifizi pubblici e privati, strumenti opportuni all’uso, vari abiti e ornamenti»? A Ludovico il Moro, signore di Milano, aveva offerto i suoi servigi con queste parole: «occorrendo di bisogno farò bombarde, mortari e passavolanti di bellissime e utili forme», insomma «varie e infinite cose da offendere e difendere». L’arte dell’uomo è quindi capace di distruzione ma anche di costruzione.Leonardo ha ben meritato il titolo — come ha dimostrato nei suoi studi Carlo Pedretti — di «eccellente architetto» per l’audacia dei suoi progetti, in particolare nella Milano del Duomo e dei Navigli. Affascinato dalle forme naturali, tanto in piccolo quanto nel grande universo, insisteva sulle somiglianze tra le strutture architettoniche e quelle presenti in natura, in particolare nella stessa anatomia umana.Quest’ultimo aspetto è ben documentato nella mostra dedicata allo «uomo universale» alle veneziane Gallerie dell’Accademia. Leonardo lavora al suo Uomo Vitruviano, e qui dà campo libero alla sua magnifica ossessione per le proporzioni numeriche. Scrive infatti che Vitruvio aveva riconosciuto «che le misure dell’omo sono distribuite dalla natura», in modo che siano soddisfatti precisi rapporti matematici. «Tanto apre l’omo ne’ le braccia, quanto è la sua altezza», annota Leonardo. E poi procede nei particolari: «la parte sedente, cioè dal sedere al di sopra del capo, fia tanto più che mezzo l’omo quanto è la grossezza e lunghezza dei testiculi».Sa bene che la mente ha bisogno dell’occhio e della mano. Il primo è «la finestra dell’anima», la seconda è l’esecutrice che traduce nello schizzo sulla carta ciò che la mente ha scorto da quella finestra. A un mondo di forme corrisponde così il lavoro sulle figure. «Se tu poeta o matematico non avessi coll’occhio viste le cose, male le potresti riferire con le scritture» ammonisce nel Codice Atlantico.
Per Leonardo «chi sprezza (cioè disprezza) la pittura non ama la filosofia della natura», e corre il rischio di allontanarsi dalla vera devozione della mente: «poni scritto il nome di Dio in un loco e ponvi la sua figura a riscontro: vederai quale fia più riverita»! Le tradizioni religiose dell’Occidente hanno spesso coltivato la tentazione dell’iconoclastia, vedendo nel trionfo dell’immagine il tradimento della parola se non addirittura il peccato dell’idolatria; Leonardo «omo senza lettere» la pensava diversamente: senza troppo invischiarsi in discussioni teologiche riteneva che una «furiosa battaglia» o l’aspetto di una bella donna potessero terrorizzare o intimorire a distanza solo grazie alla rappresentazione pittorica, poiché il pennello prevaleva sulla penna. Così, i disegni sono veri e propri strumenti per pensare e risolvere problemi concreti, ed è sotto questo profilo che il pittore è davvero «un nipote di Dio» che è padre della natura.Il commento scritto è importante ma è solo un aiuto per l’immagine. Del resto, aggiungeva polemicamente Leonardo, che il nome di qualsiasi cosa cambia con le lingue e le culture mentre la forma permane fino a che questa «non è mutata dalla morte». E se occhio e mano cooperano a fissare la dinamica incessante delle forme non riescono comunque ad aver vittoria definitiva sul mutamento. Il tempo rimane il «veloce predatore delle create cose» e nessuna bellezza è eterna. Il timore non è mai cancellato dal talento, e l’artista umano non è Dio. Egli «disputa e gareggia con la natura» ma può anche perdere la partita. L’unica vera soddisfazione è che valeva la pena comunque di impegnarsi nella gara.

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Un Ulisse tutto da ridere

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 16, 2012

Scaduti i diritti, in Italia  Newton Compton  ha pubblicato una nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce  che ne recupera il lato comico e lo humour. Da appassionato cultore della storia e della letteratura irlandese il filosofo Giulio Giorello la presenta in occasione del Bloomsday

di Simona Maggiorelli

James Joyce

Tradurre è sempre un po’ tradire. Ma può essere anche “trans ducere”, portando in luce un senso più profondo. E’ questo il caso della  traduzione dell’Ulissedi James Joyce firmata da Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi uscita per Newton Compton.

A sostenerlo è Giulio Giorello che proprio al tradimento dedica il suo nuovo libro edito da Longanesi: una gustosa scorribanda, e antimoralistica, passando da Shakespeare a Mozart a Joyce.

L’opera dello scrittore irlandese, il 16 giugno, è festeggiata nel Bloomsday, in Irlanda e in molti altri Paesi. E il filosofo della scienza dell’Università di Milano  racconta: «Sono particolarmente felice che si torni a parlare dell’Ulisse fuori dall’accademia. Troppo spesso la discussione fra eruditi dimentica che i versi di Dante erano cantati dal popolo a Firenze. Si dimentica che chi andava a vedere Shakespeare, fra un palco e l’altro, arrostiva un montone o improvvisava un duello. E che in Joyce vibra la voce roca, ma affascinante, del coraggioso proletariato irlandese che nel 1916 nella cosiddetta Pasqua di sangue fece vedere i sorci verdi agli occupanti britannici».

In una lettera giovanile lo stesso Joyce, merita qui ricordarlo, si definiva «scrittore socialista» e, nonostante l’Ulisse sia poi diventato un libro di culto e per molti versi poco accessibile, nasceva dall’idea di scrivere una moderna Odissea che restituisse dignità alla vita quotidiana delle persone “qualunque”, come lo è il suo protagonista, Leopold Bloom.

«Questa nuova traduzione ha il merito di far emergere il carattere democratico di questo meraviglioso romanzo che, per me», sottolinea il filosofo, «è il più grande testo del Novecento. Qui ritrovo l’humour e un senso plebeo dell’esistenza molto Irish, che rende l’Ulisse così affascinante». Un senso che fece storcere il naso a Virginia Woolf che lo giudicava “un testo scomposto” e “disgustoso”, scritto da “un proletario autodidatta”. «Sarà certo vero quello che diceva la signora Woolf, ma per me» stigmatizza il professore «fra l’ Ulisse e gli esangui, tristi, romanzi della Woolf c’è la stessa differenza che corre fra un buon whisky e un’aranciata».

Entrando più nel merito di questa nuova traduzione Newton Compton che esce a più di cinquant’anni da quella classica di De Angelis, Giulio Giorello approfondisce: «Mi colpisce soprattutto la vitalità di questa nuova versione. Che, per esempio, usa il tu in dialoghi chiave come quello fra Bloom (Ulisse) e Dedalus (Telemaco) che, in una taverna, imboccano una discussione alta su scienza e religione».

E poi, per fare un altro esempio, nella traduzione di Terrinoni e Bigazzi «si coglie tutta l’ironia di Joyce verso Darwin. Un caso per tutti: a proposito della tragica storia irlandese, Joyce parla di Destruction of the Fittest, qui correttamente reso come la distruzione del più adatto. E non come la distruzione dei migliori. Che sarebbe sbagliato». Joyce ben conosceva il dibattito sulle idee di Darwin fortemente osteggiato dai gesuiti e, sottolinea il filosofo della scienza, «si divertiva a prendere in giro gli slogan dei darwinisti sostenendo che è la storia umana non riflette l’evoluzione ma quasi drammaticamente la contrasta».

Bloomsday e protesta contro le banche, Dublino

E da notare è anche «che questa intuizione di Joyce, che era un cultore di Nietzsche, trovi un preciso parallelismo in Umano troppo umano dove il filosofo tedesco mostra tutta l’ambiguità di un darwinismo ideologico e ingenuo».

