Dipingere con la poesia
Posted by Simona Maggiorelli su aprile 11, 2010
Lacerti di antico persiano innervano la pittura di Forouhar. E’ una delle rivelazioni iraniane della Biennale Donna di Ferrara che si apre il 18 aprile
di Simona Maggiorelli
Segni di un’antica lingua riemergono alla memoria. E diventano arabeschi, tracce liriche evocative che profanano il bianco del pavimento e delle pareti di una stanza. Sono lacerti di quella lingua farsi in cui i poeti persiani componevano i loro versi. E che l’artista iraniana Parastou Forouhar ha ricreato non conoscendone più il significato preciso. «Sono schegge di un linguaggio che ormai ha perso la sua funzione più importante, quella di avere un suo significato, un suo ruolo». Un linguaggio, dunque, che non serve più per comunicare al grado zero con gli altri. Ma che sulla “tela” diventa «ornamento», segno di un vocabolario sconosciuto per la libera espressione dell’artista. E che in chi guarda l’opera finita, curiosamente, crea una risonanza emotiva profonda. Indipendentemente dalla propria nazionalità e lingua madre.
Con queste scritte dalle morbide curve nere, Forouhar compone immagini universali che indirettamente raccontano e continuamente rielaborano la sua storia. Sulla quale ancora si addensa il dolore per la scomparsa di Dariush e Parwane Forouhar, i genitori dell’artista, torturati e uccisi nel 1998 per la loro opposizione al regime e senza che gli assassini siano mai stati puniti. Una sorte che nell’Iran degli ayatollah è toccata a molti intellettuali e artisti dissidenti.
Nella Written room che Forouhar ha realizzato per la Biennale Donna di Ferrara (dal 18 aprile, nel Padiglione di arte contemporanea) non si raccontano direttamente questi fatti ma si sente il sapore emotivo di una cultura che, sgradita al regime, doveva essere cancellata dalla storia. L’esigenza di testimoniare, la necessità di far rivivere in forme nuove una memoria viva del passato è anche quella che ispira molta parte del lavoro di un’altra artista iraniana selezionata per la XIV Biennale Donna, parliamo di Mandana Moghaddam che nel suo Sara’s paradise rievoca la guerra fra Iran e Iraq del 1980-1988. Ottocentomila giovani furono mandati a morire predicando un aldilà pieno di vergini e miele. Moghaddam li ricorda con una fontana paradisiaca da cui sgorga incessantemente acqua rossa come il sangue. Tutt’intorno verdeggiano barili di plastica vuoti, corpi svuotati di ogni linfa vitale.
Insieme con le foto di Wanted (urgent) con cui Ghazel cercava marito per ottenere il passaporto francese, insieme col vaso prezioso di Shirin Kakhim da cui escono gambe di donna recise (simboleggiano quelle delle prostitute costrette a vendersi), insieme alle figure velate di Shadi Ghadirian che al posto del volto hanno utensili da cucina, insieme con i manichini dai seni recisi con cui Firouzeh Khosrovani denuncia la violenza psichica e fisica esercitata dai fondamentalisti, sono le immagini dirompenti con cui una nuova generazione di artiste iraniane sta facendo sentire nel mondo la propria voce di protesta.
da left-avvenimenti del 9 aprile 2010
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