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Cerchi Vaticano esce pedofilo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 12, 2010

In questo pomeriggio affocato di luglio se cerchi Vaticano esce il sito pedofilo.com che rimanda direttamente al Vaticano. Il sito ufficiale della Santa sede appare solo come seconda occorrenza. Ecco un bel colpo compiuto da sconosciuti pirati del web dalla vena evidentemente laica e democratica. E che sia un bel colpo di hackeraggio lo dimostra il fatto che pedofilo.com è irraggiungibile, ovvero non esistente come sito nel mare magnum del web

Dentro Google, riporta Repubblica on line del 17 luglio, “hanno comunque ritenuto opportuno esaminare tempestivamente la questione: Stiamo valutando le cause, non si è trattato necessariamente di un hackeraggio”, dichiara l’azienda”. Sta di fatto  che la faccenda non riguarda soltanto la versione italiana del motore di ricerca, ma Pedofilo.com, dominio intestato a un messicano che gestisce la società informatica Guionbajo nel Nuevo Leon, risulta al momento completamente inaccessibile.
“Il trucco utilizzato per far salire il sito pirata al primo posto- spiega ancora La Repubblica online – potrebbe essere quello del Googlebombing, uno stratagemma che sfrutta l’algoritmo di Google in base al quale viene attribuita importanza a una pagina in rapporto a quanti link verso di essa si trovano all’interno di altri siti web. L’azienda aveva dichiarato di aver eliminato la possibilità di attacchi di questo tipo, ma forse ci si trova di fronte a una tecnica nuova per ottenere lo stesso risultato”. (17 luglio 2010)

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Lontana da ogni esotismo la vera Antigua narrata da Kincaid

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 15, 2010

La scrittrice caraibica autrice di Autobiografia di mia madre è ospite i Festivaletteratura, a Massenzio a Roma

di Simona Maggiorelli

Jamaica Kincaid

Come chi  ha dovuto conquistarsi la vita e l’arte pezzo a pezzo, Jamaica Kincaid (pseudonimo di Elaine C. Potter Richardson) non ha paura di guardare in faccia la verità. Anche la più sgradevole e dolorosa. E di  rappresentarla, mettendosi a nudo in romanzi che fondono autobiografia e invenzione sullo sfondo di una Antigua poverissima e vessata dal colonialismo inglese; «Il falso paradiso dove sono nata », un’isola lontana anni luce dagli scenari da cartolina delle agenzie di viaggi ad uso e consumo dei turisti.

Ma in narrazioni brucianti come Lucy (Adelphi) la scrittrice caraibica ospite di Massenzio per il Festivaletterature di Roma ha anche raccontato con autenticità e crudezza la propria giovinezza trascorsa in America a servizio nelle case dei bianchi ricchi.

E poi ancora della vicenda tragica del fratello morto di aids in una Antigua senza farmaci antiretrovirali nel libro Mio fratello. E in Mister Potter di un padre che  non l’ha mai voluta come figlia. E porta il segno della  rivolta necessaria delle donne molta parte della lettatura di Kincaid, che però dice di non riconoscersi tout court con le lotte femministe. Mi sono accorta ben presto che le conquiste delle donne portate del femminismo facevano sì che potessimo avere la nostra parte in un mondo organizzato ad immagine e somiglianza degli uomini. Con questo -aggiunge Kincaid- non so come sarebbe una realtà organizzata dalle donne. Non so nemmeno se sarebbe migliore o peggiore, perché nella storia non si è mai realizzato». E ancora:«Non saprei scrivere adottando come punto di vista quello maschile. Ho sempre scritto raccontando storie di donne. E’ che gli uomini, li amo molto, ma io proprio non li capisco. Per me sono algebra. Specie per quella loro ossessiva tendenza a fare delle leggi… per poi infrangerle ».

E con voce di donna, con voce sicura, senza infingimenti, in un inglese particolarmente musicale e poetico, in Autobiografia di mia madre (Adelphi) Jincaid ha saputo affrescare la dura epopea di un intero popolo, quello caraibico che per secoli è vissuto ad Antigua. Un popolo che ha visto i propri miti pagani «Il nostro era un dio sbagliato», la propria cultura e il proprio futuro distrutti dalla violenza dei coloni europei.

