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L’eros nell’antica Cina. Stampe e pitture su seta

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 17, 2016

12802699_10153560172632620_4446494375454288876_nProibiti in Cina e a lungo conservati al riparo dello sguardo pubblico vedono finalmente la luce quattro album di pitture erotiche cinesi, dipinte su seta e realizzate tra la fine della dinastia Ming (1368-1644), epoca di grande fioritura dell’arte, e l’inizio della dinastia Quing (1644-1911), che coincise con una svolta conservatrice. Le pubblica nel volume Il palazzo di primavera, arte ed eros in Cina la casa editrice LAsino doro, in una raffinata veste grafica creata da Laurie Elie. Si tratta di opere di grande importanza, non solo sotto il profilo artistico, ma anche da un punto di vista storico-culturale anche perché permettono ad un pubblico non solo di specialisti di avvicinarsi a un mondo a noi in larga parte sconosciuto, quello della Cina antica, dove fiorì una cultura atea, libera dal dogma religioso e dalla condanna del desiderio femminile che, invece, ha segnato secoli di cultura ebraico-cristiana in Occidente.

In queste opere arrivate in Italia nel 1949 in modo rocambolesco, grazie al sinologo Giuliano Bertuccioli (che le nascose con copertine su cui comparivano massime confuciane) la vita sessuale di uomini e donne è raccontata in modo naturale, senza pruderie. Un aspetto che colpisce tanto più se si pensa alla storia dell’arte italiana dove l’iconografia per secoli è stata dettata dalla Chiesa. Ancora in pieno Rinascimento, un pittore carnale e pagano come Tiziano nel suo celebre Amor sacro e amor profano (1515) rappresentava l’eros “profano” con una donna sontuosamente vestita, mentre la donna nuda era il sacro. Per non dire poi, solo per fare un altro esempio, di quel che accadde con la Controriforma che impose le brache ai nudi michelangioleschi della Sistina.

stampe«Nella cultura cinese non c’è l’idea del sacro. E in questo genere di pitture erotiche l’attrazione sessuale fra uomo e donna è rappresentata senza censure», dice il sinologo Federico Masini mentore di questa pubblicazione insieme a Bruno Bertuccioli. Il cosiddetto «manuale del sesso» era un antico genere letterario, che esisteva già duemila anni fa in Cina e sopravvisse per secoli, prima di essere oscurato dal puritanesimo confuciano. Erano raccolte sapienziali, intuitive, sul mondo e sulla vita quotidiana, che trattavano il tema della vita sessuale con delicata precisione. Per questo si è pensato che queste pitture erotiche potessero avere anche una funzione didattica come album da regalare alle giovani donne. «Questi “libri del cuscino” o “libri della sposa” venivano offerti come augurio alle fanciulle per liberare, secondo i dettami delle pratiche taoiste, le forze positive dello Yin e dello Yang, ovvero per imparare a lasciarsi andare», scrive Bruno Bertuccioli nell’introduzione al libro.

Le scene erotiche o romantiche e di corteggiamento sono quasi sempre ambientate in giardini in fiore, evocando l’importanza di un rapporto armonico fra uomo e natura, fra microcosmo e macrocosmo. Dietro vi si può leggere appunto un riferimento al Tao, la filosofia naturalistica che si diffuse nella Cina antica e che invitava a considerare la vita sessuale come un fattore importante per la longevità e il mantenimento di una buona salute, fisica e mentale.

«La tradizione taoista è stata a lungo molto rispettata da cinesi. Diversamente dal confucianesimo dei burocrati di Stato che obbligava a una rigida morale, considerava la sessualità come un fattore fondamentale per la società, perché non solo finalizzata alla procreazione, ma importante per lo sviluppo psichico dell’uomo e della donna», spiega Masini.

tavDiversamente dalla tradizione giapponese degli Shunga, genere erotico colto in cui si cimentarono anche maestri come Hiroshige e Utamaro (e che fu strumento di diffusione di una concezione edonistica dell’esistenza, conosciuta come Ukyo-è ) le illustrazioni cinesi non hanno elementi guerreschi. «Gli Chungong hua cinesi, ovvero le pitture del Palazzo di primavera, sono del tutto prive di questo tipo di elementi, non vi si trovano mai rappresentate armi. I cinesi del resto sono sempre stati un popolo pacifico», precisa il sinologo, professore ordinario de La Sapienza.

Quanto al ruolo della donna nella lunga storia cinese raramente è stata libera, ricostruisce Marina Miranda nel saggio “Donne e sessualità in Cina pubblicato in questo volume de LAsino doro. Nel libro la sinologa ripercorre la storia di concubine imperiali, madri di famiglia confuciane, e rivoluzionarie in giacchetta grigia e dall’aspetto desessualizzato. Ricordando che «le unioni matrimoniali socialiste dovevano essere finalizzate a servire il popolo e l’impegno sul lavoro». La sessualità dunque anche nella Cina rivoluzionaria era repressa e la politica del figlio unico costrinse molte donne ad abortire, come ha raccontato uno scrittore, certo non dissidente, come il premio Nobel Mo Yen nel romanzo Le rane  e in molti altri racconti pubblicati in Italia da Einaudi.