Quanto all’incipit invece? «In questo caso», ammette Giorello, «sono affezionato alla vecchia traduzione di De Angelis: “Solenne, paffuto, Buck Mulligan spuntò in cima alle scale” recitava. Qui invece si legge, “statuario e pingue”. Pensando forse al Falstaff shakespeariano che era molto presente nell’opera dello scrittore irlandese».
Shakespeare era indubbiamente un modello forte per Joyce, come scrittore a tutto tondo, interessato all’umano, inteso come corpo e mente. «E’ uno dei suoi grandi riferimenti insieme ad Omero e a Dante. Poi nel suo orizzonte ci sono due grandi filosofi napoletani: Giordano Bruno  è  più volte riecheggiato nel libro e Vico, che sarà uno dei grandi riferimenti di Finnegans Wake, compare già qui.  E’ la grande sfida di Ulisse essere un grande poema in prosa irlandese e nello stesso tempo il grande poema dell’umanità nell’incertezza».

Gli strali verso  i più ideologici epigoni di Darwin,  intuizioni sull’idea di spazio tempo in linea con la  teoria della relatività, ma anche Freud compare indirettamente nel romanzo. Come bersaglio critico. Joyce non amava Freud, è ben noto, e rispose da scrittore all’apertura all’irrazionale avviata dall’arte di inizi Novecento. Lo fece dilatando l’Ulisse a misura del tempo interiore del protagonista Leopold Bloom. E affidando il racconto a una lingua icastica, vitale, polifonica. «Insieme a Faulkner, Joyce è a mio avviso lo scrittore del secolo scorso che più di ogni altro ha colto il tempo del profondo» commenta Giorello. Quanto alla lingua  era «innervata da uno spirito autenticamente democratico. La lingua che usa Joyce», ci ricorda Giorello, «è quella dei vetturini, degli agenti cambio, degli uomini della strada e dei pub. Era lontano anni luce da atmosfere intellettuali esangui. Nell’Ulisse ci sono la carne e il sangue di un popolo che era riemerso da una storia tragica, con una concezione». Peraltro, aggiunge il professore, l’Irlanda ne è uscita «con un’idea molto bella di tolleranza delle diverse scelte di vita. Con l’idea che la democrazia non è fare quello che vuole la maggioranza, ma significa seguire la vocazione delle minoranze, senza dimenticare il diritto di coloro che sono oppressi a ribellarsi».

Giulio Giorello

Lo stesso  Bloom  in Ulisse esprime un’umanità ben diversa dall’eroe omerico maestro d’inganno e astuzia. «Qui l’eroe è anti omerico», precisa Giorello. «In questo senso Bloom è anche anti shakespeariano e, per esempio, scopertosi cornuto, conclude la faccenda con la signorile decisione di lasciar perdere. Un po’ come i personaggi dell’opera di Mozart che Joyce ama di più: ovvero le ragazze di Così fan tutte, non certo il Don Giovanni».

E qui il pensiero corre all’ultimo libro di Giorello, il Tradimento, in cui Bloom è eletto a  modello antimoralistico. «Beh invece della vendetta di Otello o del macello che fa Ulisse quando torna in patria, trovo che questa nonchalance di Bloom mostri tutta la dimensione amabile del personaggio: uomo non banale, sensibile, attento alle conquiste della scienza. E che forse a sua volta avrebbe qualcosa da farsi perdonare quanto a fedeltà. Una parola che è appunto motto dell’arma dei carabinieri, ma non so quanto utile nel rapporto fra uomo e donna».

da left-Avvenimenti

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L’italia laica si dà appuntamento a Reggio Emilia

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2012

Contro le ingerenze vaticane e i governi baciapile. Per un’etica libera dalla metafisica. Nella città emiliana tre giorni di discussioni con Telmo Pievani, Giorello, Viano, Rusconi, Lecaldano e molti altri

di Simona Maggiorelli

Finalmente liberi da un governo di centrodestra dalla doppia morale (baciapile in Aula e bunga bunga di notte) si sperava che l’attuale governo “tecnico”, quanto meno, non proseguisse sulla strada dell’agenda bioetica vaticana adottata da Berlusconi. Ma che questa fosse, appunto,
una “pia” illusione ce l’ha fatto intendere da subito il premier Monti che, come primo gesto pubblico e istituzionale, ha scelto di andare a messa.
Nel frattempo questioni urgenti come un dibattito civile sul biotestamento e la cancellazione delle linee guida della legge 40, varate con un colpo
di mano dalla ex sottosegretaria Eugenia Roccella fuori tempo massimo, quando il governo Berlusconi era già caduto, sono finite in un limbo.

E le cose non sembrano andar meglio nelle politiche locali. Con i consultori pubblici sempre più presi d’assedio dalle associazioni religiose e un proliferare di cimiteri per feti, dal Veneto alla Toscana, voluti da amministrazioni locali di centrodestra ma anche di centrosinistra (Firenze docet). In questo quadro, che Reggio Emilia continui, con l’aiutom di un gruppo di studiosi e intellettuali, a tenere alta la propria tradizione atea e partigiana ci pare un fatto non trascurabile. Dal 20 al 22 aprile filosofi, scienziati, bioeticisti, storici e sociologi di fama internazionale torneranno ad affollare la città emiliana in occasione delle Giornate della laicità. Aprendo le porte dell’università di Modena e Reggio al più ampio pubblico per poi proseguire il dialogo nei cinema e nei teatri. Tema centrale dell’edizione 2012 sarà la pesante ingerenza vaticana che vorrebbe il Belpaese dimentico di storiche sentenze come, per esempio, 203 del 1989 in cui la Corte costituzionale scriveva che «il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella carta costituzionale della Repubblica». Della violenza e del dogmatismo di uno Stato etico e confessionale – come è quello italiano, quando impone l’accanimento terapeutico o obbliga, per legge, una donna a farsi trasferire in utero embrioni malati- discuteranno al festival non solo medici e scienziati, ma anche antropologi e filosofi. E mentre lo storico del diritto Sergio Lariccia e il filosofo Giulio Giorello ci ricorderanno l’importanza che ha avuto la separazione fra Stato e Chiesa nello sviluppo di moderne democrazie (Francia e Inghilterra in primis), i curatori del Rapporto sulla secolarizzazione stilato da Critica liberale e Cgil nuovi diritti dimostreranno, dati alla mano, che il Paese reale è molto più laico della sua classe dirigente. Dell’antistorica pretesa della Chiesa di imporre i suoi «valori non negoziabili» alla società multiculturale
di oggi parlerà la sociologa Chiara Saraceno, mentre i filosofi Gian Enrico Rusconi, Eugenio Lecaldano e Carlo A.Viano rilanceranno i temi forti
di un’etica laica. «È frequente sentire sulla bocca dei credenti la tesi che se Dio non ci fosse, tutto sarebbe moralmente lecito», nota Rusconi. «Per il laico invece la determinazione delle regole morali, e quindi la fondazione dei diritti, prescinde da ogni riferimento diretto a Dio. Questa posizione
si esprime nella necessità per il laico di agire etsi deus non daretur, una formula», tiene a precisare Rusconi, autore di Cosa resta dell’Occidente (Laterza 2012) ma anche di Come se dio non ci fosse (Einaudi, 2000), «che non è una dichiarazione circa l’esistenza o l’inesistenza di Dio, ma è un postulatoma è un postulato di ordine etico. È la rivendicazione della piena autonomia e responsabilità morale dell’uomo e della donna».

