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Creatività cercasi

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 13, 2013

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Maurizio Cattelan, installazione al MoMa

Il Salone del libro che prende il via il 16 maggio ha un interessante filo rosso: il tema della creatività. E chiama artisti,  critici, filosofi e scienziati a parlare di immaginazione e fantasia. Al Lingotto fino al 20 maggio. Cercando di capire dove va la ricerca internazionale dopo la fine della stagione delle artistar. Mentre è  già cominciato il count down per la Biennale di Venezia che si aprirà il primo giugno

di Simona Maggiorelli

L’ artista è l’essere umano«più libero che esista, perché può compiere un miracolo, può creare l’opera più bella partendo dal nulla. Solo l’idea conta davvero», dice Marina Abramovic sul nuovo numero della rivista Lettera Internazionale. In un’intervista rilasciata a Gioia Costa in cui l’artista rievoca il lungo itinerario che l’ha portata dalle provocazioni “patologiche” della Body Art a una Performing Art che mescola vari linguaggi, dalla videoarte al teatro, per comunicare più profondamente con le persone. «La leggenda è finita, i templi sono diventati musei e l’artista oggi ha il compito fondamentale di comunicare con la propria intuizione. Oggi la vera scommessa è riuscire a cambiare la consapevolezza delle persone. Facendo della creatività un motore di cambiamento delle persone e del mondo», dice l’artista di Belgrado. Con accenti utopistici non troppo lontani da quelli dell’ultimo Michelangelo Pistoletto.

Non a caso parliamo di due artisti, di generazioni differenti, ma entrambi emersi a livello internazionale negli anni Settanta. «Un periodo che fu molto stimolante per l’arte» commenta il critico Luca Beatrice, che il 19 maggio sarà al Salone del Libro per presentare il suo libro Sex (Rizzoli) che indaga la rappresentazione artistica del sesso e per parlare di creatività. Che è il filo rosso della prossima edizione della fiera dell’editoria.

A Torino, dal 16 al 20 maggio,  il tema della creatività vedrà una declinazione scientifica. In particolare, il 18 maggio, con la presentazione della nuova edizione di Bambino donna e trasformazione dell’uomo dello psichiatra Massimo Fagioli ( L’’Asino d’oro edizioni) e il 17 maggio con la lectio magistralis di Ian Tattersall, autore de Signori del Pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni), in cui l’antropologo americano spiega come Homo Sapiens abbia prevalso grazie a una caratteristica specie specifica come la fantasia.
In un articolo intitolato Le artistar sono finite, trionfa la noia, su Il Giornale Luca Beatrice, di recente, ha scritto del tramonto degli “anni zero” dell’arte, imposti dal mercato e caratterizzati, per esempio, dall’ipervalutazione di artisti come Danien Hirst con i suoi squali in formaldeide «oggi andati incontro a un deprezzamento del 300 per cento». In giro si respira un’aria di «ritorno all’ordine», scrive Beatrice, ma la fine dell’euforia dei mercati «ci ha liberati dalla mondanità artefatta dell’ultimo Francesco Vezzoli e dall’arte dei pupazzi, dalle provocazioni gratuite, dalla cronaca elevata a storia a cui ci aveva abituati Maurizio Cattelan».

Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft

Nell’arte italiana oggi «c’è molto vintage – sottolinea il critico -. Non a caso alla Biennale di Venezia che aprirà il primo giugno si vedranno molte opere degli anni Settanta riportando le lancette dell’orologio su un tempo molto vitale per la nostra storia dell’arte. Senza contare che molti autori di allora sono ancora qui per raccontare quel periodo». Il lato positivo di questa «retromania è che l’arte oggi ha finito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mercato», dice a left Luca Beatrice. Anche se nel mainstream proposto dalle gallerie e dai templi internazionali del contemporaneo, dalla Tate al MoMa, continuano a dominare artisti come Vanessa Beecroft con le sue raggelate rappresentazioni di donne, modelle, bambole meccaniche, che inneggiano a un’arte che non cerca più nemmeno lo choc del sangue e delle ferite della Body Art, ma propone l’anestesia, celebrando il vuoto. «Beecroft ben rappresenta l’era inizio anni Duemila di un tardo capitalismo ormai arrivato alla frutta» commenta il condirettore del Padiglione Italia alla Biennale d’arte del 2009. «Le sue donne nude e perfette non hanno nulla di sensuale, sono l’estrema punta di una rappresentazione del sesso ridotto a ready made».

