Posts Tagged ‘comunismo’
Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2013

Luciano Canfora, Elisabetta Amalfitano, Simona Maggiorelli. Ernesto Longobardi
di Simona Maggiorelli
Il libro della filosofa Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni) ha il merito di riproporci una figura di intellettuale piuttosto rara in Italia e ingiustamente trascurata dagli studi. Una figura di raffinato studioso della filosofia antica che nei suoi 99 anni di vita (Mondolfo era nato a Senigallia nel 1877 e morì nel 1976 a Buenos Aires) non separò mai studi accademici dall’impegno civile, portando avanti la propria ricerca come forma di resistenza antifascista perché tutta volta- basta vedere i suoi scritti sulla pedagogia – a risvegliare il senso critico, a dare strumenti di lettura della storia e del presente ai suoi studenti. Fra i quali a Torino forse ci fu anche Gramsci.
Un lavoro di insegnamento che Rodolfo Mondolfo svolse con grande coerenza, senza soluzione di continuità, prima nelle scuole superiori e poi all’Università di Torino, di Padova (1907) e di Bologna (1913-38), fin quando – dopo aver promosso e firmato il Manifesto degli intellettuali contro il fascismo – nel 1938 fu costretto dalle leggi razziali a cercare riparo a Buenos Aires.
Rodolfo Mondolfo intellettuale dal profilo non comune nel panorama italiano, dicevamo. Anche perché profondamente laico. Un aspetto indigesto all’establishment politico in Italia. Ancora oggi. Basta vedere il desolante mancato sostegno alla candidatura di Rodotà da parte del Pd Alle giornate della Repubblica delle idee che, proprio qui a Bari, mentre parliano pretendono di mettere insieme scienza e fede.Oppure al neoconfessionalismo dei marxisti ratzingeriani, ovvero Pietro Barcellona e Mario Tronti, intellettuali organici del Pci e che oggi, dopo il crollo delle ideologie, sono diventati organici al Vaticano.

Luciano canfora, Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli
Rodolfo Mondolfo no. Da socialista e illuminista si oppose sempre a ogni forma di oscurantismo. Andando a spigolare validi anticorpi nel pensieri di filosofi come Giordano Bruno, Feuerbach, e Marx. Del quale – scrive Elisabetta Amalfitano- Mondolfo seppe dare una lettura originale, coniugandolo con Rousseau nel tentativo di superare la scissione cartesiana (fra corpo e mente, fra teoria e prassi). Il tentativo era quello di mettere al centro della propria riflession l’essere umano nella sua interezza, nella sua complessità di bisogni ed esigenze, che riguardano l’alimentazione, il lavoro, la salute, ma anche la formazione, la conoscenza, la qualità dei rapporti dei rapporti umani, la creatività. In questa chiave , ricostruisce Elisabetta , Mondolfo, lavorò all’ipotesi di una via riformista al socialismo, prendendo le distanze da ogni forma di materialismo metafisico e deterministico. E prendendo esplicitamente le distanze per esempio dalla proposta di Antonio Labriola: “Il suo materialismo dimentica che nella storia la realtà vera ed essenziale sono gli uomini”.
La libertà per Mondolfo era importante quanto l’uguaglianza e cercò per tutta la vita di elaborare una filosofia della prassi che riuscisse a coniugare questi elementi. Tacciato di moderatismo dai giovani Gramsci e Gobetti presi dal fuoco della rivoluzione bolscevica, il pensiero di Mondolfo apparve del tutto inattuale ai giovani del ’68 e ai fautori di una lettura strutturalista del marxismo quando, proprio nel ’68, pubblicò Umanesimo di Marx. Ma come ho avuto il piacere di dire anche in un’altra occasione a me pare che – superata quella fase storica – oggi il pensiero di Mondolfo offra invece molti spunti interessanti di riflessione a questa sinistra che ha urgente bisogno di ripensare e rilanciare la propria identità. Elisabetta Amalfitano, in questo suo appassionato libro, ne squaderna molti.
A cominciare dall’idea che la trasformazione sociale che per Mondolfo parte dalla trasformazione interiore degli individui. E dal rifiuto della violenza, in nome invece di una forza della praxis che significa anche resistenza, capacità di reagire, di proporre un pensiero. E ancora.
Lontanissimo dall’essere per la morte heideggeriano, Mondolfo – potremmo dire parafrasando quello che il professor Luciano Canfora ha scritto a proposito di di Arthur Rosenberg ne l’inquietante mestiere dello storico (Ll’uso politico dei paradigmi storici, Laterza) invita alla lotta, con i mezzi della ricerca storica e filologica, contro l’ideologia a base razzistica andata al potere nelle università tedesche nel 1933 e veleno che dilagava anche in Italia.

Luciano Canfora , Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli,
Per misurare tutta la distanza di Mondolfo dal pensiero conservatore basta leggere le pagine che Elisabetta dedica alla sua concezione delle masse che nel XXI secolo si sono affacciate da protagoniste sul palcoscenico della storia. Una concezione lontanissima da quella di Lombroso, ma anche da quella di Freud, che sulla scorta di Le Bon, in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921 libro molto amato da Mussolini) parlava delle masse come reviviscenza dell’orda primordiale e distruttiva, come lacrima di Batavia che basta che sia colpita in un punto perché finisca in mille schegge, una massa lavoratrice che secondo Freud ha sempre bisogno di un capo carismatico che le dia coesione. E di leggi che permettano la convivenza civile impedendo il fratricidio. Rodolfo Mondolfo, scrive Elisabetta Amalfitano, non aveva questa concezione pessimistica della massa. E per questo rifiutava anche l’idea della necessità di un partito novello principe che imponga dall’alto il cambiamento. Ma qui mi fermo, perché con noi c’è Il professor Luciano Canfora che molto di più può dirci sul rapporto fra Gramsci e Mondolfo.…
Intervento introduttivo alla presentazione del libro di Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni), alla libreria Laterza di Bari, il 20 aprile 2013, con Luciano Canfora, Ernesto Longobardi, Maria Laterza e l’autrice
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012
Nasce la prima Biennale d’arte Italia-Cina. Che dal 20 ottobre porta a Monza 60 artisti cinesi in dialogo con 60 artisti italiani intorno al tema della natura. Mettendo a confronto le tendenze più vive della ricerca contempoanea, fra Asia ed Europa
di Simona Maggiorelli