L’ha raccontato per metafora in questo libro che ci appare oggi come il suo capolavoro e in cui in primo piano è narrata l’aspra formazione di una ragazzina che, alla scuola dei padroni, in un villaggio di Antigua, si innamora della cultura inglese dovendo al contempo trovare i modi per salvarsi la pelle, dall’odio degli insegnanti e dei missionari cristiani. Una storia largamente autobiografica, come si intuisce. «La Chiesa cristiana – ci racconta Jincaid durante un incontro nella Casa delle letterature di Roma – è sempre andata alla guerra contro le altre culture e la sua mano è stata violentissima su di noi». Complici i coloni di sua maestà. Che tuttavia, involontariamente, hanno permesso a Jincaid ragazzina di sviluppare una forte passione per la letteratura e la lingua inglese. «Mi sono formata leggendo Shakespeare e autori inglesi antecedenti al XX secolo» ricorda sottolineando l’aggettivo “inglese” quasi fosse opposto di quel “britannico” che va a braccetto con la parola impero.

«Anche Milton mi è stato nonostante tutto d’ispirazione.L’insegnante per punizione mi obbligò a copiare i primi due capitoli de Il paradiso perduto. Ma io inaspettatamente ne rimasi affascinata, tanto che- aggiunge sorniona – Lucy, il nome della protagonista del mio romanzo viene dal Lucifero di Milton».Pochi invece gli spunti che le sono venuti della letteratura contemporanea. «Leggo pochissimi romanzi, mentre mi interesso moltissimo di saggistica, perché fondamentali per informarsi, per alimentari la mia scrittura non narrativa».

Quanto alla letteratura caraibica contemporanea «la conosco poco – ammette Jamaica che da molti anni vive nel Vermont -. Ma devo a Derek Walkott di avermi segnalato un’intera galassia di autori nati nei Caraibi che hanno scritto cose splendide». Il premio Nobel caraibico a cui Kincaid ha dedicato Autobiografia di mia madre è stato fra i primi a sostenere il lavoro della scrittrice. «Derek è un poeta. E i poeti sono in qualche modo dei “profeti”, hanno una capacità speciale di scovare e dire il senso profondo delle cose. Per questo amo leggerlo. Sul piano personale poi, devo dire, lui mi ha molto incoraggiata e sostenuta nel mio lavoro letterario, con recensioni, con interventi pubblici. Essere riconosciuta da un poeta così profondo – commenta la scrittrice – è stato per me un grande onore».

dal quotidiano Terra, 16 giugno 2010

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Il velenoso mito della razza

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 30, 2010

Studiosi italiani, francesi e tedeschi, in un interessante volume interdisciplinare, indagano le responsabilità di Heidegger e di intellettuali cattolici fascisti nella creazione di un’ ideologia folle

di Simona Maggiorelli

La difesa della razza

In un Paese di incentivi in busta paga ai poliziotti che arrestano dei clandestini, di medici che potrebbero denunciare immigrati non in regola con il permesso di soggiorno e, soprattutto, in un Paese dove la classe dirigente cerca di piegare i programmi scolastici a questo tipo di “cultura”, rischia di non scandalizzare troppo che il razzismo online da noi sia cresciuto del quaranta per cento rispetto al 2008.

E basta fare una rapida ricerca sul web per scoprire che nella scrittura “disinvolta” che circola su facebook come nello slang di certi social network compaiano termini tristemente noti come razza, forza, «italiani veri», «stranieri invasori», «razza padana»… Parole che richiamano un universo di orrori nazisti e fascisti che lasciano senza fiato. Perché, viene da chiedersi, nonostante il ricordo ancora vivo dei massacri novecenteschi assistiamo oggi a questi rigurgiti? Perché vigoreggia una delle peggiori concezioni dell’uomo che si siano conosciute nella storia, ovvero quella fondata su una inesistente suddivisione del genere umano in razze? è un problema di “memoria corta”? O piuttosto il frutto della mancata interpretazione e “neutralizzazione” delle premesse concettuali della antiscientifica e violenta ideologia della razza che così, inopinatamente, continua a essere riproposta? E’ proprio questa la tesi che la ricercatrice Sonia Gentili sostiene e argomenta con passione in una nuova iniziativa editoriale di Carocci, il libro Cultura della razza e cultura letteraria nell’Italia del Novecento.

Un volume scritto a più mani, complesso e “militante” (per l’acribia con cui propone strumenti critici di lettura della storia). Qui l’italianista dell’università La Sapienza, con la collega Simona Foà, ha radunato contributi multidisciplinari di studiosi italiani, tedeschi e francesi che riportano in primo piano le responsabilità di pensatori come Heidegger nel dare fondamento filosofico e “sacralità” al nazismo.