In questa serie di pitture, però, c’è qualcosa di diverso e che forse poi è andato perduto,  notiamo per esempio che in queste scene  non di rado a prendere l’iniziativa sessuale è la donna, attratta più che dalla prestanza fisica dell’uomo, dalla sua arte musicale e poetica. «Gli organi genitali sono appena magnificati, quasi a voler indicare che il rapporto, il corteggiamento e la scelta del partner non sono dettati dalla robustezza corporea o da fattezze ricercate, ma – fa notare Masini – sono il frutto di pura attrazione intellettuale». Con un misterioso dettaglio: anche quando sono completamente nude, le donne indossano sempre scarpe tanto raffinate quanto piccole. «La questione dei piedi nella cultura cinese è complessa. Sono percepiti come una parte intima, al pari degli organi sessuali. I piedi delle donne sono seducenti, per questo vengono tenuti nascosti», approfondisce Masini aggiungendo altre preziose chiavi di lettura a quelle contenute nella sua prefazione al libro che sarà presentato il 21 novembre (alla libreria Feltrinelli di via Appia nuova a Roma).
Quanto alla rarità di questo tipo di pitture «gli album di questo genere di cui oggi si conosce l’esistenza sono pochissimi, non più di una decina», scrive Masini. «In realtà pensiamo che tanti erano i generi e i tipi di tali raccolte ma la censura della bigotta dinastia Quing e tutta la storia della Cina moderna hanno di fatto oscurato completamente queste immagini. Il regime comunista, infatti, conducendo nei primi decenni dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese (1949) una sacrosanta battaglia contro lo sfruttamento sessuale delle donne ha anche voluto cancellare ogni memoria della tradizione letteraria e artistica dell’erotismo cinese che, ciononostante, è entrato a far parte dell’immaginario collettivo sulla Cina del mondo occidentale». Colpisce il fatto che ancora oggi, di questo tipo di opere ce ne siano centinaia magari nascoste nei caveau delle biblioteche e che non possano ancora essere divulgate. «Dal punto di vista della scabrosità queste immagini ai nostri occhi non rappresentano nessuno scandalo, ma resta un veto allo loro diffusione. Il popolo cinese che ha subito la censura imperiale continua ad essere censurato ancora oggi». (simona maggiorelli, Left)

il libro sarà presentato il 18 marzo a Siena, alla biblioteca degli Intronati. Intervengono Federico Masini e Massimo Vedeovelli

 

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Pompei vive. A Londra

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 23, 2013

_66609319_66609318Sul sito archeologico vesuviano si allunga l’ombra nera di infiltrazioni camorristiche, mettendo a rischio il grande progetto da 105 milioni cofinanziato dalla Unione Europea.

Mentre la magistratura indaga, una notizia positiva viene da Oltremanica, dove la mostra Life and death inPompii and Herculaneum registra il tutto esaurito fino alla chiusura prevista per il 29 settembre. Parliamo di una esposizione nata dalla collaborazione straordinaria fra la soprintendenza dei Beni archeologici di Napoli e Pompei con la storica istituzione museale londinese.

Ma anche straordinaria in sé per la qualità dei 450 reperti selezionati dal curatore Paul Robert che è riuscito a far incontrare e a fondere impatto scenografico e rigorosi contenuti didattici. Come è nello stile della grande divulgazione britannica, che va dalla storia al giornalismo in stile Bbc.

Affresco, Pompei

Affresco, Pompei

Così già all’ingresso veniamo catturati in uno spazio-tempo suggestivo e lontano, in cui si odono voci fuori campo di bambini e il suono dello scorrere dell’acqua nelle fontane. Come per incanto siamo catapultati in un momento di vita quotidiana a Pompei durante un tranquillo giorno di fine estate come probabilmente fu quello del 79 d.C. prima dell’improvvisa eruzione del Vesuvio. Davanti a noi frammenti di affreschi in cui sono raffigurati uccelli, piante e sculture immersi in curatissimi  giardini. E al centro della sala un riverbero azzurro di luci che ricrea idealmente una sontuosa vasca-fontana. Con pochi, preziosi, reperti e una sapiente scenografia il curatore Robert riesce concretamente a dare al visitatore l’idea di come poteva essere l’interno di una ricca villa pompeiana e a trasmettere informazioni approfondite su quella che fu una vera e propria invenzione dell’arte romana: il giardino dentro casa, dipinto come una “fantasia”. Un raffinato tavolino ritrovato ad Ercolano campeggia accanto al frammento di un affresco in cui appare riprodotto quasi in forma identica.

Terentius e sua moglie

Terentius e sua moglie

Più in là, la stanza delle pitture erotiche. E poi grottesche sculture di fauni impegnati in giochi erotici con una capra. Fuori da ogni pruderie, ma anche riportando in primo piano il significato apotropaico che questo tipo di rappresentazioni senza veli aveva nella cultura romana, Paul Robert offre al visitatore, anche il meno informato, gli strumenti per comprendere la totale mancanza di senso del peccato che connotava la cultura pagana.

Ma interessante è anche il modo in cui, attraverso opere celeberrime di IV stile come il ritratto di Terentius Neo e di sua moglie ( I secolo d.C,) lo studioso riesce ad offrire informazioni su come era organizzata la società romana, anche dal punto di vista dei ruoli sociali dell’uomo e della donna. Che a Pompei, ad Ercolano come a Roma, non erano poi così diversi quando si trattava di affari. Così ecco la moglie di Terentius, nell’affresco appartenente al Museo archeologico nazionale di  Napoli eora in mostra al British, con in mano una tavoletta di cera che di solito veniva usata per tenere i conti. Sopravanzando il marito che appare come in secondo piano. Con oggetti di uso quotidiano e frammenti di arredi, l’affresco diventa così l’elemento centrale di un tridimensionale tableau vivant.

( Simona Maggiorelli, da Londra)

Pubblicato sul settimanale left-Avvenimenti

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Lo sguardo liberato

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 8, 2013

Tintoretto, Venere e Marte sorpresi da Vulcano

Tintoretto, Venere e Marte sorpresi da Vulcano

Raramente capita di leggere pagine di critica che abbiano la “leggerezza” e la capacità di “far vedere” che caratterizza quelle di Danie Arasse (1944 – 2003), fine conoscitore d’arte e studioso eclettico che, per quanto facesse parte dell’establishment intellettuale francese ai più alti livelli (avendo diretto l’École des hautes études en sciences sociales di Parigi e l’Istituto francese di Firenze) aveva saputo mantenere la curiosità, l’immediatezza e la passione contagiosa di un giovane ricercatore.

