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Istanbul, la femmina

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 15, 2011

A colloquio con la filologa Silvia Ronchey, in questi giorni al lavoro a una grande mostra su Bisanzio a Roma, mentre sono usciti di recente due  suoi  nuovi libri, che aiutano a capire di più della storia del Medioriente a noi più vicino.

di Simona Maggiorelli

Istanbul, Mimar di Sinan

Mentre sta lavorando alacremente a una grande mostra storica su Bisanzio che per la prima volta esporrà a Roma i tesori bizantini della Chiesa cattolica, accanto a quelli della Chiesa ortodossa e quelli del Museo di Istanbul, Silvia Ronchey non trascura il lavoro di studiosa e di divulgatrice della storia del Vicino Oriente. Così dopo l’antologia pubblicata a settembre con Tommaso Braccini Il romanzo di Castantinopoli (Einaudi) che riscopre testi di scrittori, viaggiatori, filosofi e artisti sulle rotte della grande città turca, a fine 2010 è uscita anche una sua nuova biografia, Ipazia, la vera storia (Rizzoli), dedicata alla filosofa e scienziata alessandrina Ipazia, assassinata nel IV secolo d.C. da fondamentalisti cristiani. Due lavori che ci hanno dato il la per un incontro con  la docente di Filologia classica e civiltà bizantina dell’Università di Siena.

Professoressa Ronchey,nell’ultimo anno la filosofa alessandrina è stata al centro di una vera e propria riscoperta e sono usciti molti libri. Mancava una biografia scientifica?
E’ vero, c’è stato  un affiorare nelle librerie e nei giornali di pubblicazioni su Ipazia ma molte sono riedizioni, sulla scia del successo del film Agorà di Amenábar. Così La Lepre ha ripreso il libro di Petta e La Tartaruga quello di Moneti Codignola. Io stessa avevo scritto su Ipazia in un volume miscellaneo uscito, ormai diciasette anni fa, per Laterza. E da anni mi riproponevo di tornarci. Il fatto che siano uscite molte rielaborazioni letterarie, attualizzazioni e ricostruzioni libere mi ha dato il la per tornare alla storia con metodo scientifico.

In un convegno su Ipazia organizzato dalla Treccani lei aveva posto l’accento sulla complessità del contesto in cui  fu uccisa. Che cosa deve essere messo a fuoco ancora nell’analisi di quelle vicende?
La vicenda di Ipazia si svolse in un quadro non riducibile solol a uno scontro ideologico fra pagani e cristiani. Da Diderot in poi ha preso campo  la posizione  illuminista che legge l’assassinio di Ipazia come l’uccisione del libero pensiero da parte di una Chiesa. Arrivando anche a vedere in Ipazia una proto-illuminista. Dal punto di vista storico, però, non possiamo trascurare che Ipazia era un’autorevolissima caposcuola di una confraternita platonica, dunque una teurga. Ma ci sono anche tanti altri punti da chiarire senza facili semplificazioni. Anche per questo ho pensato di aggiungere al mio libro un apparato di “documentazione ragionata”. Dove c’è quello che un lettore può voler sapere a partire da quanto racconto nella storia principale. Sono documenti che aiutano a capire la complessità di dibattiti come, per esempio, quello sul monofisismo e che sono sullo sfondo della vicenda di Ipazia.

BRAUN GEORG, Alessandria d'Egitto (1572)

