Posts Tagged ‘Maurizio Ferraris’
Posted by Simona Maggiorelli su settembre 9, 2014

Nietzsche Minch
Nel suo nuovo libro Maurizio Ferraris opera una ricognizione critica della “gloria” del filosofo tedesco, che fu esaltato dal ’68. E si riapre la discussione
E’ un libro di spessore, anche letterario, quello che Maurizio Ferraris dedica a Nietzsche rielaborando suoi importanti lavori precedenti (come Nietzsche e la filosofia del Novecento) fino a ricrearli in una forma interamente nuova.
Nel suo Spettri di Nietzsche, appena uscito per Guanda, la ricognizone critica del pensiero del filosofo tedesco si apre a nessi inediti con rimandi a Dostoevskij, a Mann, a Conrad, alla pittura di Munch e oltre (fino a chiamare in causa i Doors!). Ma incontra anche tratti di autobiografia. L’indagine serrata dei testi, infatti, s’intreccia alla narrazione di momenti vissuti in quelle stesse strade e palazzi che videro Nietzsche scrivere pagine folgoranti e rapidamente sprofondare nella pazzia.
Professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino era impossibile per Ferraris non imbattersi nel “fantasma” di Nietzsche. Ma è stata certamente una scelta deliberata quella di ingaggiare con il suo rapsodico pensiero un corpo a corpo che dura ormai da trent’anni. Da quando Ferraris era un giovanissimo allievo di Derrida e uno dei primi filosofi in Italia a confrontarsi seriamente con il Decostruzionismo.
Da allora, però, molte cose sono cambiate e il pensiero di Ferraris si è sviluppato fino a prendere una direzione del tutto nuova che lo ha portato negli anni scorsi a tematizzare l’urgenza di un Nuovo Realismo in filosofia, rivalutando il valore dei fatti, la loro concreta oggettività, senza la quale nessuna interpretazione sarebbe possibile.

Ferraris, Guanda
Obiettivo polemico dichiarato: il pensiero postmoderno, che ha rinunciato a qualunque ricerca sulla verità storica, filosofica, fattuale, rischiando di cadere nel negazionismo e nel populismo, pur di portare avanti (è questo il caso del Pensiero Debole di Vattimo, Rovatti, ecc) la propria lotta antidentitaria nata nell’alveo del ’68, nelle piazze della rivolta studendesca che nel Maggio francese si lasciò sedurre dal pensiero di Heidegger. Contraddizione feroce, lacerante, mettere insieme Marx e il filosofo della Selva Nera, la rivolta in nome della libertà e il pensiero cattolico-nazista dell’autore di Essere e tempo.
Un corto circuito che rese cieco il movimento, facendolo precipitare nel caos. Gianfranco De Simone ne ha scritto in modo autorevole e puntuale su left. Qui mi premeva solo richiamare brevemente quel contesto per dire della coraggiosa presa di posizione da parte di Ferraris con un pamphlet come Manifesto del Nuovo Realismo (Laterza, 2013) e con riflessioni acuminate che denunciano il nazismo di Heidegger e la sua pericolosa esaltazione da parte di pensatori che si dicono di sinistra .
Ora, con Spettri di Nietzsche, Maurizio Ferraris sembra voler fare un passo ulteriore chiamando in causa anche il filosofo della «volontà di potenza». Riaprendo così un’antica querelle che contrapponeva innocentisti e accusatori. Da un lato Deleuze e Vattimo che celebravano l’autore dello Zarathustra. Dall’altro i detrattori, che si rifacevano a György Lukács e alla sua Distruzione della ragione.
Ovviamente Ferraris va oltre il già detto, approfondisce, provoca, lanciando non poche stoccate alla “Gloria di Nietzsche” (per dirla con il titolo della lectio magistralis che ha tenuto al Festivalfilosofia ).Nel suo nuovo libro il filosofo torinese denuncia l’incontrovertibile strumentalizzazione del pensiero nietzschiano operata dal nazi-fascismo. Ma al contempo ridimensiona il ruolo della sorella Elisabeth nel manomettere le opere dell’ultimo Nietzsche piegandole all’ideologia di destra. Anche se è probabile una falsificazione dell’epistolario da parte della sorella che millantava un ruolo di interlocutrice e confidente che non ebbe mai.
«Il nihilismo della forza», «l’esaltazione della potenza e di ciò che ne segue» sono aspetti che innervano intrinsecamente tutto il pensiero nietzschiano, secondo Ferraris. Difficilmente potrebbe passare per progressista la sua idea di «superuomo dispotico» («un maschio alfa, cioè anche un povero fesso, ma un fesso pericoloso»).
Eppure, ricorda Ferraris, nel 1919 Hugo Bund pubblicò Nietzsche come profeta del socialismo. Un libro dove «non è anacronisticamente accusato di nazismo, ma chiamato a correo come ispiratore del socialismo. Il superuomo e la sua tirannia sarebbero la piena realizzazione del socialismo che – d’accordo con il modello leninista – non si contrapporrebbe più al militarismo, ma ne sarebbe anzi il compimento», scrive Ferraris. Insomma, detto rozzamente, il ribellismo antiborghese di Nietzsche, il suo messianesimo e vitalismo, avrebbero fatto di lui un autore amato dall’avanguardia leninista e non solo.
E quel suo argomentare oracolare e «messianico» ne avrebbe fatto, via Heidegger, un eroe di quel ’68, che praticava il marxismo come religione. L’operazione ermeneutica compiuta da Deleuze e in Italia da Vattimo completò il lavoro di annessione di Nietzsche alla sinistra. Incuranti della sua idea di «inconscio geologico», dice Ferraris, e del suo nihilismo assoluto. Lungi dal dire che Nietzsche fosse nazista (non poteva esserlo per ragioni storiche, perché i nazisti erano anti semiti e cristiani mentre lui era anti cristiano e contro la razionalità lucida, apollinea esaltata in ambiente universitario tedesco), Ferraris tuttavia mette radicalmente in discussione la possibilità di vedere nel teorico dell’Übermensch un pensatore rivoluzionario e
progressista.
Riaffermendo la necessità di leggere l’opera di Nietzsche nel suo insieme, Sossio Giametta, storico traduttore del pensatore tedesco, nel libro Cortocircuiti (Mursia, 2014) invita alla cautela e a non riudurre Nietzsche a un «bue squartato di cui ognuno si ritaglia una bistecca che poi si cucina a modo suo».
In questa raccolta di saggi (in parte già noti, in parte inediti) rilancia la sua interpretazione di Nietzsche come spirito libero, che coraggiosamente attaccava ogni forma di pensiero sclerotizzato, rimettendo al centro l’autodeterminazione dell’essere umano,
preso atto della crisi irreversibile del Cristianesimo e della «morte di Dio».
E se Giametta poeticamente vede nel superuomo nietzschiano, non solo l’«oltreuomo danzante» dello Zarathustra, ma anche il viandante, Marco Vozza, nel libro Il nuovo infinito di Nietzsche (Castelvecchi, 2014) invita a leggerlo come filosofo del profondo, che «trasvaluta i valori mettendo al centro l’interiorità del soggetto», contro un Logos ormai devitalizzato. Il filosofo torinese Vozza propone dunque una lettura quasi diametralmente opposta a quella del concittadino Ferraris e sarebbe interessante chiamarli ad un confronto dal vivo.
( Simona Maggiorelli)
Dal settimanale left del 6 settembre 2014
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Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 13, 2013

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa
Il Salone del libro che prende il via il 16 maggio ha un interessante filo rosso: il tema della creatività. E chiama artisti, critici, filosofi e scienziati a parlare di immaginazione e fantasia. Al Lingotto fino al 20 maggio. Cercando di capire dove va la ricerca internazionale dopo la fine della stagione delle artistar. Mentre è già cominciato il count down per la Biennale di Venezia che si aprirà il primo giugno
di Simona Maggiorelli

L’ artista è l’essere umano«più libero che esista, perché può compiere un miracolo, può creare l’opera più bella partendo dal nulla. Solo l’idea conta davvero», dice Marina Abramovic sul nuovo numero della rivista Lettera Internazionale. In un’intervista rilasciata a Gioia Costa in cui l’artista rievoca il lungo itinerario che l’ha portata dalle provocazioni “patologiche” della Body Art a una Performing Art che mescola vari linguaggi, dalla videoarte al teatro, per comunicare più profondamente con le persone. «La leggenda è finita, i templi sono diventati musei e l’artista oggi ha il compito fondamentale di comunicare con la propria intuizione. Oggi la vera scommessa è riuscire a cambiare la consapevolezza delle persone. Facendo della creatività un motore di cambiamento delle persone e del mondo», dice l’artista di Belgrado. Con accenti utopistici non troppo lontani da quelli dell’ultimo Michelangelo Pistoletto.
Non a caso parliamo di due artisti, di generazioni differenti, ma entrambi emersi a livello internazionale negli anni Settanta. «Un periodo che fu molto stimolante per l’arte» commenta il critico Luca Beatrice, che il 19 maggio sarà al Salone del Libro per presentare il suo libro Sex (Rizzoli) che indaga la rappresentazione artistica del sesso e per parlare di creatività. Che è il filo rosso della prossima edizione della fiera dell’editoria.
A Torino, dal 16 al 20 maggio, il tema della creatività vedrà una declinazione scientifica. In particolare, il 18 maggio, con la presentazione della nuova edizione di Bambino donna e trasformazione dell’uomo dello psichiatra Massimo Fagioli ( L’’Asino d’oro edizioni) e il 17 maggio con la lectio magistralis di Ian Tattersall, autore de Signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni), in cui l’antropologo americano spiega come Homo Sapiens abbia prevalso grazie a una caratteristica specie specifica come la fantasia.
In un articolo intitolato Le artistar sono finite, trionfa la noia, su Il Giornale Luca Beatrice, di recente, ha scritto del tramonto degli “anni zero” dell’arte, imposti dal mercato e caratterizzati, per esempio, dall’ipervalutazione di artisti come Danien Hirst con i suoi squali in formaldeide «oggi andati incontro a un deprezzamento del 300 per cento». In giro si respira un’aria di «ritorno all’ordine», scrive Beatrice, ma la fine dell’euforia dei mercati «ci ha liberati dalla mondanità artefatta dell’ultimo Francesco Vezzoli e dall’arte dei pupazzi, dalle provocazioni gratuite, dalla cronaca elevata a storia a cui ci aveva abituati Maurizio Cattelan».