Memorabili le sue conferenze, vivaci, imprevedibili, mai paludate. Ma anche certi suoi saggi scritti in forma dialogica e talora proprio come lettera indirizzata ad amici oppure a colleghi con i quali amava polemizzare con piglio giocoso ma senza rinunciare ad argomentazioni serrate. Alcuni di questi scritti sono ora raccolti nel volume Non si vede niente pubblicato da Einaudi. Un libro sorprendente per come Arasse riesce, con freschezza, a mettere in crisi e addirittura a ribaltare interpretazioni sedimentate, date ormai per scontate.

È questo il caso di un’insolita opera di tema mitologico come Marte e Venere sorpresi da Vulcano che Tintoretto dipinse nel 1550 e che è sempre stata letta come una condanna dell’adulterio. Attraverso una ficcante indagine indiziaria sui dettagli (alla Giovanni Morelli), senza lasciarsi irretire dai fiumi di inchiostro che sono stati spesi su questo quadro, Arasse ce ne offre una lettura inedita, mettendone in luce la vena ironica e corrosiva che avrebbe come bersaglio proprio il matrimonio: tomba dell’eros secondo Tintoretto che qui ci mostra un Eros dalle frecce spuntate che addirittura dorme alla grossa. Un particolare su cui nessuno prima aveva posto l’accento.

Daniel Arasse

Daniel Arasse

Così come era fin qui sfuggito ai più il dettaglio del cane che ringhiando verso il malcapitato Marte ne svela il maldestro tentativo di nascondersi sotto una panca (per quanto sia un dio e indossi elmo e armatura!). Una scena da vaudeville, insomma. Tanto più che Vulcano, il marito tradito, neanche se ne accorge mentre si getta su Venere con la brama di un vecchio e ridicolo fauno. L’acutezza e l’intelligenza dello sguardo di Arasse qui sopravanza d’un balzo il polveroso apparato di citazioni squadernato dalla critica accademica. Una messe di testi e riferimenti esterni al quadro che, nota Arasse, «diventa una sorta di filtro solare per proteggersi dal bagliore dell’opera e preservare le abitudini acquisite». Segnalando come a volte la tradizione critica rischi così di diventare schermo protettivo che raffredda il rapporto emotivo e diretto con l’opera. Diventando un paravento dietro cui nascondersi. Come quei giudizi moralistici di Mark Twain che hanno a lungo impedito di cogliere il gesto esplicito della Venere di Urbino che, nel quadro di Tiziano destinato alla camera privata di Guidobaldo della Rovere, allunga la mano verso il proprio sesso. Senza questo precedente non si capirebbe la scandalosa Olympia di Manet sottolinea Aresse. Come si è potuto constatare anche dal vivo in Palazzo Ducale a Venezia dove la bella retrospettiva dedicata al pittore francese e appena conclusa ha permesso di confrontare i due capolavori. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Gli ultimi segni di Pompei

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 6, 2011

di Simona Maggiorelli

Graffiti pompeianiAlle prime serie piogge, nuovi crolli a Pompei. Che vanno a sommarsi a quelli avvenuti l’anno scorso, in primis, alla Schola Armaturarum. Ora si parla del cedimento di mura di costruzione moderna, ma anche di danni nella Domus di Diomede. «Purtroppo era prevedibile, visto che nel frattempo non si è fatto niente di ciò che si doveva per la tutela di un sito archeologico così importante» commenta Eva Cantarella che insieme all’archeologa Luciana Jacobelli ha appena pubblicato il volume Nascere ,vivere e morire a Pompei (Electa) proseguendo così la ricerca avviata con i I volti dell’amore, con Supplizi capitali (che ora esce in nuova edizione per Feltrinelli) e altri saggi dedicati alla società, alla cultura e alla vita quotidiana a Roma e nella cittadina vesuviana sepolta dall’eruzione del 79 a.C.
Inefficienza, incompetenza, ma anche mala gestione hanno contrassegnato il commissariamento del sito archeologico pompeiano e le politiche dell’emergenza del governo Berlusconi, non di rado, hanno generato mostri. «Come il presunto recupero del teatro di Pompei- commenta la studiosa -,oggi, è inguardabile». Intanto accanto ai rischi che corrono architetture e opere d’arte, si accende l’allarme per i “graffiti”, le scritte che costellavano le antiche strade pompeiane. Esposte alle intemperie ora rischiano di scomparire.

Thermopolium, Pompei

Professoressa Cantarella quanto contano le fonti non ufficiali?
Dai graffiti si può imparare moltissimo, perché ci danno informazioni storiche che non troviamo nelle fonti principali. Un esempio: fra il I secolo a.C e il I secolo d.C ci fu un’emancipazione delle romane, che si videro riconosciuti, almeno formalmente, diritti che prima non avevano. In quel periodo le donne cominciarono ad avere maggiore libertà di movimento. Dalle fonti letterarie si potrebbe dedurre che fosse un fatto di élite. Ma a Pompei iscrizioni parietali documentano, invece, che si trattava di un fenomeno più generalizzato.
Autrici di alcune scritte erano le aselline?
Le aselline erano di modesta estrazione, lavoravano al Thermopolium, ma non erano affatto prostitute, come poi si è voluto dire. Grazie ai loro graffiti si è saputo che alle elezioni municipali le donne sostenevano questo o quel candidato. All’epoca non c’erano manifesti elettorali. Si scriveva direttamente sui muri. A Pompei sono stati trovati messaggi di propaganda elettorale firmati da donne che si interessavano alle elezioni, che sceglievano chi votare. Più in generale a Pompei, sui muri, si scriveva di tutto. Comprese le dichiarazioni d’amore. Gli uomini, curiosamente, amavano andare a scrivere questi messaggi in gruppo. Fra i graffiti pompeiani poi si sono trovate anche poesie d’amore firmate da donne. Alcune rivelano anche una certa conoscenza della letteratura e di poeti più noti. Informazioni, preziose che non abbiamo da altre fonti.
Visto il silenzio imposto alle matrone, un’estrazione più umile, a Roma e a Pompei, poteva significare maggiore libertà?
Le donne più povere uscivano di più per le strade. Ma per andare a lavorare. E allora non aveva il senso di una realizzazione sociale. Era una necessità. Diversamente dalle donne greche che vivevano recluse, le matrone uscivano, per esempio per andare a teatro, ma dovevano sempre farsi accompagnare. Nell’antichità le donne erano sotto tutela a vita, prima del padre, poi del marito.

