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#Boncinelli: La scienza libera le donne dal destino “naturale”

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 8, 2015

Il genetista Edoardo Boncinelli

Il genetista Edoardo Boncinelli

«L’invenzione della pillola anticoncezionale ha avuto un impatto enorme. E non è certo finita. Anzi, il bello deve ancora venire…Oggi si parla di gameti e di riproduzione, con l’apertura di orizzonti prima inimmaginabili» ha scritto il genetista Edoardo Boncinelli sul Corsera commentando la notizia del via libera, a larga maggioranza, da parte Parlamento inglese a un tipo di fecondazione assistita che permette di evitare la trasmissione di malattie genetiche gravi da madre a figlio. Una tecnica ideata da un gruppo di scienziati dell’Università di Newcastle, che prevede la sostituzione del Dna mitocondriale difettoso della madre con quello di una donatrice sana. Ma questa non è la sua innovazione più interessante in questo ambito».

Professor Boncinelli, nuove tecniche di fecondazione in vitro fanno a meno dell’intervento dello spermatozoo. Viene stimolato l’ovocita per provocare una partenogenesi. Di che si tratta più precisamente?

In alcune specie la partenogenesi è un fenomeno naturale. Non ha bisogno dell’intervento dei cromosomi maschili per dar vita a nuovo organismo. Negli animali superiori, compreso l’uomo, di solito non avviene. O meglio non avviene spontaneamente. Ma si può attivare la cellula uovo. Nei conigli, per esempio, è piuttosto comune, s’inietta una gocciolina di iodio e l’uovo comincia a svilupparsi anche senza l’intervento del gamete maschile. In linea teorica nel caso dell’essere umano è possibilissimo ottenere tutto questo. In linea teorica, ripeto, perché poi il processo viene fermato. Per esempio, si può stimolare la cellula uovo attraverso degli ioni calcio. In questo caso non c’è traccia di cromosomi maschili, fa tutto la parte femminile. E comunque si ottiene un organismo completo. O per meglio dire si otterrebbe visto che non è ancora mai stato portato a termine.

Boncinelli Noi siamo cultura

Boncinelli Noi siamo cultura

Si possono anche produrre gameti maschili e femminili in laboratorio?

Questa è l’ultima notizia. Anche se per noi scienziati non è del tutto nuova, perché se ne era parlato nella comunità scientifica. Le cellule staminali, come sappiamo, possono produrre vari tipi di tessuti e anche i gameti. Certo, vanno indirizzate in questa direzione. Un domani potremmo ottenere da una parte cellule uovo e dall’altra spermatozoi, semplicemente partendo da cellule staminali. Il che porta un vantaggio in medicina: si potrebbe sapere esattamente che patrimonio genetico hanno perché discendono da una cellula specifica.

Se si aggiunge anche la fecondazione da tre Dna diversi

Il quadro si fa piuttosto articolato. Con la differenza che quest’ultima strada è già pienamente realizzabile. Ed è abbastanza facile. Con questa tecnica si aggira la minaccia di avere un bambino con malattie gravi di tipo mitocondriale perché la donatrice ha i mitocondri sani.

La medicina più avanzata “libera” la sessualità umana dalla procreazione?

Sì, sempre di più. Ma permette anche di poter avere un figlio sano. Naturalmente se si ricorre alla tecnica come puro gioco, non ha molto senso, ma se avere un figlio per una coppia è sentito come una realizzazione e poi si è in grado di dargli affetto, sostegno, istruzione ecc. questo è sicuramente un vantaggio per il neonato, perché lo libera da difetti genetici per i quali ad oggi non c’è una cura.

Parlando di tecniche che sono già a disposizione di tutti, dovremmo anche citare la diagnosi pre-impianto: le dedica ampio spazio nel suo libro Einaudi, Genetica e guarigione.

Certo, perché la diagnosi pre-impianto è la punta di diamante di tutta la genetica moderna. In Italia è proibita dalla legge, anche se poi c’è chi l’ha utilizzata.

Ci sono state sentenze di tribunale che hanno riconosciuto il diritto di coppie sterili ad accedere a questa tecnica Ma crudelmente è ancora vietata dalla Legge 40 alle coppie fertili, anche se, per esempio, portatrici di malattie genetiche

La questione non è stata chiarita del tutto, purtroppo. E in assenza di un quadro definito c’è chi in Italia preferisce non utilizzarla. Ma da scienziato dico che la diagnosi pre-impianto offre degli enormi vantaggi per la salute. Sarebbe assurdo rinunciarci.

Nel saggio Homo Faber, da poco uscito per Baldini&Castoldi lei parla dell’ingegneria genetica come di una grande avventura umana. Ma nel nostro Paese incontra la forte opposizione della Chiesa. Il Papa dice che le donne devono fare più figli ma poi condanna la fecondazione assistita. Come si spiega?

Boncinelli, Rizzoli

Boncinelli, Rizzoli

Loro adducono tanti motivi, ma il fatto è che la Chiesa è sessuofobica, vede di malocchio la donna e la sessualità. E poi sostiene che queste tecniche non siano naturali. Ma cosa c’è di naturale, per esempio, in una iniezione che introduce nei muscoli un ferro per far passare delle sostanze? Non per questo si rinuncia a curarsi.

Il Papa si schiera in difesa dell’anima ma poi difende l’embrione come fosse sacro. Non c’è una sorta di feticismo, una forma estrema di materialismo?

Lo è. Addirittura sostengono che l’embrione è persona quando ha i cromosomi umani. Questo vuol dire che anche una cellula della lingua o un bulbo di capello è un essere umano. Il che è inaccettabile.

Nei dibattiti «appena compare la parola “sacro” si smette di ragionare», lei ha detto annunciando di voler scrivere un libro contro il sacro. Fuor di battuta lo farà?

Io spero proprio di riuscire a farlo

 Simona Maggiorelli, Left

 

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Via libera delle Regioni all’eterologa. Ma gli “ultimi giapponesi” fanno le barricate

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 5, 2014

  fecondazione01gLa Conferenza delle Regioni dà  il via libera all’eterologa. Sul modello della Toscana. Rompendo gli indugi del Governo nel dare piena attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale. Una sentenza che l’avvocato Gianni Baldini, docente di Biodiritto all’Università di Firenze e consulente della Regione Toscana, non esita a definire «un manifesto di libertà».

Ma fra i consiglieri del ministro della Salute Beatrice Lorenzin ci sono paladini oltranzisti della Legge 40 come Eugenia Roccella e i cattolici che siedono in Parlamento promettono battaglia. In nome della difesa dell’origine biologica, dei rapporti di sangue. E della famiglia tradizionale.

La Consulta ha riconosciuto che per ben dieci anni, con la legge 40/2004, sono stati negati diritti civili, costituzionali, a persone che chiedevano l’accesso a terapie mediche. E lo scenario che si apre ora in Italia per le coppie sterili è anche quello di potersi rivalere per il danno subìto, conferma l’avvocato Gianni Baldini, docente di Biodiritto all’Università di Firenze, che ha assistito molte coppie che, con coraggio, hanno scelto di battersi nelle Aule di tribunale contro gli antiscientifici divieti imposti dalla legge 40. Una norma – lo abbiamo scritto tante volte – degna di uno Stato etico che spia sotto le lenzuola, che violenta la donna fisicamente e psichicamente (basta pensare all’iniziale obbligo di impianto di tre embrioni anche se malati), discriminante e razzista, (vedi il divieto di eterologa cancellato dalla Consulta) ma anche piena di dogmi religiosi dal momento che tutela il concepito come fosse una persona. Come ha rilevato censurando l’Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo. Dopo che la legge 40 è stata smontata pezzo dopo pezzo nelle aule di tribunale, ma soprattutto dopo la sentenza della Consulta del 9 aprile scorso che l’avvocato Baldini non esita a definire un manifesto di libertà si potrebbe anche prospettare l’occasione per far evolvere la cultura giuridica in Italia riguardo a diritti fondamentali della persona, erroneamente detti eticamente sensibili. Vediamo perché.

«La questione della legge 40 non si era mai posta in questi termini», dice Baldini che insieme all’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Coscioni, è stato il primo a sollevare il dubbio di legittimità costituzionale della norma. «La sentenza della Consulta parla chiaro e la recente ordinanza del tribunale di Bologna ne ha ribadito integralmente il contenuto. Le “autorità giuridiche” dicono che l’eterologa si può fare, che il diritto esiste ed è immediatamente eseguibile. Mentre i politici tergiversano, invocando una legge di recepimento della direttiva. Ma si tratta di una scusa (perché la direttiva è già stata recepita con i Dc.Lvi 191/07 e 16/10) per rivedere in senso reazionario la legge 40, per esempio eliminando l’anonimato ai donatori di gameti.

Gianni baldini, con Filomena Gallo , Rodotà e altri

Gianni baldini, con Filomena Gallo , Rodotà e altri

Avvocato Baldini, quale significato assume la sentenza di Bologna alla luce di questo scontro fra la Consulta e il Consiglio dei ministri che, dopo il ritiro del decreto Lorenzin, invoca una discussione in Parlamento?