Vanessa Beecroft
Nell’arte italiana oggi «c’è molto vintage – sottolinea il critico -. Non a caso alla Biennale di Venezia che aprirà il primo giugno si vedranno molte opere degli anni Settanta riportando le lancette dell’orologio su un tempo molto vitale per la nostra storia dell’arte. Senza contare che molti autori di allora sono ancora qui per raccontare quel periodo». Il lato positivo di questa «retromania è che l’arte oggi ha finito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mercato», dice a left Luca Beatrice. Anche se nel mainstream proposto dalle gallerie e dai templi internazionali del contemporaneo, dalla Tate al MoMa, continuano a dominare artisti come Vanessa Beecroft con le sue raggelate rappresentazioni di donne, modelle, bambole meccaniche, che inneggiano a un’arte che non cerca più nemmeno lo choc del sangue e delle ferite della Body Art, ma propone l’anestesia, celebrando il vuoto. «Beecroft ben rappresenta l’era inizio anni Duemila di un tardo capitalismo ormai arrivato alla frutta» commenta il condirettore del Padiglione Italia alla Biennale d’arte del 2009. «Le sue donne nude e perfette non hanno nulla di sensuale, sono l’estrema punta di una rappresentazione del sesso ridotto a ready made».
Ma chi è l’artista oggi e come trova il suo pubblico? Se nel Quattrocento e nel Cinquecento andava a bottega giovanissimo e poi, da quel trampolino riconosciuto (specie se la bottega era quella di Raffaello o di un altro artista noto) entrava direttamente nel mondo dell’arte e delle commissioni ecclesiastiche o di corte, oggi quali sono i percorsi? «Nel Quattrocento l’arte era un mestiere. Oggi non più – risponde da New York Francesco Bonami -. Ma è anche vero che ai nostri giorni il mito del “dottore” ha reso il mestiere dell’artista una professione da residuo sociale…Almeno finché uno non diventa di successo. Non a caso c’è chi dice “mia figlia si è messa con un artistoide”. L’artista è l’artistoide oggi. E poi – approfondisce Bonami che sarà al Salone del libro di Torino il 18 maggio per presentare il suo nuovo libro Mamma voglio fare l’artista (Mondadori-Electa) -. Nel ‘400 l’arte era un fenomeno per pochi oggi è per tutti. E far contenti tutti e più difficile che far contenti pochi. Secoli fa una persona che non era un nobile vedeva al massimo un paio d’immagini sacre o artistiche nella sua vita. Oggi se ne vedono milioni. Creare un’immagine o una forma nuova che dica qualcosa di nuovo o solo qualcosa è una cosa ai nostri tempi difficilissima». Inflazione di immagini a scarso tasso creativo e, dall’altro lato, stupore, se non ostilità, verso chi si cimenta con la ricerca creativa, invece di cercare un impiego sicuro, sembrano connotare i nostri anni. «La ragione ed il calcolo sono oggi l’equivalente di denaro e successo; voler comunicare qualcosa senza altri scopi della condivisione è molto sospetto», commenta il critico fiorentino, direttore artistico della Fondazione Sandretto che è stato direttore della Biennale di Venezia nel 2003 .
Intanto però il mercato internazionale dell’arte e le vetrine delle Biennali europee e americane pullulano di opere all’insegna di un violento iperaelismo tardo pop o, più spesso, di opere iperconcettuali, freddamente astratte, autoreferenziali. Tanto che il filosofo Maurizio Ferraris ha scritto: «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l’arte ma solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale. Mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove», riprendendo i fili di un suo vecchio libro, La fidanzata automatica (Bompiani). «Credo che l’arte contemporanea abbia concluso un ciclo» commenta Bonami. E promette: «Racconterò questo nel prossimo libro Dall’Orinale all’Orale dove si parte da Duchamp e si arriva a Tino Seghal quello che usa le persone che raccontano qualcosa. L’arte deve raccontare qualcosa di altro che se stessa e quindi si riparte da capo».
«

Hegel
Quella della morte dell’arte è una tesi che oramai vanta un bel tratto di storia- ricorda Tiziana Andina, docente d Filosofia teoretica all’Università di Torino, autrice per l’editore Carocci, di Filosofia contemporanea, ma anche di Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto. «Per primo l’ha formulata appunto Hegel. Riteneva che l’arte fosse destinata a risolversi nella filosofia, cioè in pura concettualità. Ma francamente non credo che questo avverrà mai. Penso che la previsione di Hegel non solo non si sia realizzata, ma che sia sbagliata sotto il profilo teorico. Filosofia e arte sono essenzialmente diverse, l’una non potrà mai risolversi nell’altra». Che cosa è accaduto allora? «E’ successo che la “storia dell’arte”, ovvero la narrazione elaborata nei secoli dagli esperti per leggere le opere, sembra non funzionare più – spiega Andina -. Non è più efficace per interpretare il lavoro degli artisti, frammentato in miriadi di sperimentalismi». Quando alla pratica artistica contemporanea «non credo che l’arte sia morta – dice la filosofa – e nemmeno che se la passi male. Penso piuttosto che tutta l’arte abbia molto sperimentato propri linguaggi. Questo può apparire stucchevole o incomprensibile alla più parte delle persone, che preferiscono opere immediatamente figurative e arricchite di una connotazione emozionale». Nietzsche, però, sosteneva che le opere possono incidere sulle nostre vite in misura maggiore di quanto non riesca a fare un ragionamento ben formulato, cosa ne pensa? «Spesso l’arte ha la capacità di incidere profondamente sulle emozioni. La ragione dell’ “invidia” dei filosofi nei confronti degli artisti (pensiamo a quanto Platone maltratti gli artisti nella Repubblica ) ha probabilmente radici proprio in questa idea. Possiamo leggere dettagliate analisi filosofiche che riguardano questioni morali, ma leggere dei pensieri e delle emozioni di Raskol’nikov, in Delitto e castigo, quando prepara l’omicidio della vecchia usuraia, e poi dei suoi tormenti dopo che l’ha uccisa, ci porta a una comprensione “emozionale” di molte cose: che cosa vuole dire uccidere, che cosa significa essere esseri umani, che cos’è la compassione. Tutto questo ha una importanza grandissima per le nostre vite».
dal settimanale left, numero 18 in edicola fino al 17 maggio 2013
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 20, 2012
di Simona Maggiorelli
Si avvicina la data fatidica del 21 dicembre 2012, prevista dai Maya per la fine del mondo. Lo studioso Telmo Pievani, nel suo nuovo libro, ricostruisce come nascono le leggende millenaristiche. Che leggono in modo del tutto alterato i fenomeni naturali
Il count down per la fine del mondo è cominciato. In un accapigliarsi fra apocalittici e riottosi, che aspettano ugualmente il 21 dicembre 2012 come fosse l’ultimo giorno della storia come vuole una sedicente profezia maya. Un gioco che stuzzica la curiosità divertita dei giornali (Gramellini e Taddia su La Stampa, gli dedicano una pagina al dì con il titolo ” Fine del mondo. E un poco oltre”) ma anche gli appetiti delle case editrici più commerciali. Certo, nell’anno domini 2012 c’è di che stupirsi che ciarpame profetico trovi abbondanti lettori.
Ma proprio per questo è interessante tentare di leggere la lunga durata di un fenomeno millenaristico che, come una insana coazione a ripetere, attraversa i secoli portando allo scoperto meccanismi di pensiero delirante stranamente condivisi da ampi gruppi di persone in determinate epoche e congiunture. Un fenomeno, a dire il vero, assai complesso quello delle cosiddette “catastrofi culturali” a cui Ernesto De Martino dedicò il libro La fine del mondo. Il filosofo della scienza Telmo Pievani ne tenta una lettura concentrandosi, invece, sul modo in cui sono state percepite nella storia le catastrofi naturali.
Con piglio ironico e brillante, che dissimula l’immane impegno di una cavalcata che va dall’età dell’oro di Esiodo, all’Antico Testamento fino agli heideggeriani e neo catastrofisti di oggi, Pievani lo affronta in chiave evoluzionistica ne La fine del mondo Guida per apocalittici perplessi (Il Mulino). Un libro spassoso e divertito, da cui Federico Taddia e la Banda Osiris hanno tratto uno spettacolo, ma che nasce con un preciso intento di Aufklärung illuminista. E proprio per far chiarezza, incontrando Pievani, neo docente di filosofia della biologia all’università di Padova, gli chiediamo cosa mai possa unire la pagana profezia maya e l’idea dell’apocalisse cristiana, due concezioni a prima vista lontanissime.
«In realtà – spiega Pievani – ci sono tratti comuni e differenze. La differenza fondamentale è nel modo di concepire il tempo, quella giudaico-cristiana è di tipo lineare, con un inizio, un telos, un compimento. La fine della storia per i cristiani è un grande redde rationem, in cui si fanno i conti dei giusti e degli empi. La concezione del tempo dei Maya, invece, è più raffinata, è una sorta di commistione fra un tempo lineare e un tempo ciclico». E al di là delle assurde e antiscientifiche profezie di cui ora si parla «i Maya furono capaci di prevedere realmente una notevole quantità di fenomeni astronomici». Quanto a ciò che le accomuna? «A mio avviso è interessante che due culture che hanno due concezioni così diverse del tempo, poi in realtà, formulino entrambe l’idea che ci possano essere cesure del tempo», nota Pievani. «Come se avessero un bisogno psicologico profondo della fine del mondo per dare senso alla storia». Per dare un senso a fenomeni naturali improvvisi e violenti come il terremoto di Lisbona su cui si interrogavano laicamente gli illuministi o come lo tsunami in Giappone in cui l’ex direttore del Cnr Roberto de Mattei, sorprendentemente, ha visto una punizione divina contro gli asiatici miscredenti. «Sul piano scientifico la prima evidenza da rilevare – mette in chiaro Pievani – è che la fine del mondo c’è già stata tante volte. Le grandi catastrofi nel passato hanno stravolto la biodiversità, portando allo sterminio di una grande quantità di specie diverse.
Di fatto, però, quelle catastrofi, quegli episodi così negativi, sono stati dei nuovi inizi e senza di essi la biodiversità attuale non sarebbe così rigogliosa. La stessa presenza di Homo sapiens- sottolinea lo studioso – è figlia di queste catastrofi. Se non ci fosse stata in particolare l’ultima, quella di 65 milioni di anni fa e del tutto insensata sul piano di una visione finalistica dell’evoluzione, noi non saremmo qui». Ma pensare che l’umanità non è necessaria e che il mondo continuerebbe anche senza di noi non è facile da accettare. «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto a causa vostra?», scriveva non a caso Leopardi nel Dialogo della Natura e di Islandese. Dal fatto ineludibile che il mondo esiste, là fuori, anche a prescindere da noi, possiamo però ricavare «un messaggio radicale», suggerisce il filosofo della scienza. «Nel libro ho cercato di giocarlo in chiave ambientalista: che diritto ha una specie che è figlia della fine di altre specie di creare le condizioni della fine del mondo per una grande quantità di esseri che per causa nostra scomparirebbero?». E da queste considerazioni di Pievani ci pare di poter evincere anche una consonanza con la proposta di Nuovo Realismo avanzata dal filosofo Maurizio Ferraris e che ora trova una ampia discussione nel libro a più mani Bentornata realtà appena uscito per Einaudi. «Non sono mai entrato direttamente in quel dibattito e non condivido lo scientismo alla Dennett», precisa Pievani. «Ma sono d’accordo con Ferraris su un punto fondamentale che riguarda il rapporto fra filosofia e scienza. Oggi non possiamo più fare filosofia ignorando i risultati della scienza che offre evidenze ineludibili. Per esempio dalla nostra appartenenza alla biosfera nasce un rifiuto radicale di ogni visione totalitaria della storia. La contingenza ti obbliga a dire che nessuno può più affermare di avere capito l’essenza, la logica profonda della storia». Tanto più se questa “logica” ha un fondamento metafisico. Uno degli aspetti più interessanti de La fine del mondo (e che completa il discorso che Pievani aveva già avviato in Nati per credere, Codice editore) riguarda proprio la descrizione dei meccanismi con cui un pensiero delirante attribuisce significati inesistenti e bizzarri a fenomeni naturali come, per esempio, meteore o allineamenti di pianeti. «In una coazione a ripetere, che tradisce una aspettativa inespressa e che non si smonta neanche di fronte al fatto che la profezia non si avvera». La religione in modo particolare fornisce una cornice entro cui questi pensieri deliranti trovano sfogo condiviso? «È proprio così – commenta Pievani – il meccanismo è particolarmente evidente in un caso emblematico analizzato da alcuni psicologi sociali negli anni 50: studiarono la vicenda di una donna che si era proclamata profetessa in uno degli Stati americani della cintura della Bibbia. Nel libro Quando la profezia non si avvera ora recuperato da Il Mulino raccontano come la delirante profezia di visite di alieni e “conseguente” fine del mondo avesse radunato intorno a lei un consenso piuttosto nutrito. Entrati nella setta camuffandosi, gli psicologi Festinger, Riecken e Schachter ebbero modo di osservare i meccanismi di auto convincimento con cui gli adepti continuavano a credere alla fine del mondo», anche dopo che la profezia aveva fatto cilecca.
left 47 – 24 novembre 2012
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Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012
Il Manifesto del New Realism lanciato dal filosofo Maurizio Feraris sarà al centro di un convegno dal 26 al 28 marzo a Bonn. E l’addio al Postmoderno si fa sempre più internazionale
di Simona Maggiorelli