Villa dei Misteri, Pompei

Dal suo libro emerge che Pompei non era poi quella città libera e licenziosa che si dice. C’era un forte controllo sulle donne e anche paura della loro autonomia?
A Pompei c’erano i bordelli come in tutto l’impero romano. Semplicemente lì si sono trovate delle pitture erotiche e nomi di donna scritti vicino a figure che a noi possono apparire spinte. Ma i Romani erano pagani, l’idea di peccato cristiana non aveva ancora fatto breccia. Quanto alla paura delle donne, questo risulta anche dalla grande letteratura. Anche senza andare a scomodare Giovenale che scrisse satire feroci quanto a misoginia.
Lei scrive di un largo ricorso all’aborto. A differenza dell’adulterio, non era punito?
La donna che abortiva veniva punita solo se lo faceva senza il permesso del marito. Del resto i padri potevano esporre i neonati figuriamoci se era un problema l’aborto. A Roma la donna che abortisce senza il consenso del marito viene punita perché non rispetta il suo diritto ad avere un figlio. Non c’era il problema odierno di una Chiesa che condanna l’ aborto come uccisione di una vita. Val la pena di ricordare  che i Romani dicevano che il feto “Homo non recte dicitur”, ovvero che non è corretto dire che il feto sia persona.
Lei ha sottolineato spesso che la società greca era basata pederastia. Accadeva lo stesso a Roma e a Pompei ?
Né a Roma né in Grecia c’era l’idea di omosessualità come la intendiamo noi. Se guardiamo a quella che era l’etica sessuale dei maschi, sia l’uomo greco che il romano potevano avere rapporti  siacon un uomo che con una donna a patto di avere un ruolo attivo. In Grecia era il giovane, il ragazzo, ad avere rapporti passivi con un uomo adulto. Si pensava che avesse una funzione educativa e veniva accettato. Se poi l’ex ragazzo, diventato adulto, continuava a essere passivo veniva condannato, si diceva che “si era fatto donna”. A Roma no. Il ragazzino non poteva essere il partner passivo perché il romano doveva dominare sempre. Allora il partner passivo era lo schiavo, giovane o vecchio che fosse. Uno degli schiavi, chiamato concubinus, dormiva con il padrone, fin a quando non si sposava, C’è un famoso carme di Catullo dedicato al concubinus.

Fra i Romani c’era anche una particolare solidarietà maschile che li portava a scambiarsi le mogli come oggetti...
Serviva a instaurare rapporti di parentele. Gli uomini lo facevano tranquillamente e le donne lo accettavano. Marzia, fu ceduta dal marito Catone all’amico Ortenzio. Con il permesso del padre di lei. Marzia avrà due figli con Ortenzio, poi alla sua morte Catone la riprenderà con sé. Che poi Marzia fosse così felice non abbiamo modo di saperlo. Il problema è che quando una pratica sociale è molto diffusa non la si percepisce più come offensiva.

da left-avvenimenti

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Né deboli né positivisti

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 22, 2011

Non si può dire addio alla verità. Ma nemmeno rinunciare all’interpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno che ha animato l’estate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una terza strada possibile.