Zhengjie Feng
Sessanta artisti cinesi e altrettanti italiani, in un vivo dialogo sul tema del rapporto con la natura, non solo intesa come ambiente, ma anche come natura umana. È la prima Biennale d’arte Italia-Cina che dal 20 ottobre dilagherà nei 3mila metri quadri della Reggia di Monza per poi coinvolgere anche altri spazi a Milano e Palazzo Tè a Mantova. Organizzata da EBLand e diretta da Paolo Mozzo in collaborazione con Wang Chunchen è la prima tappa di un progetto che vedrà nascere una Biennale d’arte Cina-Italia nel Regno di mezzo: «Sono anni che lavoriamo a questa idea, nata visitando decine e decine di studi di artista in differenti luoghi di questo immenso Paese, entrando in rapporto diretto con gli artisti», racconta Mozzo. Proprio dall’approfondimento che nasce dalla conoscenza personale, e non affidandosi solo a galleristi, è emersa la selezione degli artisti cinesi presenti in questa ampia collettiva. Fra loro talenti emergenti e nomi già noti come Chang Xin, Lu Peng, Li Wei e Feng Zhengjie e altri della vivace scena artistica di Pechino (che si irradia dal colossale “fabbrica” espositiva 798.
Le loro opere insieme a quelle di molti altri artisti cinesi – che spaziano fra pittura, scultura, video, fotografia, installazioni, disegno – saranno esposte a Monza accanto a quelle di Pierluigi Pusole, Piero Gilardi, Maraniello, di gruppi come Cracking Art e veterani della videoarte italiana come Fabrizio Plessi.
L’apertura della manifestazione, in particolare, sarà affidata alla performance di una giovane artista, Lin Jingijing che insieme a un centinaio di volontari cucirà con un filo rosso duemila rose dai petali rosa. «La rosa è nostra vita, subisce lo splendore del costante intreccio della brutalità della vita. In questa performance si cercherà ciò che ci accomuna come esseri umani, il desiderio, la paura, la serietà, l’equilibrio…», accenna la giovane artista cinese. «La poetica naturale è una filosofia spirituale che ha una lunga tradizione in Europa ma gode anche della stessa antica storia, ereditata fino a oggi, nell’orientale Cina», spiega il curatore Wang Chunchen.
Che sottolinea: «L’atteggiamento nei confronti della natura riflette lo stato della civilizzazione umana, specialmente oggi». Da qui opere che ricreano in modo contemporaneo la millenaria tradizione cinese di pittura del paesaggio come rappresentazione del mondo emozionale e del movimento interiore dell’artista. Ma anche opere più politiche di denuncia della distruzione che sta avvenendo nel Regno di mezzo, sotto la spinta di una industrializzazione vertiginosa e incurante dei danni ambientali. Ma non solo.

Su Jiaxin
«Attraverso la Biennale la Cina e l’Italia possono intrattenere un nuovo dialogo visivo intercontinentale e unirsi per esaminare il significato dell’arte ai giorni nostri. La mostra accorcia le distanze geografiche e allo stesso tempo si concentra su riflessioni comuni a tutto il mondo», spiega il curatore.
E comune purtroppo, quanto al tipo di estetica praticata da molti giovani artisti nelle megalopoli d’Asia come in Occidente, sembra essere il ricorso a un linguaggio visivo mutuato dalla Pop art con le sue immagini chiassose, fumettistiche, piatte che ci parlano di un mondo globalizzato dove Monna Lisa e Mao Tzetung diventano icone intercambiabili, feticci, figurine svuotate di senso e da riusare a piacimento in opere che, come le tante statuette di Mao, i distintivi e i manifesti di propaganda di partito che affollano i mercati della città vecchia di Shanghai e di Pechino, aboliscono ogni distinzione fra autentico e “taroccato”.
E un gioco sottile fra vero e falso, reale e virtuale, omaggio e insulto, un doppio registro (che del resto aiuta anche a sviare la censura) sembra fare da trait d’union alla complessa e variegata scena dell’arte contemporanea cinese, cresciuta rapidamente negli ultimi venticinque/trent’anni sul vuoto pneumatico determinato dalla rivoluzione culturale di Mao e dagli agenti del Realismo socialista.

Li Wei
«L’opera di disconoscimento e di azzeramento di ogni tipo di libera espressione artistica diversa da quella imposta dalla propaganda comunista è stata sistematica e totale in Cina», commenta il direttore artistico della Biennale Paolo Mozzo.
Poi sul materialismo comunista si è innestato quello del capitalismo di Stato. «Comunismo e capitalismo in Cina hanno trovato questa strana e fortissima alleanza – prosegue Mozzo – che fa sì che senza nessun senso di colpa i cinesi oggi vendano tutti i propri simboli, immagini di Mao e statuette di Budda. Disposti anche a importare e a fabbricare crocifissi se serve per fare business. Un aspetto della cultura cinese rappresenta nella nostra mostra con un’immagine di sintesi folgorante».
Ma accanto al ricorso al kitsch, assicura Mozzo, da qualche anno in Cina si va segnalando anche un filone carsico di ricerca che riscopre l’antica tradizione della calligrafia in opere raffinate e poetiche. Qualche esempio sarà esposto anche a Monza. E con curiosità attendiamo di vederle dal vivo.
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Posted by Simona Maggiorelli su settembre 13, 2012
L’antico filosofo stigmatizzato da Mao come zavorra conservatrice è al centro di un sorprendente revival. La sinologa Anne Cheng denuncia le ragioni strumentali di questa riscoperta da parte del think thank del Partito
di Simona Maggiorelli

Festa per il compleanno di Confucio in Cina
Una statua di Confucio, un paio di anni fa spuntò improvvisamente in un luogo istituzionale e denso di scure memorie come piazza Tian’ammen, nel 1989 teatro della rivolta studentesca che il governo cinese represse nel sangue. Nel frattempo, anche nelle università cinesi si è ripreso a studiare Confucio e sono usciti nuovi lavori accademici per cercare di ricostruire filologicamente l’ancora incerto corpus delle opere di questo pensatore vissuto 2500 anni fa. Sul quale abbiamo poche informazioni sicure visto che la sua biografia fu scritta quattro secoli dopo la sua morte.
Ma oltre a dotte iniziative editoriali in Cina si segnalano anche film da blockbuster, sceneggiati e siti web dedicati a questa leggendaria figura e instant book che dispensano “pillole di saggezza” confuciana. Così nel Paese di Mao che aveva stigmatizzato Confucio come zavorra conservatrice, mettendolo al bando, si assiste più che a una riabilitazione a un vero e proprio revival. Non solo fra i ricchi imprenditori cinesi che troverebbero nelle pagine dell’antico studioso un rimedio allo stress di una vita frenetica all’insegna del motto «arricchirsi è glorioso» coniato da Deng. Ma anche fra un più ampio e indifferenziato pubblico questo maestro della misura, della ricerca di armonia e della morale tradizionale ha ripreso ad esercitare un forte appeal come dimostrano i milioni di copie vendute di alcuni libri come La vita felice secondo Confucio (pubblicato in Italia da Longanesi) della quarantenne consulente televisiva Yu Dan.
Un fenomeno così macroscopico e in controtendenza, dopo anni di svalutazione e ostracismo di Confucio (da Max Weber a Mao) che non può certo essere sfuggito all’occhiuto governo della Repubblica popolare cinese. La specialista di Confucio Anne Cheng, autrice di una Storia del pensiero cinese (Einaudi) tradotta in molte lingue venerdì 14 settembre sarà al Festivalfilosofia di Modena proprio per parlare di questo tema.


la sinologa Anne Cheng
Riguardo alla «febbre confuciana» che si registra oggi nell’Impero di mezzo, Cheng ha un’idea piuttosto interessante, ovvero che il governo cinese sia il vero deus ex machina di questa riscoperta. Dopo il fallimento della rivoluzione culturale (1966-1976) e di fronte alle pretese egemoniche dell’occidente industrializzato, il Partito comunista cinese (Pcc) ha promosso nell’ultimo trentennio un assiduo lavoro di ricerca degli “antecedenti”, delle radici cinesi che affondano nella storia antica, attraverso il restauro di edifici storici e il recupero di modelli filosofici autorevoli da contrapporre a quelli di un Occidente che, ancora a fine Novecento, pareva vincente su scala globale.
È in questo contesto che la vulgata confuciana passata indenne da una dinastia all’altra nel lungo medioevo cinese, improntando per secoli la vita politica e culturale del Paese ma anche il suo competitivo sistema scolastico, d’un tratto è tornata nuovamente “comoda” al potere. Tanto più nella congiuntura degli ultimi trent’anni, fra rapida crescita economica e “capitalismo di Stato”.
Così proprio mentre in Europa e negli Usa il capitalismo cominciava a mostrare un risvolto di disgregazione sociale, di edonismo e individualismo, spiega Anne Cheng, alcuni valori della tradizione confuciana come il senso del dovere, il rispetto della famiglia e dell’autorità, il lavoro assiduo, lo studio, la disciplina, insieme alla ricerca di armonia con l’ambiente, si sono rivelati strumenti utili per cercare di compattare un’identità nazionale sottoposta alle spinte centripete di un vertiginoso avanzamento economico e schiacciata da un mancato sviluppo democratico.

