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Come nascono i popoli

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 9, 2012

Ultimo giorno oggi, 9 aprile, per visitare la mostra Homo Sapiens al Palaexpo di Roma.  Dal 28 aprile la bella rassegna curata da Telmo Pievani e Cavlli Sforza si trasferisce al Museo della scienza di Trento. Intanto l’antropologo e docente di filosofia della scienza dell’ Università Bicocca pubblica  per Laterza una nuova Introduzione a  Darwin

di Simona Maggiorelli

Mostra Homo sapiens

Le società umane non sono monoliti, ma organismi in evoluzione, le cui radici nel tempo sono tutte intrecciate fra loro» fa notare Telmo Pievani, anticipando i contenuti della conferenza che il 30 marzo il docente di filosofia della scienza dell’Università di Milano-Bicocca ha tenuto a Genova, nell’ambito de festival la Storia in piazza. Una rassegna dedicata alla storia passata e presente dei migranti, con interessanti finestre sul passato più remoto della specie umana e sulle prime migrazioni dei Sapiens, di cui in questa occasione parleranno Cavalli Sforza e altri noti antropologi e genetisti. «Grazie all’inedita convergenza di dati scientifici differenti, dai geni ai fossili alle lingue, è oggi possibile indagare le tante storie nascoste che hanno preceduto la Storia con la maiuscola che abbiamo studiato a scuola» approfondisce Pievani.

«Scopriamo così che il movimento nello spazio geografico ed ecologico è stato il processo alla base della nascita dei popoli e il principale motore della diversità umana». E non solo. «Da un piccolo gruppo di pionieri africani», sottolinea lo studioso, «è scaturito il più sorprendente esperimento di diversificazione culturale mai registrato nell’evoluzione, con più ondate di popolamento a partire dal Corno d’Africa, espansioni di piccoli gruppi, oscillazioni demografiche, improvvise fiammate di innovazione culturale, catastrofi ambientali che hanno messo a repentaglio la nostra sopravvivenza, convivenze con altre forme umane fino a tempi recenti, colonizzazioni di nuovi mondi, in uno scenario inedito che promette di modificare profondamente la nostra concezione della “preistoria”».

 Un tema, quello dell’evoluzione umana, che Telmo Pievani di recente ha affrontato anche in una mostra al Palazzo delle Esposizioni di  Roma  fino al 9 aprile ( e dal 28 aprile al 4 novembre al Museo delle Scienze di  Trento  e in un nuovo libro, Introduzione a Darwin. Uscito lo scorso febbraio per Laterza, il volume, che si avvale di lettere, diari e documenti inediti, offre un ritratto personale e “intimo” del padre dell’evoluzionismo (nato il 12 febbraio del 1809) presentandolo come «un uomo schivo che riuscì a cambiare per sempre il nostro modo di intendere la natura, e il posto della specie umana in essa». Mettendo insieme biografia e pensiero di Charles Darwin, Pievani evoca la giovinezza spensierata (senza troppa voglia di studiare) del futuro scienziato, raccontando poi di quel viaggio avventuroso di cinque anni che lo portò attorno al mondo e di un secondo viaggio londinese, questa volta tutto mentale, all’inseguimento di un’intuizione rivoluzionaria e inconfessabile. E che si tradusse in venti lunghi anni di silenzio operoso nella campagna del Kent.

Poi la scomparsa della figlia amatissima e un precipitare di eventi fino alla imprevista lettera di un potenziale rivale, che aveva tutta l’aria di volergli rubare le idee più innovative. Un fatto che, se non altro, spinse Darwin ad affrettarsi a pubblicare i risultati dei suoi studi. Nel raccontare i contenuti delle ricerche dello scienziato britannico, Pievani non trascura tuttavia la cronaca del successo mondiale dell’Origine delle specie, né tanto meno lo scandalo che suscitò nella “buona società” dell’epoca, religiosa e conservatrice. Il fatto è, ricorda Pievani in questo agile libro, che Darwin ha dato il via a una rivoluzione non solo scientifica, ma anche filosofica e culturale. Una rivoluzione che ancora oggi trova nei seguaci delle religioni monoteiste i suoi più accaniti (e anacronistici) oppositori.

da left-avvenimenti

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La sinfonia della natura nelle tele impressioniste

