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Daverio e i denti di Giotto

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 19, 2014

Giotto cappella degli Scrovegni

Giotto cappella degli Scrovegni

Tecnicamente sarebbero una serie di canovacci, semplici tracce usate dal critico Philippe Daverio per realizzare una serie di puntate del popolare programma televisivo Passepartout. Ma a leggerli pubblicati nel suo nuovo libro edito da Rizzoli ci si rende conto come questa serie di scritti d’occasione, fuori da ogni banale semplificazione, formino una collana di folgoranti ritratti di artisti – da Giotto a Botticelli, da Correggio a Caravaggio – e un originale viaggio nella storia dell’arte italiana, con uno sguardo comparativo al resto del panorama europeo.

Nelle prime pagine di questo Guardar lontano, veder vicino (che fa seguito al best seller Il museo immaginato uscito nel 2011 e al più recente Il secolo della modernità) Daverio promette un racconto non conformista di alcuni dei più noti capolavori dell’arte italiana. E fino all’ultima pagina dedicata alla drammatica Resurrezione di Lazzaro di Caravaggio, non tradisce la promessa mantenendo uno sguardo fresco e curioso su opere sulle quali si è depositata la polvere di decine e decine di manuali scolastici.

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Giotto, Cappella degli Scrovegni, particolare

Così ecco la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto raccontata dal critico lombardo-alsaziano come la scoperta di una nuova oggettualità attraverso dettagli mai prima rappresentati in un affresco sacro, come i denti e le bocche spalancate dei frati, i peli e il sesso dei dannati e la trasformazione degli angeli, che liberati dalla rigidità bizantina, non appaiono più come i «carabinieri del Signore».

E’ la scoperta dell’espressività dei volti e il primo tentativo di rappresentare gli affetti umani in pittura che Daverio aiuta a cogliere nei capolavori di Giotto a Padova e ad Assisi, con un linguaggio spigliato che avvicina il lettore meno attrezzato ma che – bisogna riconoscere – non rinuncia mai all’approfondimento. Né a nessi suggestivi come quando mette a confronto il primitivismo del medievale Cimabue con quello del cubista Picasso raccontando la complessità di una poetica che dietro alla scabra essenzialità delle forme, cela una ricerca artistica raffinatissima. In questo breve spazio possiamo solo offrire qualche suggestione di questa multiforme “Daveriologia” lasciando al lettore il gusto di scoprire molto altro.

Ma prima di chiudere vorremmo almeno spendere qualche parola per raccomandare in particolare la lettura dei capitoli sul Rinascimento in cui la proposta fiorentina di Botticelli, intrisa di astratto neoplatonismo, viene messa a confronto con la scoperta della realtà che caratterizzava invece la coeva pittura fiamminga e con la nuova luce che la pittura ad olio regalava ai quadri di Van Eyck, che i traffici commerciali e bancari fra la signoria medicea e le repubbliche anseatiche, del resto, avevano reso ben noti nella penisola.

Non solo in Toscana, ma anche in quella Messina in cui nacque e si formò Antonello e che nel Quattrocento non era affatto una città di periferia, ma uno dei porti più importanti del Mediterraneo che metteva in connessione diretta la Sicilia con Venezia e con Anversa.

daverio_guardar_fascetta-660x911Per non dire poi del capitolo dedicato a Leonardo da Vinci che Daverio tratteggia come un giovane anarchico e “alternativo”, capace di mettere a soqquadro le ferree leggi del disegno tosco-emiliano scegliendo la via di  una laica «sperienza».  Nella Firenze medicea era il neoplatonismo  di Ficino a dettare i programmi iconografici ma il giovane pittore non poteva accettare che il disegno partisse da un’idea astratta. Leonardo, come giustamente Daverio ci ricorda qui, non poteva rinunciare allo spirito di ricerca, e  si fece notimista, anatomista, osservatore del continuo fluire degli elementi naturali. Più assonante in questo con il giovane Albrecht Dürer che con il concittadino Botticelli.