Molto importante, direi. Non solo perché in base al diritto di autodeterminazione, al diritto alla salute e al principio di uguaglianza nell’accesso alle terapie, letta la sentenza della Consulta, il tribunale ha detto che non c’è bisogno di una nuova legge. Ma anche perché l’ordinanza afferma che le scelte terapeutiche devono essere fatte dal medico, tarandole sul caso concreto (previo consenso del paziente). Non dal legislatore. Riportandoci così in modo lineare alla giurisprudenza della Consulta in materia. Nonostante i furori ideologici di certa politica.
La Toscana si è avvalsa del suo lavoro di giurista per deliberare il via libera all’eterologa, senza attendere il Parlamento. I Nas potrebbero bloccare le terapie?
Se già il giudice – come ha fatto nelle due ordinanze il tribunale di Bologna – si rimette alle migliori competenze mediche e a questo si aggiungono le Direttive da parte di una istituzione pubblica come la Regione (competente in materia), il quadro è ben chiaro e direi tranquillizzante. Inoltre la legge 40 disciplina l’attività dei centri che, per esempio sono obbligati, tutelando la privacy, a conservare per 30 anni i dati relativi alla tracciabilità del materiale genetico. In Toscana i centri devono anche trasmettere i loro dati dell’ufficio della Regione dando soluzione ad alcuni problemi evocati dal ministro (donazioni plurime, esami per garantire sicurezza del materiale genetico, ecc) .
Come si configura la possibilità di chiedere i danni causati dal decennale divieto di eterologa?
La coppia di cui si è occupato il tribunale di Bologna, per esempio, nel 2006 è andata all’estero, ma senza successo. Ora che il diritto all’eterologa viene loro restituito, non hanno più 37 anni ma 45. Il danno subìto riguarda la perdita di chance di poter avere un figlio. In altri Paesi europei sono arrivate a sentenza cause per responsabilità della pubblica amministrazione nei confronti del cittadino (per cosiddetto illecito legislativo o costituzionale). È ormai pacifico che la violazione di una direttiva o di un regolamento europeo da parte di una legge nazionale, se lede i diritti del cittadino, apre la strada al risarcimento del danno. Perché non dovrebbe essere altrettanto quando una legge viola la Costituzione?
Potrebbero nascere anche delle class action?
Assieme ad alcune associazioni di pazienti stiamo studiando l’ipotesi: c’è la numerosità, la comunanza di interesse e la possibilità di perseguirlo da parte di chi si trova in condizione analoghe. Quanto agli esiti, ci si rimette ai giudici. Che, speriamo, abbiano voglia di innovare e di far evolvere il nostro ordinamento dando ingresso a nuove forme di tutela. Altre richieste di rimborso, invece, possono essere legate alla questione transfrontaliera e all’assistenza indiretta (in base alla direttiva del 9 marzo 2011 così come recepita dal D.Lvo n. 38 del 4 marzo 2014). Il paziente che si cura all’estero in questo caso, previa autorizzazione della propria Asl, anticipa i soldi e deve chiedere tempestivamente il rimborso al proprio sistema sanitario. Ma le cure rimborsabili sono solo quelle che non possono essere fatte in Italia in tempi utili per patologie.  In questo caso sarà possibile rimborsare il valore equivalente al costo della prestazione in Italia.  Ma solo se la patologia è stata inserita nei livelli essenziali di assistenza.L’eterologa lo è in Toscana, ma non ancora a livello nazionale, anche se il ministro Lorenzin aveva assunto un preciso impegno in questo senso.

Lei ha parlato della sentenza della Consulta come di un manifesto di libertà, che rimette al centro la salute psico-fisica della donna e della coppia. Calpestate dalla legge 40. «La più ideologica che sia mai stata fatta in Italia», ha detto Rodotà.
È in atto uno scontro fra chi ritiene che in uno Stato laico il diritto debba rispettare la libertà di tutti i cittadini e chi invece vuole piegare il diritto alla propria etica, come è accaduto con la legge 40 o il ddl Calabrò sul biotestamento. Ma il diritto non può essere lo strumento di un’etica che evidentemente ha perso forza di persuasione e per questo ha bisogno di essere imposta per legge. Scegli un’etica perché sei persuaso del suo valore non perché una legge te lo impone. Il diritto deve essere uno strumento di garanzia per tutte le etiche con il limite del rispetto dei principi di “libertà nella dignità” della persona umana. Vedi le leggi sul divorzio e l’aborto. Tanto più nella società multiculturale e multietnica di oggi. Io posso fare l’eterologa oppure no, ma non posso imporre agli altri un mio punto di vista, negando il diritto di scegliere. Lo ha affermato la Consulta ma anche la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha ripetutamente condannato l’Italia a causa della legge 40. Parliamo qui di diritti fondamentali come il diritto alla salute e all’autodeterminazione. In tal senso vorrei ricordare l’ultimo comma dell’art 32 della Carta, una vera e propria clausola di habeas corpus: la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto (della dignità) della persona umana. Il legislatore non può invadere questi campi, che attengono alla sfera più intima e personale del soggetto. La Costituzione, la Carta dei diritti dell’uomo e i principi della Carta dei diritti fondamentali Ue contenuti del Trattato di Lisbona vengono prima della singola legge. Sono ambiti sottratti alla discrezionalità del legislatore che deve limitarsi a garantire senza possibilità di conformare, tanto meno, rispetto a propri convincimenti etico-morali.
La legge 40 violenta la donna, ma rappresenta anche un attacco al rapporto uomo donna?
Sì, la Corte costituzionale, infatti, non parla solo di integrità psicofisico della donna, ma nella sentenza 162 parla anche della salute della coppia intesa come benessere psico-fisico e sociale.
Una cattolica come la senatrice Paola Binetti sposa addirittura il materialismo pur di farsi paladina della matrice genetica. Perché questa classe politica teme così tanto l’eterologa?
Dietro alle barricate contro l’eterologa c’è una morbosità tutta italiana. Noi siamo il Paese della famiglia che diventa familismo. Siamo il Paese della sottolineatura esasperata dei rapporti di sangue, di stirpe, che non ha eguali in Europa. Da noi sì che la genitorialità è una questione di affetti, ma alla fine l’importanza che talvolta viene attribuita all’aspetto genetico rasenta il patologico. È un tema che riguarda l’adozione ma l’eterologa la evidenzia in maniera paradigmatica. Essere padre o madre non è un fatto biologico, genetico, ma di scelta, di affetti. E poi se superiamo la prospettiva meramente terapeutica (cosa che in Italia non è possibile) l’eterologa potrebbe essere lo strumento che permette una pluralità di progetti familiari.

Più in generale se per avere un figlio posso rivolgermi alla provetta appare sempre più chiaro che la sessualità umana non è legata alla procreazione come quella degli animali?

Ma infatti questo tentativo di bloccare l’eterologa appare sempre di più come una ‘tempesta in un bicchier d’acqua’ artificiosamente scatenata per negare che il diritto di autodeterminarsi nelle proprie scelte procreative e familiari spetta all’individuo a prescindere dal modello di famiglia nel quale esso si colloca. La metafora dei ‘quattro giapponesi’ che non si sono ancora accorti che la guerra è finita mi pare in tal senso calzante. Dopo la pronuncia della Consulta, il recente intervento del suo Presidente, Tesauro (che è stato anche il relatore della sentenza 162/14), la Delibera della Regione Toscana e le ordinanze del Tribunale di Bologna che ritengono che non vi è alcun vuoto normativo e dunque il diritto alla fecondazione eterologa risulti immediatamente eseguibile – rinviandosi ad una normativa tecnica di dettaglio ovvero alle migliori pratiche mediche la soluzioni delle questioni tecniche per assicurare l’esercizio dello stesso in condizioni di massima sicurezza (numero donazioni possibili, esami da svolgere e criteri di selezione dei donatori, tracciabilità)- ci si chiede su quali basi, giuridiche prima di tutto, i tecnici del Ministero possano continuare a sostenere l’esigenza di una legge senza la quale addirittura l’eterologa non si potrebbe fare….. Ben diversamente come è stato ripetutamente suggerito al Ministro e come i fatti hanno dimostrato, prima che le Regioni che lo vorranno seguano l’esempio della Toscana, sarebbe opportuno intanto aggiornare rapidamente le Linee Guida stabilendo le norme tecniche e di dettaglio sopra ricordate in modo da avere una disciplina uniforme in tutto il territorio nazionale. Poi, ove si ritenga che l’attuale disciplina in tema di tracciabilità che prevede la tutela di un rigoroso anonimato del donatore, ovvero i protocolli medici internazionali che stabiliscono che vi debba essere una comunanza dei caratteri biologici fondamentali tra donatore e riceventi colore della pelle, gruppo sanguinio, caratteri fenotipici essenziali), non vada bene, il Ministro potrà investire il Parlamento delle relative questioni che verranno definite con i tempi che dato la natura del tema, è facile intuire non saranno brevi.

