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L’universo culturale di Aldo Manuzio, rivoluzionario editore umanista

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 30, 2016

Aldo Manuzio

Aldo Manuzio

Per chi è a Venezia, da non perdere,  la nostra dedicato a uno stampatore colto, laico e cosmopolita come Aldo Manuzio.  Chiude il 31 luglio

Aveva la grande ambizione di ampliare la circolazione della cultura. Pubblicando non solo classici in latino, ma anche la nuova letteratura in volgare. Dunque non fu “solo” uno stampatore Aldo Manuzio (1449-1515), ma un editore colto e umanista, che guardava al futuro. Da questa sua visione laica e moderna derivano tutte le sue importanti innovazioni editoriali – dal carattere corsivo ai libri tascabili – che non furono soltanto soluzioni formali ed estetiche ma corrispondevano a un preciso pensiero: allargare il pubblico dei lettori, mantenendo una veste di qualità e la cura filologica dei testi. Come dimostrano gli incunaboli e le eleganti edizioni aldine esposte nelle sale della Galleria dell’Accademia nella mostra Aldo Manuzio il Rinascimento di Venezia. Una esposizione che ha dietro il lavoro scientifico di tre curatori (G. Beltramini, D. Gasperotto, e G. Maneri Elia), in cui il rigore di studio si combina con una raffinata eleganza nell’allestimento.

La Tempesta di Giorgione

La Tempesta di Giorgione

Attorno ad edizioni stampate e miniate di classici della cultura greca, latina e umanista , sono radunati capolavori dell’arte veneta coeva e nordica: dipinti di Giovanni Bellini, di Giorgione, Lorenzo Lotto e Cima da Conegliano, ma anche opere grafiche di Albrecht Dürer che fu a Venezia dal 1494 al 1495 e poi nel 1510 entrando in contatto con ambienti neoplatonici ma anche con i maestri del colorismo veneto, dai quali mutuò una tavolozza più chiara e luminosa, oltre che forme meno rigide.

Interessante è come i curatori siano riusciti a raccontare chi era Manuzio attraverso la selezione di queste straordinarie opere d’arte: Il ritratto di gentiluomo di Tiziano che si ipotizza raffiguri il poeta arcadico Jacopo Sannazzaro ci racconta della passione del marchio contrassegnato con l’ancora per il linguaggio poetico, mentre la misteriosa Tempesta di Giorgione, ci dice dell’interesse di Manuzio per la tradizione pagana e panteista più raffinata e per la filosofia neoplatonica, di cui il pittore veneto si fece raffinato interprete.

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Lorenzo Lotto, ritratto di Laura di Polo

Poco più in là fa bella mostra di sé una delle pubblicazioni di cui lo stampatore veneto andava più orgoglioso: l’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo allegorico di Francesco Colonna che fu pubblicato nel 1499 corredato da 172 xilografie. La narrazione si dipanava come una sorta di viaggio iniziatico alla maniera delle Metamorfosi di Apuleio.

Dietro a pubblicazioni del genere c’era il pubblico delle corti, ma interessante è anche le edizioni aldine diventassero un oggetto del desiderio anche delle dame, come ci racconta qui il Ritratto di Laura di Polo di Lorenzo Lotto. Insieme al Ritratto di uomo con petrarchino di Parmigianino ci dice della rivoluzione rappresentata dalle edizioni tascabili. ( Simona Maggiorelli)

 

 

 

 

 

 

 

 

Conferenza su Aldo Manuzio, i lettori e il mercato internazionale del libro

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Ritratto dell’artista da giovane