La quantità di interventi su Ipazia  che si possono leggere anche in rete testimoniano un interesse vivo e diffuso.Perché secondo lei si accende proprio oggi?
Ci troviamo in un momento storico in cui la laicità ritorna di attualità e ha bisogno di attingere a qualche precedente. Abbiamo attraversato periodi di grandi fedi secolari, di grandi fedi e ideologie pervasive che a un certo punto sono venute a  crollare. Al contempo abbiamo assistito a un rigurgito teocon, alla salita al soglio pontificio dell’ala più conservatrice della Chiesa cattolica. C’è da notare che l’ayatollah Khomeini e Woytila sono ascesi al vertice in contemporanea. Poi il pontificato di Ratzinger ha portato un alteriore irrigidimento fondamentalista. Insomma appare chiaro quanto sia urgente un dibattito sulla laicità. E spero che il mio libro possa contribuirvi. Al centro non a caso c’è il tema del rapporto fra Stato e Chiesa. Nella Alessandria del IV secolo c’era un’influenza politica diretta sullo Stato da parte di Cirillo che fu fortemente contrastata nel mondo bizantino. Un’infiltrazione che  divenne una bandiera dell’infiltrazione papista cattolica nello Stato. Questo ci spiega perché la vicenda di Ipazia sia stata così censurata in Occidente.

Dervisci turchi

Alessandria d’Egitto era una città multietnica e multiculturale. E ancor più lo è stata Costantinopoli lungo i secoli. Da qui il fascino di Istanbul?
Qui ci riallacciamo a quanto dicevo prima: Costantinopoli fu lo specchio della civiltà di cui era capitale. Per più di undici secoli, sommando quelli bizantini a quelli ottomani. Gli ottomani che conquistarono Costantinopoli nel 1453 si posero come continuatori di quella civiltà statale che era stata dell’impero multietnico bizantino. Una convivenza, non solo di etnie ma di culti era alla base dell’esistenza stessa di questa superpotenza del Medioevo che lo sarà anche nell’Età moderna. La forza bizantina, e poi ottomana, stava nella capacità di mescolare, di amalgamare tradizioni e culture o, nel caso, di tollerarle. Quello ottomano era uno stato laico con una distinzione netta fra potere spirituale e temporale. Già al momento della conquista, Maometto II non impose l’islam come religione di Stato ma nominò un patriarca ortodosso, cosa che non fecero i crociati che, invece, presa Costantinopoli, sostituirono al patriarca bizantino ortodosso un loro patriarca latino. Il fascino di questa città nasce dal suo incarnare un ideale di fusione e di tolleranza, come capacità inclusiva. Per questo il passato bizantino ha molto da dare a un’epoca come la nostra di scontro di civiltà. Per undici secoli questo scontro è stato evitato proprio lì, sull’istmo. Il volto di Istanbul appare, ieri come oggi, molto stratifico. è la città che più di ogni altra al mondo mantiene i simboli delle civiltà sconfitte. E proprio questo è il filo di Arianna che abbiamo seguito con Baccini nel preparare questa antologia. L’architettura e la pittura a Istanbul condensano questa sua realtà storica.

Istanbul, Suleimaniye Mosque

Curiosamente molti scrittori e viaggiatori parlavano di Costantinopoli al femminile. Perché?
Istanbul è la città femminile per eccellenza, fin dall’età pagana. Già prima di Teodosio era consacrata ad Artemide. La falce lunare che nei secoli ha continuato a rappresentare la città, in origine era il simbolo di Artemide. Poi anche la Madonna così è diventata una divinità femminile e lunare. Questo simbolo della falce lunare campeggia anche nella bandiera ottomana. C’è una continuità femminile che ritorna anche nelle titolazioni delle chiese, a cominciare da Santa Sofia. Non solo. La “femminilità” di questa città fu captata anche dai conquistatori. In alcune cronache incluse nel Romanzo di Costantinopoli si parla quasi in termini “pornografici” della penetrazione in città.