E leggendo queste pagine dedicate  al genio da Vinci  e alla sua affascinante quanto evanescente Ultima Cena torna alla mente  quella sequenza di Passepartout in cui Daverio per fare percepire allo spettatore per quale punto di vista Leonardo avesse pensato l’affresco,  nella sala del refettorio di Santa Maria Maggiore a Milano puntò due telecamere una contro l’altra evidenziando così quello spazio vuoto che un tempo era occupato dal tavolo dove i frati mangiavano: piccolo particolare domestico, ma che in tv metteva in nuova luce questo straordinario quanto enigmatico capolavoro leonardiano.  Anche per sequenze come questa ci dispiace  molto che la Rai non abbia voluto rinnovare a Daverio l’incarico per una nuova serie di trasmissioni.  Le vecchie puntate, per chi se le fosse perse, si possono rivedere su Rai 5.     (Simona Maggiorelli)

Dal settimanale Left-avvenimenti

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Il secolo lungo di Daverio

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 24, 2013

Delacroix, il 28 luglio, la libertà guida il popolo (1831)

Delacroix, il 28 luglio, la libertà guida il popolo (1831)

In una ideale staffetta con lo storico Eric J. Hobsbawm, Philippe Daverio torna ad indagare il XIX secolo. Nel libro Il secolo lungo della modernità (Rizzoli) lo fa immaginando di trasformare una vecchia stazione ferroviaria in un museo pieno di opere che hanno punteggiato un lungo arco di tempo che va dalla rivoluzione francese alla fine della prima guerra mondiale, ovvero fino al momento «in cui Hobsbawm fa iniziare il suo secolo breve», sottolinea il critico d’arte milanese, che insegna alla Facoltà di architettura a Firenze.

«La lunghezza del secolo è il primo dato che dà valore alla dimensione storica» abbozza ironicamente il professore. «Il Cinquecento per esempio, è importante perché comincia sostanzialmente con la morte di Lorenzo de’ Medici e la scoperta dell’America e si conclude con lo scoppio della guerra dei trent’anni, nel 1618. I secoli sono importanti quando sono lunghi. Basta misurarli!».

E poi avvicinandosi al tema del suo nuovo libro aggiunge: «Il secolo della modernità è il XIX secolo: lì nasce tutto ciò che fa il nostro mondo, dal treno all’aereo, dal telefono alla medicina». E già qui troviamo all’opera quel suo affascinante sguardo lungo sull’arte che, oltre all’estetica e alla storia, comprende anche l’antropologia, la filosofia, il costume. Un metodo, quello di Daverio, che soprattutto nei libri (da Il museo immaginato, Rizzoli, all’Arte di guardare l’arte Giunti) procede per nessi analogici, inaspettati, infischiandosene degli “ismi” e dalle  compartimentazioni del sapere che, alla fine, appiattiscono la visione.

«Noi abbiamo modificato la storia dell’arte secondo canoni recenti, con parametri che sono quelli che sono serviti in gran parte per giustificare i prezzi delle opere sul mercato. Se invece rovesciamo la questione dal punto di vista antropologico e culturale diventa tutto più divertente», suggerisce Daverio. «Basta usare altri parametri. Se guardiamo la pittura che concerne il vapore vengono fuori quadri di vapore. Se guardiamo il lavoro, il rapporto con la natura, con il sentimento, che nel Romanticismo erano preminenti, se guardiamo ai veri temi con cui si identificava il XIX secolo allora si formano dei raggruppamenti diversi». E nessi inediti, stimolanti. Che hanno il pregio di gettare una luce nuova sulle cose.