Una stampa che rappresenta Confucio
E ancora oggi capita che l’espressione «creare una società armoniosa» sia fra le più usate e abusate dall’apparato di partito ossessionato dall’ordine e dalla stabilità si Stato. Nelle sue lezioni al Collège de France (che si possono riascoltare sul sito http://www.college-de-france.fr) Anne Cheng fa un’approfondita disamina di questo “saccheggio” del vocabolario confuciano «in chiave visibilmente autoritaria, piegando il concetto di “società armoniosa” verso un’idea paternalistica delle relazioni fra governanti e governati». E non si tratta della prima volta per questo pensatore cinese del V secolo a.C.
Nei suoi studi Anne Cheng ha ricostruito la secolare storia degli usi ideologici e delle contraffazioni del pensiero confuciano, del resto – come accennavamo – non facile da restituire alla sua forma originale. Come scrive Maurizio Scarpari in Confucianesimo (Einaudi) la tradizione testuale delle opere del Nostro è assai ingarbugliata e lungo venticinque secoli di storia soggetta a continui rimaneggiamenti. Opere come I dialoghi di Confucio e I detti composti dai suoi discepoli (nel 2006 pubblicati da Adelphi in nuova edizione), si sono strutturate nel tempo come uno stratificato palinsesto, in cui si può riscontrare l’eco di molte voci diverse e riscritture. Ma anche importanti scoperte archeologiche che in Cina negli ultimi decenni hanno portato alla luce una serie di frammenti di testo che sono simili a quelli de I dialoghi, hanno obbligato gli studiosi a rivedere e ad analizzare più a fondo la natura del testo confuciano fatto di assemblaggi e di unità mobili. Al Festivalfilosofia di Modena la sinologa Anne Cheng traccerà anche un bilancio dei risultati di questi studi e di queste scoperte.
da left-avvenimenti 8-14 settembre
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Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2012
Al Mar di Aosta una grande mostra indaga il percorso del pittore russo nell’astrattismo. In un modo di dipingere che, dice Gillo Dorfles fu un movimento di liberazione
di Simona Maggiorelli

kandinsky, composizione
In quella svolta fondamentale per l’arte moderna che si realizzò fra Ottocento e Novecento Wassily Kandinsky (1866-1944) ebbe un ruolo di primo piano nell’aprire il canone occidentale alla pittura astratta. Lui che si era formato nella Russia zarista, religiosa e più arcaica e che aveva iniziato a dipingere dopo i trent’anni, fu tra i primi artisti ad avere il coraggio di abbandonare l’esteriorità illustrativa dell’impressionismo; fra i primi a liberarsi dell’ingombrante necessità di riprodurre oggetti riconoscibili, per dedicarsi alla creazione di forme originali, dinamiche, dense di senso, perché nate da un proprio vissuto interiore ( «E’ bello ciò che nasce da una necessità interiore. E’ bello ciò che è interiormente bello» annotava in pagine autobiografiche).
Così, mentre Matisse e Picasso rompevano con il dettato dell’accademia e della pittura da cavalletto per lasciarsi andare a figurazioni deformate e stranamente “scomposte”, Kandinsky – in un inedito confronto fra musica e pittura – prese a sperimentare giochi di forme-colori che nulla avevano a che fare con la mimesi della realtà.

Kandinsky, cupo-chiaro 1928
E’ del 1910 il suo primo acquerello astratto. Ed è del 1912 l’avvio di quella indagine sullo “spirituale dell’arte” che in Russia, dopo una prima vicinanza al suprematismo, lo aveva portato ad allontanarsi da Malevic e dalla sua ricerca della forma assoluta depurata da ogni sentimento, ma anche a prendere le distanze dalla celebrazione della macchina di Tatlin vicino alla Rivoluzione di ottobre e concentrato sulla funzione progettuale ed operativa dell’arte. Un costruttivismo, il suo, che Kandinsky giudicava ottusamente materialistico. Come racconta, dallo scorso 26 maggi e fino al 21 ottobre, la mostra Wassili Kandinsky e l’arte astratta fra Italia e Francia curata da Alberto Fiz nel Museo archeologico di Aosta ciò che interessava al fondatore del Blaue Reiter era poter utilizzare il proprio sentire come strumento di indagine della realtà. La rappresentazione non era lo scopo della sua pittura. Ma la creazione di forme-colore, vibranti, dotate «di un suono interno».
La sfida era, per lui, la ricerca di un effetto sinestetico. Nascono così le sue prime improvvisazioni e più complesse composizioni. Ma anche tutta quella serie di Kleine Welten (1922) che compongono il vivace portfolio di litografie a colori, di xilografie e puntesecche ora in mostra ad Aosta. Accanto a dipinti a olio come Appuntito tondo (1925), Rosso a forma appuntita (1925), Bastoncini neri (1928) e altri opere coeve provenienti da collezioni private e raramente mostrate in pubblico.
Con lo stilizzato e orientaleggiante Cupo-chiaro sono il cuore di questa esposizione che dedica ampio spazio all’astrattismo geometrico che Kandinsky andò maturando intorno al 1926, anno della pubblicazione di Punto linea e superficie (Adelphi): il testo teorico in cui Kandinsky, dopo essersi occupato a lungo della “psicologia” del colore, comincia a interessarsi alla “psicologia” delle forme, recuperando il valore del disegno e sperimentando un’astrazione fatta di curve, cerchi, triangoli, linee. Forme che si incontrano e talora si compenetrano, sospese, fra contrasti e bilanciamenti, in uno spazio bianco senza profondità.

W.Kandinsky, Balancement,1942
«Usando solo quelle forme che un interno impulso faceva nascere in me, spontaneamente», scriveva il pittore. Se agli inizi l’obiettivo per lui era attingere all’«inaudita forza espressiva del colore», poter esprimere il proprio mondo interiore realizzando «quella promessa inconscia ma piena di sole che vibrava nel cuore», ora poteva creare forme colorate e astratte. Infischiandosene delle convenzioni figurative.
Ma in una direzione del tutto diversa rispetto a Mondrian ossessivamente intento nella ricerca delle strutture logiche e impersonali del reale. L’aver sottolineato con chiarezza questo punto non è l’unico elemento di merito di questa retrospettiva che rilegge l’intera opera di Kandinsky in parallelo con quella di artisti che a lui si ispirarono. In particolare facendo dialogare tele di Dorazio, di Magnelli, del gruppo Forma1 e di Dorfles con l’ultima produzione dell’artista russo, popolata di creature biomorfe che paiono danzare sulla tela. Dal ‘33, avvicinandosi ad Arp e a Mirò, Kandinsky cominciò a dipingere immaginifici organismi e, strani, magnetici geroglifici. E’ questo il suo periodo meno studiato. Il più sottovalutato. Fin da quando, fuggito dalla Germania dopo la chiusura del Bauhaus da parte dei nazisti, l’artista russo si trovò del tutto isolato a Parigi, non compreso, giudicato inattuale dai tardo cubisti e dai surrealisti. «Sebbene fosse stimato in tutto il mondo, in Francia era conosciuto da pochi», ricorda la moglie Nina in Kandinsky ed io (Abscondita). «All’epoca il cubismo, dopo un inizio difficile, godeva di una grandissima considerazione. E si cercava in tutti i modi di impedire la concorrenza dell’arte astratta. Oggi so – scriveva Nina nel ‘76 – che Parigi era allora in ritardo di vent’anni rispetto agli sviluppi dell’arte internazionale». Dopo la sua morte Kandinsky sarebbe diventato un punto di riferimento per l’informale in Europa e per l’action painting di Pollock in America, ma il suo ultimo decennio di vita fu di assoluta solitudine, non potendo tornare in Germania dove nel 1935 il nazismo condannava l’avanguardia come arte degenerata. E neanche trovar riparo nella Russia del realismo socialista. «E’ davvero curioso» Kandinsky notava amareggiato «che i nazisti e i comunisti abbiano dimostrato la stessa cecità riguardo all’arte astratta». Una cecità inaccettabile, specie per una cultura che si voleva progressista, sottolinea oggi Gillo Dorfles intervistato nel catalogo della mostra edito da Mazzotta. «La grande novità», ricorda, «fu uscire dalla rappresentazione e dall’oleografia di immagini fotografiche. Finalmente gli spazi della creatività si allargavano a territori fin lì sconosciuti, rompendo con il realismo. L’astrattismo fu un movimento di liberazione».
da left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 22, 2012
Il suo libro, Seppellitemi dietro il battiscopa è un caso editoriale in Russia ed è uno dei maggiori long seller degli ultimi dieci anni. Lo scrittore Pavel Sanaev ne racconta la genesi al settimanale left
di Simona Maggiorelli