Ma chi è l’artista oggi e come trova il suo pubblico? Se nel Quattrocento e nel Cinquecento andava a bottega giovanissimo e poi, da quel trampolino riconosciuto (specie se la bottega era quella di Raffaello o di un altro artista noto) entrava direttamente nel mondo dell’arte e delle commissioni ecclesiastiche o di corte, oggi quali sono i percorsi? «Nel Quattrocento l’arte era un mestiere. Oggi non più – risponde da New York Francesco Bonami -. Ma è anche vero che ai nostri giorni il mito del “dottore” ha reso il mestiere dell’artista una professione da residuo sociale…Almeno finché uno non diventa di successo. Non a caso c’è chi dice “mia figlia si è messa con un artistoide”. L’artista è l’artistoide oggi. E poi – approfondisce Bonami che sarà al Salone del libro di Torino il 18 maggio per presentare il suo nuovo libro Mamma voglio fare l’artista (Mondadori-Electa) -. Nel ‘400 l’arte era un fenomeno per pochi oggi è per tutti. E far contenti tutti e più difficile che far contenti pochi. Secoli fa una persona che non era un nobile vedeva al massimo un paio d’immagini sacre o artistiche nella sua vita. Oggi se ne vedono milioni. Creare un’immagine o una forma nuova che dica qualcosa di nuovo o solo qualcosa è una cosa ai nostri tempi difficilissima». Inflazione di immagini a scarso tasso creativo e, dall’altro lato, stupore, se non ostilità, verso chi si cimenta con la ricerca creativa, invece di cercare un impiego sicuro, sembrano connotare i nostri anni. «La ragione ed il calcolo sono oggi l’equivalente di denaro e successo; voler comunicare qualcosa senza altri scopi della condivisione è molto sospetto», commenta il critico fiorentino, direttore artistico della Fondazione Sandretto che è stato direttore della Biennale di Venezia nel 2003 .

Intanto però il mercato internazionale dell’arte e le vetrine delle Biennali europee e americane pullulano di opere all’insegna di un violento iperaelismo tardo pop o, più spesso, di opere iperconcettuali, freddamente astratte, autoreferenziali. Tanto che il filosofo Maurizio Ferraris ha scritto: «La morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa si è realizzata alla perfezione. Solo che non riguarda tutta l’arte ma solo l’arte visiva che si autocomprende come grande arte concettuale, o post concettuale. Mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove», riprendendo i fili di un suo vecchio libro, La fidanzata automatica (Bompiani). «Credo che l’arte contemporanea abbia concluso un ciclo» commenta Bonami. E promette: «Racconterò questo nel prossimo libro Dall’Orinale all’Orale dove si parte da Duchamp e si arriva a Tino Seghal quello che usa le persone che raccontano qualcosa. L’arte deve raccontare qualcosa di altro che se stessa e quindi si riparte da capo».

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Hegel

Hegel

Quella della morte dell’arte è una tesi che oramai vanta un bel tratto di storia- ricorda Tiziana Andina, docente d  Filosofia teoretica all’Università di Torino, autrice per l’editore Carocci, di Filosofia contemporanea,  ma anche di Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto. «Per primo l’ha formulata appunto Hegel. Riteneva che l’arte fosse destinata a risolversi nella filosofia, cioè in pura concettualità. Ma francamente non credo che questo avverrà mai. Penso che la previsione di Hegel non solo non si sia realizzata, ma che sia sbagliata sotto il profilo teorico. Filosofia e arte sono essenzialmente diverse, l’una non potrà mai risolversi nell’altra». Che cosa è accaduto allora? «E’ successo che la “storia dell’arte”, ovvero la narrazione elaborata nei secoli dagli esperti per leggere le opere, sembra non funzionare più – spiega Andina -. Non è più efficace per interpretare il lavoro degli artisti, frammentato in miriadi di sperimentalismi». Quando alla pratica artistica contemporanea «non credo che l’arte sia morta – dice la filosofa – e nemmeno che se la passi male. Penso piuttosto che tutta l’arte abbia molto sperimentato  propri linguaggi. Questo può apparire stucchevole o incomprensibile alla più parte delle persone, che preferiscono opere immediatamente figurative e arricchite di una connotazione emozionale». Nietzsche, però, sosteneva che le opere possono incidere sulle nostre vite in misura maggiore di quanto non riesca a fare un ragionamento ben formulato, cosa ne pensa? «Spesso l’arte ha la capacità di incidere profondamente sulle emozioni. La ragione dell’ “invidia” dei filosofi nei confronti degli artisti (pensiamo a quanto Platone maltratti gli artisti nella Repubblica ) ha probabilmente radici proprio in questa idea. Possiamo leggere dettagliate analisi filosofiche che riguardano questioni morali, ma leggere dei pensieri e delle emozioni di Raskol’nikov, in Delitto e castigo, quando prepara l’omicidio della vecchia usuraia, e poi dei suoi tormenti dopo che l’ha uccisa, ci porta a una comprensione “emozionale” di molte cose: che cosa vuole dire uccidere, che cosa significa essere esseri umani, che cos’è la compassione. Tutto questo ha una importanza grandissima per le nostre vite».