Nella prefazione a Figure bizantine di Charles Diehl lei ricorda che opere letterarie e teatrali come Teodora contribuirono a creare il mito di un Oriente seducente ma pericoloso.
Cocteau definiva Costantinopoli «la decrepita mano ingioiellata che si protende verso l’Europa». Lo stereotipo della decadenza cominciò già a definire Bisanzio e continuò nella definizione di Costantinopoli.  Vista come minaccia ipnotica seduttiva, quasi vampiresca. Ma va anche detto che molti scrittori, soprattutto nell’Ottocento, che parlavano di questa malìa negativa, scrissero le loro cose migliori proprio a Costantinopoli o grazie a un’ispirazione che veniva loro da lì. Vale per Flaubert  per Potocki, per Byron e molti altri. Per cui sì, lo stereotipo della seduttrice pericolosa è la creazione di uno stereotipo orientale, di una Medea, di una sirena, a lungo operante, ma che ripaga gli scrittori, trasformandosi a posteriori in musa.

Proprio parlando di sirene è intervenuta di recente su Radio 3, ne nascerà un libro?
Il mio intervento si basava su un libro di Luigi Spina, Il mito delle sirene. Uno studio fantastico che ripercorre anche l’oltre vita simbolico e letterario della sirena. A questo non c’è da aggiungere altro. Mi interessava il fatto che questo mito ci lascia intendere che già i greci avevano una visione alterata dell’immagine femminile. La paura della donna c’era già in Omero. Da sempre l’immagine femminile si sdoppia in un’immagine materna (la Madonna) e un’immagine mortifera, che in realtà è l’altra faccia della madre. In una battuta, ecco perché molto spesso gli uomini hanno una moglie e un’amante. C’è una scissione nella ricerca, nell’attrazione per l’immagine femminile. E questo è un aspetto che obiettivamente manca nella donna. I miti antichi ci danno conto di questa inquietudine per quel volto, la faccia scura della Madonna,  simbolo lunare. La donna sarebbe questo essere che ti fa perdere i confini dell’io, trascinandoti in una naturalità, in un mondo di puro istinto, di pura passione. Un mondo di smarrimento, di ebbrezza. Le figure del mito non a caso sono tutte legate a elementi dionisiaci, perfino alle droghe, il nepente di Elena, il nome stesso di Medea si lega alla sua capacità di preparare droghe. Similmente per Medusa. Oggi i greci per dire sirena usano Gorgone. Quello delle sirene è un canto, legato a una dimensione dionisiaca che fa uscire l’uomo dalla coscienza, questa è la sua grande forza. Da qui la paura della passione che scinde l’animo del maschio, che sia Odisseo o che sia quello di oggi.

IN MOSTRA Istanbul nello sguardo di Gabriele Basilico Come si fa a cogliere la forma di una città? Quella non solo esteriore ma che rimanda a un’immagine più nascosta? Di certo ci vuole lo sguardo di un artista. Specie quando si tratta di una città particolare come Istanbul, megalopoli che sia sul versante asiatico che su quello occidentale sembra percorsa da morbide onde di strade e palazzi, a perdita d’occhio, senza soluzione di continuità fino al mare. Uno scintillante tappeto di luci negli scatti notturni del grande fotografo Gabriele Basilico. Catturando  il profilo della città dalle colline al Bosforo.  è una delle immagini guida  della mostra Gabriele Basilico Istanbul 05.010, che si è tenuta alla Fondazione Stelline di Milano e raccantata in volume edito da Corraini. Una mostra in cui Basilico torna a rappresentare la città amata, cogliendone la vitalità, il flusso continuo di persone che la percorre a ogni ora ma anche gli aspetti più malinconici, come le splendide ville di legno sul mare della borghesia turca del secolo scorso e oggi perlopiù abbandonate.  «Pur rimanendo fedele al proprio sguardo esatto, il grande fotografo milanese – annota Luca Doninelli nel catalogo – non rinuncia al senso del mistero. Come il narratore di talento – prosegue lo scrittore – sa cavare il fascino delle sue storie dalla scrupolosa messa in fila degli eventi, senza nulla  concedere alle facili evocazioni d’atmosfera, lasciando che la complessità delle cose si trasformi in esattezza di sguardo».
L’Oriente è un’invenzione dell’Occidente», scriveva Edward W. Said in un saggio che è già un classico: Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, uscito in Italia per Feltrinelli. Un’invenzione esotica, abbagliante, che però nasconde uno sguardo colonialista e maschilista. «Non possono rappresentare se stessi devono essere rappresentati», del resto, denunciava già Marx. E in questa trappola di un orientalismo seducente ma ambiguo sono caduti anche letterati di rango. A cominciare da Gustave Flaubert, ideatore di uno stereotipo letterario della donna orientale destinato ad avere lungo successo: la cortigiana egizia di Flaubert non parla mai di sé, non esprime le proprie emozioni, la propria sensibilità o la propria storia. «è lo scrittore francese a farlo per lei», faceva notare Said. Parallelamente, come ora ricostruisce Emmanuelle Gaillard nel volume L’orientalismo e le arti (Electa), in pittura e in architettura si sviluppava nell’Europa dell’Ottocento uno stile di gran moda. Sul piano alto della ricerca, intanto, grandi artisti come Delacroix e Matisse hanno contribuito ad allargare il nostro sguardo oltre un asfittico eurocentrismo, regalandoci immagini sontuose di Babilonia, di Algeri, di Casablanca. Ma al tempo stesso con le loro splendide odalische hanno contribuito a fissare nel nostro immaginario fantasie di un Vicino Oriente femminile ma del tutto inerte. In questo suo nuovo lavoro, Gaillard analizza queste rappresentazioni riavvolgendo il nastro della storia fino al XVII secolo, quando comparvero i primi vagheggiamenti di un Oriente, terra lontana, luogo opulento, mitico, d’evasione.                          s.m.
dal settimanale left-avvenimenti