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 25, 2012

Il talento precoce e originale di Albrecht Dürer è al centro di una importante mostra che a Norimberga, la sua città natale, riunisce più di duecento opere del maestro del Rinascimento tedesco

di Simona Maggiorelli

Durer, ritratto di ragazzo

Tutti in fila per Albrecht Dürer, nella sua città natale, Norimberga. E non certo per inefficienza della biglietteria del Germanisches Nationalmuseum. Fatto è che in questa estate parca di eventi d’arte e mentre da Grecia e Spagna arrivano preoccupanti notizie di musei e gallerie a rischio chiusura per mancanza di fondi, questa monografica Il giovane Dürer sta richiamando appassionati da ogni parte d’Europa. E a buon diritto, dacché questa mostra, fino al 2 settembre, permette di vedere riunite più di duecento opere di Albrecht Dürer (1471-1528), fra dipinti e opere grafiche, in un percorso che mette a fuoco il prodigioso esordio di questo artista cresciuto nella bottega del padre, un orafo immigrato dall’Ungheria, ma anche e soprattutto nei circoli umanisti che fiorivano nella colta e attiva Norimberga nel XV secolo. Quanto al talento precoce di Dürer basta vedere il sorprendente autoritratto a punta secca, – una tecnica che non ammette incertezze o ripensamenti – che realizzò con mano sicura a soli tredici anni. I curatori di questa importante retrospettiva, Daniel Hess e Thomas Eser, l’hanno eletto non a caso ad incipit della sezione dedicata agli autoritratti che raccontano l’evolversi non solo della fisionomia ma anche della psiche del pittore lungo tutte le fasi della sua esistenza. E in cui spiccano il timido e sfuggente autoritratto con in mano un fiore d’eringio dipinto a ventidue anni per la fidanzata e il raffinato Autoritratto con i guanti (1498) in cui si nota già una maturazione dell’immagine in senso rinascimentale, liberata da quella certa legnosità tardo gotica tipicamente nordica.

Albrecht-Dürer-Adorazione-dei-Magi-1504

Nell’aristocratico sguardo in tralice si può leggere la consapevolezza di un artista che, per primo in Germania, rivendicava uno status di intellettuale e non più di artigiano. A questo punto Dürer aveva già compiuto il suo primo viaggio di formazione a Colmar, a Basilea e a Strasburgo. Nel 1493, lungo il Reno, era andato in cerca dei migliori maestri. Viaggi documentati da lettere e diari, dove la linearità della annotazioni quotidiane è presa d’assalto da folgoranti intuizioni e improvvisi tuffi in profondità. Ma è raccontata anche da acquerelli improntati ad un fresco realismo e da schizzi pungenti e indagatori, attenti a ogni dettaglio.

Di fatto però l’esperienza che fu davvero decisiva per la sua ricerca pittorica fu il primo soggiorno a Venezia dal 1494 al ’95. Qui il giovane artista tedesco, entrato in rapporto con l’affermato Giovanni Bellini, ebbe modo di studiare dal vivo il colorismo della pittura veneta, ma anche lo sfumato di Giorgione e di Leonardo mutuandone l’interesse per lo studio dell’umano.

Da Cima da Conegliano, invece, prese l’interesse per le rovine antiche e da Mantegna e Pollaiolo una tecnica grafica raffinatissima che utilizzò per xilografie che ebbero grande circolazione, grazie alla nuove tecniche a stampa di cui Dürer, sodale dell’umanista Willibald Pirckheimer e allievo di Erasmo, intuì il potenziale democratico e di diffusione dell’arte e del sapere.

Durer, autoritratto a Venezia

Il risultato di questi anni di studio appassionato (e soprattutto mai passivo) di modelli iconografici lontani dalla tradizione fiamminga fu l’elaborazione di uno stile personalissimo, in cui le visioni rinascimentali più splendenti sono sempre percorse da un segreto tormento, da sotterranee tensioni.