di Simona Maggiorelli

Salvatore Veca

“Non si può dire addio alla verità. Non si può abdicare all’impegno nella ricerca della verità in filosofia. Pur sapendo che questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori. Esattamente come nella scienza». Da sempre critico verso il cosiddetto Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene così, con una forte presa di posizione a favore dell’«irriducibilità dei fatti» e del valore irrinunciabile della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana è andato  in piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris ha tenuto  il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove, nell’ambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla verità renderebbe impraticabile.
Professor Veca, nel libro L’idea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio spazio al tema dell’interpretazione. Come è noto i pensatori deboli eleggono a slogan la frase di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Qual è la sua posizione?
Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca scientifica. Sostenendo che il pensiero non può mai trovare un fondamento saldo e roccioso ma solo un vortice di possibilità. Il contesto era quello del collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi vent’anni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare l’idea di una oggettività dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un acquazzone, dire che piove è un’affermazione vera; è un fatto inemendabile come direbbe il mio amico  MaurizioFerraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che è così? Come fai a dimostrare la veridicità delle tue asserzioni? La mia idea è di prendere sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una obiezione. D’accordo dire che qualsiasi fatto può essere interpretato. Ma non tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione. Qualcosa deve star fermo perché altro si possa muovere. Qualcosa deve essere tenuto fuori dal dubbio perché si possa dubitare di qualcosa. Qualunque credenza può essere messa in discussione, è una vecchia idea illuministica. Però non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai “debolisti” io penso che una verità sia tale fino a prova contraria, Questo non elide lo spazio d’interpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789, che chiamiamo presa della Bastiglia. In realtà solo il 2 agosto si arrivò a all’interpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libertà contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco delle interpretazioni.
Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al nihilismo, D’altro canto il New Realism rischia il neopositivismo, L’essere umano non è fatto solo di razionalità. Cosa ne pensa?
Senza dubbio. Sono più che d’accordo. Tanto  che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per noi è possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire qualcosa di più delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volontà collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non nego i fatti, ma resta aperto l’onere intellettuale dell’interpretazione. E se si irrigidisce, se si ipostatizza la si può sempre fluidificare. Ecco il punto.
In una conferenza al Festival della mente ha parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la nascita del Logos come pensiero razionale…
L’immaginazione, per me, è un cardine. Non so neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo non coincida con la capacità di “vedere” le cose, di immaginare un mondo, una questione, un problema. Il nostro lavoro è fatto da una continua tensione fra la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione di memorie: cioè lasciare che riemerga l’eco della tradizione, così pasticciata e meticcia e veramente creola quale è quella alle nostre spalle. Poi certo esistono metodi con cui si cerca di “acchiappare” ciò che si è intravisto. Mi sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci. Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione filosofica è cieca se non c’è l’analisi, ma l’analisi è vuota se non viene messa in moto dall’immaginazione filosofica.
Un altro filone della sua ricerca riguarda l’eros, criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana.
Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival di Sarzana, ma il lavoro più completo che gli ho dedicato è in un libro di qualche anno fa, L’offerta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo a corpo va con il Discorso sul metodo di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le credenze e arriverò a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza lì è questionabile. Infine anche nell’intervento che ho preparato per Poppi continuo su un filone a cui mi dedico da trent’anni: il problema della giustizia sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta l’umanità presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di partenza.
Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?
Nasce, in realtà, come reading per il teatro sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano… Sui miei libri filosofici posso rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po’ come ragazzino. Lì c’è il precipitato dei miei ricordi, di ciò che ho provato di fronte all’ingiustizia. Una cosa però la posso dire: sono molto legato al fatto che il primo atto cominci con voce di donna.

da left-avvenimenti

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L’eros che non era peccato

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 3, 2010

Censurate dal Giappone occidentalizzato, riemergono ora opere di una lunga tradizione con radici nei miti arcaici della fertilità. Gian Carlo Calza le ha pubblicate in un libro Phaidon

di Simona Maggiorelli

Hokusai

Nate dalla cultura del mondo fluttuante (ukiyoe) dei quartieri del piacere nella Tokyo premoderna le stampe erotiche sono state fra le espressioni artistiche più longeve e diffuse in Giappone, anche fuori dalle ristrette elite di potere di questo paese dell’estremo Oriente che fino al 1868 ha mantenuto una struttura sostanzialmente medievale. Parliamo di un genere d’arte che ha attraversato quattro secoli di storia, dalla fine del XVI al XX secolo, in varianti originali, grazie a maestri come Hokusai e Utamaro che nel Settecento seppero creare opere uniche entro un canone rigido e standardizzato fatto di lunghe sequenze di immagini raccolte in rotoli o in libri: al centro scene di sesso al tempo stesso stilizzate e iperrealistiche nei dettagli, in cui figure anonime di uomini e donne si stagliano definite da forti linee nere e da ampie campiture di colore senza chiaroscuro.

Immagini all’apparenza seriali ma che ci parlano di una cultura giapponese libera dall’idea di peccato originale e da ogni cristiana condanna del desiderio. E che, nella splendida raccolta che ne ha fatto Gian Carlo Calza per Phaidon nel volume Il canto del guanciale e altre storie di Utamaro, Hokusai , Kuniyoshi e altri artisti del mondo fluttuante, ci trasmettono per la prima volta il senso più profondo della raffinata cultura ukiyoe in cui pittura, teatro kabuki e poesia erano strettamente legate.

«Per secoli in Giappone c’è stata una notevole produzione di arte erotica che conservava un legame con i miti arcaici della fertilità e con l’antica tradizione scintoista nella raffigurazione gli organi sessuali in primo piano; un genere artistico che solo ora riemerge compiutamente – racconta lo studioso milanese a left -. Perché dopo l’occidentalizzazione il Giappone l’ha censurata, mutando da noi un senso di condanna». Tanto che Il canto del guanciale, appena uscito per i tipi dell’ inglese Phaidon, è di fatto la prima ampia raccolta di stampe erotiche giapponesi pubblicata da un editore internazionale. «Al contrario che in Giappone, nella storia dell’arte occidentale troviamo poca produzione erotica e molto nudo – approfondisce Calza -. Sì certo, ricordiamo le illustrazioni di Marcantonio Raimondi per i libri dell’Aretino ma si tratta di casi isolati. Nell’arte fluttuante nata dalla borghesia giapponese, invece, troviamo stampe, grandi dipinti, lunghi rotoli, numerose tavole che illustrano gli atti dell’amore. Perlopiù senza ricorrere al nudo. Nell’ Occidente cristiano, dove il nudo era proibito, si ricorreva al mito e agli “dei falsi e bugiardi” per poter rappresentare una bella donna svestita. In Giappone, invece – spiega il professore -, non se ne sentiva l’esigenza, perché c’era un rapporto più disinvolto con il corpo e persone nude si vedevano ogni giorno nei bagni pubblici come negli attraversamenti di corsi d’acqua e di fiumi». Allora che cosa cercava il pubblico borghese dei quartieri del piacere in questo tipo di rappresentazione del rapporto sessuale fra uomo e donna? «Cercava la trasgressione. Non è un caso – sottolinea Calza – che molte scene riprodotte in questo libro rappresentino amori fugaci o illeciti. Fino alla scena dei due giovani che fanno l’amore e poi si suicidano. Non va dimenticato che la rigida etica samuraica non era favorevole al sesso che, si pensava, distogliesse dalla disciplina. E più la borghesia con cui i samurai erano indebitati prendeva piede, più loro irrigidivano il proprio codice» .