La predilezione di Daverio per la modernità (anche come direttore della rivista Art e Dossier) potrebbe lasciare intuire una critica implicita al contemporaneo. In sintonia con un critico acuto come l’ex direttore del Musée Picasso di Parigi, Jean Clair che in libri come L’inverno della cultura (Skira) ha criticato la povertà culturale del tardo pop e la freddezza razionalista del concettualismo di moda oggi. Ma curiosamente è stato accusato da critici e curatori di catastrofismo e passatismo, con toni da censura. «Il fatto è – commenta Daverio – che esiste una struttura di mercato che ha lo scopo di difendere tutto ciò che è stato prodotto nel XX secolo senza avere il coraggio di esaminarlo. Ma ormai il Novecento è passato e si ha il diritto di indagarlo. Il mio prossimo libro, intitolato Il breve secolo dell’ansia, si occuperà proprio di questo».

Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1912)

Boccioni, Stati d’animo, gli addii (1912)

Con ciò, precisa Daverio, «non è vero che nel XX secolo non nasca nulla di importante. Emergono nuovi protagonisti: gli Stati Uniti, la Russia, anche l’Italia, i paesi non industrializzati del XIX secolo. Ma le invenzioni nel XX secolo, tutto sommato, sono poche. Il Novecento non è stato il secolo della scienza ma il secolo della tecnologia. La filosofia di fatto si arresta nell’ambito del pensiero debole che è una declinazione dell’esistenzialismo. Si abbandona ogni ipotesi di una concezione sistematica possibile del mondo, come invece avevano tentato, in chiave di materialismo storico, Karl Marx, in modo esistenzial-depressivo Schopenhauer e poi il superuomo Nietzschiano. Tutta questa roba nel Novecento scompare. E finiamo con il pensiero debole con Karl Popper. Ma oggi-conclude Daverio -, visto che sono  già passati 15 anni dalla sua fine, se prendiamo Sarajevo come punto di svolta, possiamo cominciare ad analizzare il XX secolo per capirne le opacità, il senso, le contorsioni».

E cosa emerge dalla sua analisi? «Che gran parte del XX secolo è fatto di cose del XIX – ribadisce il professore -. Ci sono delle aree, per esempio, dove la Belle Époque finisce dopo il 1939. Quella parigina continuò fino all’arrivo delle truppe tedesche che, passate attraverso la guerra, subito dopo si misero a godere di nuovo».

E che dire invece del postmoderno che, per quanto oggi lo si dica morto, continua a dominare nelle Biennali d’arte e nei musei dalla Tate, al Pompidou al MoMa? «Bisogna vedere cosa vuol dire oggi postmoderno. La parola ci piaceva quando fu inventata 25 anni fa perché non si capiva dove andava a parare. Io oggi lo chiamerei neo contemporaneo. La modernità si fonda su una radice del passato, esiste in quanto è il passato che si fa presente e ci proietta avanti. L’idea di contemporaneità si lega ai “compagni del nostro tempo” e immagina l’attualità come basata su una tabula rasa: cancelliamo tutto e facciamo un mondo nuovo, che è quello che accadde nel 1917 a San Pietroburgo, a Mosca. Ma anche nel 1922 in Italia con Mussolini e quando l’Adolfo inventò il terzo Reich: durerà mille anni, predicava, ripartiamo da zero». E oggi? «Stiamo tornando alla modernità, ci pensiamo come il punto di passaggio fra passato presente e futuro. Non crediamo più che demolendo tutto, di per sé nasca il nuovo».

Philippe Daverio

Philippe Daverio

Di questo parlerà la sua prossima serie di Passpartout? «Non è detto che me lo facciano rifare… Anni di lavoro – chiosa Daverio- valgono un po’ meno di una serata di Benigni economicamente. Il pubblico ha apprezzato il programma, i dati lo dicono, ma in Rai stranamente non lo sanno. La Rai è una cosa abbastanza importante. Ma non siamo poi così sicuri che sia in Italia, potrebbe anche essere da qualche parte nell’Universo, lontano dal Paese reale».