Il tripudio di luce e di colori della Festa del Rosario (1506) commissionatagli da mercanti tedeschi per la chiesa di San Bartolomeo di Rialto, ne è un chiaro e alto esempio. La Madonna e le altre figure qui si sono fatte più morbide e dolci, mentre la costruzione della scena appare più armonica e prospetticamente profonda. I bagliori degli ori della tradizione fiamminga ci sono ancora ma, come accade nella sua orientaleggiante Adorazione dei Magi (1504) che molto deve alla Natività di Leonardo, non conferiscono più fissità ieratica alla scena: al contrario la ridda di ori entra in vibrazione timbrica e dinamica con la tavolozza tutta italiana di rossi fuoco, blu cobalto, lussureggianti verdi e caldi marroni. Tuttavia, a ben vedere, nella lucida minuzia dei dettagli l’opera di Dürer mantiene sempre un fondo di sottile inquietudine, un gusto tipicamente tedesco per l’inserto naturalistico, per il ritmo nervoso, per l’individuazione psicologica delle figure, in cui talora si intuisce un’ombra interiore.

In tempi foschi di guerre politiche e di religione e, specie dopo essersi avvicinato a Lutero, l’artista avvertì sempre più un tormentoso dissidio fra ideali umanistici e istanze spirituali. Un conflitto che lo portò ad accentuare nelle sue opere toni di malinconia e ancor più neri. Basta pensare alle visionarie e anti classiche xilografie dell’Apocalisse (1496-98) e ad opere grafiche come Il cavaliere, la morte e il diavolo o alla stessa Melancolia I (1514) che allude a qualcosa di ben diverso da quel velo languido, da quell’ombra romantica, che avvolgeva e rendeva sognanti certi ritratti di Giorgione.

da left-avvenimenti

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Lorenzo Lotto, l’anticlassico

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 25, 2011

Dal 2 marzo alle Scuderie del Quirinale una importante antologica dedicata al maestro veneto che allo splendore del colorismo di Tiziano preferiva l’inquietudine di Antonello da Messina

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Lotto, Annunciazione

Quella giovane Madonna di Lorenzo Lotto che, qui e ora, in un movimento assolutamente contemporaneo a noi che guardiamo il quadro, si rincantuccia mostrando tutta la sua umanissima paura di fronte all’Arcangelo, non potrebbe essere più lontana dalla protagonista dell’Annunciazione (1522) di Tiziano che accoglie il messaggero divino con modi pacati ed eleganti da gran signora. Lo stesso soggetto, la stessa scena sacra. Entrambi i pittori conoscono alla perfezione la tradizione pittorica e padroneggiano al massimo la tecnica. Ma la resa iconografica dell’Annunciazione, per i due maestri del Cinquecento, non potrebbe essere più divergente.

Così se Tiziano rende quasi profana la scena ambientandola in un aristocratico palazzo, Lotto sembra fare del dipinto di Recanati (1534) un manifesto di una  pittura popolare, concreta, quasi protestataria. Certamente segna uno scarto dalla norma quel modo di narrare per immagini, anticlassico e vivace, che caratterizza la tela di Recanati, dal 2 marzo al 12 giugno al centro della mostra Lorenzo Lotto (catalogo Silvana editoriale) curata da Giovanni Carlo Federico Villa alle Scuderie del Quirinale; una antologica che riunisce a Roma un ampio nucleo di opere dell’artista veneto, fra pale di altare, opere a tema sacro e una serie di eccezionali ritratti.

Ma forse si può dire di più: L’Annunciazione di Lotto rappresenta una vera e propria invenzione di immagine. Anche rispetto agli esempi di turbatio della Madonna dipinti da Ambrogio Lorenzetti e altri, ben noti a Lotto (come ha documentato Settis in Iconografia dell’arte italiana, Einaudi). Precedenti molto decorosi e composti che ben poco hanno a che fare con il ruspante scompiglio di questa Annunciazione, dipinta in colori freschi e accesi. Ma anche la Natività (1530), da poco restaurata e in primo piano alle Scuderie, ci racconta che Lotto non era un pittore naif: nel bel mezzo di una scena intima e quasi naturalistica qui l’autore sapientemente cala due fredde ali azzurrine, una nota divina e straniante, già pienamente manierista.