Ma anche il ruolo giocato dai fascisti cattolici italiani – dal germanista Guido Manacorda ad Auro d’Alba, a Giovanni Papini e altri firmatari del Manifesto della razza – nel risemantizzare in senso cattolico concetti chiave dell’ideologia fascista come, per esempio, «bella morte», fede, impero, guerra, mistica, ordine nuovo e razza… «I loro modelli di pensiero negli anni Trenta furono perfettamente collimanti con le convinzioni dei principali attori del Vaticano» scrive Patrick Ostermann nell’importante saggio Il concetto cattolico fascista di razza pubblicato nel volume.

Da altri lavori emergono invece le responsabilità di scienziati che leggevano Darwin “da destra” insieme a quelle, più note, di scienziati direttamente arruolati all’eugenetica hitleriana. Ed emerge anche, con chiarezza, che non ci fu mai vera opposizione fra razzismo a base biologica e quello di marca spiritualista e cattolica. «L’opposizione fra i due filoni fu usato come una sorta di specchietto per le allodole, per coprire le vere assonanze e nei giochi di potere per scaricare quegli intellettuali che non servivano più al potere. Lo fece anche Hitler con Heidegger accusandolo di spiritualismo ma – non esita a dire Gentili – il pensiero dell’autore di Essere e tempo funzionò addirittura da ponte. Basta dire che, sostenendo un’idea spiritualistica dell’uomo, Heidegger finiva poi per raccontarlo in una chiave sostanzialmente biologizzata, attraverso una grande metafora biologica».

Più in generale tra Italia e Germania nel secolo scorso si strutturò una solidarietà molto forte fra cultura idealistica e una certa cultura biologica che, in funzione anti darwiniana, recuperò un’idea di vita umana che sfuggirebbe a ogni riduzione a materia e all’osservazione. «Era un pensiero biologico – spiega la studiosa romana – che recuperava una concezione di ciò che è “vitale” come sostanzialmente “spirituale”. Il nemico era Darwin e la sua idea che la vita sia in continua evoluzione». Il pericolo comune per riduzionisti e idealisti, insomma, era il Darwinismo, «una concezione del vivente – dice Gentili – in continuo cambiamento e adattamento all’ambiente». Ma, se Martin Heidegger e con lui il filosofo italiano Giovanni Gentile vengono radicalmente messi alla sbarra in questo libro, assai interessante è anche la sezione di Cultura della razza e cultura letteraria del Novecento in cui vengono esaminate le responsabilità di pensatori settecenteschi e ottocenteschi che furono inconsapevoli anticipatori delle teorie della razza.

A cominciare da Fichte che scrisse del primato del popolo tedesco basato sul suo «vitalismo» e coniò una sorta «di ideologia della guerra». Per arrivare al Volkseele di Herder che indirettamente giocò un ruolo importante nella creazione del mito del genio nazionale e di un nazionalismo basato sul mito fondante di “origo”. Ma non solo.

Nel libro sono ricostruite puntualmente anche le responsabilità di Karl Jaspers nell’offrire indiretto supporto al concetto nazista di storia come destino segnato dalla propria energheia tedesca. «Di fatto – spiega ancora Sonia Gentili – si tratta di modi di pensare violenti. Ma non basta condannare moralmente l’accaduto per essere al riparo dalla ripetizione della barbarie. Il problema più grosso – aggiunge – è che un certo modo di concepire la storia e l’uomo persiste ancora oggi. Sto parlando di una mentalità essenzialista basata sulla tradizione aristotelica e sull’idea di anima cristiana.Con la crisi del soggetto universale illuministico in epoca primo romantica queste idee ripresero largamente piede. Questo modo di concepire l’umano, che implica un rapporto di prepotenza sull’altro, ci mette seriamente nei guai. è un retaggio novecentesco che porta a costruire la nostra società sull’esclusione e non sull’inclusione».