dal settimanale left, numero 18 in edicola fino al 17 maggio 2013

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Viaggio in 3D nell’arte preistorica

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 5, 2012

Parte da Bordeaux una mostra itinerante che riproduce, con strumenti di alta tecnologia, le straordinarie pitture rupestri della grotta di Lascaux,  chiusa al pubblico dal 1963

di Simona Maggiorelli

Lascaux, mostra in 3D

Dal 1963 le grotte di Lascaux non sono più visitabili. La cosiddetta Cappella Sistina del Paleolitico, che era stata scoperta nel 1940 da quattro ragazzi vicino a Montignac, fu chiusa al pubblico per tentare di rimediare ai guasti provocati da migliaia di visitatori che nel corso di vent’anni, con la loro semplice presenza e il respiro, avevano irrimediabilmente alterato il microclima di questa straordinaria grotta dipinta della Dordogna francese, risalente a 15mila anni fa.

Uno sciagurato impianto di refrigerazione aveva completato il danno e le pitture si sono ricoperte di muffe. Tanto che l’Unesco ha più volte minacciato di inserire Lascaux nella lista dei beni patrimonio dell’umanità a rischio di sopravvivenza.

Nel frattempo, mentre team di esperti sono impegnati in delicate operazioni di restauro, l’assoluta necessità di tutela di queste splendide pitture rupestri, non poteva non andare di pari passo con un’esigenza di conoscenza e di divulgazione scientifica. Da qui è nata l’iniziativa Lascaux in 3D, una mostra itinerante, prodotta dalla Dordogna e dalla Regione dell’Aquitania, che è stata inaugurata il 13 ottobre scorso a Bordeaux e che agli inizi dell’anno prossimo partirà per un lungo tour negli Stati Uniti, in Canada e in Asia. Una mostra kolossal che in ottocento metri quadrati di esposizione squaderna una serie di riproduzioni minuziose e tecnicamente avanzatissime dei più importanti “affreschi” di Lascaux. Mentre la regia di Olivier Retout cerca di ricreare l’immersione nelle atmosfere silenziose della grotta e il gioco di luci e ombre delle torce che gli artisti della preistoria usavano per illuminare le pareti su cui ancora oggi campeggiano affascinanti e complesse composizioni di animali e segni astratti.

Tori, bisonti, uri giganteschi, ma anche elegantissimi cavalli, come la coppia dei cosiddetti “cavalli cinesi”, essenziali nella forma e quasi stilizzati. E poi animali immaginifici come liocorni, frutto della fantasia di donne e uomini che dipinsero Lascaux sfruttandone l’andamento parietale, le rientranze e le estroflessioni per determinare effetti prospettici e dare tridimensionalità alle figure, con una piena padronanza, anche estetica, dello spazio. Accanto a queste vivide rappresentazioni di animali, più o meno realistiche, la mostra di Bordeaux documenta anche la presenza nel pozzo di Lascaux di un’immagine misteriosa ed estremamente sintetica di essere umano, la sagoma di un “uomo uccello” che si scontra con un bisonte impetuoso: è questa l’unica scena “narrativa” della grotta, sulla cui interpretazione sono stati versati fiumi di inchiostro senza che si sia arrivati ancora a una lettura certa. «I nostri antenacultura ti del paleolitico avevano una realtà interiore complessa e raffinata nonostante il loro stile di vita “primitivo”», scrive l’antropologo Ian Tattersall, curatore dell’American Museum of Natural history di New York, nel suo nuovo libro Masters of the planet uscito nel 2012 negli Usa e sarà tradotto e pubblicato in Italia da Codice edizioni.