( Simona Maggiorelli)

dal settimanale left 30 agosto, aggiornato il 5 settembre 2014

Filomena Gallo con attivisti dell'Associazione Coscioni

Filomena Gallo con attivisti dell’Associazione Coscioni

 La Conferenza delle Regioni ha approvato all’unanimità le linee guida sulla fecondazione eterologa. L’accordo prevede che la fecondazione eterologa sia gratuita o preveda al massimo un ticket ma anche che il fenotipo del neonato possa essere simile a quello dei genitori. Il bambino potrà, se vuole, conoscere i donatori, ma solo una volta cresciuto e raggiunti i 25 anni. E solo se i donatori accetteranno di rivelare la propria identità. I donatori devono avere tra i 20 e i 35 anni, se donne. Tra i 18 e i 40 anni, se uomini. Il documento stilato dal coordinamento degli assessori regionali alla Sanità, infine, chiede al ministro Lorenzin di inserire l’eterologa nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), come promesso. Un segnale forte per il Parlamento che il Governo Renzi ha chiamato ad esprimersi di nuovo sulla Legge 40

La Consulta e il tribunale di Bologna hanno posto fine a un divieto istituito nel 2004 con la legge 40 restituendo alle coppie sterili il diritto alla fecondazione eterologa. In arrivo una pioggia di ricorsi individuali e collettivi

Ha avanzato una richiesta di risarcimento danni la coppia a cui il tribunale di Bologna il 14 agosto ha riconosciuto il diritto immediatamente esigibile all’etero

loga. E adesso potrebbero essere molti altri a imboccare questa via, considerando che sono circa 20mila le persone che, dall’entrata in vigore della legge 40 nel 2004 a oggi, sono andate all’estero per fare la fecondazione assistita con gameti ricevuti da donatori esterni alla coppia. Mentre altre 9mila ancora attendono in Italia.

Non solo azioni individuali a pioggia, ma anche un’azione collettiva, una class action. Questa possibilità è stata prospettata, all’indomani della decisione della Consulta, dagli avvocati Gianni Baldini e Filomena Gallo. E subito ripresa dalla stampa specializzata di settore. «Sono migliaia – ha scritto il Quotidiano sanità – le coppie che potrebbero decidere di fare una class action contro lo Stato italiano per colpa della legge 40 che per 10 anni ha vietato loro il ricorso alla fecondazione assistita eterologa».

La sentenza che lo scorso 9 aprile ha cancellato il divieto di eterologa, ha “valore sub costituzionale” (cioè non può essere superata nemmeno dal Parlamento attraverso modifiche legislative) ed è immediatamente eseguibile e retroattiva. Questo senza determinare alcun vuoto normativo, come ha chiarito lo stesso presidente della Corte Giuseppe Tesauro. «Da aprile ad oggi ho ricevuto moltissime telefonate e tanti messaggi su facebook da coppie che vorrebbero fare ricorso per accedere all’eterologa» dice il segretario dell’associazione Coscioni Filomena Gallo, in questi giorni al lavoro per preparare l’XI congresso dell’associazione che si terrà a Roma dal 19 al 21 settembre sul tema delle libertà civili. «Se non si partirà presto con queste tecniche, ormai legali e lecite, saranno i tribunali a decidere, proprio come è avvenuto a Bologna. In molti fra coloro che mi hanno contattato in queste ore – spiega Gallo – si sono rivolti ai centri di fecondazione e sono in lista d’attesa. I centri si stanno attrezzando e stanno valutando il da farsi. Ho consigliato alle coppie di farsi indicare tempi certi. In assenza di questi elementi, infatti, si configura una chiara lesione dei loro diritti». Il tergiversare della politica nel recepimento della sentenza della Consulta e la decisione del Consiglio dei ministri di affidare la materia al Parlamento non contribuiscono certo a sbloccare la situazione. E i tempi si allungheranno a dismisura. Basta ricordare le annose discussioni, ideologiche e prive di basi scientifiche che i cattolici, di destra e di sinistra, ingaggiarono in Aula nel 2004 e nel 2005 all’epoca del referendum.

Unica Regione italiana ad aver dato il via all’eterologa e ad avere delle linee guida della legge 40 (quelle nazionali sono scadute dl 2008) è la Toscana. Mentre nella Penisola il panorama si presenta assai frastagliato. Frena riguardo alla scelta della Toscana di rompere gli indugi dando piena attuazione alla sentenza della Consulta, il presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino: «Non c’è fretta e non c’è necessità di accelerazioni. Occorre un quadro normativo nazionale» ha dichiarato. «In attesa che il Parlamento si pronunci serve un atto di indirizzo unitario, concordato con il ministro Lorenzin e il governo», dice analogamente la governatrice umbra Catiuscia Marini. Ma i radicali di Perugia contestano questo suo temporeggiare: «Dopo la sentenza della Consulta le coppie sterili hanno diritto di accesso all’eterologa» si legge nella nota firmata da Andrea Maori e Antonio Ventura. «Di conseguenza un centro ospedaliero pubblico non può rifiutarsi di eseguire questa tecnica. Lo stesso vale per gli ospedali umbri. Se un centro si rifiutasse potrebbe essere portato in tribunale per interruzione di pubblico servizio».

«Credo che ormai sia urgente e indispensabile stringere i tempi sull’eterologa. Anche per evitare qualunque rischio e ogni possibilità di ricorsi e tentativi di rivalersi sulle Regioni» afferma l’assessore alla Sanità della Sardegna Luigi Arru. E aggiunge: «Abbiamo visto cosa succede, si va dinanzi ai giudici e non è mai una cosa che dovrebbe accadere ai cittadini. La Sardegna, insieme alle altre Regioni, porterà la questione sul tavolo romano per avviare il necessario confronto». A sollecitare una rapida soluzione è anche l’elevato numero di richieste di fecondazione eterologa che si registrano in Sardegna dove è particolarmente alto il rischio di trasmissione di malattie genetiche come la talassemia maior. «In assenza di indicazioni nazionali chiare – prosegue Arru – in alcune regioni l’eterologa non sarà accessibile. Le coppie residenti andranno in altre regioni e saranno autorizzate a chiedere il rimborso, vista la sentenza della Consulta. E questo determinerebbe dei costi molto più elevati, considerando anche il diritto dei cittadini di essere rimborsati di viaggio e soggiorno, oltre a non essere eticamente corretto».
Auspicano, anche per questo, un rapido accordo fra le Regioni gli assessori alla Salute della Liguria Claudio Montaldo e quello dell’Emilia Romagna, Claudio Lusenti che si dice pronto a varare linee guida “emiliane” se la Conferenza delle Regioni – che è stata annunciata per la prima settimana di settembre – non si muoverà rapidamente. L’incontro servirà anche a delineare i contorni di una divisione che attraversa non solo il Pd. «La Corte costituzionale ha stabilito che esiste un diritto all’eterologa, senza alcun vuoto legislativo, e tale diritto deve essere reso esigibile anche attraverso il servizio pubblico», ha dichiarato a la Stampa, un esponente del centrodestra, il coordinatore degli assessori alla Sanità della Conferenza, Luca Coletto (assessore alla Sanità del Veneto) che considera prioritario l’aggiornamento delle linee guida nazionali della legge 40.

Intanto, nei mesi a venire, sono attese nuove sentenze: la Corte costituzionale dovrà esprimersi ancora una volta sulla legge 40, in particolare sul divieto di donazione alla scienza degli embrioni non idonei alla gravidanza e sul divieto di accesso alle tecniche di fecondazione per le coppie portatrici di malattie genetiche. ( dal settimanale left del 30 agosto, aggiornato il 5 settembre 2014)

La sessualità oltre la legge 40.

Correggio, Giove ed Io

Correggio, Giove ed Io

Lo scontro culturale sulla procreazione medicalmente assistita , è stato centrale nella politica dell’ultimo decennio: pronunciandosi sulla legge 40 si affronta il punto nodale del rapporto fra realtà biologica e la realtà psichica cioè dell’identità umana. La mentalità cattolica da una parte afferma il dovere di rispettare la “naturalità” del biologico, assimilato al sacro, dall’altra, con l’opposizione all’“eterologa” si pensa di difendere l’identità della famiglia. I cattolici non riescono a comprendere il passaggio dal biologico al mentale, che caratterizza la nascita umana. Pensano che lo zigote sia “persona” o, genericamente “vita” solo in base al genoma. Il genoma da solo, non fa la “persona”, non definisce né un’identità umana né un’identità biologica: i gemelli omozigoti formano cervelli anatomicamente diversi già in utero, quando non può essere presente un’attività mentale. All’esame morfologico esterno i feti omozigoti potrebbero apparire identici ma non lo sono per effetto dell’epigenetica. L’interazione dei geni con l’ambiente biologico intrauterino e la selezione casuale delle linee cellulari neuronali orientano lo sviluppo e determinano la variabilità della corteccia cerebrale. Quest’ultima come un’impronta digitale è diversa in ciascun individuo. Il patrimonio genetico è una sequenza di nucleotidi che viene letta progressivamente: il risultato finale non è determinabile a priori. E’ pertanto infondato affermare che lo zigote, pura potenzialità, sia già vita e persona.
La vita umana comincia alla nascita quando si costituisce, nei primi istanti il fondamento dell’essere. La luce attiva la sostanza cerebrale: entra in azione immediatamente un insieme di geni, prima silenti e si ha l’emergenza del pensiero nel substrato biologico. La dinamica della nascita determina una cesura radicale fra prima e dopo. Il contenuto mentale che ne deriva è lo stesso per tutti indipendentemente dalla variabilità morfologica delle strutture cerebrali. Pensare la vita umana presuppone individuare un’uguaglianza fondamentale all’origine che rende possibile la creazione di un mondo condiviso.
La mentalità religiosa opera in direzione antiscientifica, per cui si pretende di far pronunciare ancora il Parlamento sulle conclusioni della Corte Costituzionale che ha accolto la legittimità dei ricorsi e dei pronunciamenti Europei su questo tema. Viene così ignorata la falsità dei presupposti della legge 40. Le valutazioni morali e religiose non possono sostituirsi alla conoscenza dei processi biologici ed entrare nel merito delle linee guida che, partendo da evidenze scientifiche, regolano il rapporto medico paziente. Dietro l’opposizione alla fecondazione eterologa e la preoccupazione che essa possa prestarsi a derive eugenetiche, c’è sempre l’idea che l’identità umana sia inscritta nella sequenza del DNA. La genitorialità sarebbe legata alla condivisione dei geni fra genitori e figli cioè, estensivamente, all’appartenenza non solo a un nucleo familiare ma a un’etnia. La variabilità biologica non esclude però un’uguaglianza di base sul piano mentale: la nascita è per ciascuno il punto di partenza della realizzazione d’un’identità personale. Annullare la nascita, come realtà psichica universale, porta a sostenere come nell’ideologia razzista, che la variabilità genetica, quando modifica il colore della pelle, degli occhi o la forma del cranio, assume il significato di “alterità” ed “estraneità”. Per i nazisti chi non condivideva i geni della “razza” ariana era considerato non umano, cioè “untermensch”. Tutta l’operazione politica che ha portato all’approvazione della legge 40, la complicità della sinistra subalterna all’antropologia cattolica, ha avuto il significato di un attacco alla libertà di scelta delle donne. La sessualità femminile però non è finalizzata alla procreazione come sostiene la mentalità religiosa: l’enfasi che è stata posta sugli aspetti genetici e puramente biologici della fecondazione ha occultato il senso più profondo del rapporto uomo-donna ed ha impegnato l’opinione pubblica in un dibattito che distoglie dal vero obiettivo: è necessaria una nuova antropologia, che riconosca il diritto a una sessualità libera dall’obbligo della procreazione.
Nella cultura cattolica, che ha ereditato dalla filosofia greca l’idea della superiorità del pensiero razionale, lo stereotipo rimane la donna madre. Il desiderio è ancor oggi confuso con l’istinto o la bramosia cieca da sublimare per raggiungere con l’astinenza la perfezione della vita spirituale. E’ necessario al contrario pensare a una sessualità che dall’adolescenza sia realizzazione della fusione fra la realtà materiale del corpo e la realtà non materiale della mente senza perdersi nelle derive di un materialismo cieco o di una spiritualità astratta. La dialettica con il diverso da sé, uomo o donna, è allora ricerca sulla propria e altrui dimensione non cosciente non più pensata come “inconoscibile” o espressione del male. ( Maria Gabriella Gatti)