Che Lorenzo Lotto (1480-1556) non fosse affatto un artista minore nel quadro della pittura veneta del Cinquecento, del resto, lo aveva già notato Bernard Berenson dedicandoli nel 1895 la prima monografia (ripubblicata nel 2008 da Abscondita). E lo hanno ribadito nel secolo scorso studiosi come Venturi e Longhi ispiratori della importante antologica veneziana degli anni Cinquanta.

Giovane rivale di un ben più acclamato Tiziano e coetaneo di un artista raffinato come Giorgione, Lotto per necessità e non solo scelse la provincia come ambito in cui vivere e operare, legandosi ad una committenza diversissima da quella laica, colta e nobile che sosteneva i suoi due più famosi colleghi. Sempre controcorrente, solo, di spigolo alle cose e fuori dalla rete dei rapporti che contano, così raccontano l’uomo Lorenzo Lotto le trentasei lettere autografe indirizzate al Consorzio della Misericordia. Ma un profilo aspro e schivo emerge anche dal Libro di spese diverse, una specie di diario in cui dal 1538-1556 il pittore annotò tutte le commissioni ricevute ma anche il fallimento della vendita all’asta di quarantasei opere, da cui nel 1550 sperava d ottenere almeno quattrocento scudi riuscendo a cavarne solo quaranta. Prova ulteriore che la sua arte, al tempo stesso “antica” e in anticipo sui tempi (basta pensare alla penetrazione psicologica di certi ritratti), era del tutto fuori sincrono rispetto alle mode del tempo. Più che dallo splendore del colorismo veneto e dai suoi classici maestri come Giovanni Bellini, Lotto si sentiva attratto dalla vena inquieta di Antonello da Messina (dal quale mutuò il drammatico fondo nero della bellissima cimasa del Cristo morto) ma anche da certo naturalismo tedesco e fiammingo che ebbe modo di conoscere da vicino attraverso Albrecht Dürer a Venezia nel 1505. Già a quell’epoca il venticinquenne Lotto dimostrava una sua personalità perfettamente formata. Come si può evincere dal sanguigno ritratto del vescovo Bernardo de’Rossi realizzato proprio quell’anno e ora esposto a Roma.

Lorenzo Lotto, ritratto di giovane uomo

Insieme alla cultura figurativa, dall’area nordica Lotto aveva appreso alcune istanze di rivolta evangelica.  E anche a causa di un ritratto andato perduto di Martin Lutero con la moglie si tramanda che il pittore avesse imboccato la strada dell’eterodossia. Strada quando mai rischiosa in tempi in cui si cominciavano ad accendere i roghi della Controriforma. Dall’appassionante indagine che Massimo Firpo scrisse qualche anno fa sulla controversa ortodossia di Lotto (Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Laterza) si sa, per esempio, di una Venezia, snodo cruciale dei traffici tra l’ Oriente e l’Europa, ma anche «Porta della Riforma», dove fu stampata  la prima traduzione italiana del Corano ma anche la  Bibbia in volgare illustrata da Lotto, insieme a  testi in odore di eresia, opere criptoriformate e libri eretici. E nel tollerante clima politico lagunare, oasi momentanea in un’Europa di grandi sconvolgimenti politici e martoriata dalla peste, sostiene Firpo, Lorenzo Lotto si lasciò affascinare da istanze dissidenti rispetto alla dottrina dal papato romano, con il quale aveva avuto un breve contatto nel 1509 quando era stato chiamato da Giulio II per affrescare le Stanze. Dalla corte papale, come noto, Lotto quasi scappò e da allora per lunghi anni, spinto da ragioni economiche  ma anche, chissà, forse incalzato dalla montante Controriforma, peregrinò per l’area lombardo veneta e nelle Marche. E se la tesi di Firpo ora trova ulteriore conferma nella serrata indagine storiografica compiuta da Diarmaid MacCulluch nel poderoso volume Riforma da poco uscito per Carocci (uno studio di oltre mille pagine  in cui lo storico inglese, tra l’altro, ricostruisce tutta la mappa delle amicizie veneziane di Juan de Valdes) più cauto sulla vexata quaestio della devianza lottesca è invece il curatore della mostra alle Scuderie del Quirinale : «Lotto fu un uomo dall’animo profondamente religioso – dice – mantenne sempre uno stretto rapporto con i domenicani, che volevano una Chiesa vicina ai ceti più poveri. Anche per questo – conclude Villa- la sua pittura anticipò alcuni temi della Controriforma»