Anche la politica è sorda alla domanda di cultura? Ci stiamo avvicinando alle elezioni e i beni culturali, il patrimonio d’arte sono fra i temi più snobbati nei programmi «E che non gliene frega niente a nessuno. Per conto del Fai ho coordinato una discussione con esponenti politici ed è stato – dice il professore dopo una pausa – alquanto imbarazzante». Quanto ai programmi dei partiti «una certa inclinazione per le tematiche culturali vive comunque nell’area di Bersani. Forse perché lui è laureato in filosofia con una tesi su Alberto Magno. Una sorta di romanticismo filo culturale, a destra, c’è poi fra quelli di Fini. Tutti gli altri se ne infischiano. Probabilmente hanno altri problemi». Con il progetto Save Italy lei aveva provato a lanciare un progetto e un movimento, possiamo fare qualcosa come cittadini? «Io penso di sì, bisogna fare fortemente i provocatori. Bisogna provocare reazioni». (simona maggiorelli)

Dal settimanale Left-avvenimenti

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In Viaggio con Matisse

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 25, 2012

di Simona Maggiorelli

Matisse,La Falesia d’Aval e il cottage di Etretat,1920

Negli ultimi anni si è molto discusso se abbia senso l’attuale corsa alla costruzione di grandi musei, visivamente anche spettacolari come quelli creati da archistar com Frank Ghery, ma che finiscono per essere delle scatole intercambiabili, contenitori di un grande numero di pitture e sculture decontestualizzati dal territorio in cui sono inseriti e dalla storia delle opere stesse.

È stato l’ex direttore del Museo Picasso di Parigi, Jean Clair ad aprire la querelle con un duro J’accuse contro il Louvre intenzionato a prestare parte della propria collezione al nascente museo di Abu Dhabi. Poi a quel suo acuminato pamphlet (edito in Italia da Skira) hanno fatto eco studiosi come Salvatore Settis stigmatizzando la diffusione di un modello americano che concepisce i musei come “cattedrali nel deserto”; un tipo di organizzazione espositiva che, se può avere una sua ragione Oltreoceano dove la storia dell’arte non ha una tradizione millenaria, poco senso ha da noi dove la tutela ha radici antiche. Ma soprattutto l’Italia (come ricorda anche Philippe Daverio nel suo nuovo L’arte di guardare l’arte  appena uscito per Giunti)  si caratterizza per un “museo diffuso” sul territorio, con palazzi storici, chiese, castelli che sono tutto il contrario di contenitori anonimi. Proprio per questo, con l’idea di valorizzare alcuni edifici di pregio, in un ideale Grand Tour  – in questo caso di opere, non di artisti -, il Ministero per i Beni culturali ha organizzato in collaborazione con la Fondazione Bemberg di Tolosa la mostra Viaggio in Italia: un trittico di esposizioni che lungo la costa adriatica, fa tappa nel Castello di Miramare a Trieste, nella Rocca di Gradara e nel Castello Normanno-Svevo di Bari, facendone teatri di capolavori di Lucas Cranach, di maestri fiamminghi, ma anche di pittori delle avanguardie storiche come Matisse.

Ma veniamo alle singole esposizioni aperte fino al 30 ottobre. Nel Castello a picco sul mare triestino la mostra “Sì dolce è il tormento: l’amore in tre capolavori” propone un affascinante assolo di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553), “rivale” di Dürer e amico di Lutero, nonché autore di nudi femminili misteriosi e sensuali come in Venere e Cupido, qui insieme al caustico Il vecchio innamorato e alla scena mitologica Diana e le ninfe sorprese da Atteone.

Signac, Alberi in fiore, fine del XIX secolo

La Rocca di Gradara, intanto, ospita una piccola summa di arte dalle Fiandre. Con la Madonna in tessuti arabesque di Van der Weyden che influenzò la pittura italiana nel secondoQuattrocento. La lezione leonardesca, invece, si nota nello sfumato di Isenbrandt, rappresentato nelle Marche da una Madonna col bambino della prima metà del Cinquecento. E ancora, la penetrazione psicologica del ritratto fiammingo è raccontata da una tela di Benson, maestro di Bruges, mentre il realismo nordico e grottesco dalla corrosiva Scena di locanda di Pieter Brueghel. Infine ecco anche il San Girolamo di Patinir, innovatore delle vedute paesaggistiche, tra descrizione naturalistica e visionarietà.