Ma su cosa si basa al fondo questa ideologia novecentesca di una razza superiore che spinge verso la negazione del diverso e che nel nazismo divenne annientamento dell’altro? «Al fondo c’è un’idea di soggettività fondata sulla forza vitale – nota Gentili-. Su questo si basa la costruzione della razza di tipo novecentesco che ha dietro l’antropologia heideggeriana, ovvero il pensiero che la razza buona sia quella forte». Un modo malato e violento di concepire l’essere umano che fu dei nazisti ma anche dei cattolici fascisti, ribadisce la studiosa. «Nello sviluppo dei rapporti di collaborazione e, direi, di vera e propria continuità fra il mondo cattolico e il nazismo – ricostruisce Gentili – in Italia svolse un ruolo di primo piano una figura terribile come quella del fiorentino Guido Manacorda. La sua concezione spiritualistica della razza fu fatta propria da molti cattolici attraverso Agostino Gemelli che sostituì al materialismo razzista l’idea che esista un “carattere” spirituale psicologico che individua le razze. Gemelli fu una figura chiave nell’aggiornamento del concetto di essenza dell’anima in chiave di gruppo di tipo razzista». E se pochi conoscono la figura di questo psicologo che si fece francescano e che annovera fra i suoi scritti articoli come La filosofia del cannone e il libro Il nostro soldato, manuale per rendere il militare una macchina da esecuzione, molto più nota è la vicenda di Karl Gustav Jung che in quegli stessi anni, indossata la camicia bruna, parlava impunemente di «inconscio ariano». Nel libro il suo caso non viene analizzato ma Sonia Gentili commenta: «La sua storia rappresenta uno degli aspetti più pericolosi di questa vicenda. E cioè il fatto che le concezioni dell’uomo che si sono sviluppate dai primissimi anni del Novecento fino agli anni Quaranta hanno innervato profondamente e tragicamente la psicologia. Ma per altri versi bisognerebbe parlare anche di Freud sul quale anche in Francia si sta aprendo finalmente un dibattito». Rispetto alle polemiche che ha suscitato Le crépuscule d’une idole di Michel Onfray (che sarà pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie), «la critica a Freud è salutare – chiosa Sonia Gentili – perché va posto il problema della concezione freudiana dell’uomo che è astratta. L’uomo secondo Freud è sostanzialmente determinato da pulsioni di tipo violento. Ancora una volta c’è un’idea di forza alla base. E su questo secondo il padre della psicoanalisi si baserebbero sempre i rapporti di ognuno di noi con gli altri. Anche se è difficile dire quanto nella cultura freudiana questo sia un dato di osservazione dell’epoca, resta comunque una concezione inaccettabile». Gli antidoti? «Pensatori come Ernesto de Martino, come Antonio Gramsci, ma anche Emanuel Levinàs con il suo ribaltamento dell’“essere per la morte” di Heidegger in un più umano “essere per altro”, hanno offerto degli spunti importanti. Ma anche Levinàs a ben vedere – precisa poi Gentili – aveva un retroterra di tipo teologico». Contro le ideologie della razza un aiuto può venire dalla moderna psichiatria che non ha più un’idea di inconscio perverso filogeneticamente ereditato, inconoscibile e immodificabile? «Assolutamente sì. In un articolo apparso pochi giorni a su Libération – conclude Gentili – il mio amico Hervé Hubert esplicitava il nesso stretto che c’è fra la critica della concezione freudiana dell’individuo e la necessità di creare un legame sociale, un modo di stare insieme su basi diverse. Per questo la reazione di certi intellettuali francesi è stata estremamente sentita».

da left-avvenimenti 28 maggio 2010

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Chi dice donna dice malanno

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 20, 2010

Dalla preistoria ai nostri giorni, la studiosa ripercorre il cammino di una secolare misoginia

di Simona Maggiorelli

Frammenti di fregio da una casa sull’Esquilino in III stile romano, Musei Vaticani

Quando uscì L’ambiguo malanno, condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana era il 1981 e, sul piano del diritto, le donne avevano fatto molte conquiste: nel ’69 era stato abrogato l’articolo 559 del codice penale che puniva l’adulterio come reato, nel ’70 era stata varata la legge sul divorzio, nel ’75 il nuovo codice di famiglia e nel ’78 si legalizzava l’aborto. E anche se si sarebbe dovuto aspettare il 1996 perché la violenza sessuale non fosse più considerato solo «un delitto contro la morale pubblica e il buon costume» il momento storico sembrava fertile per ulteriori passi avanti di emancipazione. «Fu questo il motivo che mi spinse allora a pubblicare un libro dedicato alla storia della condizione femminile non solo per gli addetti ai lavori.

Ripercorrere la storia delle discriminazioni pensavo potesse aiutare un pubblico più vasto a capire» annota Eva Cantarella a incipit della nuova edizione del libro che Feltrinelli manda in libreria il 23 marzo. Ma era difficile immaginare allora che questo libro si sarebbe rivelato ancor più attuale negli anni duemila quando le donne italiane si sono viste proibire l’accesso alle più avanzate tecniche di fecondazione assistita e sono tornate a sentirsi dare delle assassine quando decidono di abortire.