Maurizio Ferraris
Annunciato sei mesi fa, scatenando da subito una appassionata discussione pubblica sui media (dai giornali alla radio, come raramente accade in Italia per questioni culturali), il Manifesto del nuovo realismo lanciato da Maurizio Ferraris diventa libro per Laterza e approda a una discussione internazionale. Dal 26 al 28 marzo a Bonn se ne discuterà in un convegno «a cui prenderanno parte filosofi analitici e continentali, di varie generazioni» anticipa a left il filosofo torinese. «Perché- spiega il professore – il ritorno del realismo non è una semplice questione accademica italiana, è un movimento filosofico ormai in corso da decenni. La filosofia e la vita, hanno fame di realtà, dopo decenni in cui si è ripetuto che non ci sono fatti, solo interpretazioni, che non c’è differenza tra realtà e finzione…». Decenni durante i quali il postmodernismo è diventato egemonico non solo nella cultura ma anche in certa parte della società e della politica. «Con i bei risultati che si sono visti – approfondisce Ferraris-, trionfi dei populismi mediatici, aumento delle diseguaglianze, e guerre scatenate sulla base di finte prove di armi di distruzione di massa».
E chi conosce un po’ il lavoro di Ferraris sa anche che per l’ex allievo di Derrida e oggi ordinario di filosofia teoretica all’Università di Torino non si tratta di una svolta improvvisa. «Per quello che mi riguarda la svolta risale a quasi vent’anni fa, quando ho visto che il postmoderno si stava trasformando in populismo mediatico», racconta. «In questo senso il mio Manifesto è anzitutto una ricapitolazione, il tentativo di argomentare, in modo piano, sperabilmente non dogmatico e non predicatorio, le ragioni del realismo». Con un metodo di pensiero affilato in tanti anni di critica e di decostruzione del logocentrismo su cui si basa la filosofia occidentale.
Proprio questo tema della messa in discussione della supremazia del Logos, come phonè, voce, anima (che porta con sé l’annullamento di ciò che è materia, corpo, “gramma”) è al centro del libro di Ferraris L’anima e l’iPad edito da Guanda. Un saggio di cui il filosofo è tornato a parlare il 9 marzo, al Teatro studio dell’Auditorium, nell’ambito della rassegna romana “Libri Come”. La cultura occidentale, nota Maurizio Ferraris in questo libro, per secoli si è basata sulla contrapposizione fra anima, spirito “autentico” e lettera inerte, morta. «San Paolo diceva che lo spirito vivifica e la lettera uccide. In linea con Platone e la sua condanna della scrittura». Così religione cristiana e Logos greco, alla fine, sono andati “a braccetto” nella condanna di ciò che nell’essere umano è biologia, corpo, psiche e non anima astratta.
«Sta anche alla filosofia (oltre che alla vita) ricordare che le cose non stanno esattamente così», commenta Ferraris, «che senza la lettera non ci sarebbe lo spirito, senza la materia non c’è niente. Tanto che perfino le religioni universali, le religioni dello spirito, come l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, sono tali essenzialmente perché sono religioni del libro, cioè della lettera. Non dobbiamo dimenticarlo e credo che proprio in questo consista il nocciolo vitale di ciò che Jacques Derrida ha chiamato decostruzione».
Accanto alla decostruzione, il postmoderno, come è noto, “ha prodotto” il cosiddetto pensiero debole. Il filosofo Gianni Vattimo ne è stato il teorico. Nel suo nuovo libro Della Realtà, appena uscito per Garzanti, Vattimo, torna a dirsi «catto-comunista» e rilancia l’idea di una ermeneutica nihilista. Contro ogni «tentazione di realismo». Un nihilismo del pensiero, che secondo Vattimo, andrebbe assunto «come vocazione anche in senso religioso nella nostra epoca e come una specifica chance di emancipazione».
Professor Ferraris, ma da professioni di fede e dal rifiuto di leggere la realtà può davvero nascere un progetto emancipatorio?
Questa è la convinzione di Vattimo, rispettabile e radicata, ma anche un dogma che non vuole mettere in discussione. Il che è singolare per un teorico del dialogo e del confronto. Mi limito perciò a due osservazioni. Non credo che il realismo sia una “tentazione”: la realtà ci circonda e ci sollecita in ogni istante, ci chiama a prese di posizione, a responsabilità, a decisioni. Può essere molto dura e molto impegnativa, ma è il piano su cui ci giochiamo tutto, sotto il profilo teorico, politico e morale. Proprio per questo può sorgere, casomai, la tentazione non già del realismo, ma dell’irrealismo: l’oblio, lo stordimento, la favola e l’illusione. È un processo vecchio come il mondo. Di qui la mia seconda osservazione. Se si rifiuta la realtà diventa strutturalmente impossibile qualunque progetto emancipatorio, per il semplice motivo che diventa impossibile stabilire se ci stiamo emancipando (e se stiamo emancipando qualcuno, perché non siamo soli al mondo), o se, al contrario, stiamo raccontando una favola in cui si parla di emancipazione. L’emancipazione è una bella cosa, ma senza esami di coscienza e senza principio di realtà è una vuota parola.
Per Gianni Vattimo il discorso nazista di Heidegger sarebbe liberatorio. Lo ribadisce nel nuovo libro. Mentre la verità è violenza e la realtà è dominio. Un pensiero progressista e coerente può avere premesse così “ossimoriche”?
La sua è una domanda retorica. Certo che no. Bisognerà, in futuro, scrivere una storia culturale che renda conto della stranissima circostanza per cui pensatori radicalmente di destra come Nietzsche e Heidegger hanno potuto venire considerati come gli ispiratori di una politica di sinistra. È un meccanismo che fu analizzato da Lukács: gli intellettuali sentono l’ingiustizia sociale e avvertono la necessità di un cambiamento, ma al tempo stesso non se la sentono di fare nulla di concreto, né di mettere in gioco la loro condizione e i loro privilegi. Per cui riforme e rivoluzioni avvengono in un cielo mitico.
«Non penso che si possa fare buona filosofia ignorando la scienza del proprio tempo», lei ha ribadito in una recente conferenza all’Istituto svizzero di Roma. Ma Foucault sosteneva che i malati di mente sono solo vittime di uno stigma sociale. Mentre l’affondo heideggeriano contro la tecnica porta i suoi epigoni anche in Italia a diffidare anche dello sviluppo delle biotecnologie. Da dove nasce questo attacco alla scienza?
Secondo me è un discorso molto antico e autoctono, che risale alla critica della scienza da parte del neoidealismo italiano. Il filosofo si sente non solo un umanista (nel che ovviamente non c’è niente di male), ma intende il proprio umanismo come una militanza contro la scienza (il che è assurdo). Ed è significativo che sia solo un discorso di facciata. Non conosco un solo filosofo critico della scienza che quando sta male non cerchi di essere curato dal migliore specialista.
da left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 23, 2011
Una grande mostra a Londra ( e dal 25 febbraio al Mart di Rovereto) indaga vent’anni di Postmodernismo. Ma fu vera sovversione lo stile teorizzato da Lyotard e che aveva le sue radici pià antiche nel Sessantotto?
di Simona Maggiorelli