Il Castello di Bari, invece, si apre all’avanguardia maturata tra Ottocento  e primo Novecento, con il pointilliste Signac e il suo Alberi in fiore, un olio in cui la ricerca scientifica sul contrasto simultaneo del colore diventa il fulcro di un’arte a dire il vero assai razionale. E se Pierre Bonnard già cercava di prendere le distanze dall’impressionismo con il suo onirico scorcio parigino Il ponte dei Santi Padri, fu Matisse a fare un vero salto di qualità verso una pittura che cercava l’essenziale e la sintesi di una forma latente e più profonda dietro la percezione oggettiva.

da left Avvenimenti

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Il museo della maraviglia

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2012

di Simona Maggiorelli

Philippe Daverio

«Vorrei far rivivere nella mente tutte le grandi figure dell’arte nostra, vorrei intenderle al punto di immedesimare l’animo mio con loro», scriveva Giovanni Morelli (1816-1891), grande conoscitore d’arte.

Grazie al suo metodo “indiziario” basato su una attenta osservazione dei dettagli scoprì la mano di Giorgione nella Venere di Desdra ed ebbe un ruolo chiave in molte altre attribuzioni. Il diavolo si nasconde nei dettagli, direbbe Philippe Daverio, che, come Morelli, ha lo sguardo fine del conoscitore capace di scoprire l’autografia di un quadro senza ricorrere a fonti esterne. Da ex mercante, il critico di origine alsaziane è anche maestro di “gnosi sensoriale”, forte di anni di vicinanza tattile e carnale con i quadri nella sua bottega milanese. Una conoscenza diretta, vissuta, mai paludata, per quanto erudita. Che Daverio trasforma in piacere del racconto in programmi tv (Passpartout e Il Capitale) e ancor più in libri e in riviste come la sua Artedossier, lasciandosi andare in rapsodiche trattazioni dei quadri più amati, con la libertà di nessi inediti, inaspettati, irrazionali. Dalle pitture rupestri di Altamira per arrivare al Novecento. Fermandosi sulla soglia di quel Postmoderno che, allo sguardo del poliglotta e fieramanete inauttale Daverio, è poco più che paccottiglia. Inutile e assai costosa. Infischiandone bellamente degli squali in formalina di Damien Hirst, il Nostro preferisce scorrazzare lungo millenni di storia dell’arte creandosi ad hoc un suo museo ideale di capolavori assoluti, belli e imperituri. Come fa ne Il museo immaginato (Rizzoli),l ibro coltissimo, scritto con piglio agile e scanzonato. Un lavoro che, come accennavamo, deve molto alla lezione di Morelli anche se l’autore si dice solo debitore di André Malraux e del suo Musée Imaginarie. Andando ancora più indietro nel tempo questo museo immaginario di Daverio con capolavori di epoche diversissime squadernati in anticamera, Grand Salon, cucina, pensatoio, biblioteca e camere da letto (dove si dorme assai poco) ci riportano al modello dello studiolo del principe rinascimentale: Wunderkammer in cui campeggiano uova di struzzo (dipinte da Piero della Francesca) e lussureggianti nature morte (fiamminghe), bizzarrie arcimboldesche e acquerelli di Turner («anticipatore dell’action painting»!). Ad ogni stanza una manciata  di opere. Disposte come nell’arte della memoria di Giordano Bruno. Indimenticabile, sul camino, la Tempesta (1503) di Giorgione, finalmente liberata da qui ogni «accanimento ermeneutico interpretativo». E dove meno te l’aspetti sensuali quadri mitologici di Correggio e splendidi ritratti femminili (da Piero di Cosimo a Leonardo da Vinci) commissionati da banchieri e signori. Quadri che, nota Daverio, dicono «che il maschio occidentale fu guerriero, pensatore e rivoluzionario e assai repressore delle femmine. Che a seconda del rango hanno avuto diritto al potere del fascino, alla libertà della loro autonomia raramente, al potere sottile sempre».