Più radicale nel rifiuto della religione è Telmo Pievani che a Reggio Emilia parlerà di “Scienza libera/scienza virtuosa”: «Finché ci sarà scienza sperimentale, ci saranno novità e sorprese», dice da filosofo della scienza. «Sta in questo la carica rivoluzionaria e di libertà della scienza».

da left-avvenimenti

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Babilonia, la prima metropoli cosmopolita

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012

di Simona Maggiorelli

Babylon, gate of Ishtar

Culla della civiltà e straordinario melting pot di culture diverse, la Mesopotamia nella storia è stata duramente attaccata dall’Occidente. Tanto che per secoli cronache e dipinti l’hanno raccontata come il Male, come terra di peccato e di perdizione. Negando il valore della civiltà babilonese e le sue straordinarie realizzazioni in campo architettonico e culturale. Ma anche quell’intelligente lavoro di riassorbimento del passato sumerico e di reinvenzione delle altre tradizioni che, invece, aveva permesso a Babilonia di crescere rapidamente, diventando fra il II e  il I millennio a C., la capitale di Hammurabi e faro di tutto il Medio Oriente.

Così, mentre i testi cuneiformi la raccontano come città del bene, della convivenza pacifica fra i popoli, ma anche come luogo delle meraviglie, fucina delle arti, della letteratura, della poesia, della astronomia e della medicina, la tradizione biblica  ne ha  tramandato un’immagine deformata, frutto di una perversa rivisitazione ideologica.

E negli affreschi medievali, ma anche in opere di maestri come Bruegel o Rembrandt, gli svettanti ziqqurrat della capitale pagana appaiono tramutati in diroccate torri di Babele su cui si scaglia la maledizione divina, i ricchi palazzi diventano oscuri harem dove si consuma ogni tipo di violenza, i luminosi giardini pensili appaiono inquietanti e labirintici. E questo è accaduto per un arco di tempo lunghissimo, che va dai Salmi fino a Borges con la sua metafisica Biblioteca di Babele. E ancora oltre.

Ishtar/Inanna

Ishtar/Inanna

Come ricostruisce l’archeologo Paolo Brusasco nel libro Babilonia. All’origine del mito (Raffaello Cortina). Un affascinante lavoro multidisciplinare in cui il docente di storia dell’arte del Vicino Oriente dell’Università di Genova ricostruisce la verità storica di Babilonia, mostrando come il mito che l’Occidente ha costruito sia servito «ad esorcizzare le proprie paure» e continui a gettare ombra sul presente. Non a caso uno dei primi capitoli del libro è dedicato a una «autopsia del disastro in Iraq», dopo un ventennio di guerre e l’invasione anglo-americana.

La missione “civilizzatrice e democratica” targata Usa, come è noto, si è tradotta anche nell’occupazione militare del sito di Babilonia, distruggendo ogni possibilità di leggere filologicamente la stratigrafia. Un po’ come se i talebani fossero sbarcati a Pompei, suggerisce il professore. E senza che da parte degli organismi internazionali ci sia stata adeguata attenzione. E oggi, dopo che le truppe anglo-americane hanno lasciato il Paese, cosa sta realmente accadendo? «La situazione è ancora molto inquietante – denuncia Brusasco – Anche perché è impossibile stimare la reale entità dei danni che migliaia di siti archeologici stanno tuttora subendo. Una mia analisi del commercio telematico di antichità mesopotamiche dimostra la presenza di numerosissimi reperti sumerici e assiro-babilonesi verosimilmente finiti sul web in modo illegale. Anche le contrapposizioni etnico-confessionali (tra curdi, sciiti e sunniti etc.) hanno un peso nella mancata tutela del patrimonio culturale: sia la ricognizione dei Carabinieri del nucleo per la tutela che quelle del British Museum sotto l’egida dell’Unesco hanno messo in luce il perdurante saccheggio dei siti sumerici e babilonesi dell’alluvio meridionale (il biblico Eden) da parte di tribù sciite impoverite da anni di embargo e guerre. Per tacere dell’ennesima riapertura “propagandistica” dell’Iraq Museum, cinque mesi fa, in occasione di una mostra sulla scrittura cuneiforme, senza una preventiva messa in sicurezza delle strutture espositi

Tavoletta di argilla babiloneseNel libro Cultural cleansing in Iraq un gruppo di intellettuali scrive che l’invasione anglo-americana è stata un deliberato attacco all’identità storica dell’Iraq. E ha comportato «l’annientamento del patrimonio iracheno e della sua classe». Ma quale minaccia può mai rappresentare Babilonia oggi?

«Questo ed altri importanti siti antichi del Paese- spiega Brusasco-«sarebbero una minaccia in quanto simboli della grandezza del regime sunnita dell’ex dittatore Saddam Hussein che ne aveva fatto delle icone della sua propaganda politica :la cosiddetta mesopotamizzazione dell’Iraq. Distruggere questi simboli, con una vera e propria operazione di pulizia culturale, permetterebbe una riformulazione del concetto di nazione irachena più in linea con gli interessi Usa, per il petrolio e il controllo geopolitico del Medio Oriente. Una nazione che, privata della fierezza della propria memoria storica, diverrebbe uno stato vassallo, asservito agli interessi anglo-americani; i quali del resto non possono vantare un passato altrettanto straordinario.

Nella storia occidentale affiora l’immagine di un Oriente seducente e misterioso. Più spesso però il pregiudizio è stato violento. Il mito della torre di Babele lo testimonia?

I Greci lo vedevano come esotico, non senza una forte seduzione. Le invettive dei profeti contro Babilonia, «la madre delle prostitute», sono state amplificate a partire dalla cattività babilonese dal 597 al 538 a.C. E Babilonia è stata investita dal mito della confusione delle lingue dei popoli costruttori della torre di Babele, nella realtà la ziqqurrat Etemenanki, la “Casa delle fondamenta del cielo e della terra”. Fu un ribaltamento effettivo della realtà storica: la torre era il simbolo della prima città cosmopolita della storia alla cui costruzione cooperarono le migliori maestranze dell’impero, che, al contrario, si comprendevano grazie alla lingua franca dell’epoca, l’aramaico. Ma per gli esuli ebrei la torre era un idolo pagano dedicato al dio Marduk e un affronto al dio unico Jahvè.

Babilonia era la grande meretrice. E Semiramide era la lussuria. L’Occidente era scandalizzato dall’immagine e dall’identità che la donna aveva nella cultura babilonese, dove la stessa dea Ishtar rappresentava una sessualità femminile più libera e “attiva”?

babilonia secondo Brueguel

La «figlia di Babilonia» dei profeti si materializza in una donna in carne e ossa, «la grande prostituta». Vedere Babilonia come di genere femminile, e come corrotta e peccatrice, è una equazione rivelatrice della mentalità che echeggia nella Bibbia. L’esistenza di donne di grande potere in Mesopotamia doveva avere colpito anche i Greci che costruirono il mito della licenziosa Semiramide, la femme fatale costruttrice di Babilonia. L’eroina è un personaggio leggendario, un concentrato di valenze storiche, ispirato alle regine assire (Shammuramat e Nakija) e mitiche, dietro la quale si cela l’energia sessuale e guerriera della dea Ishtar, assai cara alla tradizione popolare babilonese. I profeti ebrei e i sapienti greci, tra cui anche Erodoto, rimasero scandalizzati anche dal costume babilonese della prostituzione sacra: in realtà si trattava di una unione sessuale (la ierogamia) di carattere apotropaico celebrata a Capodanno per rigenerare le forze stagionali della natura. E sottendeva al potere erotico del femminile come elemento culturale primario, lontano da una semplice valenza istintuale: le prostitute erano considerate le principali educatrici degli uomini non civilizzati, e i miti mostrano una sostanziale simmetria tra i sessi, entrambi emersi dalla terra o da un corpo” androgino” (amilu, “essere umano”).