 

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Eva Cantarella racconta la vita a Pompei

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 28, 2013

Pompei, Villa dei Misteri

Pompei, Villa dei Misteri

La studiosa Eva Cantarella  ci guida in un viaggio nella vita sociale, politica e privata nella città distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.  Attraverso i monumenti, gli affreschi, l’urbanistica. Ma anche attraverso straordinari documenti come i graffiti e le poesie scritte sui muri.

  di Simona Maggiorelli

Pompei, città del sesso sfrenato. Pompei, la dissoluta, di cui è stato detto di tutto. Perfino che le lupanare, le prostitute dei bordelli più poveri, ululavano dalle finestre per richiamare i clienti. «In realtà è tutta mitologia, per motivi commerciali si sono inventate un sacco di leggende, fantasticando sulla sessualità rappresentata liberamente negli affreschi delle ville pompeiane» precisa Eva Cantarella che, con l’archeologa Luciana Jacobelli, ha  pubblicato Pompei è viva (Feltrinelli), un libro di agile e colta divulgazione, costruito come un appassionato viaggio alla scoperta della vera Pompei. La conferenza che la studiosa ha tenuto al Cortona Mix Festival ci offre l’occasione per tornare ad indagare ciò che rende unico e inestimabile il sito della cittadina romana che fu investita e distrutta dall’eruzione vulcanica avvenuta nel’79 a.C.

Cantarella Pompei è viva

Cantarella, Pompei è viva

«Diversamente da altre città archeologiche, Pompei offre la possibilità di conoscere chi l’ha abitata – spiega Cantarella -. Permette di entrare nelle vite di persone vissute duemila anni fa attraverso quello che ci hanno lasciato: non solo le strade, le case, i monumenti, ma anche tracce documentali che ci permettono di conoscere la loro vita privata, i commerci, la religione, il loro modo di vivere. E perfino i loro sentimenti, grazie alle poesie scritte sui muri». Ma noi italiani non sembriamo accorgerci di questo tesoro. Come spiegare altrimenti la discrasia fra l’incuria in cui versa il sito (motivo dell’ultimatum dell’Unesco) e il tutto esaurito al British Museum dove fino al 29 settembre prosegue la mostra Life and death in Pompei? «La ricchezza dei tesori archeologici per noi è normale, quasi non ci fa più effetto. E poi c’è tanta mala educazione, nel senso proprio di mancanza di educazione. Non si studia. A scuola non si affrontano davvero questi capitoli di storia – nota Cantarella -. E sulla stampa si trovano articoli scandalistici ma non si parla dell’importanza culturale di questo sito. Ma la vera grandezza di Pompei, ciò che la rende viva, è anche ciò che spinge le persone ad andare a Londra per vedere la mostra su Pompei al British Museum. Un esempio di questa originalità? Pensiamo ai graffiti pompeiani che ci raccontano come vivevano i suoi abitanti, come si divertivano, le locande che frequentavano. E poi agli avvisi commerciali e quelli delle compagnie teatrali che passavano…».

Eva Cantarella

Eva Cantarella

A questi straordinari documenti e alla ricostruzione della vita pubblica e privata a Pompei Eva Cantarella ha dedicato importanti volumi, fra i quali Nascere e vivere a Pompei (Electa Mondadori) e Un giorno a Pompei. Vita quotidiana, cultura, società (Electa Napoli) che, insieme al nuovo Pompei è viva, offrono un quadro approfondito della società pompeiana che, come quella romana, era fortemente incentrata sul potere del pater familias. Funzionale al suo dominio – per tornare all’inizio – era anche l’esercizio della prostituzione. «Le prostitute sono sempre servite a tenere insieme il potere patriarcale – approfondisce Cantarella-. In una società in cui la vita di un neonato dipendeva dal fatto che il padre lo sollevasse alla nascita e dove il parricidio era punito con la pena più crudele, chiudendo l’assassino in un sacco con animali inferociti, le donne perlopiù erano costrette a vivere nell’ombra. Quelle che stavano in famiglia, in particolare, dovevano osservare la castità più assoluta: la verginità prima del matrimonio e la fedeltà assoluta al marito». Il quale invece godeva di assoluta libertà. «Quello romano era un mondo fatto dagli uomini per gli uomini» sottolinea Cantarella. «I maschi volevano garantirsi la legittimità della prole e la possibilità di divertirsi anche sessualmente in tutti i modi. Mentre alle donne era proibito avere relazioni anche se erano nubili ed anche se erano vedove». A Pompei come a Roma gli uomini, come è noto, si potevano concedere anche rapporti con altri uomini, purché mantenessero sempre “una posizione virile”.

Pompei, Electa

Pompei, Electa

«La virilità era essere capace di sottomettere sessualmente.- spiega Cantarella -. Naturalmente nel caso si trattasse di sottomettere un uomo non doveva essere un romano, poteva essere uno schiavo, un nemico. In ogni caso quella che noi chiamiamo omosessualità per loro non era un problema». La sessualità, insomma. era degradata tout court a strumento di dominio? «Questo “fenomeno” si vede ancora oggi- risponde la studiosa -. Ecco perché tante donne vengono uccise. C’è un’idea della sessualità come dominio e, siccome gli uomini oggi non dominano più su niente o quasi, l’unica cosa da dominare, per loro, è la donna, la fidanzata, l’amante. E’ un fatto culturale, antichissimo». Anche nella società pompeiana, però, erano diffusi racconti che parlavano di un ben diverso rapporto fra uomo e donna. Come il mito di Amore e psiche che nel libro Pompei è viva Cantarella ora torna ad analizzare. «Era uno dei miti diffusi» conferma la studiosa. E Psiche era sempre raccontata e rappresentata come una donna non come anima, secondo l’interpretazione platonica. «Del mito ci sono molte interpretazioni, nel libro riporto anche quella in chiave femminista della studiosa americana Carol Gilligan. In ogni caso – conclude Eva Cantarella – io preferisco quelle che ci parlano di Psiche come donna a quelle cristiane che la rendono anima astratta».

Dal settimanale left-Avvenimenti

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Quella ipocrisia dei Lumi

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 5, 2010

Alla riscoperta di una grande scrittrice, Madame de Duras. Che nel romanzo Ourika smaschera la “buona coscienza” illuminista e cristiana

di Simona Maggiorelli

Benoist, Portrait d'une negresse

L’uscita in Italia di un piccolo e sorprendente romanzo, Ourika (1824)-acutissima riflessione sul razzismo ma non solo- riporta alla ribalta la vicenda umana e letteraria di Madame de Duras (al secolo Claire de Kersaint), personaggio singolare sulla scena della Francia della Restaurazione: liberale per formazione e convinzione, figlia di un girondino che fu ghigliottinato per aver votato contro la decapitazione del re, donna indipendente e colta animatrice di salotti, amica di Madame de Stael e legata da amitié amoureuse con Chateaubriand, Madame de Duras è stata una delle menti più fini del primo Ottocento francese.