 

da left-avvenimenti

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Il potere delle immagini

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2011

Il nuovo libro di Francesco Bonami confronta opere e icone quotidiane

di Simona Maggiorelli

Antonello da Messina, Madonna velata

C’è una  grande casa di vetro popolata di farfalle campeggia nell’ala del nuovo Macro di Roma che inaugurata il 4 dicembre scorso. Pensata come un grande incubatore, questa speciale serra riproduce in scala la Farnsworth House californiana dell’architetto Mies Van der Rohe. Nell’intenzione di Bik Van der Pol (Enel Award 2010) nasce come un invito a rispettare l’ambiente che ci circonda. Perché, come ci ricorda il direttore del Premio, Francesco Bonami «quando le farfalle scompaiono significa che l’ambiente è stato alterato in modo tragico».

Critico e curatore di fama internazionale (oggi vive e lavora perlopiù a New York) Bonami è anche un attento e pungente osservatore di ciò che accade nel panorama culturale nostrano su Il Riformista e in libri come Dopotutto non è brutto (Mondadori), come Irrazionalpopolare (con  Luca Mastrantonio, per Einaudi) e come il nuovissimo Dal Partenone al panettone da poco uscito per Electa.

teschio di Orozco

Anche per questo, e visti i ricenti crolli, la nostra conversazione non può che partire dal dramma che stanno vivendo Pompei e  molti altri siti archeologici nostrani. «Vede. il  fatto è che noi italiani viviamo una perenne contraddizione- fa notare Bonami -, ci vantiamo di essere il Paese con il più ampio patrimonio d’arte nel mondo e al tempo stesso non lo curiamo, ce ne freghiamo». Dunque  la mancata tutela di Pompei non sarebbe solo una questione di tagli ai finanziamenti alla cultura e di dissennate politiche di emergenza? «Il nostro problema è la mentalità. Come cittadini e come amministratori e ministri, a vari livelli rei di questo disastro. In questo- rincara il critico fiorentino- rientra anche il fatto che un ministro dei Beni culturali possa pensare che con un manager alla valorizzazione (l’ex manager McDonald’s Mario Resca ndr) si possa risolvere il problema di una generale mancanza di senso civico». Così un modello di gestione importato dagli Stati Uniti qui produce danni, più di quanti ne faccia Oltreoceano dove la volorizzazione dell’arte ha una storia breve e recente. «L’imprenditoria da noi in Italia  è diseducata a pensare cosa significhi partecipare collettivamente di una cultura. In America, invece – racconta Bonami – l’imprenditore investe, certo perché ne ha vantaggi fiscali, ma anche perché ha un senso dello spazio collettivo in cui vive. Io lo chiamo egoismo civico. Non è filantropia. Investe in cultura perché è convinto di fare bene anche a se stesso: perché una città dove i musei e le scuole funzionano dà valore anche a chi ci vive. Da noi, invece, chi investe lo fa solo per avere visibilità, non per una migliore immagine e qualità di vita collettiva. Un esempio? Guardi come è impacchettata di pubblicità Venezia».

Cristo morto di Mantegna

Proprio a proposito di arte e ricerca di visibilità personale, da ex direttore della Biennale di Venezia, Bonami  cosa pensa della decisione del ministro Sandro Bondi di affidare il Padiglione Italia a Vittorio Sgarbi, già sindaco di Salemi, soprintendente al Polo museale veneto, nonché supervisore degli acquisti del MAXXI? «Vede in Italia oggidì esistiamo solo se passiamo per il mezzo televisivo, quindi personaggi come Sgarbi, o come Philippe Daverio, si sentono insigniti di un potere superiore, quasi divino. I media danno loro la sensazione di poter far tutto. Quando invece si hanno competenze limitate. E questo – prosegue il critico – sta producendo un disastro nel mio settore, nella cultura, ma anche in altri campi. La notarietà mediatica in Italia è un lasciapassare per tutto. In questo quadro, dunque,  Sgarbi, con il suo padiglione Italia, ancora una volta ci farà apparire in modo molto imbarazzante agli occhi del mondo».