Prof. Cantarella ne L’ambiguo malanno scriveva che il cammino verso l’emancipazione «è tutt’altro che irreversibile». Oggi ne abbiamo tristemente prova?

Ciò che è accaduto alle donne in Italia negli ultimi anni fa riflettere. Perciò ho accettato volentieri di ripubblicare questo libro. Negli anni ’70 sembrava che si fosse imboccata la via, anche sul piano legislativo, per rimuovere gli ostacoli che impediscono alle donne di realizzarsi. Al di là del solito ruolo familiare (che oggi peraltro continuano ad avere). Abbiamo raggiunto la parità sul piano formale, ma non quella sostanziale. È avvilente che in un paese in cui le donne sono presenti in tanti ambiti sociali l’immagine di donna che emerge sia quella proposta dai fatti di cronaca e dalla tv.

Eva Cantarella

Che escort e massaggiatrici, insieme a mogli devote, siano l’immaginario femminile di questo governo la dice lunga?

è questo che fa paura. Dispiace vedere questa subalternità delle donne. Perché tante ancora l’ accettano? Qui torna fuori la storia. Ne L’ambiguo malanno e in Passato e presente ho cercato di mettere in luce la differenza che c’era fra la condizione delle donne greche e quella delle romane. In Grecia erano del tutto subalterne. A Roma apparentemente no, ma la loro condizione era molto più pericolosa. Qui sono le radici di molti nostri mali. Se non uscivano dal ruolo di mogli e madri, le donne romane venivano ricompensate con il rispetto personale e sociale. La matrona era celebrata.

Le romane erano cooptate in un sistema sociale maschile, perdendo la propria identità, il proprio “sentire”?

Accade quando le donne accettano di perdere la propria autonomia per entrare, con un gioco di do ut des, in situazioni di potere, per avere visibilità. Accettando di perdere la dignità che viene dal guadagnarsi le cose .

Dare “voce” alle generazioni di donne sconosciute, «annullate come individui, a causa della loro identità sessuale». Così annunciava il progetto del libro. Partendo dalla preistoria analizzava l’ipotesi di Bachofen di una fase antichissima di matriarcato. Oggi che cosa ne pensa?

Negli anni ’70 era molto di moda la teoria matriarcale sostenuta dalle femministe. L’equivoco, a dire il vero, è antico. Nella prefazione alla quarta edizione dell’Origine della famiglia, Engels interpretava un passo dell’Orestea di Eschilo come vittoria del matriarcato. Come la prova, insomma, che ci fosse stato veramente un matriarcato, poi però sopraffatto dal patriarcato. Ne ricavava in chiave progressista che la famiglia borghese non è eterna e immutabile. Era il sogno e l’utopia che qualcosa potesse cambiare con un matriarcato di ritorno. Ma il matriarcato non è mai esistito. E in ogni caso, penso, non sarebbe un sistema migliore, ma l’equivalente del patriarcato.

Quando si passò dalla caccia all’agricoltura «il rapporto uomo donna che sino ad allora aveva registrato il predominio maschile», lei scrive, cominciò a cambiare. In che modo?

L’agricoltura è stata un’invenzione delle donne. Questo sembra accertato. Per quanto si possano verificare le cose accadute nella preistoria. Mentre gli uomini andavano a caccia le donne cominciarono a coltivare piante. A poco a poco la carne non fu più l’unico alimento base. Ma, ancora una volta, questo non significa che le donne così presero potere.

affresco, Creta

Alla società minoica e a Creta lei dedica pagine densissime. L’arte ci racconta in questo caso di donne femminili, libere…

Ci sono stati nella storia momenti in cui le donne hanno avuto libertà e ruoli diversi. A Creta, ma anche nell’antico Egitto, per esempio. Oppure nel mondo etrusco. Nell’antichità ci sono state civiltà in cui le donne, per esempio, erano istruite. Non accadeva in Grecia.

Già in Omero, come lei ci ha ricordato in altre occasioni, si possono leggere le radici di una secolare misoginia.