A testimoniarlo restano tre libri: Edouard, il postumo Olivier ou le secret e, appunto, Ourika che ora Adelphi manda in libreria con un ampio saggio di Benedetta Craveri. Ed è proprio la francesista dell’Università di Napoli, alla quale dobbiamo una serie di folgoranti ritratti di scrittrici, “amanti e regine” (per dirla con un suo titolo già classico) a raccontarci di questa riscoperta. A cominciare dall’altalenante fortuna critica di Madame de Duras : «Dopo il grande successo di Ourika fu quasi dimenticata. In Francia se ne sono occupati poi solo specialisti e eruditi». In Italia, di fatto, nemmeno quelli. «Ma i lettori colti nel nostro paese – dice Craveri- sono stati al corrente della letteratura francese fino alla seconda guerra mondiale. Poi arrivò il momento della letteratura anglosassone che era stata fortemente scoraggiata dal fascismo».

Disattenzione o colpevole cancellazione che sia, in edizione tascabile, Madame de Duras sembra ora destinata a recuperare il posto che le spetta nella storia della letteratura e nell’attenzione del pubblico. Per l’intelligenza e l’intatta freschezza con cui ci parla ancora oggi Ourika, la giovane protagonista dell’omonimo romanzo: portata via dal Senegal piccolissima, adottata da una altolocata famiglia francese, scoprirà dolorosamente quanta violenza si possa nascondere dietro la più “nobile” filantropia illuminista e cristiana. Cresciuta come una figlia, alla pubertà la ragazza si vedrà d’un tratto sbarrata ogni possibilità di realizzarsi come donna.

Fino a dover soffocare la passione per il coetaneo Charles. Giudicata inammissibile per una nera. Anche da lei stessa. Fuggita in convento, Ourika morirà prematuramente. Le geniale intuizione dell’autrice fu sposare interamente il punto di vista della ragazza. Per raccontarci con disarmante precisione i danni che la percezione alterata e il giudizio sprezzante degli altri a poco a poco fecero in lei. «Tanto più perché è una francese uguale agli altri- nota Craveri -.Non ha radici a cui tornare, oltre quelle lì. Proprio nel confronto con quella società sviluppa il suo complesso di inferiorità e meccanismi di autodenigrazione simili a quelli che oggi gli studiosi dicono causati dalla segregazione razziale».
Nonostante Montaigne e gli studi di antropologia che in Francia aveva mosso i primi passi fin dal Cinquecento. Nonostante la rivoluzione francese e i suoi ideali di uguaglianza, libertà e fratellanza. Con il calore e il pathos dell’arte e non con un romanzo a tesi Madame de Duras affresca così, in modo indelebile, i limiti e i fallimenti dell’astratta ragione illuminista. In modo disarmante, facendoci entrare nella mente della protagonista che ha assorbito e ha fatto suoi i principi e i valori della colta élite in cui è cresciuta. Pregiudizi compresi. Quegli stessi che finiranno per avvelenarle la testa, gettandola in una depressione profondissima. «Ourika vive il dramma di non sentirsi parte integrante di quella società a cui appartiene per educazione, cultura, sensibilità – approfondisce Craveri -. E’ un perfetto prodotto dell’alta società francese. E’ colta e sensibile come e più del fior fiore dell’aristocrazia che l’ha accolta. Però è nera. E su questo si fonda quell’ostacolo della razza che va al di là di qualsiasi ragionamento e di qualsiasi buona intenzione. Un “ostacolo”- sottolinea Craveri – che non tocca solo il primo Ottocento, ma ci riguarda tutti. De Duras va al cuore del problema razziale. E questo fa la grandezza del suo romanzo». Ma la capacità di “scandaglio” della scrittrice si coglie anche nel ritratto della famiglia adottiva di Ourika. «E’ descritta come straordinariamente elegante ed aperta- prosegue Craveri-.Ci racconta dell’affetto con cui viene accolta la giovane ma anche che la principessa non prende minimamente in considerazione le sue possibili difficoltà di integrazione. Come madre adottiva si sente talmente superiore nel suo illuminismo da non vedere la realtà, così finirà per contribuire al destino tragico della ragazza. Insomma la buona coscienza non basta sembra dirci Madame de Duras».

Come non basta l’accoglienza cristiana che Ourika riceve in convento, dove si illude di trovare risposta a quello che lei stessa chiama «bisogno di assoluto». Al medico che tenterà di curarla affiderà una riflessione interessante, nota ancora Craveri: mi sento colpevole, gli dirà la giovane suora, perché non ho saputo mettere a frutto sensibilità, intelligenza, quelle possibilità che ho avuto in sorte. Talenti bruciati sull’altare di un amore assoluto, totalizzante, quanto illusorio. «E aspettarsi da qualcun altro la soluzione della propria vita ci pone in una prospettiva profondamente sbagliata. Quella che Madame de Duras affida a Ourika -osserva Craveri – è una visione dell’amore straordinariamente moderna». A noi sembra di poter dire anche che qui affiora un tassello di quella articolata «patologia dell’amore» che una parte della critica letteraria ha visto rappresentata nei romanzi di Madame de Duras. Quasi che la scrittrice avesse tentato così di elaborare l’amore non corrisposto per un elegante quanto freddo gentiluomo di altri tempi che l’aveva sposata giudicandola un buon affare. O la passione per Chateaubriand, «un narciso che di fatto la sfruttava» stigmatizza Craveri. «Nel caso di Madame de Duras- puntualizza però la studiosa – si ha la tentazione di fare quello che non si dovrebbe mai fare: ovvero leggere in chiave biografica le storie che racconta nei suoi libri» . Piuttosto, sul piano squisitamente letterario, quella di Madame de Duras appare come una approfondita messa a fuoco di quella figura che Proust, in un racconto ad hoc, chiamerà L’indifferente.

Ma potremmo dire anche che nella fenomenologia (patologica) dell’amore raccontata da Madame de Duras balenano varianti del fantasma di Valmont, il protagonista de Le relazioni pericolose di Laclos. «Che non era propriamente un libertino come si dice» avverte Craveri. Piuttosto, spiega la studiosa, un superuomo lucido e narcisista. Provocando la pazzia e la morte della donna amata Valmont gela dentro di se ogni affetto ed emozione. «Uccide Madame de Tourvel per una sfida. Ma in questo modo- sottolinea Craveri- si suicida».

da Left-Avvenimenti 5 marzo 2010

Focusi sul libro Amanti e  regine il potere delle donne (Adelphi): Craveri nota che nel medioevo le donne, paradossalmente, erano più libere che nel rinascimento. Nel medioevo, scrive la francesista, le donne avevano libertà d’azione, compresa la possibilità di fare legalmente i più vari mestieri. La nuova concezione della famiglia che a partire dal XIV secolo sarebbe stata avvertita come il pilastro dello Stato, per le donne avrebbe cambiato in senso negativo molte cose. ” Nella società di Antico regime le donne sono sul piano giuridico e in tutta Europa delle cittadine di seconda classe- racconta Craveri a left-. Sono sotto un sistema patriarcale, non decidono della loro vita, del loro matrimonio.. Al contempo in Francia, soprattutto lì, in nome di una morale aristocratica che risale fino al medioevo e alla società cortese, le donne beneficiano di un amor cortese, di una attenzione da parte degli uomini che è un omaggio cavalleresco, la donna viene posta sull’altare e lei che l’elemento più fragile della società viene invece ammirata, sublimata, ecc. E nel ‘600 la donna viene posta al centro della vita mondana dove era lei a dettare legge. Questo rientra in una tradizione aristocratica francese che fa un po’ eccezione in Europa perché dopo la riforma protestante, nei paesi protestanti le donne vivono in una situazione di segregazione dei sessi. Nei paesi ultracattolici, come la Spagna e l’Italia ritroviamo lo stesso problema. Quindi nell’ Antico Regime, le mie amate regine e le donne in genere sanno difendersi perché hanno questa carta mondana, sociale. Ma questo finisce con la rivoluzione francese. La rivoluzione dichiara l’uguaglianza di tutti gli individui e la libertà di diritti di tutti e non fa distinzione di sesso. (individuo neutro, come voleva Cartesio sostendo l’idea di un’identità umana razionale e non individuata dal punto di vista sessuale ndr).Con l’Ottocento entriamo in un’epoca puritana, vittoriana anche in Francia e quindi quello che trionfa con la rivoluzione francese è il modello femminile di Russeau, la donna confinata nella sfera domestica, madre, moglie, virtuosa, i valori della castità, la riservatezza, il pudore … solo poche grandi signore possono disporre liberamente di sé ed avere una vita intellettuale e mondana. C’è in qualche modo un regresso della condizione femminile. E la storia del femminsmo moderno ci mostra storie diverse a seconda dei paesi. Nei paesi anglosassoni dove c’è la segregazione le donne acquisteranno pezzo a pezzo la loro uguaglianza, per quota, per piccoli progressi. In Francia il retaggio della rivoluzione , le donne, i movimenti femminili si riferiranno sempre ai diritti dell’uomo e rivendicheranno sempre il loro essere individui. E quindi vorranno tutto e arriveranno tardi dopo la seconda guerra mondiale al diritto universale, al diritto di voto ecc, ma vi arriveranno in colpo solo. In nome dei principi teorici della rivoluzione francese perché nell’Ottocento la condizione femminile è stata piuttosto di segregazione. E lì la morale cattolica, la Chiesa, ha pesato privilegiando questo modello femminile materno e virginale.