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 6, 2010

Al Vittoriano di Roma, fino al 29 giugno opere di Sisley, Pissarro, Monet e di altri maestri della scuola di Barbizon raccontano come la percezione del paesaggio cambiò in senso moderno

di Simona Maggiorelli

Sisley

L’interesse degli impressionisti per il paesaggio non fu solo legato alla sperimentazione sulla luce e sul colore e a un’idea della natura poeticamente intesa come “specchio” dell’animo umano. Ma nelle marine di Sisley, nelle mosse campagne di Pissarro così come nei giardini segreti di Monet, in senso culturale più lato, si possono cogliere anche i segni di una moderna attenzione alla natura, avvertita non più come una nemica (come lo era stata per secoli, fin dal medioevo), ma come patrimonio universale da valorizzare e da tutelare.

La rivoluzione industriale, con la diffusione delle ferrovie che in Francia e in Inghilterra, portò collegamenti più veloci fra città e campagna, determinando la nascita del turismo e cambiando radicalmente il modo di percepire la natura. Un cambiamento che non riguardò solo ristrette élite ma larghi strati sociali. Nel frattempo uno scienziato come Charles Darwin aveva contribuito con la teoria evoluzionista a validare un’idea di mondo come sistema naturale integrato di cui l’essere umano fa parte al pari degli altri esseri viventi avendo anch’esso una nascita biologica. «E come è noto gli impressionisti erano artisti molto attenti allo sviluppo delle scienze e a ciò che di nuovo e di valido portava l’epoca moderna» ricorda Stephen F. Eisenman curatore della mostra Da Corot a Monet. La sinfonia della natura (al Vittoriano di Roma fino al 29 giugno, catalogo Skira).

Pissarro

Insieme a John House e a una equipe internazionale di studiosi è l’ideatore di questa rassegna che squaderna centosettanta opere provenienti dai maggiori musei d’Europa e d’Oltreoceano e che porta per la prima volta a Roma una serie di capolavori mai prima esposti in Italia. Il progetto scientifico sotteso a questa rassegna è documentare la svolta nella percezione della natura che avvenne nel XIX secolo, leggendolo in parallelo alla nascita di un’idea di moderna ecologia. Mentre la rivoluzione industriale, di fatto, cominciava a cambiare il volto del paesaggio e non in senso positivo, gli artisti si diedero ad indagare la natura dal punto di vista scientifico, esaltandone la sintonia con l’umano, celebrandone la bellezza.

Rousseau paesaggio

Una svolta che si percepisce chiaramente mettendo a confronto  le  solitarie e antimoderne rappresentazioni della foresta di Fontainbleau dipinte da un pittore come Rousseau  (che fa di tutto per espungere dalla sue incantate visioni la presenza di visitatori) con le vitali scene cittadinee e agresti di impressionisti come Pissarro: nei suoi quadri visioni rutilanti di carrozze, strade piene di gente, il dinamismo urbano e la modernità sono rappresentati come aspetti affascinanti e positivi. Intanto – come raccontano proprio alcune tele di Pissarro in mostra – immagini di una campagna antropizzata, coltivata o selvaggia, diventano protagoniste di una pittura di paesaggio realizzata en plein air e che rappresenta terra, cielo e personaggi come un’unità, come un unico organismo in crescita, senza soluzione di continuità fra gli elementi.

«Il tentativo degli impressionisti – spiega ancora Eisenman – era di restituire allo spettatore una visione armonica, unitaria, non parcellizzata di uomo e natura».Una visione che però alla fine dell’Ottocento sembra andare in crisi. La pittura di Monet in primis segnala questo delicato passaggio. «Lo vediamo bene alla fine di questa mostra romana – racconta  Eisenmann – dove sono esposte una serie di tele in cui la pittura del maestro francese si fa via via sempre più sfocata». Le visioni chiare del primo impressionismo sono diventate nebbiose, introverse. Al Vittoriano lo raccontano gli ultimi quadri che Monet realizzò nella casa e nei suoi appartati giardini di Giverny: «Esempio perfetto della tendenza antiurbana e introspettiva dell’arte moderna fin de siècle» commenta lo studioso. Voltando le spalle al mondo, Monet con il ciclo delle ninfee dell’Orangerie  di fatto cercava la fuga dalla realtà chiudendosi nello stagno di una natura separata dall’umano. Dominata da un silenzio assoluto e da un tempo immobile. Ogni vitalità pare perduta.

dal quotidiano Terra del 6 marzo 2010

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