«Decine di millenni fa vivevano persone che non costruivano case né coltivavano i campi ma erano capaci di bellissime pitture», racconta lo studioso. «Ma per quanto noi abbiamo a disposizione materiali eccezionali che si sono conservati nel tempo e che testimoniano della grande forza creativa dei nostri antenati non sappiamo realmente quali fossero i valori e i messaggi che volevano esprimere attraverso le pitture rupestri. Quello che possiamo affermare invece con certezza – sottolinea Tattersall – è che avevano una mente creativa già pienamente sviluppata. Lo deduciamo dalla qualità anche estetica di questi affreschi in cui rappresentazioni realistiche di animali, tratteggiati con perizia e forza espressiva, sono mescolate a motivi geometrici, figure stilizzate, linee e segni. Segni che venivano giustapposti in modi raffinati e complessi». Ogni immagine nelle grotte di Lascaux, realistica o geometrica che sia, «esprime un senso che va al di là della sua mera forma», ribadisce Tattersall, autore di molti studi sull’arte preistorica e di testi di antropologia come Il mondo prima della storia Raffaello Cortina) e Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali (Garzanti). «Quelle espressioni artistiche significavano qualcosa di molto più profondo rispetto a ciò che siamo in grado di rilevare  oggi direttamente», dice riprendendo i fili di una lunga intervista rilasciata a left nel gennaio scorso. Con la forza di un linguaggio per immagini creativo e irrazionale, gli artisti del paleolitico riuscivano ad esprimere valori universali. «E questa è una delle ragioni per cui l’arte preistorica risuona dentro di noi profondamente» conclude lo studioso. «Per quanto l’arte abbia conosciuto differenze infinite, per quanto la cultura abbia attraversato fasi di espressione diverse nei millenni, è una cosa che unisce tutti gli esseri umani a qualsiasi epoca appartengano. È che ci distingue dagli animali».

da Left-Avvenimenti

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Il salto culturale dei sapiens

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 20, 2012

Nessun gene dell’egoismo o della creatività. Alle origini del linguaggio, un processo evolutivo, in cui contano le relazioni umane. Parla Telmo Pievani, ospite del Festival della mente di Sarzana

di Simona Maggiorelli

Pitture rupestri, Chauvet, 32mila anni fa

Come nasce il linguaggio umano? Su questo annoso e affascinante tema il filosofo della scienza Telmo Pievani ( con Emanuele Banfi e Federico Albano Leoni)ha promosso un confronto fra linguisti e neuroscienziati all’università Bicocca di Milano. Left gli ha chiesto di fare il punto sui risultati del dibattito che ha coinvolto un parterre internazionale di scienziati. A settembre su questi temi lo studioso terrà una lectio magistrali al Festival della mente di Sarzana

Professor Pievani sui media, di recente, si fantastica di un gene dell’egoismo o dell’altruismo. Non si può pensare, piuttosto, che la maturazione cerebrale avvenga in relazione a stimoli ambientali, sociali, di rapporto? 

Suggerisco di diffidare sempre delle notizie del tipo “Scoperto il gene di”. Non ha più alcun senso ritenere che comportamenti sociali complessi abbiano una determinazione genetica lineare di questo tipo. Persino per il colore della pelle occorre un intero network di geni interconnessi, figuriamoci per l’egoismo o l’altruismo. Il genoma è la filigrana della vita, non un oracolo interno, né un surrogato dell’anima; è una componente di un sistema, non un’essenza senza tempo né contesto. La maturazione cerebrale, che avviene per una parte dopo la nascita (i nostri cuccioli nascono fragili e immaturi) è soggetta sia a un’impronta genetica ereditaria sia a influenze ambientali, sociali, familiari. In un intreccio inestricabile di innato e acquisito.

