La scrittrice Mazzucco, autrice dei testi per la retrospettiva Tintoretto che siapre il 25 febbraio a Roma, racconta il talento del maestro del tardo Rinascimento e quello di una inaspettata donna pittrice: sua figlia Marietta
di Simona Maggiorelli
Quella bambina che, da sola, ne La presentazione di Maria al tempio (1552-’53) s’inerpica su una scalinata puntata al cielo è l’immagine che molti anni fa colpì la fantasia di Melania Mazzucco. In quella fragile e risoluta bambina la scrittrice vide Marietta, la figlia illegittima di Tintoretto, che sarebbe diventata artista, nascosta in abiti da maschio. Poi da quell’incontro inaspettato sarebbero nati due libri, il romanzo La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli) nel 2008 e un anno dopo la ponderosa biografia Jacomo Tintoretto e i suoi figli (Rizzoli). Due testi diversissimi, ma parimenti frutto di una lunga ricerca d’archivio durata una decina di anni. Una ricerca di fatto mai terminata e a cui Mazzucco ha attinto anche per scrivere i testi che accompagnano il visitatore lungo la mostra di Tintoretto a Roma. Ma lasciamo la parola alla scrittrice: «Anni fa, per caso, mi ritrovai fra le mani la prima biografia di Marietta, apparsa nel 1584, quando sia lei che il padre erano vivi e potevano leggerla. E mi sono accorta che già lì si parlava della Tintoretta come artista, ma anche di figlia molto amata. E si sa che a quel tempo dei sentimenti non si parlava, erano sottintesi, o temuti come fonte di disordine, frutto di incantamento e magia. Proseguendo nelle ricerche, mi sono resa conto che Marietta era stata,- come artista, come persona e come leggenda – una creazione, quasi un’invenzione del padre».
Perciò nella storia ci sono state solo poche pittrici?
La storia dell’arte ne ha avute poche perché la pittura era un mestiere e non era previsto né auspicabile che una donna lavorasse. Alle donne era riservato un altro ruolo nella società. Tanto che oggi, con la rivoluzione culturale, politica e sessuale del Novecento ,ci sono tante artiste quanti artisti. Ma va la storia ci insegna che vi sono state più lavoratrici di quante pensiamo. Nella Fraglia dei Pittori di Venezia intorno al 1580 (l’epoca di Marietta) risultavano attive numerose donne capo-bottega. Si trattava per lo più di vedove o di figlie che proseguivano, talvolta con successo, il mestiere di un parente. Spesso, però, si dedicavano a una pittura minore: dipingevano tessuti, maaschere, carte da gioco, illustravano libri. Così il loro nome non è stato tramandato, e il loro ricordo si è perduto.
Non fu così, però, per Marietta.
No, ma non ebbe mai una bottega propria, lavorò in quella di Tintoretto. Del resto Il padre la educò a rifare se stesso: era il destino dei figli d’arte. Il sesso non aveva qui molta importanza: anche il fratello Domenico divenne capo-bottega solo dopo la morte del padre. Non sappiamo quanto Marietta riuscì a emulare il padre e a realizzare opere che lui poteva firmare. Sappiamo solo che sapeva disegnare bene, perché le sue esercitazioni sono sopravvissute. Il caso di Marietta – una pittrice senza opere – non è unico, e testimonia che al grande interesse suscitato dalla sua figura non corrispondeva un’uguale considerazione del suo lavoro. Poco dopo la sua morte i suoi quadri erano già dispersi.
L’arte di Tintoretto, intanto, dopo una lunga eclisse conosce una riscoperta. A partire dalla mostra al Prado del 2007. Sorprendente è stata anche l’esposizione di un trittico di sue opere alla Biennale di Venezia l’anno scorso.
Sono molto felice del rinnovato interesse intorno alla figura di Tintoretto. La scelta della curatrice della Biennale 2011, Bice Curiger, di inserire le sue opere tra quelle d’arte contemporanea, e quella delle Scuderie del Quirinale di dedicargli una personale, dimostrano che i tempi sono maturi per confrontarsi di nuovo con lui. Credo che la ragione del suo “ritorno” sia anche la ragione della sua sottovalutazione precedente. Tintoretto non è un pittore facile: non ha creato icone, o immagini gradevoli come Bellini, Tiziano, Raffaello. E non è stato neanche un pittore maledetto come Caravaggio benché anche lui abbia alimentato una leggenda di ribellione e anticonformismo. Non è catalogabile e sfugge a ogni definizione. La sua arte è insieme brutale e raffinata, artigianale e geniale, immediata e cerebrale, realistica e mistica. Personalmente sono affascinata dalla sua sperimentazione: è un artista che non si acquieta; che si cimenta con ogni genere, linguaggio, stile, e dipinge i suoi fantasmi sulla tela senza un rigido schema prestabilito, inseguendo la sua personale visione. Ma mi colpisce anche che crea pensando all’effetto delle sue immagini su chi guarda e su di sé. Dipinge dunque anche per sé, cosa rara, unica forse nella sua epoca. Crede insomma in un’arte che “muova”, ovvero smuova, commuova, coinvolga. Provoca, lusinga, irrita, comunque non lascia indifferente. Tintoretto si parla e mi parla, Tintoretto mi riguarda.
Da qui muovono i suoi testi per la mostra?
Parola e immagine si sfiorano, talvolta si intrecciano, ma non possono mai spiegarsi a vicenda e non si bastano. E’ la sfida che ogni artista, pittore o scrittore che sia.