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Lettera d’amore a Istanbul

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 9, 2010

Orhan Pamuk presenta il  libro fotografico di un compagno di infannzia e sodale nella ricerca artisticaGli scatti  di Güler offrono la possibilità di vedere «accanto alla modernità, la semplicità e l’ingenuità». E scrive l’autore del romanzo Il mio nome  è rosso: «non è tristezza»

di Simona Maggiorelli

Istanbul

E’ una Istanbul in poetico  bianco e nero, di palazzi antichi, minareti e rigattarie, di nebbia mista a odore di spezie e caffè. Una città dal fascino retrò con baci rubati per le strade e donne velate in luoghi di preghiera. Una capitale in cui, negli anni Cinquanta, la modernità arrivava a passo lento ma inarrestabile fra i resti scintillanti dell’impero ottomano e la voce potente del muezzin. Il fotografo Ara Güler nel libro Istanbul (Mondadori) ha composto una lettera d’amore per immagini dedicata alla sua città natale. Riportando anche lo scrittore e Premio Nobel Orhan Pamuk a rivivere le atmosfere di un’infanzia trascorsa a giocare sul selciato di antiche chiese bizantine e al porto, fra i pescatori, a guardare le navi partire.

«Seduti in un caffè sulle rive del Bosforo non vediamo più i pescatori stendere le reti sul pontile o sulla banchina, Ma d’inverno e in autunno capita ancora che una miriade di pesci affluisca nelle acque del Bosforo e, come nelle fotografie di Ara Güler – annota Pamuk nel libro -l’ingresso del Bosforo o del Corno d’Oro si riempiano improvvisamente di centinaia di migliaia di barche». Un paesaggio che oggi lo scrittore turco osserva da lontano, dalla finestra del suo appartamento di Cihangir dove scrive i suoi romanzi. E queste foto di Güler velate di malinconia, mostrando contasti e inaspettate coesistenze fra vecchio e nuovo, suonano come il perfetto alter ego della vista sulla capitale che Pamuk ha affrescato due anni fa nel libro Istanbul (Einaudi).