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Le maghe di Babilonia

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 6, 2009

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Ishtar

Alla scoperta dell’antica Mesopotamia dove la donna aveva una libertà che poi Cristianesimo e Islam le avrebbero negato. Una mostra al British Museum e nuove campagne di recupero delle rovine per ricostruire l’antico splendore della città di Hammurabi. «In Iraq c’è ancora la guerra civile. E’ impossibile per gli archeologi occidentali andare a visitare i siti» racconta l’archeologo Paolo Brusasco di Simona Maggiorelli

Babilonia “culla della civiltà” si studiava da piccolissimi. In questa area del mondo, si leggeva nei libri di scuola c’erano stati i primi grandi risultati nelle scienze umane, l’invenzione della scrittura cuneiforme, il primo codice di leggi di Hammurabi. Ma anche l’arte degli aruspici e degli interpreti di sogni. Un mondo favoloso, fino allo controriforma Moratti, sfuggito miracolosamente alle maglie della scuola gentiliana improntata sugli anatemi biblici contro la torre di Babele. Ma poi sul quel sogno infantile di civiltà antica fatto di giardini pensili su inespugnabili ziqqurrat sono piombate d’un tratto le agghiaccianti distruzioni della Guerra del Golfo. “Operazioni chirurgiche” come venivano raccontate dalla Cnn, dalla Bbc e dalla Rai nel 1991. A cui si sono sommate le missioni angloamericane contro le presunte armi atomiche del dittatore iracheno Saddam Hussein. Un’operazione pretestuosa, del tutto folle che “ha lascito sul campo più di 4mila soldati occidentali uccisi. E un numero ancora incalcolabile di morti fra i civili iracheni”, come ricorda l’archeologo e docente dell’Università di Genova Paolo Brusasco ad incipit del suo libro La Mesopotamia prima dell’Islam (Bruno Mondadori). Di pari passo, come è noto, sono stati distrutti centinaia di importanti siti archeologici, mentre dal museo di Bagdad sono andati dispersi- distrutti o trafugati -più di ventimila reperti importanti (che datano dal 7mila a. C al mille d. C) di arte dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi. an00404485_001-map-of-world-da-scontCome ricostruisce puntualmente l’archeologo Friederick Mario Fales nella recente riedizione del suo Saccheggio in Mesopotamia uscito nel 2003 per la casa editrice Forum di Udine. “Ancora oggi non abbiamo una stima esaustiva e definitiva, i danni potrebbero essere di molto superiori- rilancia Brusasco-. In Iraq è in corso una guerra civile ed è ancora impossibile per la maggior parte di noi occidentali andare a visitare i siti archeologici”. A cominciare da quello dell’antichissima città di Babilonia, la capitale del regno di Hammurabi del II millennio a. C, insieme a Uruk ,una delle città simbolo della Mesopotamia. Nonché una delle più segnate dalla presenza di soldati. “Del tutto incuranti delle raccomandazioni preventive dell’Unesco le truppe angloamericane – racconta a left Paolo Brusasco – hanno scavato trincee in siti archeologici di primaria importanza e buona parte dei danni causati, purtroppo, saranno purtroppo irrecuperabili”. Non solo è stata danneggiata la porta istoriata di Ishtar,installando una base di elicotteri a ridosso delle antiche e friabili mura in terra cruda, ma sono andate in rovina anche le ricostruzioni anni 70 che Saddam Hussein aveva fatto fare in mattoni cotti. “Certamente restauri che non avevano nulla di scientifico e confezionati a misura della propaganda di regime -sottolinea Brusasco – ma alcuni sostengono che almeno sommariamente potessero dare l’idea dello splendore antico di Babilonia”. Così dopo aver raso al suolo centinai di siti, dopo aver trafugato e rivenduto su internet reperti preziosissimi di arte sumera, assira e babilonese, oggi l’occidente sembra voler cercare di correre ai ripari. Per senso di colpa ma anche perché la ricostruzione può essere un buon business . Fatto è che da più parti. si annunciano campagne internazionali di scavo e di recupero dell’antica città della Mesopotamia. Una, dal titolo “Il futuro di Babilonia” e con la partecipazione economica di importanti organismi internazionali, secondo l’agenzia Reuters, partirà a giorni.oldest-lovers

Professore sarà davvero possibile un recupero delle rovine dell’antica Babilonia e in quanto tempo?
In realtà ancora siamo solo alle operazioni preventive di studio e di messa a punto organizzativa di possibili campagne. Il direttore del dipartimento del Vicino Oriente del British Museum, John Curtis, ha fatto già una serie di ispezioni portando alla luce alcuni danni, purtroppo irreversibili. Una base militare anglo americana è stata costruita, per esempio, proprio sulle rovine attigue al palazzo di Nabucodonosor, il sovrano della deportazione ebraica del 597 a. C. I soldati hanno coperto le rovine archeologiche di ghiaia e le hanno cosparse di spray chimico per non sollevare la polvere. S’immagini i danni che un esercito potrebbe fare se domani si installasi a Pompei. A Babilonia addirittura molti container sono stati riempiti di terra prelevando materiali da siti diversi, la stratigrafia è irreversibilmente danneggiata. Gesti che la popolazione irachena ha letto come una volontà di appropriarsi in modo neocolonialista del passato e della storia di queste aree. Se un giorno si faranno nuovi scavi in queste zone sempre bisognerà sempre tener presente che esiste uno strato dell’invasione anglo-americana. Hanno creato un disastro inimmaginabile dal punto di vista della lettura del sito.

La mostra londinese ora al British esplora il mito di Babilonia, quanto certo “orientalismo” ha oscurato il nostro sguardo occidentale? Babilonia è città delle prime leggi di Hammurabi, di questa città che poi fu governata Nabucodonosor ne hanno parlato in termini favolosi gli autori classici, ma soprattutto la Bibbia. Nell’immaginario occidentale è sempre stata una città simbolo di tirannia ma anche di meraviglia e di stupore. I racconti dei profeti ebrei che hanno scritto in cattività a Babilonia ce l’hanno sempre raffigurata in termini negativi e fino agli scavi del 1800 non si è mai conosciuta in Occidente la vera Babilonia.

Babilonia la grande meretrice, Babilonia che verrà distrutta dal castigo di dio sono le immagini anche dantesche…
Una parte della mostra ora al British Museum di Londra si occupa appunto del mito di Babilonia e punta a metterne in luce gli aspetti fasulli, quelli su cui si è basata la visione distorta dell’occidente. Basta pensare al mito della torre di Babele, alla minaccia della confusione delle lingue. Alle leggende che dipingevano la città come regno del vizio. In realtà la famigerata torre non era che lo ziqqurrat del dio Marduk a cui si rifacevano più colture diverse. Babilonia era una città dove convivano in modo pacifico diverse etnie. L’ interpretazione che ne ha dato l’Occidente non corrisponde in nulla ai reperti scavati.terracotta

Il fatto che lo sguardo deformante della tradizione biblica si sia accanito soprattutto su figure femminili ( basta pensare a Semiramide) farebbe pensare che le donne in Mesopotamia godessero di una certa libertà. E’ così?
Io l’ho scritto, ma non sono il solo. In Mesopotamia la donna non aveva la posizione sociale che poi ritroviamo nella tradizione cristiana o nell’islam. Soprattutto nel terzo millennio, nel periodo sumerico, i codici di leggi trovati ci raccontano di tantissime regine, donne che avevano realmente potere. Poi nel codice di Hammurabi troviamo che la donna può intraprendere attività commerciali come imprenditrice e avere libero rapporto con l’esterno. C’era anche una specifica categoria di cosiddette sacerdotesse imprenditrici che avevano delle grandi proprietà fondiarie e le gestivano autonomamente. Ovviamente non c’era una vera parità fra uomo e donna, però possiamo dire che in Mesopotamia, dal III al I millennio a C. non c’è prova che esistessero degli Harem. Solo intorno al 900 a. C. fra gli Assiri compaiono, in concomitanza con l’emergere della propaganda maschile legata alla guerra e che determinò una serie di leggi che per la prima volta relegavano la donna in aree specifiche della casa e del palazzo.

La libertà sessuale della donna in Mesopotamia, lei scrive, “non è affatto associata a un’istintualità primitiva o animale”.
Sì la sessualità e la figura femminile non sono viste in accezione negativa. Il desiderio femminile non è represso ma è considerato un elemento di vita, un aspetto culturale. Per esempio nel mito di Gilgamesh, l’eroe di Uruk, che si narra sia vissuto intorno al 2675 a. C aveva un nemico, Enkidu, che viveva nella foresta ed detto un incivile. Prima di scontrarsi con Gilgamesh, però, Enkidu viene “civilizzato” da una prostituta. In Mesopotamia il fatto che le prostitute fossero immerse nella vita urbana ne faceva delle detentrici di cultura e conoscenza. Anche da altri testi antichi si comprende che la sessualità era un mezzo per conoscere i rapporti umani di cui la società viveva. Non si trova mai in questo contesto una caratterizzazione in negativo della donna come si trova nella Bibbia. E il desiderio non è qualcosa di immediato da sfogare o da reprimere. La sessualità viene inserita in un ordine di idee urbano e civile non animale.

Non c’è un senso del peccato come nella tradizione giudaico cristiana?
No in Mesopotamia non c’è qualcosa di simile.