pavel sanaev
Dostoevskij, ma anche Balzac, per quanto riguarda la sostanza drammatica. E un autore poco letto in Russia come Jerome K. Jerome, da cui Pavel Sanaev ha preso l’ispirazione per una sua originale forma di umorismo («un modo divertente di trattare le profondità dell’animo umano» dice lui stesso). Si possono, a buon diritto, scomodare tutti questi bei nomi del Pantheon letterario per far capire di che pasta sia fatta la prosa di Seppellitemi dietro il battiscopa (Nottetempo), libro d’esordio di uno sceneggiatore appena quarantenne e che in Russia è esploso come un vero e proprio caso editoriale. Il romanzo, dalla chiave visionaria, è costruito intorno al rapporto claustrofobico fra una nonna iperprotettiva e un bambino di nove anni costretto dalla “amabile” Nina a bere di continuo tisane, a indossare una calzamaglia di lana ruvida in ogni stagione senza avere il diritto di sudare. Saša non può salire sulle giostre e non può fare tutto ciò che fanno i ragazzi della sua età. In breve, «è destinato a marcire prima dei sedici anni», grazie all’adorabile babuska.
E Sanaev è bravissimo a farci precipitare in questo ansiogeno mondo dominato dall’ombra castrante della nonnina. La tentazione è allora subito quella di chiedere allo scrittore se l’immagine della nonna pazza non abbia qualcosa a che vedere con l’ideologia che dominava L’Unione sovietica. «A ben guardare esistono migliaia di Nina al mondo oggi e non solo in Russia – risponde “sibillino” -. Penso che molte famiglie nel mondo abbiano una loro Nina. A volte è la madre, a volte il padre. Questa nonna è un personaggio vivente, una metafora e può avere molti significati». E quando poi gli si chiede se si aspettava che il libro avesse così tanto successo, Sanaev rompe un altro cliché, quello cattolico della modestia che spetterebbe a ogni scrittore: «Sì contavo in una risposta forte. Sentivo di aver scritto un bel libro – dice – e sono rimasto sorpreso che non abbia avuto riscontri quando l’ho proposto alle case editrici. Per nove anni ha vissuto solo sulle pagine della rivista Ottobre. Ma gli editor nel 1996 non erano interessati a pubblicarlo. C’è una teoria secondo la quale negli anni Novanta in Russia c’era un pubblico molto ristretto. All’epoca il Paese attraversava una crisi terribile e le persone intelligenti non leggevano: erano troppo impegnate a cercare un modo per sopravvivere. Di fatto industriali e vigilantes, che avevano un sacco di tempo libero, erano gli unici lettori. E leggevano ciò che piaceva loro: detective stories e romanzi su chi vive in prigione. Dopo il Duemila – prosegue Sanaev- la situazione in Russia si è stabilizzata ed è iniziata la domanda di un altro tipo di letteratura. Così il mio romanzo è stato finalmente pubblicato ed è diventato popolare. Perché? Perché è molto divertente e insieme drammatico. E parla della vita vera. E’ stato un best seller per più di sette anni. Penso che sia una buon risarcimento per tutti gli anni in cui è rimasto nell’ombra».
Nel frattempo insieme a lei è cresciuta molto la nuova scena letteraria russa. Quali sono, a suo avviso, i nomi nuovi più interessanti?
In Russia ci sono molti autori giovani di buon livello. Prilepin, Glukhovsky, Pelevin, per esempio. Ma direi che Sergey Minaev ha scritto uno dei migliori libri in circolazione sulla Russia contemporanea. Quando mi sono messo a leggerlo in una caffetteria mi sono scordato anche che dovevo spostare la macchina .
La forza cinematografica della narrazione nel suo libro è evidente, quanto ha contato la sua esperienza di sceneggiatore?
E’ accaduto, in realtà, il contrario. Prima ho scritto il romanzo poi ho cominciato a fare film. C’è una spiegazione semplice: Non si possono scrivere tanti libri del genere. Su una vicenda così intima e personale, nutrita di esperienze della mia infanzia. Ho subito capito che mi ci sarebbe voluto molto tempo prima di riuscire a raccogliere sufficiente materiale per scrivere un altro libro di quel livello. Così mi sono messo a fare film d’avventura, d’amore, thriller… Penso che uno scrittore non debba scrivere se non ha nulla di importante da dire. Perciò solo ora mi sono messo a scrivere un secondo libro. Parla di ragazzi degli anni Settanta. La storia comincia nell’agosto del 1989, due anni prima del collasso dell’Urss. E arriva fino ai nostri giorni.
Quei ragazzi ora sono liberi dal comunismo. Che problemi devono affrontare?
I problemi maggiori riguardano la mancanza di mobilità sociale, la distruzione della scuola e della cultura, l’assenza di possibilità di lavoro creativo. L’Urss ha molte colpe ma almeno era all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia. La Russia non è più creativa, vive perlopiù vendendo gas e petrolio. Ma quale ricaduta sociale ha tutto questo? In questo settore lavorano 15-20 milioni di persone, compreso l’indotto finanziario. Ma noi siamo 140 milioni di abitanti. Ci sono possibilità di realizzarsi per 120milioni di persone?
da left-avvenimenti del 13-19 maggio 2011
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Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 15, 2012
Giovane laica e cosmopolita nella Firenze di primo Novecento. Poi partigiana, poetessa, traduttrice e attivista dei movimenti di liberazione. Torna in libreria Portrait, straordinario autoritratto di scrittrice
di Simona Maggiorelli
Come in un romanzo. Ma ancora più potente, perché nelle pagine di Portrait, in rapide sequenze cinematografiche, scorre l’avventurosa vita della scrittrice e partigiana Joyce Salvadori Paleotti. Più conosciuta come Joyce Lussu, dal cognome del marito Emilio, rivoluzionario sardista, leader di Giustizia e libertà e poi ministro negli anni cruciali della costruzione dell’Italia nel dopo guerra.
Una abitudine, quella di chiamare l’autrice di libri come Fronti e Frontiere e come L’olivastro e l’innesto, stroria di un’isola ritrovata con il cognome da sposata, invalsa anche nei manuali di storia della letteratura, ma che rischia di far torto allo spirito indomito di questa donna indipendente, allergica ai dogmi e agli steccati ideologici. (Che accettò di sposarsi con rito civile solo perché suo figlio non fosse registrato come nato da «madre ignota»).
Fino alla sua scomparsa nel 1998, Joyce non smise mai di lottare contro ogni forma di fascismo e di oppressione, continuando a fare ricerca, nel rapporto vivo con le persone, spesso confrontandosi con culture lontane e diverse. Come quando, dopo aver partecipato attivamente alla Resistenza, nel dopo guerra, insofferente della burocrazia di Palazzo e verso i salotti romani, seppe inventarsi una seconda vita di traduttrice di poeti africani, arabi e asiatici, riscoprendo un passione nata nell’infanzia trascorsa in una casa «dove c’erano più libri che mobili»; in quella Firenze socialista dove l’azione degli squadristi fu particolarmente violenta.
Joyce all’epoca aveva appena nove anni e nella cartella nascondeva un pezzetto di carbone per scrivere sui muri «Abbasso il fascio». La scrittrice lo ricorda in questo agile e franco Portrait che, in nuova edizione, con la prefazione di Giulia Ingrao, ha inaugurato la nuova collana “Omero” de L’Asino d’oro edizioni.
In quegli anni maturò anche il suo ateismo, incoraggiato dai genitori, intellettuali democratici di origine inglese (il padre, Guglielmino Salvadori tradusse Herbert Spenser ed era vicino alle idee di Russell). Joyce non era battezzata e le avevano insegnato a guardare con sospetto i testi sacri. «In quei libri ci deve essere qualcosa che non va perché hanno fatto ammazzare un sacco di gente», le diceva la madre, Giacinta Galletti.
«Il dogma e l’assoluto- scrive Joyce in Portrait – ci apparivano come segni di arretratezza mentale e civile». E ancor più inaccettabile le sarebbe sembrata ad Heidelberg l’ambigua neutralità e la sottovalutazione del nascente nazismo da parte dei suoi professori ad Heidelberg, a cominciare dal filosofo Karl Jaspers.
Così quella fanciulla che a tavola si lanciava in focose contese con Benedetto Croce smascherando la sua misoginia (e quella di una lunga stirpe di filosofi da Platone in poi) di fronte alla ferocia nazi-fascista decise che non era più tempo di stare a studiare in biblioteca. Ed ecco le pagine più appassionanti del libro, quelle in cui racconta la Resistenza ma anche l’incontro con il carismatico rivoluzionario socialista Emilio Lussu. Il desiderio, la passione, e quella sensazione di incertezza che per la prima volta le aveva fatto sperimentare quell’uomo che le era apparso così diverso dai compagni comunisti , troppo spesso carichi «di maschilismo autoritario e di una violenza virile che vedeva nel sacrificio proprio e altrui, non un accidente purtroppo necessario e da superare al più presto, ma quasi un valore immanente, una catarsi con coloriture paramistiche che a me, donna, dava una reazione di rigetto»