Forse non è un caso che entrambi, da giovani, volessero fare i pittori. Gli scatti di Güler offrono la possibilità d vedere «accanto alla modernità, la semplicità e l’ingenuità e – fa giustamente notare Pamuk- non è tristezza». Per quanto poveri siano i carretti e spiazzanti gli asini dei venditori di pane in mezzo a rutilante movimento della capitale, o per quanto sfuggente sia lo sguardo delle donne impaurite e sorprese dall’obiettivo, la sensazione che le immagini di Güler comunicano a prima vista è quella di una contagiosa vitalità, oseremmo quasi dire di allegria.
Perfino nelle fabbriche abbandonate e nelle case fatiscenti l’atmosfera non è mai oppressiva o del tutto disperata. Quasi che l’umanità di chi le abita colorasse i luoghi. E di fronte a questi toccanti quadri hanno il sapore di somma sprezzatura le parole di Ara Güler quando afferma che «la fotografia non è arte» e che le sue immagini hanno un valore puramente documentaristico.

I CANTASTORIE DI  STAMBOUL

Ho voluto offrire in quest’antologia, una rosa di storie che con le mie stesse mani ho raccolto nel variopinto giardino del folklore turco» scriveva lo studioso ungherese Ignácz Kúnos dando alle stampe le fiabe raccolte nel corso dei suoi viaggi attraverso l’Anatolia e ora riproposte da Donzelli in un ricco volume illustrato.
«Non mi sono servito di libri – spiegava Kúnos – dal momento che la Turchia non è terra di lettere, e non esiste nessun libro del genere; ma, quale attento ascoltatore dei cantastorie, mi sono messo a trascriverli. Sono le storie che si possono udire ogni giorno, nei pressi di Stamboul, nelle casette sgangherate che formano questo quartiere di Costantinopoli essenzialmente turco, e che le donne del luogo, intorno al focolare, raccontano ai bambini o alle amiche». Le fiabe turche, proseguiva Kúnos «sono come il cristallo, che riverbera i raggi del sole in una miriade di fulgidi colori; limpide come il cielo sereno; trasparenti come la rugiada su un bocciolo di rosa. In breve, le fiabe turche non sono Le Mille e una notte. Sono, piuttosto, I Mille e un giorno».
Lo studioso di folklore decise di consegnare alla scrittura il patrimonio favolistico popolare di una cruciale terra di confine tra Oriente e Occidente. E perché la circolazione di queste fiabe fosse la più ampia possibile, scelse di trascriverle e pubblicarle in inglese. Prima di oggi quelle storie di Padiscià, sultane, visir, animali parlanti, draghi, spiritelli buoni e dei crudeli non avevano mai raggiunto direttamente il pubblico italiano. La carica immaginifica di queste Fiabe turche edite da Donzelli trova forza anche nella grafica risposta secondo i disegni originali concepiti da Pogány e qui fedelmente riprodotti.

QUELLA BISANZIO CHE PER I CATTOLICI ERA IL MALE
Per secoli gli studi medievali occidentali Bisanzio era stata considerata più che altro come una coda tardiva e decadente dell’antichità greco-romana. E quando uno studioso russo come Georg Ostrogorsky cominciò a dimostrare con i suoi libri quanta importanza avesse avuto nello sviluppo della civiltà, in Europa di metà ’900 ancora c’era chi sgranava gli occhi. «Che quell’impero millenario, oggetto di pregiudizi tenaci e secolari rancori confessionali da parte della Chiesa di Roma, non meritasse il disdegno da cui era tradizionalmente circondato fu per molti una vera rivelazione» annota Mario Gallina nell’introduzione al libro di Ivan Djuric’ Il crepuscolo di Bisanzio (Donzelli, 412 pagine, 19,50 euro). Cresciuto intellettualmente nella scuola di studi bizantini che Ostrogorsky fondò a Belgrado dopo essere stato cacciato dalla Germania nazista, Djuric’ mette a profitto la lezione del maestro, dimostrando l’infondatezza scientifica di quei pregiudizi che avevano sempre dipinto Bisanzio come il regno del “Male”, incarnato in un esasperato politicismo e nella decadenza dello spirito pubblico. Al centro di questo studio che si legge come un romanzo in primis gli eventi storici del XIV quando Bisanzio «non era più padrona di sé e fu costretta a fare i conti con il suo declino».        s.m.