Fred and Ginger Building, Praga
Architetture come giganteschi oggetti di design e opere d’arte come luccicanti gadget. La storia usata come un enorme serbatoio di stili da cui pescare citazioni da riusare poi del tutto decontestualizzate. Arrivando, in architettura, fino ai più bizzarri e dissonanti assemblaggi di colonne doriche, verticalità gotiche, e ornamenti neobarocchi.
Il pastiche è stato il linguaggio per antonomasia del Postmoderno, che ha imperversato per oltre un ventennio nell’Occidente globalizzato. In arte come in letteratura. Basta pensare ai romanzi di DeLillo, di Pynchon o di Foster Wallace. E oltre.
Come documenta la mostra Postmodernism 1970-1990 che, dopo Londra, dal 25 febbraio arriverà al Mart di Rovereto, il Postmoderno ha visto l’esplosione della contaminazione fra i linguaggi con spettacoli multimediali e videoclip caratterizzati da ibridazioni, eclettismo senza limiti, giustapposizioni ossimoriche, ricerca dell’effetto choc, in modi derivati dal Dada e dal Surrealismo. Ma anche mutuati dalla Pop art, per quanto riguarda l’estetizzazione della merce e il riuso di meccanismi di comunicazione pubblicitaria tipici del capitalismo Usa.
Arti-star come Jeff Koons o Damien Hirst, come è noto, hanno perfezionato questa tecnica lucidamente, arrivando con i loro Bunnies gonfiabili e gli squali in formalina a toccare quotazioni d’asta miliardarie. E se Andy Warhol come scrive Marc Fumaroli nel suo caustico Parigi-New York e ritorno (Adelphi) «era un guardone, spinto da un arrivismo e da un’avidità divoranti», gli artisti del Postmoderno lo hanno superato diventando indefessi «plastificatori», artefici di «un’arte parassitaria», che usa il plagio come strategia principe. Un esempio per tutti: le celebrate quanto sovraestimate opere cartellonistiche di Richard Prince, diventato famoso per aver ripreso una pubblicità della Malboro in cui campeggia un americanissimo cowboy a cavallo. Eclatante esempio di Postmoderno plagiario con cui Prince ha sbancato, avendo avuto l’astuzia di depositare il copyright della sua “variazione sul tema”, in modo da mettersi al riparo dalle rimostranze del negletto fotografo autore della foto clonata.

Richard Prince cowboys
Un sistema di specchi, di citazioni che disconoscono la fonte e poi ricombinate in modo da creare nello spettatore un senso di spaesamento e l’impressione di un “nuovo” che invece non c’è. «A questo stadio di cinismo – scrive Fumaroli – la riproducibilità meccanica delle opere d’arte dicui si lamentava Benjamin negli anni Trenta raggiunge proporzioni alla Borges».
Ma da dove nasce questo micidiale attacco che il Postmoderno ha sferrato nei confronti dell’arte, svuotando le immagini di senso, rendendole piatte, iperrealiste come sogni lucidi? Secondo Fumaroli, nello spaccio generale di prodotti di consumo globale contrabbandati per arte molta responsabilità hanno avuto quei critici e quei pensatori che, a partire dalla celebrazione degli orinatoi di Duchamp sono arrivati a legittimare la trasfigurazione del banale operata da Warhol.«I pratical jokes di Duchamp – scrive Fumaroli – sono diventati, grazie ad una esegesi consecutiva alla valutazione commerciale, un sistema universale di legittimazione, di autorizzazione e di omologazione adatta a qualsiasi cosa». Ma forse non basta per comprendere la deriva che le arti visive stanno vivendo oggi in Occidente. Di recente denunciata in un appassionato pamphlet anche da un altro critico francese di spessore, l’ex direttore del Museo Picasso, Jean Clair che ne L’inverno della cultura (Skira) stigmatizza il gusto perverso per il raccapricciante, per l’immondo e l’ostentata distruzione dell’umano che esprimono artisti di grido come Paul McCarthy con le sue “sculture di escrementi” e rappresentazioni di uomini e donne obesi e in disfacimento. Ma questo non è che l’aspetto più di superficie del coraggioso J’accuse di Clair contro la totale perdita di fantasia che connota le arti visive che vanno per la maggiore nei circuiti internazionali dell’arte, dal MoMa alla Tate, al Pompidou.

Venturi, Postmodernism
Un J’accuse che, curiosamente, gli è costato pesanti controaccuse di conservatorismo da parte di una critica di sinistra (da Dorfles a Bonami in Italia) che ancora si ostina a non voler vedere nel Postmoderno e nei suoi epigoni l’insana miscela di istanze ribellistiche e insieme apologetiche del tardo capitalismo che ne costituisce la base. Una intellettualità di sinistra che ancora non vuol vedere «la confusione ideologica del Postmodernismo che mescola la pulsioni del ’68 con l’età di Reagan». Come ha scritto sul Corsera un architetto come Vittorio Gregotti che da trent’anni si oppone al caos sessantottino di quel Postmoderno, teorizzato da Lyotard ne La condizione postmoderna (1979), ma che ha radici nel pensiero di Foucault, di Deleuze, di Derrida.
Un Postmoderno che, in consonanza con la protesta antiautoritaria e antidentitaria di Foucault, ha portato a una suicidaria «liberazione dai vincoli della realtà», alla rinuncia del potere conoscitivo dell’arte, al decostruzionismo più nihilista, all’estetizzazione della menzogna. E nelle arti performative all’esaltazione euforica del transgender e del cyborg mutante. Mentre nelle arti visive ha favorito un micidiale svuotamento delle immagini, del tutto annullate poi dall’iperrazionalismo dell’arte concettuale. «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione», chiosa su Repubblica Maurizio Ferraris, riprendendo i fili della querelle fra Postmodernismo e nuovo Realismo che il filosofo torinese ha lanciato la scorsa estate e che ora si riaccende su Alfabeta 2. «Solo che – aggiunge – riguarda solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale, mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove». La cosa interessante a questo punto sottolinea Ferraris, e noi con lui, «è chiedersi cosa ci sarà dopo e se il dopo è già qui».
da leeft-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 22, 2011

Maurizio Ferraris
Con un convegno a Bonn e una lectio magistralis al Festivalfilosofia, il docente dell’Università di Torino lancia un manifesto per il New Realism. E apre la discussione pubblica
di Simona Maggiorelli
Mentre si annuncia un convegno internazionale che riunirà il Gotha della filosofia a Bonn per discutere della necessità di un New Realism (dopo anni di ammorbante Pensiero debole) anche in Italia si accende il dibattito sulla proposta lanciata dal filosofo dell’Università di Torino Maurizio Ferraris. Che sabato 17 settembre ne parlerà in una lectio magistralis, in piazza a Carpi nell’ambito del Festivalfilosofia di Modena. Ad ottobre, poi, uscirà per i tipi di Guanda il suo nuovo libro L’anima e l’iPad .
Professor Ferraris, Pensiero debole e Postmoderno hanno imperversato per anni.
Con quanto danno?
I danni sono venuti soprattutto attraverso il populismo, che ha ricevuto un potente anche se in buona parte involontario fiancheggiamento ideologico da parte del Postmoderno. E queste ricadute non hanno riguardato solo le élites più o meno vaste interessate alla filosofia o all’arte postmoderna ma anzitutto una massa di persone che forse di Postmoderno non hanno mai sentito parlare, o quasi, e che subiscono gli effetti del populismo mediatico, compreso il primo e il più grande: la convinzione che si tratti di un sistema senza alternative.