Nello sviluppo del linguaggio è importante il rapporto con la madre, lei scrive. Non a caso Kaspar Hauser e i “bambini lupo” cresciuti fuori dal rapporto umano non parlano. Tuttavia il bambino non è una tavoletta di cera…
Il linguaggio umano deve essersi evoluto nel genere Homo con un processo continuativo, se non vogliamo ricorrere a tesi miracolistiche o rassegnarci al mistero. Ma non abbiamo ancora modelli evoluzionistici adeguati per ricostruire questa dinamica. Anche se indizi ora vengono da ricerche di etologia cognitiva e paleoantropologia. E qui occorre distinguere tra filogenesi e ontogenesi: tra evoluzione delle specie e sviluppo individuale. Il rapporto con la madre è certo decisivo per lo sviluppo del linguaggio verbale. Ma la novità è un’altra. Anche negli studi che riguardano la filogenesi, noi sappiamo adesso che forse l’ambiente ideale per le sperimentazioni necessarie all’evoluzione del linguaggio non è stato solo il coordinamento per la caccia ma anche l’interazione tra madri e piccoli, come sostenne già anni fa Ian Tattersall e come ha scritto Dean Falk in Lingua madre. Dunque anche il linguaggio potrebbe essere legato all’allungamento dell’infanzia e dell’ adolescenza nei sapiens, che è maggiore rispetto a ciò che accade in scimpanzé e gorilla ma anche rispetto alle altre specie del genere Homo.

La fantasia, la capacità di immaginare, è specifica e originaria dell’essere umano?
Direi di sì, almeno da quanto vediamo dalla nascita del comportamento umano “cognitivamente moderno”, intorno a 40-50mila anni fa. Dopo le prime avvisaglie in Africa, l’innovazione sembra diffondersi con grande rapidità, facendo esplodere nei cacciatori raccoglitori sapiens (dall’Europa all’Australia) comportamenti del tutto inediti, cioè pitture rupestri, sepolture rituali, ornamenti, strumenti musicali, sculture, nuove tecnologie litiche. Le caratteristiche di questo cambiamento, forse portato da una popolazione di sapiens uscita dall’Africa circa 60mila anni fa (di cui conosciamo alcuni marcatori genetici), lasciano supporre che sia stata un’evoluzione culturale, più che biologica. E l’innesco di questa intelligenza simbolica potrebbe essere stato proprio il completamento del tratto vocale umano e lo sviluppo del linguaggio articolato tipicamente sapiens, con le sue proprietà ricorsive e astrattive che hanno aperto alla nostra mente nuove possibilità. Lì abbiamo imparato a inventare mondi alternativi nella nostra testa, e a condividerli con i compagni del gruppo. Ancora oggi nello sviluppo individuale, anche se spesso si fa di tutto per mortificarla, credo che la capacità di immaginare altri mondi possibili, scenari alternativi, sia il modo migliore per onorare la nostra evoluzione sapiens.
Negli studi sull’origine del linguaggio umano si parla perlopiù di linguaggio verbale e di pensiero cosciente. Ma il Big bang della nostra specie non è stata la capacità di creare immagini espressive, dalla risonanza profonda e di valore universale?
Sono d’accordo. Se verrà confermata l’ipotesi evolutiva che delineavo, il linguaggio verbale va associato a una più vasta competenza simbolica. Anch’io penso che la comparsa di segni e poi di rappresentazioni (sia realistiche che stilizzate) sia un indizio cruciale. La raffinatezza delle prime pitture rupestri e il loro contesto espositivo vanno oltre un significato sociale di valenza rituale. Sono la prova che lì è all’opera una mente umana inedita, con un rapporto nuovo con l’ambiente, capace di mescolare il ricordo vivido delle scene di caccia con una trama di messaggi simbolici condivisi dalla comunità. Senza nascondere che questa immaginazione è anche ciò che ci ha reso più espansivi e invasivi di qualsiasi altra forma umana.