Che differenziava l’ Afrodite greca, Ishtar/ Inanna sumerico accadica e Astarte fenicia?

Originano tutte da una primigenia divinità madre preistorica, la cui valenza sessuale attiva e procreatrice si unisce ad aspetti distruttivi e ctonii, legati all’oltretomba, man mano che si sviluppano civiltà sempre più complesse. L’Inanna/Ishtar babilonese è l’archetipo da cui si generano tradizioni fenicie, greche, romane ed etrusche indipendenti. L’Astarte fenicia è la trasposizione tout court della Ishtar babilonese, l’Afrodite greca ha una valenza legata alla spuma del mare primigenio, mentre Ishtar è anche la stella del pianeta Venere e ha quindi forti connotazione astrale.

Paolo Brusasco

Nel libro lei si occupa del poema d’Agushaya e della danza sfrenata che le era associato. Alcuni aspetti della cultura babilonese possono aver influenzato, direttamente o indirettamente, regioni del nostro Meridione?

«Il leone di Ishtar si è calmato, il suo cuore si è placato». Così chiude il poema dedicato alla Ishtar guerriera, ovvero Agushaya, dal sovrano babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.), dopo avere conquistato il mondo allora conosciuto. Il rito aveva lo scopo di placare il furore bellico del sovrano, come pure appianare le tensioni sociali esistenti all’interno della comunità, dal momento che prevedeva una danza catartica collettiva del popolo in festa. Non possiamo postulare un collegamento diretto con rituali del nostro meridione quali, per esempio, il tarantolismo pugliese, anche se la forma cristianizzata del tarantolismo richiama l’antichissimo sottofondo pagano della Magna Grecia, probabilmente debitore di influssi orientali. Negli ultimi anni risulta sempre più chiaramente la profonda ricchezza di contatti nel mondo antico. Per non fare che un esempio: la recentissima scoperta nel santuario fenicio di Astarte a Tas-Silg (Malta) di un amuleto babilonese di agata, recante un’iscrizione cuneiforme del 1300 a.C., testimonia di incredibili contatti tra Oriente e Occidente la cui natura e dimensione restano in via di definizione. Certo non si può disconoscere il ruolo giocato dai marinai e mercanti fenici nell’esportazione verso il Mediterraneo occidentale di culti orientali quali quello di Astarte/Ishtar, con tutte le implicazioni culturali che ne derivano.

da left-Avvenimenti

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Le radici dionisiache dell’Europa

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 31, 2011

Alle origini del pensiero greco.  Indagando il tema della follia nell’epos e nei culti dall’Oriente , Un incontro con il gregista Guido Guidorizzi che, dal3 al 5 settembre, saràfra i protagonisti del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

arte minoica. affreschidall'isola di Thera, 1650 a.C

Dopo aver curato il volume Il mito greco uscito l’anno scorso nei Meridiani Mondadori, Giulio Guidorizzi torna in libreria con un nuovo libro, Ai confini dell’anima, dedicato ai Greci e alla follia e pubblicato nella collana di Raffaello Cortina diretta da Giulio Giorello. Un saggio dove l’ordinario di Teatro e drammaturgia dell’università di Torino prova ad approfondire la complessa koiné culturale della Grecia arcaica, prima della cosiddetta nascita del logos. Dedicando ampio spazio allo studio della potenza espressiva e icastica dell’epos più antico ma anche alla ricerca sui culti di Dioniso documentati anche nella cultura minoica.

Giulio Guidorizzi con Eva Cantarella a Firenze

«Nella Grecia delle origini – annota il grecista torinese nel suo nuovo lavoro – lo statuto della follia oscilla fra due estremi», dal momento che non fu intesa solo come «cedimento della ragione» ma anche «come incontro con sfere nascoste della mente». Tanto che la parola “follia” si legava a culti estatici, era alla base dell’attività dei profeti e perfino di politici; era la voce degli oracoli. Insomma, parafrasando Shakespeare, chiosa lo studioso, «c’era del metodo in quella pazzia che ispirava poeti e cantori».
Professor Guidorizzi, i Greci delle origini inventarono la follia, lei scrive. Come accadde?
I Greci inventarono anche la filosofia, del resto. Appunto nel definire i confini della ragione e nello studiare i procedimenti logici della mente, necessariamente, incontrarono il mondo della non-ragione e tentarono di farne conoscenza. L’idea che la pazzia sia una vera e propria malattia, dell’anima (come dicevano i filosofi) o del cervello (come dicevano i medici), compare per la prima volta, nella storia della civiltà occidentale, nel V secolo a.C., ovvero il secolo di Pericle e Socrate. Da allora in poi, ragione e follia apparvero come due facce contrapposte dell’uomo: o si è folli o si è sani di mente. Però, la sapienza greca arcaica non aveva confini così netti; in Grecia, tra l’altro, non vi fu mai la reclusione o l’emarginazione dei folli, anzi, la follia fu considerata, in alcuni casi, come un mezzo per forzare i limiti della coscienza e dilatare la personalità. Un mezzo, anche, per esplorare i confini dell’umano, scavalcando la ragione.
Dal suo libro emerge che il mito di Dioniso non giocò un ruolo affatto marginale nella cultura greca. Dunque, Nietzsche in certo modo aveva visto giusto?
Credo che, dopo Nietzsche, Dioniso sia tornato a essere un patrimonio della nostra civiltà. L’Illuminismo aveva escluso dalla cultura ciò che non è pienamente razionale ma Dioniso dimostra il contrario: anche la non ragione può entrare nella sfera della civiltà. Ai margini: né completamente dentro né completamente fuori. Il Dioniso dei Greci aveva molte facce, era un dio della vegetazione, un profeta, un dio civilizzatore; noi oggi tendiamo a vederne soprattutto una faccia: la forza irresistibile e involontaria che consente di uscire da se stessi, di superare i limiti della personalità per ritrovare l’armonia a cui aspiriamo e da cui la civiltà ci ha inevitabilmente separato. E’ davvero un modo diverso di concepire il mondo: perché il fatto davvero speciale è che Dioniso non è il dio della follia ma il dio alla cui natura profonda apparteneva il fatto di essere folle lui stesso.
«Dioniso non è Era che si compiace del suo potere “gettando la follia su altri”, si legge nel suo Ai confini dell’anima. La follia dionisiaca, dunque, era ben diversa dallo “stare male” che Era induceva?
Come avviene generalmente nelle culture primitive, i comportamenti anormali e inspiegabili sono visti in termini di intervento esterno: arriva un demone, entra nel corpo di un uomo e poi così come è arrivato se ne va. Nel frattempo, un uomo è un posseduto o (come dicevano i Greci) un éntheos, un “uomo dentro cui abita un dio”. Ma questo dio si manifesta in forme diverse. La follia mandata da Era è truce e distruttiva, quella di Dioniso è gioiosa, può essere talora sanguinaria ma comporta anche l’idea di una conoscenza e di rinascita.