Joyce Lussu (1938)
E quell’ istintivo rifiuto della misoginia leninista e stalinista, poi si sarebbe trasformato in pratica politica. Fra le fondatrici dell’Udi, l’Unione donne italiane, Joyce era solita scompigliare riunioni politiche e comizi, pretendendo, prima di cominciare a parlare, che i compagni andassero a prendere le mogli che avevano lasciato a casa. «Più che un pensiero femminista, quello di Joyce era un pensiero femminile. E in questo senso lungimirante e attualissimo», ricorda oggi l’archeologo e restauratore Tommaso Lussu, nipote di Joyce e che ad Armungia in Sardegna, con generosità ha aperto la casa di famiglia a studiosi e ai ricercatori. «Come attualissima» aggiunge, «è ancora la lezione di laicità che Joyce ci ha lasciato. Ma anche il suo impegno ambientalista e quello politico di stampo libertario, tanto che non si volle legare più ad un partito politico dopo lo scioglimento del Psiup nel 1969», ricorda ancora Tommaso.
Senza dimenticare poi quell’impegno poetico e letterario che, di pari passo con il sostegno a movimenti di liberazione africani, la portò a tradurre i versi del poeta e rivoluzionario angolano Agostinho Neto. Ma anche i versi del curdo Nazim Hikmet. Con il quale strinse una profonda amicizia. Tanto da riuscire a tradurre le sue poesie, grazie a una lunga e profonda frequentazione, pur non conoscendo direttamente la lingua curda.
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 21, 2011
Un treno dirottato da una scolaresca. Un rocambolesco viaggio verso Bucarest. E il racconto corale della società romena di oggi. nel romanzo della scrittrice romena Florina Ilis La crociata dei bambini pubblicato da Isbn edizioni. L’abbiamo incontrata a Torino in attesa del Salone del libro 2012 che vedrà la Romania paese ospite.
di Simona Maggiorelli
Attenzione al binario tre! E’ in arrivo l’accelerato speciale proveniente da Oradea», avverte la scrittrice Florina Ilis ad incipit del romanzo La crociata dei bambini (Isbn edizioni) . E’ un treno speciale con un carico di bambini diretti in colonia, in una località estiva della Romania. Un treno che, per più di 800 pagine, trasporterà il lettore in una realtà parallela, onirica e potente, fatta di avventure rocambolesche, di incanti e prime cotte da cuore in gola. Ma anche fatta di continui attentati alla fantasia infantile perpetrati da premurosi genitori, ligi insegnanti, preti pii e poliziotti corrotti, che se ne sentono direttamente o indirettamente minacciati. Al punto che il lucido giornalista Pavel, cresciuto a pane e Sant’Agostino, a pagina 560 del romanzo, si mette a pontificare sulla «rapidità con cui nell’inconscio infantile, il bambino passa dall’innocenza alla violenza e alla perversione». Ma per fortuna, su questo bizzarro Train de vie anche le sue farneticazioni vengono portate via dal fiume di una narrazione che scorre travolgente, quasi senza punteggiatura, passando da una voce narrante all’altra come in una affascinante polifonia alla Dostoevskij. Così ecco Calman, il capo di una banda di ragazzi che vive nei sottosuoli di Bucarest, letteralmente disarmato dalla bellezza incarnata dal sorriso di una ragazzina. Ecco Denis, l’Harry Potter del gruppo, che finalmente sul treno dei bambini non ha più bisogno di indossare la maglietta che lo rende invisibile agli occhi del patrigno. Ed ecco Sonia scoprire per la prima volta la ruvida dolcezza di un bacio maschile. Il treno del racconto di Florina Ilis procede sul binario segreto delle emozioni, delle scoperte, dei sogni di questi ragazzini. Fra soste improvvise e subitanee accelerazioni. Come quando il gruppo degli adolescenti decide di dirottare il mezzo, per farne il treno dei diritti dei bambini. Da strappare ai grandi. «Primo! Vogliamo la regolamentazione delle adozioni internazionali» dicono i bambini scampati alla malavita di Bucarest. «Secondo! Vogliamo diritti per non andare più a rubare». «Terzo! Niente più ore di religione», annuncia un ragazzino che frequenta le medie. Il mondo alla rovescia della tradizione carnevalesca si mescola qui alla meraviglia delle fiabe, senza che la Ilis, in questo romanzo giudicato dalla critica internazionale uno dei più importanti della letteratura romena contemporanea, perda mai di vista la realtà della Romania di oggi, fra rapida modernizzazione e persistenze di una cultura contadina , magica e religiosa. Fra sviluppo tecnologico e l’indigenza delle fasce sociali più deboli. Fra nuove agognate libertà guadagnate con l’abbattimento del regime di Ciausescu e il dilagare di abusi su minori a causa del turismo sessuale internazionale. «Fra luci e ombre con questo libro ho voluto fare un affresco della Romania contemporanea – racconta a left Florina Ilis -, ma non nella forma di un romanzo di tipo sociologico. Quello che conta per me è la fantasia, è la letteratura».
L’incanto, la meraviglia, un modo di guardare le cose dalla parte dei bambini.Dove nasce questa sua originale poetica ?
In realtà La crociata dei bambini nasce come romanzo multivocale. Per raccontare la Romania di oggi ho cercato di far sì che ogni personaggio e ogni classe sociale avesse una propria voce per dire la propria realtà. Ma è vero che emergono soprattutto due voci: quella dei bambini e quella degli adulti. Al contempo però non ho voluto che fossero del tutto in contrapposizione. Così a volte i bambini parlano come se fossero la voce dei genitori, altre volte i genitori si comportano in modo infantile, come se fossero essi stessi i bambini. Ho cercato di rendere questa complessità.