 

Telmo Pievani

Uno studio apparso su Science ora spinge a retrodatare ai Neanderthal la prima arte rupestre. E c’è chi suppone una ibridazione fra Neanderthal e Sapiens. Può aver portato più varietà e capacità di risposta all’ambiente? E quale è stato il contributo della donna?
Lo studio non riguarda la scoperta diretta di arte rupestre neandertaliana, ma ipotizza una possibile associazione con popolazioni neandertaliane, quindi lo valuterei con cautela. I dati suggeriscono che il Neanderthal si stava avviando verso l’intelligenza simbolica: lo mostrano le possibili sepolture di Shanidar nel Kurdistan, l’uso di piume ornamentali nel sito di Fumane, il possibile flauto neandertaliano scoperto in Slovenia. Tuttavia, un conto è assumere questi comportamenti in modo globale e sistematico come fanno i sapiens, altro è farlo in modo occasionale. Forse era un inizio e non hanno fatto in tempo. Anche l’ibridazione tra le due specie è un modello in discussione, non tutti i genetisti ne sono convinti. Certo, scoprire che in certe fasi della nostra storia e in alcuni territori (si pensa al Medio Oriente) ci siamo accoppiati dando alla luce ibridi Sapiens/Neanderthal, capaci di procreare, è impressionante. Vorrebbe dire che nemmeno il nostro genoma è “puro”, tutto nostro, e che anche geneticamente siamo un mantello di Arlecchino con contributi diversi, che certamente ci hanno rafforzato in termini di variabilità e di difese immunitarie. Per tutte le specie, la diversità interna è una assicurazione per la vita, il combustibile di ogni cambiamento. Vale anche per le diversità di genere, che in campo evoluzionistico per fortuna sono andate ben al di là dello stereotipo dell’uomo cacciatore e della donna raccoglitrice. Dalla neotenia alle interazioni madre/figlio nello sviluppo del linguaggio, oggi l’evoluzione umana è vista senz’altro molto più “al femminile” di quanto non fosse in passato.

da left -avvenimenti

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Alle origini dei Sapiens

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 15, 2012

Al Salone del libro di Torino dedicato quest’anno al tema della creatività, l’antropologo Ian Tattersall, attento studioso di arte rupestre,  il 17 maggio presenta il suo nuovo libro I signori del pianeta (Codice edizioni)

di Simona Maggiorelli

La grotta di Lascaux

«I nostri antenati Cro Magnon avevano una sensibilità matura, pienamente sviluppata» afferma Ian Tattersall, direttore del dipartimento di antropologia dell’American Museum of Natural History di New York e autore di libri come Becoming human (curiosamente tradotto da Garzanti con il titolo Umanità in cammino) e Il mondo prima della storia, dagli inizi al 4000 a. C. uscito nella collana di Raffaello Cortina diretta dal filosofo Giulio Giorello.
«Furono loro, i primi Sapiens, 40mila anni fa a creare le straordinarie pitture rupestri della zona franco-cantabrica», racconta l’antropologo americano che il 17 maggio sarà al Salone del libro  con una lectio magistralis ispirata al suo nuovo libro I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (Codice edizioni) . Tattersall si è a lungo occupato di creatività umana e di quel particolare momento della storia umana che l’archeologo inglese Colin Renfrew definisce «Il Big bang della creatività» nel libro Preistoria, l’alba della mente umana (Einaudi). «Non è una frase ad effetto, ma una definizione appropriata – commenta Tattersall -, perché l’emergenza di questa caratteristica specificamente umana non è avvenuta in maniera graduale né lineare. Fu un enorme salto in avanti, accaduto in tempi brevissimi e rivoluzionari se comparato alla storia lunghissima dell’evoluzione. Ma bisogna ricordare anche che la nostra specie si è sviluppata, con grande probabilità, a partire da una minuscola popolazione vissuta in Africa circa 200mila anni fa. In quei tempi lontani il nomadismo era anche dettato dai capricci del clima, dalle avversità ambientali e dalle specie concorrenti. Così dall’Africa la nostra specie poi si diffuse nel continente euroasiatico e sino in Australia e infine nel Mondo Nuovo e nelle isole del Pacifico».