Così mentre le cortigiane erano dette “rovina castelli”in Giappone, le ragazze di buona famiglia dovevano rigare dritto se non volevano guai. E se come ci ha raccontato lo stesso Gian Carlo Calza in libri come Genji il principe splendente (Electa) e Utamaro e il quartiere del piacere (Electa) il primo romanzo psicologico giapponese fu scritto nel 1008 da una donna di corte e nel Seicento le grandi cortigiane erano donne colte che sapevano suonare e improvvisare versi, la realtà femminile in Giappone restava in gran parte in ombra e sottomessa. «E’ da notare, infatti- aggiunge lo studioso milanese – che nel Seicento compaiono famose cortigiane nelle stampe erotiche. Poi sempre più raramente. Qualche volta troveremo ancora negli antefatti queste donne che nella loro epoca erano assai famose. Le giovani donne che vediamo in primo piano nelle stampe erotiche sono perlopiù delle prostitute. E vi compaiono tristemente come corpi usati. Ma in altri casi no, come accennavamo, vengono rappresentate delle scene d’amore». E in questo caso artisti come Hokusai toccano il massimo dell’espressione, anche solo attraverso la rappresentazione di un appassionato scambio di sguardi.

da Left-avvenimenti

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L’inquieto Rinascimento di Lucas Cranach

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 11, 2010

Per la prima volta in Italia, quarantacinque opere di Lucas Cranach il Vecchio. In una ampia mostra nella Galleria Borghese di Roma

di Simona Maggiorelli

Lucas Cranach Venus

La figura enigmatica, oniricamente allungata, di una Venere nuda ma ornata di gioielli e cappello, si staglia sullo sfondo scuro della Venere e Amore che reca il favo di miele del pittore Lucas Cranach il Vecchio (1473-1553).

Diafana e apparentemente fragile, questa bionda dea tedesca guarda negli occhi lo spettatore, con morbida seduzione. Una resa così raffinata del nudo femminile (e così dirompente nei contenuti) non c’era mai stata nella dura pittura tedesca che più di altre tradizioni europee ha vissuto una lunga  stagione gotica. Colto, amante della cultura classica e dell’arte italiana (che aveva conosciuto grazie alla collezione di Margherita d’Austria) Cranach il Vecchio era l’artista che nella Germania del primo Cinquecento apriva con più coraggio alla nuova stagione umanista.

Lucas Cranach, fanciulla

Ma quando, su invito di Federico il Saggio, nel 1504 lasciò Vienna per trasferirsi a Wittenberg, l’artista divenne anche uno dei maggiori protagonisti della svolta riformista. Amico di Lutero, discusse con lui la stesura delle famosi Tesi. E non solo.

Con i pittori della sua grande bottega a Wittenberg lavorò per mettere a punto una nuova iconografia cristiana conforme ai principi riformisti. E alla nuova visione luterana della società e della donna; non più icona astratta ma presenza concreta, di madre e di moglie. «Ma la Chiesa protestante non era troppo interessata all’arte e Cranach dovette assicurarsi anche un’altra committenza, ricca e altolocata», ricostruisce Bernard Aikema, curatore insieme con Anna Coliva della mostra “LucasCranach. L’altro Rinascimento” che, nelle sale della galleria Borghese apre il 15 ottobre  accompagnata da un catalogo edito da Federico Motta.

In questo ambito di una committenza privata e laica nacque appunto la Venere intorno a cui i due studiosi hanno costruito questa splendida mostra che per la prima volta porta in Italia quarantacinque opere di Cranach il Vecchio. Un autore, nel Belpaese, sempre aduggiato dal più italianeggiante Albrecht Dürer e che questa esposizione romana permette di conoscere più da vicino. In un inedito dialogo con pittori di area lombardo-veneta come Lorenzo Lotto, che a Cranach appare legato da una fitta rete di risonanze. Del resto anche il pittore veneto risentì dell’influenza delle idee riformiste rischiando l’eterodossia in tele che ci mostrano una madonna popolana e impaurita.

da left-avvenimenti del 15 ottobre

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Il codice cifrato della bellezza