VA Bab 4431In un modellino di un letto conservato al British Museum si coglie uno scambio di sguardi fortissimo fra un uomo e una donna. Una rappresentazione ben diversa dalle fredde anatomie di Pompei.
Nelle abitazioni in Mesopotamia si trovano placche sessuali come amuleti di fecondità. Si rifacevano a miti del matrimonio sacro fra due divinità. In Mesopotamia l’accoppiamento fra esseri umani e divinità era considerata all’origine del mondo. Anche per questo la sessualità veniva vista in modo positivo. Ma sessualità era anche l’intimità fra uomo e donna è vista in senso sentimentale, romantico. Questo abbraccio, questo letto che rappresenta il simbolo della vita di coppia, soprattutto in epoca sumerica, nel periodo più antico è molto legato a situazioni sentimentali più profonde.

Nella cultura della Mesopotamia il Logos, inteso come ragione non arriva a schiacciare un mondo di immagini e di passioni come accade a un certo punto nella Grecia antica?
La ragione in Mesopotamia è secondaria rispetto a una concezione del mondo e anche della scienza sempre divinatoria. Per l’uomo della Mesopotamia il rapporto con il mondo non è logico ma è in qualche modo illogico, talvolta legato ai presagi. Grande importanza aveva l’astronomia ma anche l’astrologia. La divinazione era considerata una scienza. C’erano indovini, esorcisti, scienziati, specializzati nella lettura dei pianeti e delle stelle, maghi, interpreti di sogni. C’è un approccio completamente diverso da quello della logica greca.

Lei scrive anche che è un pregiudizio pensare che solo la lingua e la scrittura siano sistemi altamente simbolici. Anche l’arte in Mesopotamia tende ad essere rappresentazione simbolica, talvolta quasi astratta?
In Mesopotamia l’arte non è mai mimetica della realtà alla maniera greca. Parte da un altro presupposto. Non c’è l’umanesimo greco. L’arte mesopotamica è un’arte sempre simbolica, tanto che anche quanto raffigura la realtà, come nelle stele o nei rilievi assiri che pur narrando di guerre, le traspongono sempre con elementi astratti su un piano simbolico. Si parte da un fatto, da un azione singola, ma si arriva poi a trasporla su un piano universale. Sono scene che non tendono a una prospettiva precisa, ma puntano a a un’evidenza viva, alla drammaticità del racconto. All’arte mesopotamica non interessa raffigurare la realtà per ciò che è.

da Left-Avvenimenti 7/2009 del 20 febbraio

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Donne, islam e democrazia

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 15, 2009

for Neda, Iran

for Neda, Iran

Con Musulmane rivelate, l’antropologa di origini palestinesi Ruba Salih vince
il premio Pozzale. A left racconta  la sua ricerca

di Simona Maggiorelli

Lo sguardo di Ruba Salih sul mondo musulmano appare particolarmente prezioso a chi, in Occidente, voglia capire i mutamenti che hanno attraversato la galassia del mondo islamico nella storia e ciò che di nuovo si sta muovendo oggi. A cominciare dalla rivolta di tanti giovani di Teheran contro il regime di Ahmadinejad e che vede tante studentesse in prima fila. Di origini palestinesi e docente di Antropologia sociale all’università di Bologna e in quella di Exeter in Gran Bretagna, Ruba Salih partecipa di molte e diverse culture e nei suoi lavori offre inediti spaccati di comparazione. Come nel bel libro Musulmane rivelate (Carocci) che il  12 luglio 2009 riceverà il premio Pozzale. Con atteggiamento laico, convinta che le «le idee e le ideologie di natura religiosa vadano viste e analizzate come prodotti della realtà sociale sulla quale poi esercitano un’influenza» Salih racconta in questo agile volume come nei Paesi islamici stia cambiando il rapporto fra uomo e donna e il ruolo delle donne nella società. Da qui prende il la il nostro incontro.
Professoressa Salih, come legge l’ampia partecipazione di giovani donne alle proteste contro le elezioni truccate in Iran?
È ancora presto per capire in che cosa si trasformerà questa protesta, se chiederà cambiamenti radicali o si fermerà alla rivendicazione di elezioni più trasparenti. Certo è che le donne sono molto presenti nell’iconografia di questa rivolta. E non è un caso. In Iran le donne non sono mai state assenti dalla scena pubblica. C’è un immagine bellissima che circola in Rete: si vede una donna che ferma l’auto del presidente Ahmadinejad. A me pare molto significativa.
Che significato assume oggi il velo?
Il velo, in realtà,, non ha un solo significato. In alcune società islamiche può essere strumento di negoziazione. In situazioni di crisi economica o quando si aprono delle nicchie di lavoro, le donne escono  velate per non distruggere tutto l’equilibrio delle relazioni di genere. Le donne lo usano per ottenere una maggiore libertà fuori casa, comunicando agli uomini che questo non comporterà una rivoluzione dei rapporti familiari E in contesti dove le donne hanno pochi diritti, la protezione della famiglia è una garanzia.
Maometto non impose il velo a tutte le donne. Da dove nasce l’obbligo?
Il velo preesisteva all’islam. Per esempio era un’usanza della società sassanide. Lo indossavano le donne dei ceti più alti. A un certo punto, alcune sure del Corano che parlano dell’abbigliamento femminile vengono interpretate in senso normativo.
Accade durante l’espansione islamica?
Sì, quando l’islam si fonde con gli usi delle regioni conquistate. Infatti ci sono molti tipi di velo. Cambiano da zona a zona. Perché diverso è ogni volta l’intreccio fra islam e culture locali.
Perché questo controllo sul corpo delle donne?
Studiose come Fatima Mernissi hanno documentato come sul corpo femminile si siano accaniti tutti, dai nazionalisti ai religiosi, ai modernisti. Nel mio libro provo a raccontare come ognuno di loro tenti di visualizzare il proprio progetto di società sul corpo delle donne. In Iran nel ’36 fu vietato indossare il velo ma non vedo troppa differenza fra questo divieto e quello attuale che proibisce alla donne di uscire  senza. Sono due facce della stessa medaglia.
Dalla sua ricerca sul linguaggio della letteratura coloniale emerge come l’Oriente fosse «femminilizzato, velato, visto come seduttivo e pericoloso». Al razionalismo lucido del conquistatore si contrapponeva una società vista come pericolosamente irrazionale?
Quando l’Occidente comincia a usare nelle sue rappresentazioni dell’Oriente l’immagine delle donne musulmane inizia un processo che è ancora in atto. Il colonialismo e l’orientalismo nella sua versione letteraria si accaniscono nel costruire l’altro in modo che l’Occidente, per contrapposizione, appaia moderno, aperto, logico. L’ambito della sessualità, avvertito come oscuro, intimo, morboso diventa giocoforza serbatoio di metafore. Ma il fatto è che i modernisti arabi hanno fatto propria questa rappresentazione iniziando a vedere nelle donne proprio l’elemento da modernizzare. E se è vero che hanno stilato nuovi codici di famiglia (anche se concessi dall’alto) riconoscendo diritti alle donne, dall’altro lato hanno rotto la sfera di potere che le donne avevano e si è iniziato a svalutare il sapere femminile. Nella famiglia più estesa, anche se patriarcale, le donne potevano avere un ruolo di cui poi vengono spodestate nella famiglia nucleare moderna. E sappiamo bene che anche in Occidente non è stata un territorio di libertà per le donne.
Nel libro accenna anche alla cesura che avvenne nel passaggio dalla società araba tribale all’islam.
Nel 600 l’islam si presentava come una religione “moderna”. Il Corano fungeva un po’ da codice: riconosceva alle donne il diritto ereditario (quello alla proprietà c’era già prima) e inseriva tutta una serie di meccanismi di protezione in caso di ripudio e di divorzio. Abolì l’infanticidio delle bambine. L’islam fu anche un movimento a cui si accompagnarono tutta una serie di trasformazioni economiche e di urbanizzazione, parliamo di dinamiche storico sociali che incisero profondamente su quello che sarà il destino delle donne. In città le donne furono più recluse nella sfera domestica: era la prova dello status elevato della famiglia. Le società preislamiche, invece, erano nomadi e avevano tratti matrilineari. Le donne stavano fuori casa ed effettivamente pare fossero più libere. La verginità, per esempio, non era così importante e le donne avevano un ruolo nella vita pubblica.
Ancora le mogli del profeta godevano di certe libertà?
Le femministe che si sono messe a studiare il Corano per fare una dialettica con gli uomini sul piano interpretativo, si riferiscono proprio alla vicenda delle donne di Maometto per rivendicare un diverso rapporto fra i generi nell’islam. Tutte le religioni, anche se in modi diversi, opprimono le donne. Ma se il cristianesimo condanna la sessualità e il desiderio femminile, per l’islam non è peccato. è così?

Nell’islam le donne hanno diritto al piacere sessuale. L’impotenza del marito, anche nella Sharjah, è fra le possibili cause di divorzio a vantaggio delle donne. Così come l’assenza prolungata del marito. Ma c’è un fatto  contraddittorio che consiste nel controllo sui corpi delle donne e sulla sessualità femminile perché le società islamiche, non dimentichiamolo, sono società patriarcali. E la cultura patriarcale si impone come un macigno sulla libertà femminile. Ed è un fatto trasversale che accade anche in contesti culturali diversi. I molti delitti che si verificano in Italia, e di cui si ha più notizia in estate, vedono quasi sempre come vittime le donne, uccise da mariti e fidanzati perché hanno agito in modo disonorevole o secondo canoni o scelte diverse. Questo è il patriarcato. Un tipo di cultura che preesiste all’islam e si intreccia con esso. Una mentalità che oggi le femministe arabe vogliono separare dall’islam. Ma decostruire il patriarcato non è facile.