Florina Ilis
Nel libro gli ufficiali che furono spediti dal regime a sedare la rivoluzione nell’89, vengono schierati per reprimere la crociata dei bambini. Perché tanto odio?
Non so se odio sia la parola giusta. Quando gli adulti perdono il controllo sui più piccoli c’è una reazione contro di loro. Un certo mondo adulto ha paura dei bambini.
Qual è la situazione dei bambini di strada?
Il romanzo è stato pubblicato nel 2005 in Romania. E il problema dei bambini di strada allora era enorme. Nel frattempo sono stati avviati programmi di recupero dal punto di vista sociale. Ora non ci sono più gli orfanotrofi che tutti abbiamo visto in tv. I bimbi che erano abbandonati sono stati affidati a famiglie e lo Stato le sostiene. Certo, non tutto è risolto. Non tutte le famiglie sono accoglienti. Forse oggi dovrebbero intervenire soprattutto gli psicologi per aiutare questi ragazzi.
I personaggi più anziani nel libro hanno una certa nostalgia per la dittatura di Ceausescu. Accade anche nella realtà?
Sì effettivamente molti anziani oggi in Romania hanno nostalgia per il passato comunista. La prima cosa che si dimentica di quel periodo è l’assenza di libertà. I vecchi rammentano che lo Stato pensava a tutto e nel vuoto attuale si trovano spersi. La mia generazione ( all’epoca eravamo studenti) ha potuto apprezzare di più il passaggio alla libertà, non ci importava la mancanza di cose materiali. Le generazioni più giovani oggi si sentono del tutto libere, hanno conquistato veramente qualcosa rispetto al passato.
L’idea della crociata dei bambini viene dal racconto che Marcel Schwob scrisse nel 1896?
Non avevo letto Schwob; sapevo della crociata dei bambini del XIII secolo. Da quell’episodio storico ho preso l’idea di base da cui è partito il libro. Nel medioevo quella crociata fu indetta perché i bambini avrebbero dovuto salvare il cristianesimo. Nel mio romanzo le domande intorno alla crociata dell’innocenza sono altre e più complesse. Mi domando in che modo un movimento di bambini possa salvare il mondo e se il mondo abbia bisogno di essere salvato da qualcosa.
Il suo romanzo ci mostra una “realtà latente”, un mondo dalla coloritura onirica. Ma gli adulti razionali si ostinano a chiamarla magia o religione?
Viviamo in un mondo concreto ma esiste anche una parte invisibile, che qualcuno appunto chiama spirituale o in altro modo. Alla mia maniera ho cercato di dare espressione a questo latente. Sono sempre stata tentata di dare un senso a questi significati nascosti della vita. Ma non trovando una risposta univoca cerco di darne molte. Senza per questo voler fare della filosofia. E soprattutto evitando ogni didatticismo.
(Traduzione di Mauro Barindi)
Il caso
nuova onda transilvana
Una vera e propria onda romena si è alzata nel panorama europeo della letteratura. Con nomi di maestri come Norman Manea e Gabriela Adamesteanu. Ma anche con scrittori più giovani come Dan Longu ,Filip Florian e la stessa Florina Ilis, classe 1968, che la critica internazionale considera una delle voci più importanti della letteratura romena di oggi. Insieme formano un panorama letterario complesso e variegato che nuovi studi ora ci aiutano a comprendere più da vicino. A cominciare dall’importante opera a più mani Geografia e storia della civiltà romena nel contesto europeo (Edizioni Plus, a cura di Bruno Mazzoni) che ci guida inel cuore della narrativa e della poesia romena che , specie durante il regime di Ceausescu, è stata il vero “polmone” attraverso cui una società soffocata dalla censura ha potuto respirare. Ma ricco di spunti è anche il volume che le Edizioni Plus dedicano alla nuova scena contemporanea.
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 16, 2011
Una interessante panoramica degli scrittori russi della dissidenza ha sfilato al Salone del libro di Torino, che ha appena chiuso i battenti. Il comunismo sovietico non c’è più, ma i nuovi governi da Eltsin a Putin non si sono affatto dimostrati democratici. E ancora oggi in Russia si muore si osa dire il vero sulla guerra in Cecenia e sulla mancanza di informazione attendibile.
di Simona Maggiorelli