Anche se curiosamente il mondo omerico è stato talora interpretato come un mondo dove le donne erano molto influenti. (Si è detto perfino che l’Odissea fosse stata scritta da una donna). In realtà il mondo omerico è androcentrico. Le donne non potevano uscire né parlare: quando la povera Penelope si azzarda a parlare, il figlio, che è un ragazzino, le dice: «stai zitta e torna in camera tua». In Omero le donne venivano già divise in due categorie: perbene e non. Ulisse ha una moglie che ha tutte le virtù e poi, secondo una doppia morale, incontra altre donne. Come sono queste altre? Pericolose come Circe oppure gentili e seducenti come Calipso. Ulisse, però, era convinto che stando con lei avrebbe perso se stesso. Le sirene, poi, sono il simbolo della sessualità femminile non perfettamente umana, perché non legata alla procreazione.

E arriviamo al titolo del libro che riprende il durissimo anatema dell’Ippolito euripideo contro le donne.

Ippolito è un personaggio di una tragedia, la Fedra ma le sue parole contengono uno stigma che la gente condivideva, anche se non in forma così estrema. è la forte misoginia che caratterizzò tutta la cultura greca.

Nel concedere alle donne le stesse possibilità degli uomini Platone, secondo studi femministi, fu meno misogino. è davvero così?

Per carità! Basta dire che per Platone se gli esseri umani si comportano male si reincarnano in donne o animali.

Fu anche il filosofo che aprì la strada a una lettura della parola psiche come anima?

Sì è proprio così. Prima di lui la parola psiche in greco significava qualcosa di completamente diverso da anima. La nostra traduzione è sbagliatissima. Pensi a Ulisse quando scende nell’Ade, diciamo che incontra delle anime. Ma non lo sono, sono degli uccelli che stridono, sono fumo, sono ombre.

Platone dice anche che gli omosessuali sono i veri uomini e i più adatti al governo della cosa pubblica.

Lo dice nel Simposio. è un discorso che ha ricadute pesanti sul modo di considerare la donna. Anche se sotto questo riguardo l’influenza negativa di Aristotele è stata più duratura nei secoli.

Lei riporta un dibattito greco “sul mistero della nascita”, da Ippone a Ippocrate. In questo quadro Aristotele formulò la sua feroce visione della donna?

Per lui la donna è materia. Non ha il logos. Ha ruolo nella riproduzione e, per giunta, è solo passivo…

Con il Cristianesimo l’identità e l’immagine della donna subirono un colpo mortale. Lei ricostruisce che la predicazione dei padri della Chiesa vi contribuì fortemente, fin dalla crisi dell’impero. Ce ne sono ancora tracce?

Da laica (ho fatto le scuole dalle suore e mi è bastato) mi sembra di poter dire che la concezione della donna che ha la Chiesa non sia delle più elevate. Il fatto stesso che non possano essere sacerdoti rivela un enorme pregiudizio. Il fatto poi che per dedicarsi meglio alla Chiesa i preti debbano evitare rapporti denota un’idea di superiorità del celibato rispetto allo stato matrimoniale.

La società greca era fondata sulla pederastia, lei ha scritto. Il cittadino per diventare tale doveva passare per questo “imprinting”. E nei seminari cattolici?

Quello che posso dire è che la pedofilia riguarda i bambini, mentre la pederastia greca riguarda adolescenti dai 13 anni ai 17 anni. I maschi greci, va detto, si sposavano a 14 anni le femmine a 12. Oggi si sente dire da alcuni che i bambini siano consensuali. Non è possibile: i bambini non sono in grado di consentire, non hanno la maturità sessuale. Dunque è sempre violenza.

Di fronte allo scandalo uscito sui media fonti ecclesiastiche sostengono che il fenomeno della pedofilia nella Chiesa sarebbe molto più circoscritto di quanto dicano i media perché in parte si tratterebbe di rapporti etero (con minori) in parte di efebofilia.

Ho letto un articolo di recente in cui un esponente del clero diceva: non siamo mica solo noi che lo facciamo nei seminari, lo fanno anche in altri luoghi. E con questo? Vuol dire che è meno grave? Dire efebofilia significa che se ha, mettiamo, 13 anni si può fare? Sono allibita. Non ho parole.

IL LIBRO. SULLE ORME DI CIRCE

mero potrebbe non avercela raccontata giusta su Circe e sui suoi poteri magici. La dea terribile che l’Odissea ci presenta , «la strega pronta a umiliare i viandanti e a sottrarli al mondo umano», forse non era davvero tale, nella materia orale e polisemica del mito alle sue origini. A sostenerlo sono  Maurizio Bettini e Cristina Franco  ne Il mito di Circe, immagini e racconti dalla Grecia a oggi appena uscito per Einaudi. Lo stesso Plutarco ci racconta una diversa storia della maga che incantò Ulisse e tramutò i suoi compagni in porci. è una Circe, la sua, «molto amabile e comprensiva con il rude e arrogante condottiero», annota il filologo classico dell’Università di Siena, che per la casa editrice torinese sta preparando una collana di volumi per conoscere più da vicino i miti che la Grecia antica. Miti che sono stati riletti e rielaborati da pittori e scrittori nel corso di molti secoli successivi. Il caso di Circe è, in questo senso, paradigmatico. Seguirne le avventure nell’iconografia lungo i secoli permette anche di riscontrare quanto sia lunga l’ombra di quella nera  ambivalenza che Omero le attribuì.