Nella cultura greca antica c’era la follia delle sacerdotesse. Ma nei poemi omerici si parla anche di quella di Aiace, che è cosa ben diversa. C’era in nuce una distinzione fra “follia” (intesa come irrazionale creativo, pensiero per immagini) e “pazzia” (intesa come irrazionale malato, distruttivo)?
Platone parlava di due tipi di follia, una negativa, che consiste nella malattia dell’anima; l’altra invece è una “divina follia” che favorisce manifestazioni creative e visionarie: è un surplus di energia psichica che trasporta la mente là dove, con le sole forze della ragione, non sarebbe capace di andare. Sotto questo aspetto, l’artista è un folle, perché ciò che lo muove è l’ispirazione irrazionale di cui non è pianamente padrone; un profeta è un folle perché vede cose che altri, sani di mente, non vedono; folle è anche un innamorato,  dentro il quale operano “forze” di cui non è padrone e gli impongono azioni ed emozioni che non potrebbe mai compiere o provare  in condizioni normali.

Un’ampia parte del suo libro è dedicata ai poemi omerici. E in Omero si legge:”Due sono le porte dei sogni inconsistenti, una ha battenti di corno, l’altra d’avorio, quelli che escono fuori dal candido avorio, avvolgono d’inganni le mente, parole vane portando; quelli che escono fuori dal lucido corno, verità li incorona, se un mortale li vede. Quasi a dire che specifico della specie umana è anche un pensiero della notte, per immagini, che è fantasia, conoscenza profonda quando non è offuscato da carenze, negazioni e annullamenti?
I Greci davano una speciale importanza al linguaggio dei sogni. Il sogno era per loro una fonte di conoscenza: in sostanza, l’idea è che non si vive solo di vita cosciente ma che la vita può essere raddoppiata, se si includono nella nostra esperienza anche le immagini notturne. Platone afferma che il sogno rivela una serie di esperienze represse e primitive che si agitano dentro gli uomini. Il sogno dimostra quindi l’uguaglianza psichica di tutti gli uomini, perché dal punto di vista della vita irrazionale il saggio non è migliore del criminale, ed è appunto questo groviglio di cose che i sogni mettono in luce, in tutti, durante la notte in cui anche un uomo onesto sogna cose proibite o immorali. Senonché Platone scelse di chiudere la porta che si apriva sull’inconscio per affermare che solo l’anima razionale porta l’uomo verso la sua vera umanità. Ma con la contraddizione, appunto, della follia: che da un lato disgrega ma dall’altro esalta.
Lei si è occupato lungamente di mito greco, ecco, dall’Oriente era giunta una favola che narrava di una fanciulla, Psiche, che sarebbe andata in sposa al dio dell’amore. Poi venne Platone che, come oggi sappiamo, ne fece un concetto astratto di anima. Così il logos greco si strutturò per annullamento del pensiero irrazionale e dell’identità femminile…
In effetti, i mostri della mitologia greca sono quasi tutti al femminile: Arpie, Sirene, Gorgoni. Una femminilità spaventosa e terrificante; però, c’è un altro versante della questione. I grandi personaggi della tragedia greca, per esempio, sono, quasi tutti donne: sembra che nell’analizzare le grandi forze che si agitano nell’anima, il mondo femminile rappresentasse per i Greci un universo da esplorare.  In effetti, l’uomo inventa la civiltà, la città, le leggi; ma la donna conserva le radici della natura, dentro di sé, e le fa emergere irresistibilmente, talvolta in modo anche inquietante. Donne di tutti  i tipi: colei che si sacrifica, l’omicida, la gelosa, la sposa fedele, la traditrice…  Non conosco altra letteratura che abbia presentato un panorama così ampio e grandioso di figure femminili, da Elena a Clitennestra, ad Antigone.

da left-avvenimenti del 16 luglio 2010

LA MOSTRA: CAPOLAVORI RIEMERSI DAL MARE

Sono riemersi dal mare due tesori dell’arte antica, esposti a Roma. Si tratta di una statua di Dioniso dal sorriso velato di malinconia e di una grande maschera in bronzo di Papposileno. I due capolavori, rispettivamente del II secolo d. C. e del I secolo a.C,, si possono vedere fino al 18 luglio, al Museo nazionale romano di palazzo Altemps. Le due opere, in passato custodite in dimore private, tedesche e italiane, sono state acquistate e restaurate dalla Fondazione Sorgente group. La maschera bronzea di Papposileno (che compare nella foto qui sopra), in particolare, è considerata un unicum nella produzione artistica greco-romana. Raffigura un satiro che ha le sembianze di un essere semi ferino; nella storia del teatro drammatico greco, Papposileno è il sileno più anziano e il più saggio della “corte” dionisiaca, infatti a lui fu affidato Dioniso quando era piccolo. Ma preziosa è considerata anche la scultura del giovane Dioniso (alta un metro e mezzo), in marmo bianco italico a grana fine e realizzata  ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, intorno al 180 d. C.

CLASSICI. da Nietzsche a Kerényi

Nietzsche che pure professava un radicale ateismo, contrappose un dio greco a cristo. Come giunse a questo?». Come arrivò a capire che una cultura del tutto diversa si era espressa con il mito di Dioniso? è la domanda che Karl Kerényi si poneva nell’introduzione al suo Dioniso, scritta a Roma nel 1967. Una domanda che al filologo ungherese aveva fatto scattare la voglia di scavare più a fondo nei culti dionisiaci. Riconoscendo al pensiero del filosofo tedesco molte intuizioni. Nonostante le contraddizioni  infeconde e il fondo di religiosità incoffessato degli scritti nietzschiani. L’indole misticheggiante di Kerényi, del resto, non gli permise di vederle. Resta però che il suo corposo Dioniso, ora riproposto da Adelphi, è ancora un importante classico negli studi. A partire dalla decifrazione della seconda scrittura lineare cretese compiuta da Michael Ventris, infatti, Kerényi si dedicò all’interpretazione delle occorrenze di nomi dionisiaci che vi emergevano. Da qui una serie di importanti scoperte sulla civiltà minoica «che – scriveva – rimane del tutto incompresa se non viene inteso il suo carattere dionisiaco».

da left-avvenimenti 19 luglio 2010

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Giulio Giorello: non posso che dirmi ateo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 21, 2010

Dal 16 settembre in libreria il nuovo libro dell’eminente filosofo della scienza, Senza Dio,