Chagall il suonatore di violino
Oggi la Russia «è un Paese che ha imparato che cos’è la libertà. E questo è impagabile. Ma c’è troppa corruzione e il profitto è diventato un dio». Parola di Sasha Sokolov che con libri-denuncia come La scuola degli sciocchi (Salani) è diventato un simbolo della nuova letteratura russa di opposizione. In sintonia con letterati affermati e maturi come Sokolov, cercando strumenti per comprendere l’oggi, autori più giovani come Aleksandr Terechov scavano in vicende censurate come quella di alcuni figli dell’apparato stalinista che nel 1943 diventarono “lupacchiotti” filo nazisti. (Il ponte di pietra, Edizioni e/o) oppure più direttamente raccontano come il vuoto lasciato dal crollo dell’ideologia sovietica sia stato riempito dalla dittatura di poteri forti addestrati dal Kgb.
Il volume 12 che hanno detto no. La battaglia per la libertà nella Russia di Putin (Edizioni e/o) curato dal giornalista Valerij Panjuskin ne è un esempio ficcante, raccogliendo dodici testimonianze di intellettuali che denunciano il feroce regime poliziesco e corrotto che attanaglia la vita quotidiana in Russia.
Intanto non si ferma l’esplosione sanguinosa dei conflitti e l’inferno della guerra in Cecenia. Lo ha raccontato l’esule Nicolai Lilin in una serie di libri dal fondo autobiografico, usciti di recente per Einaudi e molto discussi. Ma a Torino si è fatta sentire anche la voce di Zachar Prilepin, ex membro dei corpi speciali antiterrorismo dell’ esercito russo e autore dell’incisivo e spiazzante Patologie (Voland) che ambienta la sua storia nelle strade della città di Groznyi devastate come nella seconda mondiale. E al Lingotto c’è stata anche la testimonianza della giornalista Yiulia Latynina che con coraggio ha raccolto il testimone di Anna Politkovskaja assassinata mentre stava rincasando una sera di ottobre del 2006 per mettere a tacere il suo lavoro di inchiesta in Cecenia e che accusava Putin e il suo governo.
Anche per evitare problemi con l’attuale governo e con la censura diretta e indiretta, per raccontare ciò che ha visto in Cecenia, Yulia ha scelto questa volta la chiave di una narrazione fantastica nel bruciante Il richiamo dell’onore (Marco tropea editore), in cui appare “trasfigurato” ciò che la giornalista ha documentato nel Caucaso degli anni Novanti e che non ha potuto raccontare nei suoi articoli.
Realismo aspro e crudele e dall’altra parte narrazione fantastica ma non di evasione, mai del tutto avulsa dalla vita concreta. Sono questi i due filoni di ricerca che oggi sembrano incontrare maggiore attenzione sulla scena letteraria russa. Che qui di seguito cerchiamo di raccontare anche attraverso le parole del regista e scrittore Pavel Sanaev. Di fatto a Torino, alla ventiquattresima edizione del Salone del libro andata in scena al Lingotto dal 12 al 16 maggio, le occasioni di approfondimento non sono davvero mancate.
Per conoscere più da vicino queste e molte altre nuove voci della letteratura russa contemporanea. Ma anche per tornare a studiare Dostoevskij, al quale è stato dedicato un convegno il 14 maggio con un intervento, fra gli altri, di Andrey Shishkin oppure la poesia di Osip Mandel’stam, la cui opera è stata al centro di una tavola rotonda sulla quale speriamo di poter dare presto ulteriori notizie.
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Posted by Simona Maggiorelli su novembre 13, 2009
La magia di una città trasfigurata dallo sguardo di un bambino. Un racconto intenso e poetico come raramente capita di leggerne in pagine di autobiografia. Il cuore della Berlino fra fine Ottocento e inizi Novecento è ancora vivo oggi grazie all’Infanzia berlinese (Einaudi) di Walter Benjamin. E a questo straordinario classico, così come alla flânerie a cui il filosofo tedesco si affidò per raccontare la Parigi dei Passages, si è ispirato lo scrittore Eraldo Affinati per il suo Berlin (Rizzoli), viaggio letterario nel passato e nel presente della città e non solo banale pellegrinaggio ai varchi del muro. Cercando nelle molte metamorfosi anche urbanistiche di Berlino ciò che le fonti scritte non raccontano.
Due giornalisti, partiti dalle opposte “sponde” dell’Inghilterra e dell’Italia, invece, si sono dati a raccontare la trasformazione di Berlino Est e i cambiamenti che in vent’anni hanno rimesso in moto i Paesi dell’Europa ex comunista; è diventato anche una fortunata serie tv il viaggio inchiesta del giornalista della Bbc Peter Molloy, edito in Italia da Bruno Mondadori con il titolo La vita ai tempi del comunismo: una serie di interviste che, insieme, affrescano una straordinaria galleria di ritratti di persone per le quali andare oltre cortina ha rappresentato una vera propria cesura nella propria vita, dividendola in un prima e un dopo, nel bene o nel male. Berlino, Lipsia, Varsavia. Ma anche Praga, Bratislava, Budapest. Sono le tappe del reportage che il giornalista Matteo Tacconi ha scritto per Castelvecchi. Nel suo C’era una volta il muro si ritrovano la passione e la voglia di capire di un cronista di razza che nel 1989 aveva solo 11 anni. Niente ideologie e appartenenze di allora a ingombrargli il passo e, nella scrittura rapida, suggestiva, per immagini, di questo libro, le speranze realizzate e quelle naufragate di intellettuali e operai ungheresi costretti a emigrare per lavorare. La Praga di Charta77 e di Vaclav Havel ma anche quella del processo a Milan Kundera. E ancora la Danzica e le istanze di libertà di Solidarnosc, presto deluse.
Riavvolgendo il filo della storia, torna a prima del muro Gianluca Falanga con il libro Non si può dividere il cielo (Carocci) che ricostruisce le vicende di persone che quando il muro (e la guerra fredda) esercitava tutta la sua oppressiva presenza osarono sfidarlo. Testimone diretto dell’89, lo scrittore ungherese György Dalos ricostruisce gli eventi che portarono alla caduta del muro nel libro Giù la cortina (Donzelli) dando voce ai protagonisti di allora, a uomini politici come Dubcek e Havel ma anche a gente comune. Con pagine inedite sulla fuga in massa dei cittadini della Ddr oltre il confine ungherese. Delle vicende degli intellettuali e degli attivisti politici che nel Novecento hanno fatto di Berlino una fucina di idee e un laboratorio di nuove culture si occupa in modo particolare Gian Enrico Rusconi in Berlino, la reinvenzione della Germania (Laterza), mentre fra i molti nuovi titoli che affrontano il ventennale con strumenti di analisi politica, da segnalare il lavoro di Angelo d’Orsi, 1989,(Ponte alle Grazie). Un libro fuori dal coro delle grandi celebrazioni, che esplora zone d’ombra e promesse rimaste lettera morta. A cominciare dalla speranza di un futuro senza ideologiche contrapposizioni in blocchi e senza guerre. Infine, fresco di stampa, L’anno che cambiò il mondo (Il Saggiatore) di Michael Meyer, che dal 1988 al 1992 diresse la redazione di Newsweek per l’Europa dell’Est. Un documentatissimo libro che sfata l’idea che sia stata la fermezza Usa a dar la spinta decisiva allo smantellamento del muro.
BERLINO EST CAPITALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Nel 1989 probabilmente nessuno ci avrebbe creduto che dai grigi e seriali palazzi dell’Est sarebbero sbocciati i più innovativi laboratori d’arte e di tendenza degli anni Duemila. E che le fabbriche dismesse sarebbero presto diventate cantieri giovanili dove si mettono in scena opere totali che mescolano i linguaggi delle arti visive e quelli della danza, del teatro, della musica e della videoarte. Anticipando la tendenza al recupero di suggestivi spazi di archeologia industriale che negli anni 90, in Europa, ha permesso finalmente di rottamare gli spazi museali algidi e minimalisti di un decennio prima. Ma tant’è, a vent’anni dalla caduta del muro – complice un mercato immobiliare più abbordabile – possiamo ben dire che la parte Est non è diventata soltanto quella più bella della città ma anche la più creativamente viva d’Europa. Da qualche anno, infatti, artisti da tutto il mondo fanno tappa a Berlino (e non più a Londra e Parigi) o decidono di viverci. La street art, i graffiti, i murales che tappezzano l’Est ne sono l’effetto più macroscopico, a cominciare dall’esplosione di colori della famosa Est side gallery all’aperto. Nel frattempo tutta la rete delle gallerie si è molto allargata verso Est. Tanto che dalle circa 250 gallerie che si contavano 15 anni fa oggi si è passati a più di 500. Frutto d’iniziativa privata ma anche merito delle intelligenti politiche culturali tedesche, locali e non, che investono molto su mostre, biennali, premi e offrono agevolazioni agli artisti. s.m.
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Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2009
Il lavoro di Anna Politkovskaja e di Natalia Estemirova. Due giornaliste assassinate per aver raccontato la verità sulla Cecenia. In un appassionato reportage, Susanne Scholl ricostruisce le loro storie. E quelle di tante altre “combattenti dei diritti umani” che cercano di resistere alla violenza dell’elite politica di Mosca.
di Simona Maggiorelli