Duchamp Gioconda con i baffi
Il filosofo Richard Rorty diceva che non esiste una realtà, «out there», là fuori. Mentre Gianni Vattimo in Addio alla verità sostiene che la verità è sempre dispotica. Ora, lui si dice di sinistra, addirittura comunista. Ma come si può trasformare se stessi e la società a partire da un così assoluto nihilismo?
Bertrand Russell raccontava che a una cena una signora gli disse: “Trovo che il solipsismo sia una bellissima teoria, e vorrei fondare una associazione di solipsisti”. Il nichilista che pensa di trasformare il mondo non è meno paradossale di quella signora. Se non c’è verità e realtà come si può capire se si sta trasformando se stessi e il mondo o se invece si pensa solo di farlo? A parte questo autoinganno, c’è un problema più grosso: se c’è una dottrina che sostiene che non ci sono fatti, solo interpretazioni le vittime di soprusi non potranno neppure lamentarsi, chiedere giustizia, organizzare una reazione, appunto perché l’ideologia dominante è che non ci sono fatti e che la verità la si costruisce come la costruiscono certi telegiornali. Così le vittime subiranno senza avere la speranza che, un giorno, giustizia sarà fatta, il che significa che subiranno ingiustizia due volte.
Una rinuncia così totale alla ricerca della verità non rischia di dissolvere ogni ricostruzione storica, obbligandoci a restare muti e inerti di fronte a ogni forma di negazionismo?
Questo è il problema maggiore. Curiosamente, la “scuola del sospetto”, l’idea che si debba dubitare di tutto ciò che viene assunto come ovvio e viene dichiarato pubblicamente, nasce come esercizio critico, ma può avere esiti a dir poco dogmatici: chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato. Una specie di condono tombale cala su tutte le tragedie dell’umanità. Certo, Cartesio diceva che una volta nella vita, se si vuol essere filosofi, si deve mettere in dubbio tutto. Ma, appunto, diceva che è una specie di esercizio da farsi una volta sola e in veste di filosofi. Nella vita di tutti i giorni, invece, il dubbio sistematico è una posizione insostenibile (anche gli scettici si scansano se vedono che gli sta venendo addosso un tram), e va a finire che uno dubita solo di ciò che gli fa comodo dubitare.

Barthes e Foucault
A partire dal ‘68 si è registrato uno strano fenomeno: ogni proposta di un pensiero forte sulla realtà umana (anche se radicato nella realtà, anche se sottoposto a verifica) è per la sinistra – specie quella di matrice foucaultiana – sempre fascista. Perché?
Perché il ‘68 è stato l’estensione al mondo sociale della pratica iper-ironica delle avanguardie. Si trattava sempre di mettere i baffi alla Gioconda, di usare le parole tra virgolette, soprattutto se queste parole erano “verità” e “realtà”. Il colmo l’ha toccato Roland Barthes quando (scherzando ma non troppo) ha detto che «la lingua è fascista», perché ha norme e regole. A questo punto il vero parlante antifascista sarebbe lo sgrammaticato e l’analfabeta, il vero medico antifascista sarebbe quello che non sa curare!
Derubricare l’adesione al nazismo di Heidegger a scelta privata è lecito? O bisogna aprire gli occhi su quello che molti maestri del ‘68 e teorici del pensiero debole non hanno voluto vedere: ovvero che il pensiero stesso di Heidegger è nazista? E perché i filosofi irresponsabilmente non hanno voluto vedere questa pericolosa consustanzialità?

Heidegger, 1933
Non è assolutamente lecito considerare il nazismo di Heidegger una “questione privata”. Anche perché, come lei dice, il pensiero di Heidegger è consustanziale al nazismo. Molti filosofi di sinistra – ma non tutti, per esempio non Habermas – non hanno voluto vedere tutto questo. In parte anche perché vederlo non era facilissimo, nel senso che l’adesione al nazismo era presentata come un incidente di percorso superato già nel ‘34 (era l’autodifesa di Heidegger), e i testi di Heidegger che circolavano a sinistra non erano certo il Discorso di rettorato (tradotto molto tardi: in italiano, addirittura nel 1988), ma testi apparentemente più innocui, in cui si diceva che il linguaggio è la casa dell’essere e che l’uomo abita poeticamente. Tranne che poi anche in quei testi emergevano sprazzi inquietanti, per esempio, in un corso su Nietzsche del 1940, un elogio del Blitzkrieg in corso, oppure, nella intervista allo Spiegel del 1966 e pubblicata alla sua morte (Ora in Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda ndr), la tesi secondo cui paragonava la Shoah all’agricoltura meccanizzata. Ma, a prescindere da questi sprazzi, quello che non si è visto in generale, è che il pensiero heideggeriano nel suo insieme è iper-gerarchico, e che l’appello al nichilismo e alla volontà di potenza, l’insistenza sulla Decisione, l’abbandono della nozione tradizionale di “verità”, sono una adesione profonda e non opportunistica al Führerprinzip. Non è privo di ironia il fatto che questo pensiero sia diventato un punto di riferimento essenziale per filosofi che militavano a sinistra e che si volevano anti-autoritari. Anche se tra questi filosofi c’è stato chi come Habermas ha denunciato subito l’equivoco e chi ha lavorato su Heidegger, ma senza rimuoverne i caratteri inquietanti, come ha fatto Derrida (ma è proprio lui che mi ha aperto gli occhi su Heidegger). Vista nell’insieme comunque la ricezione è stata indulgente talora sino alla cecità.
Il Pensiero debole – dice Rovatti – è nato come critica al potere della metafisica. Ma poi è diventato esso stesso discorso fumoso e astratto. La stessa pratica della decostruzione proposta da Derrida non ha finito per fiaccare ogni ricerca in una continua e sempre rimandata diffrazione del senso bloccandola in una paralizzante indecidibilità?
Il Pensiero debole, la Decostruzione, il Postmoderno, sono cose molto diverse, come sottolineava giustamente Aldo Rovatti, anche se tra loro c’è una “somiglianza di famiglia” e dei temi comuni… Diciamolo con semplicità: è molto più facile decostruire che non costruire, anche se, ne sono pienamente convinto, ogni costruzione degna di questo nome richiede una decostruzione, un momento critico della tradizione, come in effetti è sempre avvenuto tra grandi filosofi: Aristotele ha decostruito Platone, ma se si fosse limitato a questo non sono sicuro che ce ne ricorderemmo ancora. Inversamente, se sono convinto che ci ricorderemo ancora per secoli di questo grande e controverso filosofo che è Jacques Derrida, è perché non è stato semplicemente un decostruttore; è stato anche un grande costruttore, ha lavorato in modo originale e propositivo sulle nozioni di sovranità, amicizia, giustizia. Cosa che ovviamente non si può dire di altri decostruttori.
Intervenendo nel dibattito fra New Realism e Postmoderno, Emanuele Severino sul Corriere della Sera abbozza uno sferzante paragone: «Maurizio Ferraris parla di verità… Anche Benedetto XVI a Madrid ha invitato i giovani a cercare La Verità». Perché la verità dovrebbe essere appannaggio della religione e non degli esseri umani?
Nell’esortare i giovani alla ricerca della verità (si intende, ed è una limitazione che non va trascurata, nel quadro di una “verità superiore”, quella della fede) il papa fa il suo mestiere, così come lo fa quando ricorre all’epistemologia anarchica di Feyerabend per sostenere che Bellarmino non aveva poi tutti i torti nel condannare Galileo. Quelli che secondo me non fanno il loro mestiere sono i filosofi che invitano a dire addio alla verità, o gli epistemologi che sostengono che le teorie scientifiche sono delle specie di “visioni del mondo” senza una particolare pretesa di verità. A questo punto, ovviamente, lasciando il monopolio della verità ad altri. La strategia da seguire, ovviamente, è tutta un’altra: riconoscere quanta importanza abbia, nella vita umana, la verità, e impegnarsi nella sua ricerca e possibilmente nella sua pratica, perché spesso la verità è sotto gli occhi di tutti, solo è difficile da attuare.

Jacques Derrida
Nel suo Ricostruire la decostruzione (Bompiani) si legge: « Il programma del pensiero postmoderno prevedeva la liberazione sessuale, a partire dal progetto di rivoluzione desiderante di Deleuze e Guattari. Ma “l’attivismo sessuale” non ha prodotto liberazione sociale…». Perché secondo lei?
In parte perché è scattato un meccanismo peraltro già studiato da Horkheimer e Adorno. Il sovrano concede al popolo libertà sessuale, e in cambio tiene per sé non solo la libertà sessuale ma anche tutte altre libertà che non sono concesse agli altri. Da questo punto di vista, non c’è niente di più conveniente, anche dal punto di vista economico, della concessione della libertà sessuale. I sudditi se la vedono tra loro, non sono necessarie strutture costose, per esempio buone università (come sarebbe nel caso che il sovrano concedesse al popolo la libertà di studio), e non ci sono ricadute rischiose (per esempio il fatto che i sudditi si stufino del sovrano, come sarebbe nel caso che il popolo si istruisse e prendesse coscienza). In questo senso, l’attivismo sessuale è stato molto più efficace, per paralizzare eventuali prese di coscienza, del panem et circenses, appunto perché non richiede neppure la concessione di pane o di giochi. Basta un discorso pubblico in cui si dice che “le persone a casa loro fanno quello che vogliono”, il cui vero significato è spesso: “le persone a casa loro fanno quello che voglio”.
La filosofia di Derrida è un curioso pastiche di vecchio e nuovo, lei ha detto in un convegno in sua memoria. Aggiungendo che il suo rifarsi alla psicoanalisi «è stato un enorme arcaismo». In Filosofia per dame (Guanda) poi lei scrive: «La psicoanalisi si è industriata a ridurre tutte le colpe a sensi di colpa non facendo un buon servigio all’umanità»…
L’ombra maggiore della psicoanalisi, a mio avviso, è proprio quella contenuta nel brano che lei riporta: la confusione tra sensi di colpa e colpe vere e proprie, che fa sì ,per uno psicoanalista, Hitler sia essenzialmente uno che ha avuto una infanzia difficile!
da left-avvenimenti del 9 settembre 2011
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Posted by Simona Maggiorelli su settembre 22, 2011
Non si può dire addio alla verità. Ma nemmeno rinunciare all’interpretazione. Nella querelle fra New Realism e Postmoderno che ha animato l’estate interviene il filosofo Salvatore Veca indicando una terza strada possibile.
di Simona Maggiorelli