impronta , grotta di Chauvet

A quando si fa risalire questo balzo in avanti antropologico?
A circa 100mila anni fa. I primi segnali li troviamo in Africa. In particolare a Blombos in Sud Africa sono stati ritrovati oggetti con protodisegni e conchiglie ornamentali risalenti a circa 77mila anni fa. Ma la vera grande esplosione è avvenuta 40mila anni fa. Fra i primi grandi esempi, come accennavamo, ci sono le magnifiche rappresentazioni di animali, inframezzate a una quantità di segni geometrici e dal significato ancora oscuro, che campeggiano nella grotta di Chauvet nella Francia meridionale e risalenti a più di 32mila anni fa. Così i Cro Magnon, ovvero i primi Sapiens, inaugurarono una tradizione artistica destinata a durare più di 20mila anni e che comprende alcune delle opere artistiche più potenti ed espressive di tutta la storia umana.
Lei scrive di una differenza radicale fra i Sapiens e i Neanderthal. Suggerendo che forse fu proprio un deficit di creatività a portare questi ultimi  all’estinzione…
I Neanderthal avevano un cervello di grandi dimensioni, all’incirca tra 1200 e 1740 cm cubici ( il nostro è compreso fra 1000 e 2000 cm cubici). E padroneggiavano tecniche raffinate di lavorazione della pietra, importanti anche per la caccia. Inoltre, già prima di 50mila anni fa seppellivano i morti e avevano un certo grado di organizzazione di gruppo. Insomma, per lungo tempo furono la specie più complessa e sviluppata mai esistita prima sulla faccia della terra. Anche per questo riuscirono a sopravvivere a periodi difficili e a condizioni ambientali del tutto ostili. Ciò detto, nel lungo corso, i Neanderthal non furono in grado di competere con i Sapiens. Probabilmente – questa è la mia ipotesi – perché non avevano un pensiero simbolico. E a differenza dei Cro Magnon non facevano arte. Non hanno lasciato tracce di incisioni, notazioni, statuette o altri manufatti simbolici. In sintesi i neandertaliani furono un’entità evoluzionistica del tutto distinta da noi. Devono essere interpretati in termini neandertaliani e non umani. Avevano una diversa identità.

Il bisonte fatto di impronte, Chauvet

I nostri antenati che dipingevano le grotte del paleolitico avevano un linguaggio articolato?
Nei miei studi sono giunto alla conclusione che i Cro-Magnon avessero un linguaggio simbolico e articolato. Anche se ancora non ne sappiamo molto.
La loro creatività si esprimeva anche attraverso la musica?
Attraverso la musica e la danza. Che forse praticavano nei ritrovi di gruppo, immaginiamo, nelle grotte e intorno al fuoco. Lo dimostrano vari reperti e il  ritrovamento di strumenti musicali, assimilabili a flauti, capaci di emettere sonorità complesse.
Ma cosa spingeva i primi Sapiens ad avventurarsi in grotte buie che potevano nascondere molti pericoli per “affrescarne” le pareti?
Questo resta  un grande mistero. Visto dal punto di vista razionale, delle difficoltà da superare, della fatica, del rischio  è un comportamento alquanto bizzarro.

Ma a ben vedere l’Homo Sapiens è una creatura assai imprevedibile e sorprendente, mossa com’è da pulsioni creative e desideri che nulla hanno a che fare con automatismi dettati dall’istinto. La mia idea è che a spingerli fosse un’esigenza espressiva, mi sentirei di parlare di “arte per l’arte”.

Nell’epoca glaciale, quando i Sapiens non conoscevano ancora

Ian Tattersall

l’agricoltura e vivevano di caccia e di raccolta, erano le donne a dipingere le grotte?
Sembra che anche i bambini fossero portati nelle caverne più oscure e profonde. Lo dimostrano impronte di mani infantili e ditate. Dopo tanti anni di studi e di ricerche sono portato a pensare che le realizzazioni creative nelle caverne siano state il frutto di una attività di gruppo.

Nei suoi scritti lei racconta che quando, da nomadi, i Sapiens diventarono stanziali e scoprirono l’agricoltura tutto cambiò radicalmente. Che cosa accadde?
Cambiò quasi del tutto il modo in cui gli esseri umani considerarono se stessi e il proprio modo di relazionarsi fra loro e con il mondo. Per la prima volta la vita umana diventò una lotta per avere la meglio sulla natura e per dominarla. Non sembra un caso che in questo quadro si iscriva il perentorio ordine biblico: “riempite la terra, soggiogatela e moltiplicatevi”. Servivano molte braccia per lavorare i campi. I cacciatori-raccoglitori, invece, tendevano a limitare le dimensioni dei gruppi, non solo per la penuria di risorse, ma anche per la difficoltà a trasportare i figli. Alcuni studi che riguardano in particolare popolazioni africane affermano che nelle più antiche società nomadi le donne allattavano i propri piccoli anche per tre o quattro anni. Si è ipotizzato anche che questo lungo allattamento sottintendesse una prole numericamente ridotta.

da left-avvenimenti

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