Anna Politkovskaja
“Questo libro parla di un argomento che non è molto in voga in Occidente: parla di Putin senza toni ammirati», scriveva Anna Politkovskaja nella prefazione all’edizione italiana del suo libro La Russia di Putin uscito per Adelphi nel 2005. Un anno prima di essere assassinata.
E subito precisava: «Questo libro, però, non è un’analisi politica di Putin». Anche se definirlo «figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese» non era affatto un dettaglio. «Io sono un essere umano tra i tanti – rivendicava Anna – un volto nella folla di Mosca, della Cecenia, di San Pietroburgo. E questi sono appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia… Io vivo la vita e scrivo di ciò che vedo».
Nel suo viaggio inchiesta Ragazze della guerra fra le cecene della “resistenza”, la giornalista Susanne Scholl traccia un toccante ritratto di un’altra giornalista, Natalia Estemirova, fatta salire su un auto lo scorso luglio e poi ritrovata cadavere. La Scholl l’aveva incontrata due anni prima e al libro appena uscito da Voland affida il ricordo dell’impegno totale che Natalia metteva nel suo lavoro: documentava il terrore senza arrendersi e scrivere articoli era per lei, come per Anna, la vita stessa. «è vero, Anna scriveva quello che viveva in prima persona – commenta Scholl -. E questo era ancora più vero per Natalia che era per metà cecena e che aveva scelto di essere una donna di quella terra. Anche le ragazze che si occupano di diritti umani vivono questa identificazione totale con ciò che fanno. Mi dicono che lo fanno perché altrimenti la vita non avrebbe senso per loro.
In Russia sono moltissimi i giornalisti uccisi dall’inizio del 2000. In quell’anno fu ammazzato a Tiblisi in circostanze mai chiarite l’inviato di Radio radicale Antonio Russo. Da allora sono più di cento i colleghi assassinati o spariti. Cosa ne pensa?
Ogni caso ha una storia a sé. Ma è evidente che un giornalista russo oggi lavora sempre a rischio della vita. Se vuole fare del giornalismo vero, se vuole mettere il dito sulle trame, fare i nomi.
La Cecenia continua a essere in guerra. Una lunga catena di violenza da Stalin a Putin?
Di fatto, cominciò già sotto gli zar.

Natalia Estemirova
Lei ha conosciuto molto a fondo la Cecenia. Cosa vede nel futuro del Paese?
Al momento non potrei dire niente di positivo. L’élite politica russa ha dato la Cecenia in mano a un clan locale che fa quello che gli pare. Il Paese è assolutamente fuori da ogni legge, da ogni regola. Dopo gli assassini di questa estate stiamo andando incontro a un periodo durissimo di dittatura, di repressione e di violenza.
La Russia vuole avere il controllo totale del petrolio ceceno?
Il problema è più ampio. Il Caucaso è sempre stato la frontiera naturale per la Russia che da più di duecento anni cerca di assicurarsi un muro protettivo. La paura per ciò che può venire da quella parte si è vista anche l’anno scorso nella guerra contro la Georgia. Sì, in Cecenia c’è anche il petrolio e si potrebbero fare degli oleodotti ma questo è secondario rispetto al bisogno di assicurarsi le spalle.
Nel libro c’è la storia di una di quelle giovanissime chiamate “spose di Allah”. Ragazze disposte a uccidersi per uccidere. Perché questa autodistruzione?
Spesso vivono situazioni che sentono senza via d’uscita. Hanno perso padri, fratelli, mariti. I fondamentalisti islamici promettono loro di aiutarle, le tirano dentro così. Parliamo di giovani che non di rado sono state violentate. La violenza carnale su una donna non sposata in una società come quella cecena è una tragedia che va molto al di là del dramma di per sé. E poi sono tutte traumatizzate al massimo. Basta dire che questi vivono in guerra da quasi vent’anni.
Violenza psicologica, insieme a quella fisica. Su questo s’innesta l’adesione al fondamentalismo?
Sì, proprio per questo ho ritenuto molto importante tracciare in Ragazze della guerra almeno un loro
ritratto preciso .
Ma lei racconta anche di donne che trovano il coraggio di reagire, di unire le forze per lottare. Anche se spesso, lei scrive, hanno dovuto crescere da sole i propri figli, con pochi mezzi. Qualcosa sta cambiando nella mentalità della gente?
Quella cecena è una società dove l’aiuto reciproco è molto importante. Anche perché, come è ben noto, in situazione di guerra sono le donne a mandare avanti la vita quotidianamente. E se non si aiutano a vicenda muoiono subito. La Cecenia sopravvive proprio grazie al fatto che ci sono famiglie molto grandi e solidali fra loro nonostante tutti i conflitti che possono sorgere e sorgono al loro interno. Fanno fronte contro il nemico comune, rappresentato dalle forze armate russe ma anche dalla milizia cecena.
Leggi non scritte e ancestrali ancora regolano la vita in Cecenia: una ragazza cecena orfana, lei scrive, non ha nemmeno il diritto di rifiutare un matrimonio combinato. E questo non accade in un paese, cosiddetto, del terzo mondo...
E’ veramente uno degli esempi lampanti di quanto sia fallito il progetto dell’Unione Sovietica. Non parlo di comunismo perché non c’è mai stato davvero. è comunque naufragata l’idea di costruire una società nuova, più libera, più umana. Ed è fallito in modo veramente clamoroso.
Che idea si è fatta delle responsabilità di Putin riguardo all’assassinio di Natalia, di Anna e del processo farsa istituito sulla sua vicenda?
Nel caso di Natalia non c’è neanche la pretesa di fare un processo. Non se ne parla nemmeno. Quanto al caso di Anna, hanno imbastito un processo a delle persone che, sì, sono state coinvolte, ma non sono né l’assassino né quelli che lo hanno commissionato. Rispetto a Putin quello che mi sento di dire è che è responsabile di aver creato un clima tale in Russia per cui può accadere che una donna con due borse di spesa in mano venga uccisa in pieno giorno nell’ascensore di casa sua. è una cosa inaudita. Quando Anna è stata ammazzata, Putin ha detto che gli faceva più male da morta che da viva. Lui stesso ha creato questa atmosfera.
Nel 2008 in Italia quando una giornalista russa fece una domanda non gradita a Vladimir Putin, Silvio Berlusconi mimò il gesto di spararle con un mitra.
Non è un caso che loro siano amicissimi. In russo si dice “è tutto una peste”.
da left-avvenimenti del 30 ottobre 2009
FRESCHI DI STAMPA: Finalmente anche nelle librerie italiane il libro che permette di capire perché Anna Politkovskaja è stata uccisa. E’ uscito per Adelphi che ha scelto un titolo emblematico: Per questo.

Anna Politkovskaja Adelphi
Con passione e minuziosa ricerca negli archivi e nella memoria del computer, i figli di Anna Politkovskaja, aiutati dai giornalisti della Novaja Gazeta, hanno ricostruito puntualmente il filo della storia che ha visto crescere in parallelo la violenza in Cecenia e le minacce alla giornalista russa. Anna è stata assassinata in pieno giorno, mentre rientrava in casa con le borse della spesa, un pomeriggio di ottobre del 2006. (Il che, come ha notato la giornalista tedesca Sussanne Scholl la dice lunga sul clima di terrore e impunità che l’allora presidente Putin aveva creato nel Paese). E questa straordinaria raccolta di articoli che cronologicamente ripercorre tutte le più importanti corrispondenze di Anna dal fronte del Caucaso è anche un drammatico documento sul perché è stata uccisa. Giustamente la casa editrice Adelphi ha scelto di intitolare il volume Per questo. Con coraggio e rigore Anna scriveva quello che vedeva, non esitando a fare nomi e a denunciare responsabilità. Stando dalla parte della gente cecena- donne soprattutto- che nel braccio di ferro ingaggiato dalla Russa per controllare il petrolio ceceno, avevano visto sparire mariti, padri, fratelli, amici. All’elite politica di Mosca le denunce di Anna risultavano molto scomode e qualcuno ha dato mandato perché anche il suo nome andasse ad aggiungersi alla lista degli oltre cento giornalisti uccisi in Russia dal 2000 a oggi. Questo libro rimane a gridare forte l’impegno di Anna e la sua profonda bellezza. s.maggiorelli
dal quotidiano Terra del 4 novembre 2009
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