Salvatore Veca
“Non si può dire addio alla verità. Non si può abdicare all’impegno nella ricerca della verità in filosofia. Pur sapendo che questa ricerca non ha sempre un happy end. Si procede per prove e errori. Esattamente come nella scienza». Da sempre critico verso il cosiddetto Postmoderno il filosofo Salvatore Veca interviene così, con una forte presa di posizione a favore dell’«irriducibilità dei fatti» e del valore irrinunciabile della conoscenza nella querelle fra Pensiero debole e Nuovo realismo che, dopo aver animato per settimane i giornali, nel fine settimana è andato in piazza al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove Maurizio Ferraris ha tenuto il 17 settembre una lectio magistralis sul New Realism (vedi left n.35), ma anche nel Castello dei conti Guidi a Poppi (AR) dove, nell’ambito di una tre giorni di seminari, domenica 18 settembre Veca ha tenuto una conferenza su un tema cruciale come la giustizia. Che qualsiasi addio alla verità renderebbe impraticabile.
Professor Veca, nel libro L’idea di incompletezza di recente uscito per Feltrinelli lei dedica ampio spazio al tema dell’interpretazione. Come è noto i pensatori deboli eleggono a slogan la frase di Nietzsche: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni”. Qual è la sua posizione?
Dagli anni Settanta, Vattimo in Italia, Lyotard in Francia e Rorty negli Usa, a partire da quel motto di Nietzsche, hanno detto che non possiamo ancorare i nostri discorsi, privati e pubblici, alla ricerca scientifica. Sostenendo che il pensiero non può mai trovare un fondamento saldo e roccioso ma solo un vortice di possibilità. Il contesto era quello del collasso delle ideologie e della crisi delle grandi narrazioni degli ultimi vent’anni del Novecento in Occidente. E loro pensavano che abbandonare l’idea di una oggettività dei fatti avesse un effetto emancipatorio. Ma di fronte a un acquazzone, dire che piove è un’affermazione vera; è un fatto inemendabile come direbbe il mio amico MaurizioFerraris. Nel libro che lei ricorda cerco di connettere la posizione di Nietzsche alla tesi scettica: come fai a sapere che è così? Come fai a dimostrare la veridicità delle tue asserzioni? La mia idea è di prendere sul serio le ragioni degli ermeneutici, degli interpretazionisti, ma con una obiezione. D’accordo dire che qualsiasi fatto può essere interpretato. Ma non tutti i fatti congiuntamente possono essere sottoposti a interpretazione. Qualcosa deve star fermo perché altro si possa muovere. Qualcosa deve essere tenuto fuori dal dubbio perché si possa dubitare di qualcosa. Qualunque credenza può essere messa in discussione, è una vecchia idea illuministica. Però non posso criticare tutto allo stesso tempo. Dunque, diversamente dai “debolisti” io penso che una verità sia tale fino a prova contraria, Questo non elide lo spazio d’interpretazione. Un esempio: pensiamo al 14 luglio del 1789, che chiamiamo presa della Bastiglia. In realtà solo il 2 agosto si arrivò a all’interpretazione chiara che si era trattato di un gesto per la libertà contro il dispotismo. Ogni volta che noi ci rivolgiamo alla reinterpretazione del passato non facciamo altro che rendere insaturi i fatti, riapriamo il gioco delle interpretazioni.
Estremizzando il pensiero di Nietzsche si arriva al nihilismo, D’altro canto il New Realism rischia il neopositivismo, L’essere umano non è fatto solo di razionalità. Cosa ne pensa?
Senza dubbio. Sono più che d’accordo. Tanto che negli anni ho cercato di riflettere su una terza strada diversa dalle due menzionate. Faccio un esempio concreto. Non possiamo trascurare che mentre per noi è possibile studiare e classificare le proteine, quando cerchiamo di capire qualcosa di più delle rivolte arabe, abbiamo a che fare con strani tipi di oggetti che tendono a autodefinirsi. Lo stesso vale per i riots a Londra. In questo caso cosa vuol dire interpretare? Possiamo attribuire volontà collettive? In Medioriente prevalgono i jihaidisti? O i giovani twitters?. Non nego i fatti, ma resta aperto l’onere intellettuale dell’interpretazione. E se si irrigidisce, se si ipostatizza la si può sempre fluidificare. Ecco il punto.
In una conferenza al Festival della mente ha parlato di immaginazione filosofica. Un concetto quasi ossimorico vista la nascita del Logos come pensiero razionale…
L’immaginazione, per me, è un cardine. Non so neanche pensare che si possa fare ricerca filosofica senza che il primo passo non coincida con la capacità di “vedere” le cose, di immaginare un mondo, una questione, un problema. Il nostro lavoro è fatto da una continua tensione fra la ricerca di nessi, connessioni, fra idee e quella che io chiamo coltivazione di memorie: cioè lasciare che riemerga l’eco della tradizione, così pasticciata e meticcia e veramente creola quale è quella alle nostre spalle. Poi certo esistono metodi con cui si cerca di “acchiappare” ciò che si è intravisto. Mi sembra di vedere in una certa area qualcosa che mi attrae e cerco di andarci. Naturalmente per andarci servono dei metodi che siano giustificabili e non dipendenti dalle mie idiosincrasie. Per dirlo in una battuta, la visione filosofica è cieca se non c’è l’analisi, ma l’analisi è vuota se non viene messa in moto dall’immaginazione filosofica.
Un altro filone della sua ricerca riguarda l’eros, criticando la trattazione platonica, ma anche quella cristiana.
Ho ripreso questo tema di ricerca per il festival di Sarzana, ma il lavoro più completo che gli ho dedicato è in un libro di qualche anno fa, L’offerta filosofica. Mi interessava provare a mettere alla prova il motore della ricerca, provare a vedere sotto il profilo filosofico la passione, come accade che ci innamoriamo di qualcuno. Intanto continuo un corpo a corpo va con il Discorso sul metodo di Cartesio, con quel suo tentativo di dire: metto sotto pressione tutte le credenze e arriverò a una credenza che non posso mettere in questione. Cartesio lo risolve con il problema di Dio. Ma io dico che anche quella credenza lì è questionabile. Infine anche nell’intervento che ho preparato per Poppi continuo su un filone a cui mi dedico da trent’anni: il problema della giustizia sociale. Ce la facciamo a estendere concetti di giustizia a tutta l’umanità presente sul globo? Qui uso il pensiero politico di Rawls come punto di partenza.
Lei ha affrontato il tema della giustizia ora anche in forma di epos moderno, molto intensa in Sarabanda?
Nasce, in realtà, come reading per il teatro sociale fondato da Teresa Pomodoro a Milano… Sui miei libri filosofici posso rispondere lucidamente, ma riguardo a questo esordio mi sento un po’ come ragazzino. Lì c’è il precipitato dei miei ricordi, di ciò che ho provato di fronte all’ingiustizia. Una cosa però la posso dire: sono molto legato al fatto che il primo atto cominci con voce di donna.
da left-avvenimenti
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Posted by Simona Maggiorelli su agosto 27, 2011
Dopo un’estate di discussioni giornalistiche sulle derive dell’arte contemporanea, sempre più autoreferenziale, affetta da bigness e staccata dalla vivere quotidianoe mentre nell’ambito filosofico si apre un dibattito sul nuovo realismo ( dopo tanti nefandi anni di decostruzione e di pensiero debole) riproponiamo qui quanto il filosofo Maurizio Ferraris diceva a Left-Avvenimenti già nel 2007.

Maurizio Ferraris
Qualunque oggetto può essere opera d’arte? Fuori dalla truffa del mercato, la parola a un filosofo irriverente come Maurizio Ferraris che al tema ha dedicato un libro: La fidanzata automatica edito da Bompiani.
di Simona Maggiorelli
Dopo autorevoli libri di ermeneutica, di estetica e da studioso di Nietzsche, (ma anche dopo essersi esercitatosu un tema di solito poco frequentato dai filosofi come l’immaginazione),Maurizio Ferraris da qualche tempo ha cominciato a dedicarsi all’arte delpamphlet. E con molto profitto per il lettore. Affrontando corrosivamente questioni granitiche come la fede in agili volumi come Babbo Natale, Gesù Adulto. In cosa crede chi crede? (Bompiani). Ora, è da pochi giorni in libreria un suo nuovo saggio, La fidanzata automatica (Bompiani) percorso da una domanda quanto mai attuale: qualunque oggetto può essere arte? Ovvero quali sono le caratteristiche universali di un’opera d’arte, che possa davvero dirsi tale?
Per rispondere il filosofo torinese riprende un’idea di William James che fantasticava di una fanciulla automatica «assolutamente indistinguibile da una fanciulla spiritualmente animata» paragondola alla funzione di certi concerti, quadri, romanzi. A partire da qui Ferraris seduce il lettore lungo le vie di una nuova ontologia dell’arte.
Professor Ferraris, perché scrivere un’ontologia dell’arte. L’ermeneutica non basta più?
Nel Novecento è stato detto che qualunque cosa può essere un’opera d’arte. Se si accetta questo punto di vista non ha più senso dire che c’è una specifica ontologia dell’opera d’arte. Nel frattempo accadeva che la definizione non dipendeva più dagli oggetti, ma veniva a dipendere totalmente dagli interpreti. Neanche dagli artisti o dal pubblico, ma da interpreti più o meno auto- autorizzati che dicevano: “Questo è arte” , “Questo non è arte”. “Non ci sono opere d’ arte ma solo interpretazioni”. Questo mi è sempre sembrato che non cogliesse la realtà dell’arte.
Intanto la pretesa che qualunque cosa possa essere arte ha fatto breccia nel contemporaneo. Che ne pensa?
Perché ormai si tratta di vendere a un miliardario un pezzo unico. Una volta che l’hai convinto, la storia è finita lì. Per un film già funziona di meno. Un critico non può andare a dire nell’orecchio di ogni spettatore in milioni di luoghi sparsi per il mondo che si tratta di un’opera d’arte. Per una coincidenza in questo momento mentre parliamo mi trovo alla Biennale d’arte di Venezia. Sono nel genius loci di tutta la faccenda. Qui vengono “venduti” vari tipi di prodotti. Ci sono le opere esposte, talune belle, altre brutte, ma tutte impossibili da comprare, perché troppo care. E poi c’è un negozio, molto frequentato, dove si vendono bicchieri, cataloghi, libri. Ecco, se siamo in grado di fare un’ontologia di questi oggi del negozio, perché non dovremmo fare un’ontologia anche degli oggetti là che sono esposti nei padiglioni?