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Il dovere di curare

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 27, 2009

L’anestetsista Mario Riccio: «C’era qualcuno che aveva diritto a interrompere la terapia, e quando ho accettato di occuparmi di lui ho sentito forte l’obbligo etico, ma ora dico anche giuridico, di dare una risposta a questa esigenza del paziente». Piergiorgio ha fatto riflettere tutti su un diritto considerato sacrilego.

In Italia è emergenza diritti civili. La sinistra si faccia interprete della domanda che viene anche dai giovani

di Simona Maggiorelli

il medico Mario Riccio

il medico Mario Riccio

«I temi di bioetica e i diritti civili sono un’emergenza in Italia. E la stiamo tirando troppo per le lunghe. Altri Paesi li hanno affrontati, discussi, hanno fatto leggi. È importante che si parli di testamento di vita, di aborto, di fecondazione assistita. Che si parli di pacs, di unioni civili. Nel centrosinistra fin qui non c’è stato modo di affrontarli. Lo hanno fatto, invece, i conservatori, il centrodestra, con la consegna totale di queste tematiche agli ambienti ecclesiastici. Questo soggetto nuovo, il Pd, su tutto questo tace. Non so – accenna Mario Riccio – se come medico posso permettermi di dire…ma questi sono argomenti molto importanti. E nessuno finora, a eccezione dell’area laica radicale, ha preso i mano la laicità come bandiera o come tematica chiara della propria proposizione ai cittadini». A un anno e due mesi dalla vicenda di Piergiorgio Welby il medico anestesista che lo aiutò nella sua battaglia politica torna a parlare. Ripercorrendo le tappe di una storia, quella di Welby, che oggi appare sempre più paradigmatica e con quella passione civile di chi ha “militato” a lungo nella Consulta di Milano, organizzando dibattiti e convegni di bioetica laica. «Senza troppi giri di parole – continua Riccio – a me piacerebbe sapere cosa vuole fare la sinistra la legge 194? Facciamo la moratoria? La fecondazione assistita? I tribunali continuano a dire che la legge 40 è incostituzionale, ci vogliamo mettere mano? Le coppie di fatto registrate nelle liste comunali delle unioni civili sono 700mila, in Italia un figlio su tre nasce da una coppia non sposata. Sono temi di primo piano nella vita dei cittadini. Ma vedo che nessuno se ne occupa. Spero che la Sinistra arcobaleno ne faccia un suo tema, un suo campo di battaglia, perché nella mia esperienza, di incontri e di dibattiti, noto che la base di questa sinistra ne parla. E se è vero, come si legge, che proprio a sinistra si potrebbe registrare un grosso astensionismo, rappresentare politicamente le esigenze dei cittadini su questo piano potrebbe essere una carta vincente. I giovani oggi hanno certamente il problema del mutuo, però una coppia di fatto che vuole un figlio, oppure che fa fatica ad averne uno, cerca delle risposte dalla politica».

Nella sua esperienza di medico quanto è sentita l’esigenza di una legge sul testamento biologico?

Mi pare chiaro che sia una necessità. Io vivo tutti giorni nell’area critica come rianimatore, ma la stessa esperienza la si vive nel campo oncologico, dove c’è sempre da scegliere, a un certo punto, se continuare la terapia o insistere, sono problematiche che toccano la vita di molti, quotidianamente.

Quanto il legislatore o il giudice possono legittimamente entrare in queste questioni? Il gup Renato Laviola, in particolare, nel caso di Welby, parlava di “diritto alla vita”. Parole che si addicono più a un uomo di Chiesa…

Se vogliamo tornare su quella storia, per il suo valore di prototipo, va ricordato che la vicenda non ebbe mai interruzione lungo una strada di una totale estraneità a un profilo penale. Mi spiego meglio. La Procura riconobbe che non c’era nessun profilo penale. E lo riconobbe anche il civile di Roma. In tutta quella storia ci fu solo una interruzione: il mio rinvio a giudizio da parte del gup Laviola che basò questa sua scelta su un supposto diritto alla vita. Ma la Carta fondamentale promuove lo sviluppo delle persone, l’istruzione, la salute eccetera, non parla mai di diritto alla vita. Del resto anche se ci fosse scritto diritto alla vita – cosa che non è – resterebbe il fatto che si tratterebbe di un diritto non di un dovere. Si può decidere se esercitarlo oppure no. Non esiste un diritto coercibile. A posteriori, oggi, mi rendo conto, però, che se non ci fosse stata la richiesta di rinvio a giudizio per me, forse non si sarebbe più parlato della vicenda Welby, con tutto il suo significato anche politico.

È stata una vicenda paradigmatica anche per quello che fu detto sulla questione sedazione.

Ora i toni, per fortuna, si sono raffreddati e mi fa piacere. È passato del resto un anno e mezzo, ma non posso dimenticare quel che disse l’ex presidente del Cnb Francesco d’Agostino: per lui il problema era se sedare Piergiorgio prima del distacco della macchina, se sedarlo dopo, se sedarlo poco o tanto. Sembrava quasi che se l’avessimo sedato troppo sarebbe stato un problema perché prima dovevamo farlo un po’ soffrire. Quando lessi tutto questo sulle pagine dei giornali mi prese lo sconforto. Pensavo che soluzione D’Agostino sarebbe stata di alto profilo etico e giuridico e dovetti leggere che stavano spiegando a me anestesista che tipo di farmaco usare e con quale dosaggio….

L’Italia continua a essere fanalino di coda nella terapia del dolore. Quanto la Chiesa riesce a intromettersi nel rapporto medico-paziente?

Giovanni XXIII sdoganò la morfina, disse che il dolore di per sé non è un valore, agli inizi degli anni ’60. Ma questo discorso non è stato più fatto, né da Woytila né tanto meno da Ratzinger…Mi viene particolarmente difficile pensare a un dio, specie come quello che ci prospettano, un dio un po’ guardone che si introduce nelle camere da letto o che va a misurare il dolore. Io non sono un credente, sono un ateo agnostico, ma ipotizzando per un attimo un’entità soprannaturale, non lo vedrei impegnato a occuparsi della mia sessualità. Mi parrebbe un po’ offensivo.

Ma le cure palliative spesso non bastano, c’è anche il dolore psichico dei malati terminali a cui il medico di trova a dover rispondere?

E’ quello che con un termine tecnico si chiama dolore totale, è la sommatoria di dolore psichico e dolore fisico. Lo si riscontra, per esempio, nei malati oncologici terminali. Pensare di dover vivere in una situazione particolarmente umiliante è devastante, diventa un dolore incoercibile che non si riesce a gestire nemmeno con l’uso della terapia antalgica. Si parla molto di medicina palliativa, anche su questo l’Italia deve recuperare il ritardo ma esiste una quota limitata di pazienti per i quali queste armi risultano spuntate. È questo che ha spinto paesi avanzatissimi dal punto di vista sanitario come l’Olanda a permettere l’eutanasia. Va fatta una riflessione seria, pacata, su questo tema. Non ha nulla a che vedere con l’indifferenza verso chi è incurabile. Al contrario.

Dovrebbe essere una questione che pertiene al rapporto medico-paziente?

Citare le sentenze in Italia oggi, per qualcuno, è una cosa provocatoria, quasi terroristica, ma io sono orgoglioso di farlo con quella del Gup nella vicenda Welby, in cui c’era il diritto del paziente e il mio dovere. Io ho fatto semplicemente il mio dovere di medico e di questo io sono sempre stato convinto. Lo spiegai alla conferenza stampa dove tutti pensavano che il giorno prima si fosse consumato un assassinio. Ma la spiegazione che io detti credo con sufficiente serenità passò quasi come un atto di prosopopea. Qui c’era qualcuno che aveva diritto a interrompere la terapia, e quando ho accettato di occuparmi di questa persona ho sentito forte dentro di me il dovere etico, ma ora dico anche giuridico, di dare una risposta a questa esigenza del paziente. E quella che sembrava una cosa extra siderale, ovvero che un paziente in queste condizioni rifiutasse la terapia, oggi è una cosa accettata. Piergiorgio Welby ci ha fatto fare una riflessione su un diritto che allora tutti consideravano come un sacrilegio.

da left-Avvenimenti 15 febbraio 2008

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La lettera di Welby al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Caro Presidente,

scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cit­tadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie pa­ro/e, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer; scrivere, leg­gere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmo­nare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catetere, trascorre con il sottofondo delta radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitorag­gio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazio­ni, bevute di Pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patolo­gia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perche sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un’ora una posizione diffi­rente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi as­sopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto di­strattamente. Non riesco a concentrarmi perche penso sem­pre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sem­pre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagna­no a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina.

Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico, Vita è anche la donna che ti lascia, una gior­nata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita è solo un te­stardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio, è lì, squa­dernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe, Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sot­trarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una «morte dignitosa». No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere «dignitosa», dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia «dignitosa» è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: «Ostico, lottare. Sfacelo m’assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m’accerchia senza spiragli. Non esiste approdo».

L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è «morte dignitosa», ma morte opportuna, nelle parole dell’uomo di fede Jacques Pohier: Opportuno è ciò che «spinge verso il porto»; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo «luogo» dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.

In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuoi dire che non «esista»: vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni Paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente «terminale» che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di «approdo» alla morte opportuna. Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato} Comitato nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante e hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.

Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. 1ra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali.

Piergiorgio Welby, 22 settembre 2006

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