da left-avvenimenti  25 febbraio 2011

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L’inquieto Rinascimento di Lucas Cranach

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 11, 2010

Per la prima volta in Italia, quarantacinque opere di Lucas Cranach il Vecchio. In una ampia mostra nella Galleria Borghese di Roma

di Simona Maggiorelli

Lucas Cranach Venus

La figura enigmatica, oniricamente allungata, di una Venere nuda ma ornata di gioielli e cappello, si staglia sullo sfondo scuro della Venere e Amore che reca il favo di miele del pittore Lucas Cranach il Vecchio (1473-1553).

Diafana e apparentemente fragile, questa bionda dea tedesca guarda negli occhi lo spettatore, con morbida seduzione. Una resa così raffinata del nudo femminile (e così dirompente nei contenuti) non c’era mai stata nella dura pittura tedesca che più di altre tradizioni europee ha vissuto una lunga  stagione gotica. Colto, amante della cultura classica e dell’arte italiana (che aveva conosciuto grazie alla collezione di Margherita d’Austria) Cranach il Vecchio era l’artista che nella Germania del primo Cinquecento apriva con più coraggio alla nuova stagione umanista.

Lucas Cranach, fanciulla

Ma quando, su invito di Federico il Saggio, nel 1504 lasciò Vienna per trasferirsi a Wittenberg, l’artista divenne anche uno dei maggiori protagonisti della svolta riformista. Amico di Lutero, discusse con lui la stesura delle famosi Tesi. E non solo.

Con i pittori della sua grande bottega a Wittenberg lavorò per mettere a punto una nuova iconografia cristiana conforme ai principi riformisti. E alla nuova visione luterana della società e della donna; non più icona astratta ma presenza concreta, di madre e di moglie. «Ma la Chiesa protestante non era troppo interessata all’arte e Cranach dovette assicurarsi anche un’altra committenza, ricca e altolocata», ricostruisce Bernard Aikema, curatore insieme con Anna Coliva della mostra “LucasCranach. L’altro Rinascimento” che, nelle sale della galleria Borghese apre il 15 ottobre  accompagnata da un catalogo edito da Federico Motta.

In questo ambito di una committenza privata e laica nacque appunto la Venere intorno a cui i due studiosi hanno costruito questa splendida mostra che per la prima volta porta in Italia quarantacinque opere di Cranach il Vecchio. Un autore, nel Belpaese, sempre aduggiato dal più italianeggiante Albrecht Dürer e che questa esposizione romana permette di conoscere più da vicino. In un inedito dialogo con pittori di area lombardo-veneta come Lorenzo Lotto, che a Cranach appare legato da una fitta rete di risonanze. Del resto anche il pittore veneto risentì dell’influenza delle idee riformiste rischiando l’eterodossia in tele che ci mostrano una madonna popolana e impaurita.

da left-avvenimenti del 15 ottobre

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La modernità di Dürer

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 2, 2007

di Simona Maggiorelli

Durer, Festa del Rosario

Durer, Festa del Rosario

Quando arrivò in Italia, per la prima volta nel 1494 e poi tra il 1505 e il 1507, la conoscenza dal vivo della pittura del Rinascimento fu per Albrecht Dürer una specie di rivelazione. Che lasciò nella sua poetica una traccia profonda. Aprendola allo sfumato leonardesco, all’esperienza del colorismo veneto, all’armonia di forme e proporzioni classiche.