Jeff Koons
Nel libro scrive:«Dire che nell’arte si nasconde disonestà e mala fede sembra arretrato e provinciale». E poi aggiunge:«Ma arretrato e provinciale veniva considerato anche chi anni fa avanzava qualche dubbio sull’efficacia terapeutica e sui fondamenti scientifici della psicoanalisi ». Cioè?
Ci sono stati tanti birignao novecenteschi assai poco sensati. Fra questi c’era quello per cui uno non si dimenticava mai le cose ma semplicemente le rimuoveva. Uno non era un criminale di guerra ma semplicemente uno che aveva avuto un’infanzia difficile. Alla lettera. Perché la psicoanalisi trasforma le colpe vere e proprie in sensi di colpa: cioé cose che a rigore non hanno rilevanza penale. Accanto a questo modo di pensare prendeva campo l’idea che qualunque cosa, con una debita ermeneutica, possa diventare un’opera d’arte. Dopodiché li voglio vedere a tenersi in casa quella roba.
Duchamp con l idea dell’object trouvé e il suo orinatoio da museo, ha fatto male all’arte?
A suo modo ha avuto un’idea geniale. Ma se alla fine uno continua a mettere degli orinatoi nelle mostre sarà l’uomo dei sanitari, nessuno pensa più che sia un gesto geniale. Fra l’altro, il gesto di Duchamp segnalava già una profonda sfiducia nei confronti dell’arte, proprio per come la faccenda si stava mettendo. Un signore un po’ burlone all’inaugurazione di questa Biennale numero 52: aveva messo un sacco della spazzatura fra le opere. Le reazioni di molti spettatori erano esilaranti… Un famoso critico d’arte che ho incontrato a New York mi ha raccontato la sua esperienza durante l’allestimento della Biennale: “ stavano installando delle cose – mi ha detto – e io non riuscivo a capire se erano opere o pezzi di Eternit per riparazioni. Non avevo la più pallida idea”. Non è che per il solo fatto di far parte del mondo dell’arte uno sia immunizzato dalla domanda: ma questa sarà arte o spazzatura? Un grosso errore dell’ermeneuetica che ha reso impossibile un’ontologia dell’arte, è stato quello di assumere come paradigmatica un’eccezione. È paradigmatico quello che c’è adesso nel mondo dell’arte? Io penso di no. È semplicemente quello che c’è adesso, nel bene come nel male. Sicuramente nel Cinquecento le cose andavano diversamente. Certamente andavano in altro modo nel mille a.C.. Nella narrativa, per esempio, c’è stato un momento in cui gli autori non mettevano più i punti. Problema: i libri li compravano in dieci e gli autori si dovettero trovare un lavoro onesto.
Suscitare emozioni e sentimenti è una caratteristica ontologica dell’arte?
L’idea è questa: se uno vuole sapere la verità su una cosa non vede un film, ma un documentario, che semplicemente ti fa vedere come è la vita, poniamo, in India. Ma se uno va a sentire un concerto in India e esce dicendo” ho imparato molte cose”, vuol dire che il concerto non gli è piaciuto. Dire che un’opera mi ha insegnato qualcosa è come dirlo di una persona: è già un giudizio negativo. “Quel tizio sa tutto sulla caduta di Costantinopoli” è come dire che è l’essere più noioso di questa terra. Oppure dire “questo romanzo descrive molto bene quattro strade a Vicenza nel 1836”… Ostia che romanzo!
Pensando a certo surrealismo e ancor più all’art brut, possiamo dire che un’opera può generare anche malessere se ha un contenuto violento, deludente?
Credo che l’arte possa benissimo provocare malessere e delusione e questi sono sicuramente dei sentimenti. Solo che il gioco non può durare all’infinito. Risulta che gli esecutori di musica dodecafonica abbiano spesso dei disturbi psicosomatici. E allora uno pensa: il voluto urto neiconfronti delle nostre convenzioni musicali che viene dalla dodecafonia comporta delle disarmonie in coloro che le eseguono. Ma c’è un altro fatto. Una musica così colpisce, fa molta presa. Ma per quanto può durare? Non posso protrarre la rottura della convenzione all’infinito. Dal momento che non c’è più la convenzione non posso continuare a romperla. E poi mentre c’era questa inventiva molto spinta in avanti, c’era contemporaneamente un’enorme fioritura di arte popolare di mille tipi che ha avuto tutta una storia parallela, per carità decorosissima. LucianoBerio aveva visto che i Beatles erano rilevanti, perché era uno che sapeva vedere lontano, aveva capito che l’alternativa fra apocalittici e integrati non aveva ragion d’essere. Dal punto di vista dell’ontologia dell’arte, capire perché un’opera piace a milioni di persone è più significativo che capire perché piace a uno solo. Lì la spiegazione è semplice: quest’utente è uno scemo ed è stato convinto dal critico. È circonvenzione di incapace.
La creatività, secondo lei, “fa la specificità” dell’essere umano?
Sì certo. Tra l’altro adesso è molto messa in primo piano. In parte anche giustamente. Dal momento che tutto ciò che è routine è delegato alle macchine all’uomo resta la creatività. Sta di fatto che però che in giro di creatività se ne vede molto meno di quella che uno auspicherebbe.
Fin dalla Grecia antica si è parlato di malinconia e arte, ma forse si è equivocato sul potenziale creativo della malattia mentale?
Lo dice bene Pascal: “alcuni ubriaconi si consolano pensando che anche Alessandro Magno lo era. Ma allora dovresti anche fare tutte le conquiste che ha fatto lui. Sennò sei un ubriacone e basta. È un po’ così. Io sono persuaso che un certo tasso di disagio di vita nel mondo sia insieme causa ed effetto della malinconia dell’uomo di genio così come l’ha teorizzata Aristotele. Però noi abbiamo l’esempio luminoso di una un’infinità di malinconici che non sono dei geni ma semplicemente ci rovinano le giornate. Non è difficile vedere come spesso artisti e, ahimé, filosofi siano uomini originali. Anche se quando li vedi poi in consiglio di Facoltà è terribile.Poi, per tornare all’arte contemporanea, diciamo la verità: uno come Jeff Koons non è affatto uno strano. Faceva l’agente in borsa, è lucidissimo. Se avessi dei fondi di investimento li affiderei a Jeff Koons.
Lombroso, come molti neuroscienziati di oggi, sosteneva che la malattia così come la creatività hanno basi biologiche, ne faceva un fatto ereditario. Ma ricordava Carlo Flamigni: “quando negli Usa è stata creata una banca del seme con premi Nobel sono nati solo dei comuni cretini”…
Che ogni manifestazione spirituale abbia una base materiale mi sembra una cosa difficilmente contestabile. Dopodiché il cammino che, dalle basi neurologiche, porta all’opera è lungo e misterioso…Tutti noi penseremmo che spiegare la costituzione italiana in base a come era fatto il cervello dei costituenti sia un’opera ardua…
Cartesio ammetteva che la ragione non è nulla senza l’immaginazione, però il pensiero filosofico in larga parte ha ostracizzato la fantasia, le immagini, la creatività, sacrificandole al Logos, perché?
Io penso che ci sia stato un certo rispetto per la fantasia, per le immagini, come del resto è dimostrato proprio dalla frase di Cartesio che lei cita. Si potrebbero tirare in mezzo anche tanti altri di filosofi. Beninteso, ogni tanto ci sono problemi, diciamo così, di bottega. In fondo se Platone se la prende con i poeti è perché i poeti vogliono essere gli educatori della Grecia, quando vuole esserlo lui. A ben guardare, alla fine, si trovano molti più saggi scritti da filosofi di qualunque altra categoria professionale.
Left- Avvenimenti 2 novembre 2007
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Posted by Simona Maggiorelli su agosto 27, 2011