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Sulla pelle di Ipazia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 15, 2010

di Simona Maggiorelli

 

Ipazia di Raffaello nell’affresco La scuola di Atene

La Chiesa copta in Egitto ritiene che i secoli che precedettero il 640 d.C e la nascita dell’Islam siano solo di propria ed esclusiva competenza. Un fatto inaccettabile e insensato. Non vedo perché un musulmano  non possa dedicarsi alla storia del proprio Paese, compresa quella preislamica». Con queste parole lo scrittore egiziano Youssef Ziedan rispondeva  un paio di anni fa agli strali che la Chiesa egiziana lanciava contro il suo  Azazel, il romanzo storico, vincitore del Premio internazionale della letteratura araba (in Italia  è pubblicato da Neri Pozza) in cui lo studioso, direttore del fondo manoscritti arabi della biblioteca di Alessandria, racconta il vivace intreccio di culture che animava la città nel V secolo, ma anche la ferocia con cui i cristiani imposero il proprio credo come religione ufficiale, distruggendo il patrimonio culturale preesistente e uccidendo barbaramente intellettuali come Ipazia.

Professor Ziedan in Azazel il padre del monaco Ipa viene ucciso dai cristiani. Nonostante questo lui assisterà impassibile all’assassinio della donna amata. Quali sono le radici di tanta ferocia cristiana?
Gli uomini, purtroppo, possono essere capaci di distruzione e violenza. La storia lo insegna. Ma quando qualcuno arriva a dire che la violenza è giustificata da dio, allora è illimitata. Può accadere qualsiasi cosa. Si arriva a  torturare e uccidere altri esseri umani nascondendosi dietro il fatto che sia per volontà divina. Il romanzo parte dalla prima metà del V secolo d.C e percorre un lungo periodo  punteggiato di efferate violenze. E tutto perché un giorno un uomo è venuto e ha detto io parlo in nome di dio.

 

Un capitolo è dedicato ad Ipazia. Al fondo cosa scatenò la sua uccisione?
La scuola pitagorica di Samo faceva studiare anche le donne. E questo fu il suo “crimine” . Perciò fu costretta a trasferirsi ad Alessandria che, con la sua enorme biblioteca era un vivo centro culturale. Di generazione in generazione la scuola alessandrina dette un contributo importante allo sviluppo dell’astronomia, della geografia, della matematica. E non solo. Qui fu completato il lavoro di Pitagora. Ed in questo contesto si formò questa straordinaria figura di scienziata e di filosofa, che  i suoi contemporanei dicono essere stata anche una bella donna. Ma nel V secolo il cristianesimo aveva intrapreso  la strada del potere.  E personaggi come il vescovo Cirillo furono campioni di violenza. Non solo distruggendo il Museo di Alessandria e le statue di Apollo, ma anche con campagne di pulizia etnica a danno di chi non era cristiano.  Così gli uomini di fede condannarono Ipazia sbranandola pezzo a pezzo. Nel romanzo ho cercato di raccontare questa enorme tragedia.

In Italia il film che Amenabar ha dedicato a Ipazia non è ancora arrivato:  ha incontrato molte “difficoltà di distribuzione”. Che cosa ne pensa?
è accaduto qualcosa di analogo in Egitto: il film ha avuto una circolazione molto limitata. La Chiesa ha cercato di screditarlo dicendo che contiene molte bugie. Io l’ho visto  in uno di quei piccoli circoli culturali che ancora lottano perché il film possa essere distribuito nelle sale. Quello che posso dire è che  c’è un solo errore.

Ovvero?
Il regista mostra Ipazia mentre viene uccisa da un suo servo di nome Davus. Un’invenzione che diviene un grave errore storico. Molti documenti dicono che le cose non andarono così. Che motivo c’era per cambiare la verità del suo assassinio per mano di un gruppo di monaci? Nonostante questo finale il  film è stato attaccato pesantemente dalla Chiesa.