di Simona Maggiorelli

giulio giorello

Viaggiando nelle sei contee dell’Ulster, la cosiddetta Irlanda del Nord, per raccontare la guerra sulle pagine del Corriere della Sera, una volta mi ritrovai a dover chiedere ospitalità per la notte presso una famiglia di campagna», racconta Giulio Giorello. «Stavo già sistemando il bagaglio – prosegue il filosofo – ed ecco la domanda: “cattolico o protestante”? Preso alla sprovvista, mi venne spontaneo dire: “Sono ateo”.  Un attimo di silenzio perplesso e il mio interlocutore rilancia: “Sì, ma ateo protestante o ateo cattolico?”».
Un episodio di vita che il docente di Filosofia della scienza dell’università Statale di Milano ama ricordare parlando di inveterate abitudini a credere («per non fare la fatica di pensare»), di insopportabili sudditanze alla religione e di vecchi e nuovi roghi. Lo ha richiamato anche sabato scorso dal palco del festival Con-vivere di Carrara (dove left l’ha incontrato) per spiegare “il caso Irlanda”. E usa ancora questo aneddoto rivelatore, a mo’ di grimaldello narrativo, nel nuovo libro Senza Dio, del buon uso dell’ateismo (Longanesi) che il professore ha presentato il 19 settembre nell’ambito del festival Pordenonelegge.
E riavvolgendo il filo della propria biografia, ricorda Giorello nel  saggio fresco di stampa, già sui banchi di scuola cominciava a fare sue posizioni agnostiche: grazie a pensatori come Bertrand Russell e al suo Perché non sono cristiano  pubblicato in Italia da Longanesi nel 1959 e letto quasi di contrabbando perché «allora appariva come un testo tragressivo, peggio di Lolita di Nabokov».
Ma anche “grazie” a don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, che Giorello aveva come  insegnante di religione al liceo Berchet di Milano. Nel frattempo assorbiva enzimi di ateismo studiando l’evoluzionismo di Darwin. Ma anche filosofi ed economisti come John Stuart Mill. E perfino pensatori eccentrici come il francese Pierre Bayle. Nel Seicento sosteneva che nel mondo cosiddetto civile non c’era ancora «una società di atei» solo perché gli atei erano perseguitati dai fanatici religiosi tanto da dover vivere mascherati.   «Anche per constatazioni del genere, dirmi agnostico non mi bastava più», chiosa oggi Giorello.
Professore, cinque anni fa per Raffaello Cortina ha scritto il pamphlet Di nessuna chiesa. Ora intitola Senza Dio il suo nuovo saggio. Non basta criticare l’istituzione, serve una critica del pensiero religioso?
Sì e nella situazione attuale preferisco dichiararmi francamente ateo. Purché ateismo non significhi passare la vita a cercare prove della non esistenza di Dio. In questo mi stacco da vari amici e colleghi come Christopher Hitchens (autore di Dio non è grande, Einaudi, 2007, ndr). Per me ateo è chi reclama per sé il diritto di vivere senza Dio o, se si preferisce, di vivere contro Dio, cioè contro uno dei tanti dèi che i fondamentalisti del libro sacro ci sbattono davanti come punto di riferimento pretendendo  di irreggimentare anche la nostra vita. Perciò mi sento vicino a Bayle quando, contro l’opinione diffusa al suo tempo, sosteneva che fosse possibile una società di atei. E che non ci fosse bisogno di alcuna religione come cemento sociale.
Anche «una religione della libertà» in senso crociano è dannosa?
A mio avviso, non solo non c’è bisogno di una religione civile, tradizionale o meno. (Come il materialismo dialettico nel comunismo sovietico. Che poi fu il peggior servizio reso a Marx). Ma rivendico anche di non aver bisogno di una religione della libertà; voglio la libertà di non avere religione. Sono assai poco crociano. Parlare di religione della libertà è un po’ come dire Popolo della libertà. Sono allocuzioni come circolo quadrato. Da quando in qua si deve ragionare secondo il detto vox popoli vox dei? Ciò non vuol dire che non abbia fiducia nel sistema di consultazione e di rappresentanza popolare. Abbiamo talmente fiducia che vorremmo anche migliorarlo. Del resto Manzoni diceva già che il detto vox popoli vox dei copre ogni forma di demagogia e di tirannide. Insomma non c’è un popolo delle libertà, non c’è un Dio che elargisce la libertà, ce la prendiamo da soli. Non è un dono dall’alto, non dobbiamo ringraziare il cielo ma neanche pensare che la libertà sia una malattia. Non dobbiamo essere vaccinati. Perciò in questo libro un po’ idiosincratico che left presenta scrivo che il mio ateismo è “metodologico”, libertario. è un esercizio della libera scelta. La filosofia non  impone niente .
Ma usa le armi della critica corrosiva e dello sberleffo? Come Giordano Bruno. Oppure come Camus, «l’ateo ribelle».
L’arma del sarcasmo è legittima, quella del fuoco no. Il Corano, la Bibbia, e perfino le encicliche non sono testi da bruciare; sono documenti da leggere. Ma senza servilismo. è faticoso pensare, è molto più facile affidarsi a un pastore. Ecco, questa cosa della “pastorizia” mi innervosisce. Come diceva Mill, gli uomini e le donne non sono pecore. Mutatis mutandis, nel mio saggio non do risposte. Vorrei che la risposta venisse con persone desiderose di sforzarsi per la verità. Che è una ricerca continua, non un possesso. Mi piacerebbe venisse da un dialogo. Sto con Spinoza quando diceva che le religioni stabilite sono sistemi di menzogna, un grande «asilo dell’ignoranza».
Quello spinoziano, lei nota, era però «uno strano ateismo».
Era ambiguo. Se Dio è uguale alla natura, allora teniamoci la natura, disse de Sade ragionando in termini spinoziani. Qualcosa di analogo lo troviamo in Leopardi, che qualcuno tenta di far passare per spirito religioso: disinvolti tentativi cattolici. Potrebbero far santo anche Oliver Cromwell. Questi sono capaci di tutto.
Tanto da tentare, complice certa politica di destra, di far fuori Darwin dai programmi scolastici e, Oltreoceano, di imporre il “Disegno intelligente”. Al creazionismo però risponde la scienza con chiarezza parlando di processi di autoorganizzazione della materia vivente. Un’idea che trova sostenitori in Hawking e in Prigogine. Prendere atto che noi non nasciamo dal nulla e che la biologia nasce da altra biologia è la base dell’ateismo?
Sì. Io non sono d’accordo con quei filosofi che hanno liquidato le posizioni di Stephen Hawking come scientiste. penso, invece, che ponga un problema importante. Lei ha detto bene, la nostra biologia viene da altra biologia, la nostra fisica da altra fisica. «Creazione senza creatore», per dirla con Telmo Pievani. In Senza Dio riprendo una domanda: dove posa il mondo? Una storiella indiana dice che si trova sulla testa di una tartaruga. E questa dove posa? Sulla testa di un’altra tartaruga. E così via. Possiamo prospettare una sequenza infinita. Ma perché non chiuderla subito lì? Se uno vuole ancora parlare di Dio non deve cercarlo fra le particelle elementari o nella nostra biologia come tenta di fare Ratzinger pretendendo che il volto di Dio sia nel Dna o come faceva Pio XII quando parlava del «dito di Dio nel Big bang». Parliamo di uomini di primo piano della Chiesa come Ratzinger. Ma anche di intellettuali apparentemente dissidenti come il teologo Vito Mancuso, che alla fine trova sempre il dito di Dio da qualche parte. E chi legge l’evoluzionismo attribuendogli una forma di finalismo che Darwin non avrebbe mai giustificato. Basta leggere gli scritti di Darwin per rendersi conto che questa lettura provvidenzialistica non gli passava per la mente. Una teologia coraggiosa non dovrebbe cercare queste forme di compromesso, semmai dovrebbe avere il coraggio di “cercare Dio” dentro se stessi, nel proprio cuore, nella propria morale, nella propria vita. Aveva ragione Bruno: è inutile che cerchiamo Dio nei cieli adesso che sappiamo che la fisica dei cieli è la stessa di questa nostra terra, ma ricordiamoci «che egli è dentro di noi, più dentro di noi di quanto siamo noi a noi stessi». Lo scrisse ne La cena delle ceneri. Peccato che poi un libro così profondo sia finito in cenere nel senso tecnico del termine.

dal settimanale  left-avvenimenti 17-23 settembre 2010

I

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Graphic Novel. E’ vera ricerca

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 10, 2010

Tina Modotti, graphic novel

Anche chi (come chi scrive) non ha mai avuto grande fiducia nella decompartimentazione dei generi letterari praticata negli anni Settanta da una critica inneggiante alla commistione fra alto e basso (e che nei manuali includeva, alla pari, Dante e fumetti, poesia e canzonette) si trova ora piacevolmente a fare i conti con un fenomeno culturale che si pone esattamente su un crocevia fra generi diversissimi: la narrativa e l’illustrazione, incrociando talvolta persino la storia e l’inchiesta giornalistica.

Il fenomeno è quello del graphic novel, genere di cui left si è già occupato in precedenza raccontando opere e autori, a cominciare da quella dell’americano Will Eisner che, con Art Spiegelman, è considerato un maestro del settore.