Lo “SCONTRO” DI CIVILTA^ SECONDO WU MING
Dieci  anni fa esordirono firmandosi Luther Blissett. La vicenda si svolgeva nella Istanbul del 1555 e in Q si ripercorreva a ritroso la storia d’Europa e le guerre interne alla cristianità. Oggi, quello stesso collettivo di scrittori si firma Wu Ming e ritorna a parlare delle guerre ai confini dell’Impero ottomano. Questa volta in Altai (Einaudi, 411 pagine, 19,50 euro) le gesta narrate da Wu Ming muovono da Venezia.
Siamo nel 1569 e un boato scuote la notte.
È l’Arsenale che va a fuoco, subito si apre la caccia al colpevole. Un agente della Serenissima fugge verso oriente, smarrito, «l’anima rigirata come un paio di brache». Approderà a Costantinopoli. Qui conosce Giuseppe Nasi, nemico e spauracchio d’Europa, potente giudeo che dal Bosforo lancia una sfida al mondo e a due millenni di oppressione. Intanto, sempre ai confini dell’Impero, un altro uomo si mette in viaggio, per l’ultimo appuntamento con la Storia. Gli echi di rivolte, intrighi, scontri di civiltà incalzano. Nicosia, Famagosta, Lepanto: uomini e navi corrono verso lo scontro finale tra islam e cristianesimo. Tra Oriente e Occidente. Mondi divisi e diversi in tutto. Anche negli effluvi. «Ogni città ha un odore di fondo: Venezia è muffa e salmastro, Salonicco sa di piscio, Costantinopoli di terra bagnata e fatica e sogno».

IL REGNO DEI SIGNORI DEGLI ORIZZONTI
A Est, dal Mar Rosso lungo il Nilo sino all’Algeria; a Ovest, dal Mar Caspio fino alle porte di Vienna lungo il Danubio. Quella degli Ottomani è stata una storia di espansione e declino durata 600 anni. Comincia al termine del XIII secolo ai piedi delle montagne dell’Anatolia, da qui si muove travolgendo il potere bizantino fino ad arrivare alla costruzione di un impero che all’epoca del suo massimo splendore si estendeva, appunto, dal Danubio al Nilo. L’impero era islamico, ma molti dei suoi sudditi non erano musulmani e nessuno cercava di convertirli. Nel saggio storico I signori degli orizzonti (Einaudi, 356 pagine, 32 euro) Jason Goodwin ci accompagna lungo un viaggio che segue ora il ritmo di vita all’interno dell’Impero ora il modo in cui gli Ottomani combattevano o andavano per mare. L’impressione che si prova è di trovarsi davvero nel regno dei «signori degli orizzonti». Non meno intriganti sono i tre libri che hanno come protagonista Yashim, l’eunuco detective che vive nella Istanbul dell’Ottocento. Ne Il ritratto di Bellini, Il serpente di pietra e L’albero dei giannizzeri, tutti pubblicati per Einaudi, attraverso le inchieste del saggio Yashim, Goodwin offre un elegantissimo affresco dell’antica grandezza della capitale imperiale ottomana. La cui storia non può prescindere dai rapporti, anche culturali, con Venezia e Vienna.

dal quotidiano Terra 5 dicembre 2009

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Il codice cifrato della bellezza