E quando avvenne questa trasformazione Dürer non era certo un artista alle prime armi. Era già affermato in terra di Germania e olandese. Colto, con una buona formazione, benché nato in unafamiglia modesta. Amico di umanisti come Erasmo da Rotterdam e di un intellettuale epicureo come Pirckheimer, che lo aveva indirizzato a Padova. Ma anche attento a quanto accadeva sullatribolata scena politica di quegli anni che si andava aprendo alle nuove idee riformiste.

Senza contare che Dürer, a differenza di molti suoi colleghi tedeschi, aveva già piena consapevolezza del proprio status di artista (e non più di artigiano) basato sulla padronanza delle discipline liberali, a ampio raggio, dalla matematica alla filosofia. Ma quando giunse a Venezia, si dovette rendere conto che al di sotto delle Alpi era ancora considerato solo poco più che un eccellente incisore.

Fu solo dopo l’incontro con Giovanni Bellini, che difese pubblicamente il suo lavoro per il Fondaco dei Tedeschi, che Dürer cominciò a godere anche qui della fama che meritava. Quella pala dipinta nel 1506, del resto, era delle più sorprendenti: La festa del Rosario riusciva a fondere l’ordine, l’armonia, la dilatazione delle forme del Rinascimento maturo con l’analisi minuziosa e realistica delle figure di matrice nordica. Lo sfolgorante luccichìo dei gioielli del Quattrocento fiammingo con il luminoso sfumato di Leonardo e Giorgione. Un’opera chiave nella carriera artistica di Dürer, che portò con sé il superamento della diffidenza dei colleghi veneziani.

Era, in effetti, una creazione inedita che nasceva dalla fusione originale di due diverse e lontane culture pittoriche, quella rinascimentale e quella “gotica”. E non era che il primo passo. Poi avrebbero preso a circolare sempre più ampiamente a avere sempre più fortuna i suoi penetranti ritratti, le sue visionarie incisioni, ma anche i suoi straordinari schizzi d’occasione. Dürer fu il primo artista a usare l’acquerello per registrare dal vivo i paesaggi che lo colpivano nel corso del suo lungo viaggio.Come il celebre Paesaggio alpino del 1495 realizzato passando le Alpi.

Il maestro di Norimberga si divertiva a ricopiare dal vivo, con fresco realismo, animali e piante, ma erano soprattutto le persone – donne, osti, pittori, intellettuali, gente di ogni rango – a suscitare la sua curiosità. Una curiosità vivace, appassionata, di cui resta testimonianza anche nel suo diario di viaggio in cui, accanto a note di spesa, regali, bevute con amici, Dürer annotava impressioni, giudizifulminanti su cose e persone. Lasciando che la superficie delle contabilità quotidiane lasciasse spazio all’improvviso a descrizioni intense e poetiche oppure a stigmatizzanti caricature. Una passione per l’umano che Dürer trasformava di volta in volta in scrittura o in immagini pittoriche.