Ma quella che poteva sembrare solo una curiosità o una scelta di nicchia, ovvero che Einaudi, proprio con Eisner (e ora con libri dal segno modernissimo come I quattro fiumi di Fred Vargas), si aprisse al graphic novel, è diventato nel frattempo un fenomeno diffuso nell’editoria italiana, non riguardando più solo case editrici underground. Prova ne è, di recente, la riscoperta da parte di Adelphi di un piccolo gioiello come L’arpa muta dell’americano Edward Gorey. Sceneggiatore, scrittore, artista, il poliedrico Gorey nel 1953 creò questo inusuale libricino sulle avventure e disavventure di uno scrittore alle prese con la pubblicazione di un romanzo. Con stile grafico elegantemente retrò, disegnato come se fosse uno storyboard per cinema muto, ecco un’operina che non si smetterebbe mai di tornare a sfogliare.

Fatto è che la tragicomica vicenda del malcapitato Mr Earbrass, che Gorey racconta con humour sottile, fa tutt’uno con lo stile delle immagini, facendo de L’arpa muta un unicum irripetibile. Forse, dovendo indicare un minimum comun denominatore nel mare magnum del graphic novel -che annovera libri illustrati, romanzi in strisce, illustrazioni con parole e molto altro – sceglieremmo proprio questo aspetto: tutti gli autori di graphic novel sono dotati di un singolare modo di comporre testo e immagini, sfuggendo così alla logica ripetitiva e seriale del fumetto. Quasi che il graphic novel derogasse del tutto dalle rigide caratteristiche della letteratura di genere. Qualche esempio? Assoluta originalità di composizione di parole e immagini caratterizza la visionaria riscrittura della favola di Hansel e Gretel firmata da Lorenzo Mattotti per Orecchio acerbo. Ma un personalissimo modo di mettere insieme testo e strisce connota anche le tavole autobiografiche di Persepolis della giovane iraniana Marjane Satrapi. Solo per citare due cult anni Duemila che più diversi fra loro non potrebbero essere. Ma veniamo al presente, cercando di percorrere, seppur in rapida panoramica, le proposte più interessanti degli ultimi mesi. Sulla linea di Mattotti, cioè sul versante alto che sfiora il libro d’arte, si iscrive il racconto che Irene Cohen-Janca fa della tragica vicenda di Anne Frank nel Libro di Anne (Orecchio acerbo).

Qui l’illustratore Maurizio Quarello sposa il punto di vista della bambina, con sguardi sbalorditi e indifesi che, da sotto in su, osservano il disumano mondo dei nazisti. E sul versante della rilettura per immagini di vicende biografiche importanti della nostra storia, non possiamo non citare il sorprendente La nebbia e il granito di Caci Gambotto Surroz (001 Edizioni), che ripercorre la vicenda umana e politica di Altiero Spinelli: dagli anni Venti della lotta antifascista e clandestina nel Partito comunista all’approdo fra i socialisti, fino all’arresto e al confino a Ponza dove entrò in contatto con Colorni e Rossi. E poi alla stesura del manifesto per un’Europa libera e unita che apriva un’idea moderna di Europa federalista. E se sul versante della controinformazione e del giornalismo d’inchiesta uno degli esempi più importanti e impegnati è il libro di Luca Moretti e Toni Bruno Non mi uccise la morte (Castelvecchi) sulla uccisione in carcere di Stefano Cucchi, sul versante più didattico, ecco Il carcere spiegato ai ragazzi della Manifestolibri, in cui Patrizio Gonnella e Susanna Marietti fanno ricorso al disegno per denunciare la situazione delle prigioni italiane. Uno studioso di Filosofia della scienza come Giulio Giorello, intanto, si presta a sostenere la straordinaria storia della filosofia “a fumetti” Logicomix (Guanda), in cui Alecos Papadatos e Annie Di Donna tratteggiano nientepopodimeno che le avventure intellettuali nella logica di Russel di Frege, Wittgenstein e Gödel. La torinese 001Edizioni, invece, ingaggia il matematico Piergiorgio Odifreddi per presentare Ultima lezione a Gottinga di Davide Osenda, in cui si racconta l’opposizione del grande matematico David Hilbert alla purga nazista verso la «fisica ebrea» di Einstein e Bohr.

Fueye, il suono del tango

Ma a questa piccola e coraggiosa casa editrice, 001edizioni, che del graphic novel ha fatto la propria scelta di vita, si devono anche tre delle opere più affascinanti degli ultimi anni, ovvero Fueye, il suono del tango, in cui Jorge Gonzàlez con segno pittorico nutrito di penombre e chiaroscuri tratteggia le atmosfere passionali del tango e la nostalgia degli emigrati italiani in Argentina nei primi anni del ’900. E poi i due volumi sulla vita e sulla passione politica della fotografa Tina Modotti, disegnati dallo spagnolo Angel de la Calle. Mentore Paco Ignacio Taibo II che, nell’antefatto di questo racconto, appare disegnato fra i personaggi. Fantasia da brivido è il registro de La governante (Orecchio acerbo) di Edouard Osmont grazie alle illustrazioni stilizzate, quasi da teatro delle ombre di Sara Gavioli (autrice della tavola su cui stiamo scrivendo). Nipote d’arte ed ex modella, la giornalista Sophie Dahl offre un tuffo in una favolosa (alla lettera) storia d’amore ne L’uomo dagli occhi danzanti edito in Italia da Donzelli. Decisamente meno sognante è invece la love story fra Adamo ed Eva secondo un maestro come Mark Twain, che nel 1883, con la complicità dell’illustratore Lester Ralph, scrisse quello che a buon diritto si può considerare un incunabolo di graphic novel. Stiamo parlando de Il diario di Adamo ed Eva (Cavallo di ferro) che gli editori di Twain all’epoca, si rifiutarono di pubblicare, per il tono caustico e irriverente che il romanziere americano riservava ai due “protagonisti sacri”. Eccone qualche assaggio: «Dal diario di Eva: Per tutta la settimana gli sono stata dietro cercando di fare amicizia. Sono stata io ad attaccare discorso perché lui è timido… sembrava contento di avermi lì e io ho usato non so quante volte il socializzante noi perché sembrava potesse lusingarlo il fatto di essere incluso in qualcosa!». Ma poi Twain annota, sbirciando fra le righe del diario di Adamo del lunedì: «Lunedì. Questo nuovo essere di pelo lungo è un bastone fra le ruote. Mi sta sempre intorno… il nuovo essere dice che si chiama Eva». E alla celeberrima costola Mark Twain, con piglio divertito, lascia l’ultima parola: «Dal diario di Eva domenica: Ho cercato di prendere qualcuna di quelle mele per lui… Sono proibite, quelle mele. Lui dice che potrebbe accadermi qualcosa di male. Ma se dovesse succedermi qualcosa di male per cercare di essere carina con lui, beh, allora, è un male di cui non me ne importa un bel niente».

dal left-avvenimenti del 5-25 agosto 2010

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Lode alla passione di Semiramide

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 18, 2010

Ecco perché il fondamentalismo cristiano se la prese con la scienziata alessendrina Ipazia. A margine dell’uscita nelle sale italiane del film Agorà del regista cileno Amenàbar, il filosofo Giulio Giorello invita riscoprire le grandi figure femminili che il Vicino Oriente ci ha tramandato. E che l’Occidente cristiano stigmatizzò come “dee false e bugiarde”

di Simona Maggiorelli

Gustave Moreau, Salomé 1876

il regista Amenábar racconta Ipazia come una filosofa neoplatonica ma anche come una grande matematica impegnata nel rileggere in modo critico la tradizione di Tolomeo. Fino a farne una precorritrice di Copernico e addirittura delle orbite ellittiche di Keplero. Chiaramente – sottolinea Giulio Giorello, fra i relatori del convegno su Ipazia che si è tenuto il 14 aprile a Roma su iniziativa dalla Treccani – nel film Agorà c’è un tocco di immaginazione riguardo a questo punto.  A mio avviso, una licenza legittima nella reinterpretazione poetica di Ipazia che Agorà ci offre. Ma va detto anche – prosegue il filosofo della scienza – che il film di Amenábar è molto preciso nella ricostruzione del fanatismo cristiano visto in due momenti: nella lotta contro i pagani al tempo del vescovo Teofilo e poi sotto suo nipote Cirillo che fece ancora peggio: un figuro che poi è stato fatto santo e addirittura è stato schierato fra i padri della Chiesa.