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2009

di Simona Maggiorelli
Nella  galassia dell’ arte islamica in cui si intrecciano differenti culture. Lo storico dell’arte Luca Mozzati con il nuovo libro Arte islamica (Mondadori arte) invita a un viaggio nel mondo variegato nato dall’incontro fra i primi conquistatori arabi e la straordinaria eredità mesopotamica, iranica, ma anche bizantina. Un universo complesso che trova espressione nella pittura, nell’architettura, nella calligrafia, nella ceramica, nei tappeti e che a nostri occhi occidentali, troppo spesso, risulta lontano, appiattito, alterato da pregiudizi. Come quello che vorrebbe l’arte islamica rigidamente aniconica  oppure la posizione dell’artista tout court schiacciata da quella del committente religioso, quando in realtà nell’Islam, come scrive Mozzati « non esistono chiesa, sacerdoti o sacramenti».
«Per cominciare – spiega il professore – va detto che nell’arte islamica il concetto di artista, come soggetto creatore, non esiste. Fino al Rinascimento non ci fu nemmeno da noi. Possiamo parlare di esplicita volontà individuale con artisti come Michelangelo. Non prima. Ma il fatto che uno si muova all’interno di canoni formali non pregiudica l’eventuale espressione di contenuti individuali, anche se nell’Islam per noi possono non essere immediatamente leggibili».
Così se la floridissima miniatura e la tradizione di libri illustrati che si sviluppò nell’impero ottomano, in Persia e in parte dell’Asia ci appare in certo modo più familiare, la scintillante cascata di stalattiti (muqarnas) che sovrasta moschee, madrase e tante architetture islamiche ci seduce sul piano emotivo, ma perlopiù ci lascia disarmati dal punto di vista della decodificazione del suo significato di rappresentazione della bellezza dell’infinito pulsare del cosmo. «Importanti apparati decorativi a carattere logico-matematico connotano l’arte islamica – approfondisce Mozzati -. Si presentano come una sorta di linguaggio cifrato. Chi è in grado di comprenderne la bellezza,  vi può cogliere quell’assoluto che nell’Islam pertiene all’ambito del divino». In capolavori come la ceramica a mosaico della moschea del venerdì a Yazsd, per esempio, l’ alternanza ritmica  di bianco turchese blu e marrone e la trama delicata del disegno floreale crescono su un rigoroso disegno geometrico. «Il senso lirico sovrapposto a quello razionale – prosegue Mozzati – sembra ricordare che per cogliere l’invisibile che si cela dietro quanto possiamo vedere bisogna fare appello alle facoltà intellettuali come a quelle emotive».
Professor Mozzati, nell’ Islam il divino è ritenuto non rappresentabile?
Certo non è rappresentabile in forma antropomorfa. Per i musulmani, così come per gli ebrei, sarebbe una bestemmia. Lo rappresentano in letteratura ma mai in pittura tranne rarissime eccezioni. Per trasmettere un messaggio che parli dell’esistenza di dio fanno ricorso a un tipo di bellezza che non è individuale e arbitraria ma astratto-geometrica. Rimanda alla legge che sottostà alla creazione. Come espressione di un’intelligenza divina che secondo la logica islamica permea tutto.
Dio creatore onnipotente  e insieme arbitrio umano. Come possono coesistere?
E una delle aporie dell’Islam. Nel Corano c’è l’assoluta necessità di obbedire a Dio, quanto la possibilità di agire secondo ciò che si sente. La lettura fondamentalista porta alla tragedia. Come è accaduto anche nel Cristianesimo. Le matrici delle due religioni sono simili: l’Islam, del resto, emerge dal  Cristianesimo orientale del  V e VI secolo.
Lei accennava al nesso fra bellezza e geometria.Quali rapporti ci furono fra Islam, Platonismo e poi con il neoplatonismo?