Così l’immediatezza, lo scavo psicologico dei ritratti a olio, a penna, a carboncino, a gesso nero, a punta d’argento finiva poi per contaminare e animare anche le pitture sacre, dando alla raffigurazione di Madonne e Santi un movimento interiore del tutto nuovo e inaspettato. Un tratto che non mancò di colpire gli artisti italiani che in quegli anni si andavano formando e che avevano conosciuto l’opera di Dürer dalle stampe e ora avevano la possibilità di una conoscenza diretta dei suoi quadri. A cominciare da Lorenzo Lotto che dal pittore tedesco mutuò l’indagine penetrante della realtà, la spietata descrizione di ogni suo aspetto, il segno nitido, incisivo, ma anche una visione profondamente antiretorica dei soggetti sacri. Ma saranno soprattutto i primi manieristi, Pontormo e Rosso Fiorentino, a fare tesoro nelle loro geniali e spiazzanti visioni dell’inquieto influsso di Dürer, recuperando e sviluppando il ritmo nervoso della sua pittura e quel segreto e coinvolgente tormento che trapelava da certe sue figurazioni. Ed è proprio l’indagine di questa osmosi, di questa preziosa disseminazione di elementi nordici nella pittura italiana tra Cinque e Seicento uno degli spunti più interessanti della mostra Dürer e l’Italia che s’inaugura il 10 marzo 2007 alle Scuderie del Quirinale a Roma e in cui un centinaio di opere del maestro di Norimberga sono messe a confronto con opere di artisti italiani. Da Leonardo fino agli inizi del Novecento «cercando di mettere in luce – racconta la curatrice Kristina Herrmann Fiore – nei quadri di pittori come Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Alberto Giacometti, Fabrizio Clerici e altri, le tracce di una riscoperta dell’artista tedesco». Un’indagine che nelle sale delle Scuderie prosegue poi fino ad arrivare ai giorni nostri. «Sembra che oggi una sorta di spirito del tempo abbia risvegliato l’interesse generale per questo artista fra i più creativi della cultura figurativa europea del Rinascimento», sottolinea la curatrice. Un rinnovato interesse che emerge chiaramente dalle numerose mostre dedicate a Dürer che si sono succedute negli ultimi anni: da quella di Vienna del 2003 a quella praghese dell’anno scorso incentrata, appunto, sulla Festa del Rosario. Un panorama europeo in cui la mostra romana si inserisce fornendo un tassello in più di conoscenza sulla onda lunga di influenza di Dürer sulla pittura italiana. «A rendere la sua lezione di particolarmente in sintonia con la sensibilità moderna non è solo la sua fedeltà al vero, l’acutezza di osservazione e la capacità di invenzione sconfinata. Ma – conclude Herrmann Fiore – anche il fatto che Dürer non mascherava dietro facciate idealizzanti le angosce esistenziali della sua epoca, minacciata da guerre politiche sociali e di religione»

Da Left-Avvenimenti 2 marzo 2007

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Dürer, i colori dell’Italia

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 2, 2007

Alle Scuderie del Quirinale,una grande mostra sull’artista tedesco. Oli, acquerelli, disegni e stampe originali: un ampio percorso espositivo indaga il rapporto del pittore con il mondo artistico italiano

di Simona Maggiorelli

albrecht_durer_008_autoritratto_a_28_anni_1500Prende le mosse da un affascinante confronto con la pittura italiana l’antologica di Albrecht Dürer e l’Italia (catalogo Electa) che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale, a Roma. Indagando la lunga influenza del pittore tedesco sul Rinascimento (specie su quello delle regioni del nord Italia) e poi sulla prima Maniera di Pontormo e Rosso, che dal maestro di Norimberga mutuarono il tratto nervoso e visionario. Ma non solo. La curatrice Kristina Hermann Fiore si è inserita nel filone della riscoperta di Dürer che da alcuni anni va crescendo in Europa (con ampie e importanti rassegne come quella di Vienna e di Praga), aggiungendo allo studio dell’opera del maestro tedesco tasselli importanti che riguardano l’influenza di Dürer sul Novecento italiano, ma anche un intrigante “dialogo a due” fra Dürer e Raffaello. Un capitolo in cui Hermann Fiore si muove con particolare perizia da curatrice della Galleria Borghese e attenta studiosa del pittore urbinate.
Si scopre così che il dialogo fra Dürer e Raffaello ebbe anche fruttuosi momenti privati, di scambio di omaggi e di opere. Raffaello, in particolare, diede a Dürer il disegno preparatorio di un gruppo di figure dell’affresco della Battaglia di Ostia, mentre il pittore tedesco gli fece avere una sua testa dipinta a guazzo. «Dürer stupì Raffaello per la sua arte di dipingere alla stregua di acquerello sfruttando il fondo bianco della tela, quasi un velo per le parti chiare, con un miracoloso effetto della visibilità dai due lati della piccola tela», ricostruisce la curatrice. Le tracce di quest’incontro con la pittura di Dürer si ritroveranno poi anche nell’autoritratto frontale di Raffaello che si ritraeva secondo i modi della “imitatio Christi”, particolare cifra che ritorna spesso nella pittura del maestro di Norimberga, basta pensare al celebre autoritratto. Il quale dal contatto con la pittura italiana, e con quella di Raffaello in modo particolare, derivò un sensibile ammorbimento delle forme, maggiore armonia e attenzione alle proporzioni classiche. Ma per il pittore tedesco – che scese in Italia in due occasioni, la prima volta nel 1494 e poi tra il 1505 e il 1507 – il contatto con gli artisti “italiani” non fu sempre così facile.