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2009

di Simona Maggiorelli
Nella  galassia dell’ arte islamica in cui si intrecciano differenti culture. Lo storico dell’arte Luca Mozzati con il nuovo libro Arte islamica (Mondadori arte) invita a un viaggio nel mondo variegato nato dall’incontro fra i primi conquistatori arabi e la straordinaria eredità mesopotamica, iranica, ma anche bizantina. Un universo complesso che trova espressione nella pittura, nell’architettura, nella calligrafia, nella ceramica, nei tappeti e che a nostri occhi occidentali, troppo spesso, risulta lontano, appiattito, alterato da pregiudizi. Come quello che vorrebbe l’arte islamica rigidamente aniconica  oppure la posizione dell’artista tout court schiacciata da quella del committente religioso, quando in realtà nell’Islam, come scrive Mozzati « non esistono chiesa, sacerdoti o sacramenti».
«Per cominciare – spiega il professore – va detto che nell’arte islamica il concetto di artista, come soggetto creatore, non esiste. Fino al Rinascimento non ci fu nemmeno da noi. Possiamo parlare di esplicita volontà individuale con artisti come Michelangelo. Non prima. Ma il fatto che uno si muova all’interno di canoni formali non pregiudica l’eventuale espressione di contenuti individuali, anche se nell’Islam per noi possono non essere immediatamente leggibili».
Così se la floridissima miniatura e la tradizione di libri illustrati che si sviluppò nell’impero ottomano, in Persia e in parte dell’Asia ci appare in certo modo più familiare, la scintillante cascata di stalattiti (muqarnas) che sovrasta moschee, madrase e tante architetture islamiche ci seduce sul piano emotivo, ma perlopiù ci lascia disarmati dal punto di vista della decodificazione del suo significato di rappresentazione della bellezza dell’infinito pulsare del cosmo. «Importanti apparati decorativi a carattere logico-matematico connotano l’arte islamica – approfondisce Mozzati -. Si presentano come una sorta di linguaggio cifrato. Chi è in grado di comprenderne la bellezza,  vi può cogliere quell’assoluto che nell’Islam pertiene all’ambito del divino». In capolavori come la ceramica a mosaico della moschea del venerdì a Yazsd, per esempio, l’ alternanza ritmica  di bianco turchese blu e marrone e la trama delicata del disegno floreale crescono su un rigoroso disegno geometrico. «Il senso lirico sovrapposto a quello razionale – prosegue Mozzati – sembra ricordare che per cogliere l’invisibile che si cela dietro quanto possiamo vedere bisogna fare appello alle facoltà intellettuali come a quelle emotive».
Professor Mozzati, nell’ Islam il divino è ritenuto non rappresentabile?
Certo non è rappresentabile in forma antropomorfa. Per i musulmani, così come per gli ebrei, sarebbe una bestemmia. Lo rappresentano in letteratura ma mai in pittura tranne rarissime eccezioni. Per trasmettere un messaggio che parli dell’esistenza di dio fanno ricorso a un tipo di bellezza che non è individuale e arbitraria ma astratto-geometrica. Rimanda alla legge che sottostà alla creazione. Come espressione di un’intelligenza divina che secondo la logica islamica permea tutto.
Dio creatore onnipotente  e insieme arbitrio umano. Come possono coesistere?
E una delle aporie dell’Islam. Nel Corano c’è l’assoluta necessità di obbedire a Dio, quanto la possibilità di agire secondo ciò che si sente. La lettura fondamentalista porta alla tragedia. Come è accaduto anche nel Cristianesimo. Le matrici delle due religioni sono simili: l’Islam, del resto, emerge dal  Cristianesimo orientale del  V e VI secolo.
Lei accennava al nesso fra bellezza e geometria.Quali rapporti ci furono fra Islam, Platonismo e poi con il neoplatonismo?
Il rapporto con tutta la filosofia greca antica fu molto forte. Nell’Islam c’è stata enorme attenzione per la scienza greca, almeno fino al XII e XIII secolo. Le più importanti personalità della matematica, della geometria, dell’astronomia nel X e XI secolo, non a caso, sono emerse in ambito islamico. La filosofia neoplatonica ipotizza un mondo superiore, un mondo altro, diverso da quello quotidiano. E in questo ci può essere un nesso. I musulmani credono che tutto accadrà nell’al di là, ma a differenza dei cristiani non hanno il senso drammatico del peccato, della colpa da espiare.
Alle origini del Cristianesimo ci fu una fase di iconoclastia feroce. Si parla di aniconismo, invece, per l’arte islamica. è corretto?
La nostra iconoclastia fu contemporanea al sorgere dell’Islam che molto probabilmente ne fu influenzato. Il rischio dell’idolatria era molto sentito dagli intellettuali costantinopolitani. Ma i monaci erano iconolatri e ritenevano l’icona fondamentale per la trasmissione del messaggio. Nell’Islam, in realtà, la questione dell’aniconismo è più tarda:  nell VIII secolo troviamo i primi hadit che proibiscono le immagini nei luoghi sacri. (O meglio di preghiera dacché nell’Islam non esistono luoghi sacri eccezion fatta per la Mecca). Dipingere figure umane in una moschea sarebbe blasfemia perché ci si metterebbe in concorrenza con il creatore e si farebbe una brutta copia di ciò che lui ha realizzato. Non dimentichiamo che nella spiritualità orientale la figura umana rappresentata è pensata come animata e viva. Quando gli egizi facevano delle statue poi “ infondevano” loro la vita. In tutto l’Oriente si riscontra un  certo pudore nel rappresentare l’essere umano.
Ma a Damasco ci sono scene erotiche nelle case affrescate fatte costruire dai califfi. Come si spiega?
I primi Califfi vi trovarono chiese cristiane piene di affreschi e ne percepirono il significato propagandistico. Così si dettero a costruire splendide architetture per dare un senso identitario ai musulmani. Per le moschee scelgono decorazioni a dimensione astratta e atemporale ma nelle abitazioni profane aristocratiche si riscontra una assoluta libertà di rappresentazione: scene di caccia e di guerra, balli, donne nude, scene erotiche esplicite, ma confinate nella sfera privata. Non si ostentavano perché il popolo non avrebbe accettato questa libertà delle élite.
I califfi rifiutarono la condanna dell’architettura espressa da Maometto?
Gli Abbasidi, in particolare, ristabilirono un culto imperiale di tipo persiano: il califfo aveva un suo spazio a parte nella moschea, camminava sui tappeti, era una sorta di dio in terra, cosa del tutto inusuale nell’Islam che non conosce una gerarchia nel luogo di preghiera.  Di fatto gli arabi erano stati dei barboni nel deserto e dal deserto poi  partì la rivolta contro la corruzione di quelli arrivati al trono.  Nel mondo arabo è successo molte volte. Gli arabi, diversamente dai persiani, venivano dal deserto ed erano abituati a condizioni di vita estreme e avevano un radicalismo di pensiero altrettanto estremo. i Persiani, invece, avevano una cultura diversa, alta, millenaria.
L’influenza araba fu importante anche in Spagna e in Sicilia; come si configurò questo rapporto che oggi appare stranamente rimmegato negli studi e più ancora nella politica che ha parlato di radici cristiane dell’Europa?
Gli artigiani e gli artisti che i Normanni radunarono intorno a sé erano cristiani che avendo lavorato in ambito musulmano si erano islamizzati nello stile. Così in Sicilia troviamo opere dall’iconografia cristiana ma di “spirito” islamico, a sua volta sedimentato sul bizantino cristiano. Così nascono i padiglioni di caccia normanni. La zisa, la cuba, la cubola sono architetture islamico orientali, fatte per regnanti cristiani. Lo stesso vale per le cattedrali di Cefalù e Monreale. In Spagna c’è l’arte mozarabica, per la Sicilia parliamo di arte normanna ma bisognerebbe dire arte islamica in tempo cristiano. Non abbiamo una definizione corretta. Di certo ci fu un’osmosi continua fra le diverse culture.
da left-avvenimenti del 18 dicembre 2009
pondi
Inoltra