E il fondamentalismo cristiano dei parabolani?

Il film è molto coraggioso nel mostrare come le bande cristiane che linciarono Ipazia fossero “parenti strette” delle squadracce fasciste o, se vogliamo, delle bande comuniste di Pol Pot. «Il ventre che ha partorito l’intolleranza è ancora fecondo», diceva Brecht. E Agorà mette bene in luce il ruolo nefasto dell’intolleranza cristiana. Gli stessi cristiani che si batterono per una politica più lungimirante furono sconfitti. Quanto a Cirillo, a me ricorda i costruttori del totalitarismo, la «banalità del male», per dirla con Arendt; una banalità del male che i cristiani rivolgono verso gli altri… Alla fine, anche nel film la scienza, comunque sia, andrà avanti lo stesso, nonostante i lutti, le tragedie, le usurpazioni.

Ipazia fu calunniata dai cristiani che ne alterarono ferocemente l’immagine?

Fra le accuse che le furono mosse c’era anche quella di stregoneria, di praticare la magia nera, un reato che era odioso non solo ai cristiani ma anche fortemente represso a Roma. I parabolani, manipolati e manipolatori, praticarono sistematicamente la disinformazione. Ecco un altro tratto che avvicina il loro cristianesimo alle forme di totalitarmo che abbiamo conosciuto nel secolo breve.

Alessandria d’Egitto era una città multiculturale. I parabolani vollero colpire anche una certa libertà che lì le donne avevano?

La cultura greca e romana aveva una componente misogena. E quella del cristianesimo, poi, è più che evidente. In una cultura come quella alessandrina, invece, alle donne eccezionali veniva riconosciuto un prestigio intellettuale e politico, una sorta di status, che altre tradizioni invece negavano. Alessandria era stata, non dimentichiamolo, la città di Cleopatra nel I secolo a.C. Per Roma era una lussuriosa ma per gli orientali era la risposta all’imperialismo romano. Ci vorrà Shakespeare per riconoscere questo tratto politico di Cleopatra. Per molti versi, Ipazia fu il contrario. Mentre Cleopatra fu regina dai grandi amori, Ipazia fu una “virgo”, una vergine che si dedica alla contemplazione filosofica.

Allora perché colpirla?

In quell’atto di ferocia avvenuto sotto Cirillo la Chiesa si rese colpevole di tre diverse violenze: contro la donna, contro la libertà religiosa e contro la libertà scientifica. Per questo Ipazia fu straziata in modo orribile; il film riguardo alla sua morte edulcora la storia reale. Non so se il suo assassinio fu il segno della fine della grande cultura classica e pagana, come dice lo storico Gibbon. Certamente fu un segno nefasto: dice che le religioni, e in particolare il cristianesimo, possono essere elementi non di pace ma di discordia sociale, tarpando la fioritura di personalità di donne e di uomini, diventando solo fanatismo, violenza, repressione. Nella storia, poi, la Chiesa cattolica non si è smentita. Ricordiamoci come è finito Giordano Bruno, come fu messo a tacere Galilei, pensiamo alle dure repressioni di pensatori eretici o libertini. Altro che radici cristiane dell’Europa! Se le nostre radici cristiane sono quelle piantate dai parabolani è ora di tagliarle. Senza dimenticare poi che gli umani non sono piante che hanno bisogno di radici. Piuttosto sono nomadi che vogliono camminare in libertà.

Nel suo libro Lussuria (Il Mulino) indaga la sessualità vista da Oriente e da Occidente e scrive che Cleopatra fu vista come «un ostacolo da eliminare nel cammino di Roma nel mondo civilizzato».

Ottaviano per gli storici classici fu il restauratore delle virtù repubblicane di Roma dopo le guerre civili. Shakespeare conosceva bene le fonti classiche! Cleopatra subì una demonizzazione come altre eroine del Vicino Oriente. Ipazia no. Fonti posteriori, sia pagane che cristiane, riconobbero il suo grande valore intellettuale.

Le dee dell’Oriente furono dette false e bugiarde…

Da Agostino ma anche da Dante. E la donna fu considerata in modo molto diverso da quanto accadeva nel mondo pagano. Il monoteismo cristiano in questo ha molte responsabilità. Furono dette false e bugiarde Hinanna dei Sumeri, Isthar degli Accadi, Astarte della Siria e Afrodite che, prima di essere associata alla Venere latina, era una divinità femminile molto potente: in Oriente non era solo la dea dell’amore ma rappresentava anche la potenza della natura che genera il nuovo. Una dea terribile verso chi la ostacola. Un aspetto ripreso meravigliosamente nei Cantos di Pound e che troviamo già in Euripide. E poi molte figure femminili che ci ha lasciato il Vicino Oriente (checché ne dica Dante) furono grandi regine. Penso a Didone e alla grande Semiramide che l’Occidente vuole colpevole di incesto e assassina. La tradizione orientale che il paziente lavoro degli assirologi ha fatto riemergere, invece, ce ne parla come di una regina che apportò importanti novità politiche. La vera Semiramide, come ha dimostrato Giovanni Pettinato, fu una grande legislatrice, una edificatrice di civiltà e si tramanda dicesse: «Siccome la natura mi ha dotata di un corpo di donna ho avuto anche il tempo per coltivare i miei amori». Nel mio libro ho cercato di raccontare che ciò che oggi si dice lussuria era considerata in Oriente una qualità creativa potente. Un’idea che fu normalizzata dal monoteismo cristiano. Tertulliano diceva che la donna era «porta del diavolo» attraverso la quale tutti i vizi irrompono nell’umanità. Gli effetti di questo paradigma occidentale li vediamo anche oggi: le donne sono oggetto di una “lussuria” molto bassa da parte di maschi che poi pubblicamente fanno come Ottaviano.

Nell’epopea di Gilgamesh l’incolto Enkidu ottiene l’intelligenza grazie al rapporto con una prostituta…

Quello che noi chiamiamo vizio di lussuria era in realtà passione della conoscenza. Questa è una componente molto radicata nella cultura dell’Antica Mesopotamia. La sessuofobia paolina cancellò tutto questo. Paolo di Tarso deve aver avuto non pochi problemi psico-fisici… Come si vede da Lussuria le mie simpatie vanno alle grandi dee, Isthar e Afrodite, ma vanno soprattutto a quelle donne che hanno cercato di liberarsi volendo seguire il desiderio, che una cultura stupidamente maschilista definisce «voglie». Un grande esempio fu l’inglese Harriett Taylor che lottò per i diritti delle donne facendone conquiste per tutti. Le sue intuizioni passarono nel libertarismo di John Stuart Mill.

dal settimanale Left-avvenimenti


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