Da parte sua Vittorio Sgarbi, del resto già mesi fa, salutò il suo incarico in laguna stigmatizzando i suoi predecessori in modo non proprio gentile e dando allo stesso Bonami dello «spiritoso dilettante». Mentre Luca Beatrice, responsabile del padiglione Italia 2009 in chiave passatista, plaudiva al progetto sgarbiano “150 artisti per 150 anni dell’Unità d’Italia”, come occasione per mostrare e portare in primo piano l’iconografia di destra. Ma anche come un modo per fare fuori «la cricca dell’arte povera che si autocelebra come unica critica d’arte, in stile regime sovietico» Da parte sua Bonami fa spallucce alle punzecchiature del super Vittorio e nel suo ultimo libro Dal Partenone al panettone (Electa), fuori dalle polverose accademie, rivendica la possibilità di analizzare la forza comunicativa delle immagini in piena libertà, attraverso nessi inediti, talora anche “inauditi”.

Che Guevara, ucciso

Così il colpo di testa del calciatore Zidane campeggia accanto a un particolare di un affresco di Masaccio, la foto di Che Guevara morto è accostata al Cristo morto di Mantegna, la Madonna velata di Antonello da Messina è accanto a una libera reinterpretazione di Orozco, Anche nella critica d’arte, insomma, è tempo di rivalutare l’intelligenza che procede  per intuizioni. «L’arte oggi è uno dei tanti ambiti che usa le immagini. Lo fa anche la pubblicità, lo fanno le riviste. E a volte attraverso questi mezzi emergono delle icone che pur non essendo artistiche, acquistano quella notorietà e quella fama che compete alle grandi opere. Tanto che l’immagine di Che Guevara morto è più popolare del Cristo morto di Mantegna». Senza dimenticare però che l’arte è creazione di immagine, non solo comunicazione o documentazione. «L’arte- sottolinea Bonami – crea una soglia che noi attraversiamo. Nel mio libro non intendo dire che tutto sia arte. Parlo del potere delle immagini e le confronto con quelle che realizzano gli artisti. L’arte, insomma, è quel linguaggio che ci regala uno scarto, che ci fa capire in un mondo diverso, che ci dà la possibilità di vedere le cose in un modo più libero di quanto ci consentano la pubblicità o altri linguaggi. Anche perché – approfondisce – l’arte in realtà non ha nessuno scopo, mentre la pubblicità o il foto giornalismo ne hanno uno ben preciso e pragmatico» E a chi obietta che anche l’arte oggi deve fare i conti con il mercato? «Rispondo che in fondo non è vero perché gli artisti creano a prescindere, prima di avere un mercato, prima di esporre, per un’esigenza personale, per comunicare qualcosa di profondo». E non come piatta mimesi del reale. Nel suo nuovo libro Bonami, non a caso, parla del realismo come valore, ma anche come zavorra dell’arte italiana. «L’Italia è un Paese che ha dei bravi artisti ma non ne ha migliaia, ce ne sono pochi che possano dare il la a nuove tendenze. Questo accade nei vari ambiti della pittura, della letteratura eccetera. Perciò credo che l’operazione che fece Luca Beatrice e che sta facendo Sgarbi, ovvero dire che esistono centinaia, migliaia, di artisti che vanno mostrati sia deleterea: è un modo per infilare dentro ad operazioni molto dubbie personaggi amici, oppure beniamini dei critici. Non è – conclude Bonami – una selezione vera e oggettiva. Andare a chiedere come ha fatto Sgarbi per il suo Padiglione a Umberto Eco, a Massimo Cacciari, ad Arbasino e ad altri di fare dei nomi da portare a Venezia, è chiedere a vanvara, non è affatto una cosa democratica. Anche perché Eco stesso ammette di non intendersi di arte contemporanea e Massimo Cacciari dice sinceramente di essersi fermato a Mondrian e di non avere interesse per ciò che è accaduto dopo».

left-avvenimenti 26 novembre 2010

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