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L’eros non si addice al logos occidentale

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 17, 2009

di Simona Maggiorelli

velàzquez, Venus,1650

velàzquez, Venus,1650

Con libri come Le forme del visibile, filosofia e pittura da Cézanne a Bacon (Pendragon) il filosofo Marco Vozza si è dedicato a un interessante tentativo di elaborazione di un’estetica basata su un’idea di autonomia dell’opera d’arte rispetto al contesto in cui nasce ma anche sul riconoscere alle immagini un contenuto di pensiero che si esprime nella forma. A fare da traccia, qui, è la lezione di Focillon da cui il docente di filosofia teoretica dell’università di Torino ha mutuato la celebre espressione «il segno significa, mentre la forma si significa». Una visione del fatto artistico che parte dal presupposto che «l’arte, così come la scienza e la filosofia – scrive Vozza – sia uno strumento di conoscenza». In questa chiave, l’opera d’arte nata nel «flusso della vita» conserva un plenum che è proprio della percezione sensibile, mentre forma e contenuto, del tutto inscindibili, esprimono un’eccedenza rispetto allo spirito del tempo in cui sono state realizzate. Con questa filosofia dell’arte che qui abbiamo riassunto rozzamente il professore ha riletto l’opera dei maggiori artisti del Novecento e ha dato vita a una collana editoriale coinvolgendo altri importanti autori nel progetto. Per le edizioni Ananke sono già usciti i primi due titoli. Il primo di Didier Anzieu dedicato al pittore Francis Bacon e un secondo, Indizi sul corpo, firmato da Jean Luc Nancy: non un volume collettaneo che mette insieme testi di conferenze svolte in epoche diverse (come ne stanno uscendo molti, di Nancy, in questi mesi) ma un testo filosofico in senso stretto. Tenendo presente il lavoro del filosofo francese dedicato ai temi dell’eros a Sassuolo oggi alle 21 Marco Vozza farà la sua lectio magistralis analizzando come filosofi e psiconalisti hanno letto il desiderio. Così dopo il saggio A debita distanza (Diabasis) in cui Vozza raccontava il tormentato rapporto fra Kierkegaard, Kleist, Kafka e le rispettive fidanzate, il filosofo torinese aggiunge un nuovo capitolo alla sua disanima dei tentativi da parte dei pensatori cresciuti nel culto del logos occidentale di controllare e soffocare il desiderio, cristianamente visto come male. «Nel mio intervento – dice il professore – cercherò di spiegare come la dinamica del desiderio sia stata letta come esperienza che approda a una configurazione (filosoficamente) solipsistica e (psicologicamente) narcisistica, in ossequio alla metafisica dell’età moderna e poi contemporanea. E sosterrò con una certa risolutezza che, fin quando ci si attiene a tale logica (o grammatica) del desiderio, si manca o si fallisce l’esperienza d’amore». In altre parole? «Si tratta innanzitutto di decostruire una certa idea di desiderio che si ritrova già in un moralista come La Rochefoucault, il quale sosteneva che gli uomini non avrebbero mai pensato all’amore se non ne avessero sentito parlare da qualcun altro, che “le passioni si nutrono di cliché” e che “la maggior parte delle emozioni sono di origine convenzionale”. Ma – prosegue Vozza – questo carattere mimetico del desiderio è stato ribadito e teorizzato più recentemente anche da un filosofo e antropologo come René Girard». E in precedenza lo ritroviamo in Proust. «Per l’autore della Recherche – spiega Vozza – la realtà non ha alcun ruolo costitutivo o dirimente nel desiderio che, per lui, è fondamentalmente di natura proiettivo-fantasmatica. Pertanto l’amore esprime la perversione del soggetto. L’intera tradizione occidentale – sottolinea il professore -, senza particolari eccezioni, si avvale di uno schema in base al quale l’esperienza amorosa è pensata in termini di una logica (o di una grammatica) del desiderio a carattere proiettivo-fantasmatico piuttosto che in termini di relazione tra un uomo e una donna. Quale soggetto è attivo all’interno di questo scenario? Un individuo, anzi due individui che si rispecchiano fedelmente nel perseguire simulacri del Nulla, confrontandosi tra loro come nello stato di natura descritto da Hobbes; un individuo ignaro del carattere comunitario del suo essere-al-mondo, del con-essere. Questo individuo, estraneo al contagio della relazione, così “immunizzato”, non può che muoversi inquieto nell’esistenza perché – conclude Vozza – osserva un’originaria e angosciosa inimicizia e una irriducibile propensione al potere…in una costante disposizione distruttiva che si avvale della capacità di uccidere: “gli uomini per naturale passione sono reciprocamente offensivi”, scrive l’autore del Leviatano». E in questa visione così desolata dell’uomo si potrebbero variamente collocare in molti, da Platone a Freud.

dal quotidiano Terra, 18  settembre 2009

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Le sette vite di Shahrazad

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009

di Simona Maggiorelli

mani

Shirin Neshat

Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad.  «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana.  E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009  – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.

is50164lMa che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la  marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi  che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente.  Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”.  Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.

Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del  Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.

Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più.  Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».

Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros  nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772  d.C)  e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un  trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini.  Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60  parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.

da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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