Il rapporto con tutta la filosofia greca antica fu molto forte. Nell’Islam c’è stata enorme attenzione per la scienza greca, almeno fino al XII e XIII secolo. Le più importanti personalità della matematica, della geometria, dell’astronomia nel X e XI secolo, non a caso, sono emerse in ambito islamico. La filosofia neoplatonica ipotizza un mondo superiore, un mondo altro, diverso da quello quotidiano. E in questo ci può essere un nesso. I musulmani credono che tutto accadrà nell’al di là, ma a differenza dei cristiani non hanno il senso drammatico del peccato, della colpa da espiare.
Alle origini del Cristianesimo ci fu una fase di iconoclastia feroce. Si parla di aniconismo, invece, per l’arte islamica. è corretto?
La nostra iconoclastia fu contemporanea al sorgere dell’Islam che molto probabilmente ne fu influenzato. Il rischio dell’idolatria era molto sentito dagli intellettuali costantinopolitani. Ma i monaci erano iconolatri e ritenevano l’icona fondamentale per la trasmissione del messaggio. Nell’Islam, in realtà, la questione dell’aniconismo è più tarda:  nell VIII secolo troviamo i primi hadit che proibiscono le immagini nei luoghi sacri. (O meglio di preghiera dacché nell’Islam non esistono luoghi sacri eccezion fatta per la Mecca). Dipingere figure umane in una moschea sarebbe blasfemia perché ci si metterebbe in concorrenza con il creatore e si farebbe una brutta copia di ciò che lui ha realizzato. Non dimentichiamo che nella spiritualità orientale la figura umana rappresentata è pensata come animata e viva. Quando gli egizi facevano delle statue poi “ infondevano” loro la vita. In tutto l’Oriente si riscontra un  certo pudore nel rappresentare l’essere umano.
Ma a Damasco ci sono scene erotiche nelle case affrescate fatte costruire dai califfi. Come si spiega?
I primi Califfi vi trovarono chiese cristiane piene di affreschi e ne percepirono il significato propagandistico. Così si dettero a costruire splendide architetture per dare un senso identitario ai musulmani. Per le moschee scelgono decorazioni a dimensione astratta e atemporale ma nelle abitazioni profane aristocratiche si riscontra una assoluta libertà di rappresentazione: scene di caccia e di guerra, balli, donne nude, scene erotiche esplicite, ma confinate nella sfera privata. Non si ostentavano perché il popolo non avrebbe accettato questa libertà delle élite.
I califfi rifiutarono la condanna dell’architettura espressa da Maometto?
Gli Abbasidi, in particolare, ristabilirono un culto imperiale di tipo persiano: il califfo aveva un suo spazio a parte nella moschea, camminava sui tappeti, era una sorta di dio in terra, cosa del tutto inusuale nell’Islam che non conosce una gerarchia nel luogo di preghiera.  Di fatto gli arabi erano stati dei barboni nel deserto e dal deserto poi  partì la rivolta contro la corruzione di quelli arrivati al trono.  Nel mondo arabo è successo molte volte. Gli arabi, diversamente dai persiani, venivano dal deserto ed erano abituati a condizioni di vita estreme e avevano un radicalismo di pensiero altrettanto estremo. i Persiani, invece, avevano una cultura diversa, alta, millenaria.
L’influenza araba fu importante anche in Spagna e in Sicilia; come si configurò questo rapporto che oggi appare stranamente rimmegato negli studi e più ancora nella politica che ha parlato di radici cristiane dell’Europa?
Gli artigiani e gli artisti che i Normanni radunarono intorno a sé erano cristiani che avendo lavorato in ambito musulmano si erano islamizzati nello stile. Così in Sicilia troviamo opere dall’iconografia cristiana ma di “spirito” islamico, a sua volta sedimentato sul bizantino cristiano. Così nascono i padiglioni di caccia normanni. La zisa, la cuba, la cubola sono architetture islamico orientali, fatte per regnanti cristiani. Lo stesso vale per le cattedrali di Cefalù e Monreale. In Spagna c’è l’arte mozarabica, per la Sicilia parliamo di arte normanna ma bisognerebbe dire arte islamica in tempo cristiano. Non abbiamo una definizione corretta. Di certo ci fu un’osmosi continua fra le diverse culture.
da left-avvenimenti del 18 dicembre 2009
pondi
Inoltra

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