Fra invidia e ignoranza, dai colleghi a Venezia e nelle città d’arte della Penisola era considerato solo un buon incisore (le sue incisioni e stampe circolavano già ampiamente in Italia). Senza contare che nella laboriosa Norimberga i pittori – diversamente da Roma dove Raffaello era già “il divin pittore” – erano ancora considerati alla stregua di artigiani. Ma il viaggio in Italia cambiò molte cose per Dürer anche da questo punto di vista. Oltre all’acquisizione dell sfumato leonardesco, del colorismo veneto e delle forme e proporzioni classiche, in Italia Dürer – che pure era un uomo colto, amico di Erasmo – maturò anche un diverso e più consapevole status di artista.
La mostra che si apre oggi a Roma racconta anche questo aspetto, ricostruendo tutta la vicenda del pittore tedesco in Italia, che ebbe un momento di svolta nel 1506, quando a Venezia dipinse La festa del Rosario per il Fondaco dei Tedeschi.
Un’opera che riusciva a fondere l’ordine, l’armonia, la dilatazione delle forme del Rinascimento maturo con l’analisi minuziosa e realistica delle figure di matrice nordica.
Lo sfolgorante luccichìo dei gioielli del Quattrocento fiammingo con il luminoso sfumato di Leonardo e Giorgione. Un risultato che nasceva dalla fusione originale di due diverse e lontane culture pittoriche, quella rinascimentale e quella “gotica”. Fu lo stesso Giovanni Bellini a tesserne le lodi. E da quel momento per Dürer fioccarono ammirazione e sempre nuovi committenti. Di ogni genere e rango, perché Dürer aveva portato con sé anche molte stampe e per tutto il viaggio fece una gran messe di schizzi, disegni e acquerelli.
Opere che ancora oggi risultano di una freschezza straordinaria. Dürer, in realtà, fu il primo artista a usare l’acquerello per registrare dal vivo i paesaggi che lo colpivano. Si divertiva a ricopiare dal vivo, con fresco realismo, animali e piante, ma erano soprattutto le persone a suscitare la sua curiosità. Una curiosità vivace, appassionata, di cui resta testimonianza anche nel suo diario di viaggio in cui, accanto a note di spesa, regali, bevute con amici, Dürer annotava impressioni, giudizi fulminanti su cose e persone. Lasciando che la superficie delle contabilità quotidiane facesse spazio all’improvviso a descrizioni intense e poetiche oppure a stigmatizzanti caricature: una passione per l’umano che Dürer trasformava di volta in volta in scrittura o in immagini pittoriche.

Così l’immediatezza, lo scavo psicologico dei ritratti a olio, a penna, a carboncino, a gesso nero, a punta d’argento finiva poi per contaminare e animare anche le pitture sacre, dando alla raffigurazione di Madonne e Santi un movimento interiore del tutto nuovo e inaspettato. Come si può vedere, da oggi e fino al 9 giugno, nell’ampio percorso della mostra Albrecht Dürer e l’Italia che nelle sale delle Scuderie del Quirinale squaderna venti oli, undici acquerelli, trentatré disegni e cinquantotto stampe originali, intercalandoli con opere di artisti italiani, da Raffaello a Caravaggio.

da Europa,  2 marzo 2007

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