Fussli, Calibano
Il pazzo, l’amante e il poeta, sono impastati di immaginazione recita il sottotitolo della lectio magistralis che Maurizio Ferraris tiene il 19 settembre a Sassuolo. Con un chiaro omaggio al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e più in generale agli artisti che certamente, nei secoli, hanno frequentato la fantasia assai più dei filosofi. «Comunque sia – chiosa il professore – i filosofi hanno scritto sull’immaginazione più di qualunque altra categoria professionale».
Anche lei, anni fa, ha dato il suo contributo scrivendo l’Immaginazione (Il Mulino). Mi incuriosiva la sua distinzione fra un’immaginazione riproduttiva e un’immaginazione che si pone come atto creativo originale.
L’immaginazione puramente riproduttiva, intesa come memoria, è certo un’altra cosa dall’immaginazione produttiva. Ma il grande creatore è anche uno che dispone di vasti archivi nella propria mente. Una volta Eco ha detto una frase che trovo molto giusta:«Non è vero che il genio non ha regole, ne ha molte più degli altri». Il genio è uno che ha più memoria di altri. C’è un passo di Leibniz nei Nuovi saggi sull’interesse umano in cui dice: «Chi ha visto più figure di piante e di animali, di fortezze e di palazzi, di navi e di strumenti, sa più cose di chi non ha mai visto queste figure». Se la prendeva con Cartesio che diceva che se tu non hai un’idea chiara e distinta di qualcosa e hai solo un’impressione vaga non sai nulla.
Anche Shakespeare conosceva molti canovacci, molte storie antiche che poi abilmente rimestava, però i suoi testi teatrali hanno una forte originalità. La trasformazione dei materiali è totale.
Sì certo. È che tutti abbiamo due gambe, poi uno solo fa il record dei cento metri. Pensiamo ai due personaggi più privi di immaginazione che la letteratura abbia immaginato: Bouvard e Pécuchet. Sono agli antipodi di don Chisciotte, due archivisti del tutto privi di immaginazione. Eppure in quel gioco fantastico che Flaubert gli fa fare di recuperare tutte le scemenze dell’universo e di archiviarle rivelano una genialità assoluta.
Fra i filosofi chi ha cercato di riscattare la fantasia dalla condanna platonica e aristotelica?
Sono stati in molti a parlar bene della fantasia, in realtà. In primis i romantici.
Anche se la sua ricerca si ferma all’analisi del cosciente, Husserl ha dato un contributo positivo quando ha parlato di intenzionalità alludendo alla possibilità di una visione più profonda delle cose?
È stato il grande filosofo dell’immaginazione. Le ha dedicato 500 pagine durissime e però illuminantissime. Dove fa vedere che in fondo se possiamo concepire delle azioni morali è anche perché disponiamo di immaginazione. Perché se non ne avessimo e ci ricordassimo solo quello che abbiamo fatto non potremmo immaginare quello che avremmo potuto fare. Sarebbe una sorta di determinismo indotto dalla mancanza di immaginazione. Sul piano teoretico poi ci ha fatto vedere come l’immaginazione sia fondamentale per arrivare all’essenza delle cose.
Bachelard parla della potenza dell’immaginazione, ma poi resta prigioniero di schemi ipostatizzati di archetipi. Qual è stato il suo contributo?
Il suo merito è stato l’aver lavorato molto su come delle immagini contino all’interno della produzione scientifica. È una cosa ovvia: gli scienziati non sono mica macchine. Sono esseri umani come tutti gli altri che si fanno guidare dall’immaginazione. Sappiamo che addirittura ci sono invenzioni tecniche sognate dagli inventori. Simona Maggiorelli
Left 38/08 19 settembre 2008
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Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 13, 2009
Da pochi giorni è uscito il suo appassionato libro Perché laico (Laterza).Il giurista Stefano Rodotà denuncia: “In Italia è in atto un tentativo eversivo di revisione della Carta” di Simona Maggiorelli, left 6 febbraio 2009
Professore, nel suo libro Perché laico (Laterza) e nel convegno La laicità dal punto di vista dei laici ha lanciato un allarme: in Italia è in atto una revisione strisciante della Costituzione. Di che si tratta?
Purtroppo abbiamo continui segnali in questa direzione.Tentativi chiari di revisione della Carta che,con un’espressione forte, definirei eversivi.
I provvedimenti del ministro Sacconi, ma anche quelli del presidente della Lombardia Formigoni contro sentenze passate in giudicato ne sono una spia?
Negare l’attuazione di una sentenza da parte di organi di Stato è un fatto senza precedenti. C’è un tessuto di principi costituzionali che, a quanto pare, un ministro e un presidente di Regione ritengono di non dover assolutamente riconoscere. L’atto amministrativo di Sacconi sul caso Englaro è motivato in termini ideologici; di giuridico lì c’è solo la sgrammaticatura di chi l’ha scritto. All’evidenza costituzionale di principi e norme si oppone una pura ideologia attinta alle posizioni più integraliste della gerarchia ecclesiastica. Ecco perché parlo di revisione costituzionale strisciante.
I politici italiani citano più spesso le encicliche papali che la Costituzione?
Purtroppo non è una battuta. Si potrebbero fare mille esempi. Non solo nei dibattiti motivano le loro prese di posizione con riferimento alle encicliche, ignorando la Carta. Ma addirittura fanno prevalere quelle affermazioni religiose su chiare norme costituzionali. Quella della laicità, oltretutto, è una questione molto delicata: la Corte Costituzionale ha affermato con chiarezza in una sentenza che la laicità è uno dei principi supremi dello Stato.
La sentenza della Consulta del 1989, in questo senso, è stata un punto cardine?
Tanto più se la colleghiamo a un’altra sentenza della Consulta che ha stabilito che i principi supremi della Carta non possono essere sottoposti a revisione costituzionale. Perché sono quelli che costituiscono la sostanza del nostro Stato. Oggi mettere in discussione il principio di laicità è eversivo perché siamo su un terreno sul quale neppure la revisione costituzionale formale può essere ammessa.
Una politica così genuflessa pare ancora più assurda leggendo il quarto rapporto di Critica liberale e Cgil nuovi diritti che parla di una società italiana in inarrestabile secolarizzazione.
Il fatto è che la politica oligarchica italiana, chiusa sempre più nel gioco di ristretti vertici di partito, ha scelto come unico interlocutore l’oligarchia vaticana. Con un grave impoverimento della politica. Insieme ai dati che Enzo Marzo puntualmente raccoglie su Critica liberale è significativo il sondaggio di Repubblica : l’83 per cento degli interpellati chiede che la Chiesa parli alle coscienza e non cerchi di imporre il suo punto di vista attraverso atti legislativi.
Nel libro scrive che la Chiesa si è ormai proiettata ben al di là del Concordato…
La Chiesa si è fatta soggetto politico senza residui. Perciò non basta più impugnare l’arma dell’abrogazione del Concordato ma bisogna al contempo affinare nuovi strumenti di riflessione.
La cultura laica è affetta, dice il filosofo Maurizio Ferraris, da una perniciosa subalternità alla religione: al punto da non rivendicare più con forza la propria etica che, diversamente da quella del Chiesa, non è fondata su una trascendenza, ma sul rapporto con la realtà e con gli altri esseri umani. Perché il pensiero laico non è ancora egemone in Italia?
La questione è riesplosa con l’innovazione scientifica e tecnologica che ha mutato il modo in cui si affrontano le questioni del nascere, vivere e morire: laddove c’era in passato la legge naturale che governava tutto, oggi invece c’è possibilità di scelta. E non si apprezza la possibilità di decidere liberamente ma si vede in questo una sorta di attentato alla natura e al creatore. I laici si sono trovati deboli, in particolare in Italia. Per lungo tempo hanno accettato silenziosamente il fatto che la Chiesa avesse esclusivo diritto di parlare di morale, di etica. Questo è un grave errore della riflessione culturale. E’ una debolezza che ci portiamo dietro perché c’è stata, anche dal parte del Pci e del Psi, una subalternità politica nei confronti della Chiesa.
Il filosofo Eugenio Lecaldano ha detto che in Italia non si può ottenere giustizia se non si condivide una certa idea religiosa della vita e della morte.
Io sarei meno pessimista. Il caso Englaro dice che in Italia ci sono circuiti istituzionali non riducibili a chiusure politiche. Per vedere riconosciuti i diritti fondamentali della persona, come vuole la Costituzione, possiamo far affidamento sul tanto vituperato circuito giudiziario. Molti giudici di merito stanno dimostrando una sensibilità e un senso della legalità costituzionale altissimi nell’approntare strumenti che permettano a tutti di veder riconosciuti i propri diritti fondamentali. Le sentenze sul caso Englaro sono esemplari. Ma serve anche, per dirla con un libro dell’800, La lotta per i diritti, da parte di cittadini con la voglia e il coraggio di farli valere. Peppino Englaro è un eroe civile. Difendendo il diritto di sua figlia ha fatto cambiare l’agenda politica italiana mettendo all’ordine del giorno temi che interessano tutti noi.
Serve nuova cultura politica, lei dice. Ma provvedimenti come il ddl Calabrò sul testamento biologico sembrano andare in direzione opposta.
Quella che vedo oggi è una subcultura politica. C’è una regressione spaventosa. Le proposte avanzate dalla maggioranza sul testamento biologico sono una palese negazione dei diritti che i cittadini già hanno sulla base della Costituzione. Il testo unico del Pdl parla di dichiarazioni anticipate non vincolanti, formalizzate in modo ridicolo davanti a un notaio e contro firmate da un medico non obbligato ad alcunché, mentre alimentazione e idratazione non sarebbero trattamenti medici. E’ una presa in giro, una negazione totale dei diritti della persona.
Il senatore Pd Marino, da medico, l’ha definito un provvedimento borbonico.
Marino ha una grande esperienza medica e ricchezza umana che ha saputo convertire in comprensione dei diritti e coraggio politico. Ed è assurdo che anche dalla sua parte non gli venga riconosciuto il ruolo di leader che gli spetta.
Riguardo alla legge 40, lei scrive, ci sono più motivi perché sia giudicata incostituzionale. Perché la Consulta non l’ha ancora fatto?
La Corte Costituzionale si è liberata una prima volta di questo tema con una ordinanza non particolarmente apprezzabile. Adesso ci sono più ordinanze che stanno riproponendo puntualmente alla Corte varie questioni. Saranno discusse in primavera. La partita non è chiusa, sono ancora fiducioso.
Salvemini e Calamandrei, lei ricorda nel suo libro, parlavano di scuola come “organo costituzionale”. Nella sua esperienza di docente universitario, la scuola forma ancora un pensiero critico e autonomo?
La scuola è sempre di più al centro dell’attenzione, in Francia, in Inghilterra e negli Usa. Basta pensare al libro bianco di Gordon Brown e a Obama che registra l’arretratezza della scuola Usa. La laicità della scuola è fondamentale. Con la crescente immigrazione c’è bisogno di un luogo della conoscenza, non della tolleranza. Del resto la parola tolleranza è superata. Io ti tollero in che modo? Se vieni a fare le pulizie a casa mia e poi te ne vai il più lontano possibile. Invece abbiamo bisogno di conoscenza dell’altro. Oggi la laicità è anche e soprattutto questo.
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