Hanno fatto lo stesso con il suo libro?
Sì, ma non sono riusciti a bloccarlo vista la grande attenzione che ha ricevuto da letterati e media  in Egitto. Un vescovo copto ha scritto ben quattro volumi contro Azazel. Per giunta dei libroni! Un altro ha detto che questo libro distruggerà la Chiesa cristiana. In che modo? Ho chiesto. Se un romanzo può distruggere la religione cristiana allora basta davvero poco. Comunque sia non sono riusciti a fermare la curiosità dei lettori. Siamo già alla diciassettesima edizione.

Nel libro ci sono immagini femminili particolarmente belle. Per esempio Ottavia che tenta di aprire gli occhi di Ipa sulla misoginia di Aristotele e sulla crudeltà cristiana. L’imposizione della Madonna come modello di vergine e madre uccide donne così?
La religione cristiana indubbiamente non favoriva la libertà delle donne che erano sottoposte  agli uomini e a dio. Prima dell’Antico testamento, in tutta l’area del medioriente, dall’Egitto alla Mesopotamia,  il culto più diffuso era quello delle dee. Ishtar, Hinanna, Atena, in ogni regione c’erano dee. Ma con la Bibbia cominciò la storia che le donne dovevano consacrarsi alla famiglia, altrimenti diventavano il “male”. Una spaccatura tipica del pensiero cristiano. Nel mio primo romanzo The shadow and the serpent ho cercato di raccontare come, a poco a poco,  la donna sia “diventata  il diavolo” anche nella nostra cultura. La religione occupa un posto di rilievo in Egitto . Anche da noi c’è “una questione della donna”. Ma si pone in modo diverso da come si articola nella cristianità. Oserei dire che, sotto certi aspetti, l’islam tiene in maggiore considerazione il femminile.

La riflessione sull’amore e sul rapporto fra uomo e donna sono al centro dei poemi e del misticismo sufi?
La tradizione sufi dice che il divino si esprime nella bellezza della donna e che il sesso  femminile è la porta per la bellezza divina. Fu in particolare una poetessa a fare dell’amore il fulcro del sufismo islamico. Ma, come ben sappiamo il pensiero sufi rappresenta solo una piccola parte della galassia islamica.

da left-avvenimenti 12 marzo 2010

LUn ritratto di Ipazia firmato da Eva Cantarella:

Corriere 19.10.13
Ipazia filosofa, matematica e astronoma martire civile del fanatismo cristiano
di Eva Cantarella

Accadde ad Alessandria d’Egitto, nel mese di marzo del 415 a.C.: una donna venne crudelmente assassinata, le sue carni fatte a brandelli, gli occhi cavati dalle orbite, i resti dati alle fiamme. L’assassino non era un marito o un amante tradito, un maniaco o un serial killer… A ucciderla fu una folla inferocita. Perché? La donna si chiamava Ipazia, ed era un’esponente di spicco dell’aristocrazia ellenica. Iniziata allo studio dal matematico Teone, suo padre, Ipazia insegnava matematica, astronomia e filosofia nella scuola platonica, di cui si dice fosse il capo. C’era chi diceva che la sua sapienza superava quella dei filosofi della sua cerchia. Una posizione eccezionale per una donna, ai tempi (e non solo). Ma non fu la misoginia la causa della sua morte. Si colloca invece all’interno dalla lotta che per secoli oppose paganesimo e cristianesimo. A distanza di un secolo dall’Editto di Costantino che aveva concesso ai cristiani libertà di culto, il potere imperiale aveva dichiarato guerra ai culti pagani. Dal 319 il cristianesimo era religione di Stato, e le costituzioni imperiali arrivavano a stabilire la pena di morte per i pagani. Ad Alessandria, poi, il vescovo Cirillo si distingueva per un atteggiamento particolatamente violento e persecutorio. E al suo servizio agiva un gruppo di fanatici estremisti, i «parabalani», monaci del deserto egizio provenienti dalle file degli zeloti. Furono loro gli assassini di Ipazia. L’orrore e la bestiale crudeltà del massacro sconvolse il mondo della cultura dell’impero romano d’Oriente. E sconvolge ancora, dopo 1.500 anni.

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Il codice cifrato della bellezza

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2009

di Simona Maggiorelli
Nella  galassia dell’ arte islamica in cui si intrecciano differenti culture. Lo storico dell’arte Luca Mozzati con il nuovo libro Arte islamica (Mondadori arte) invita a un viaggio nel mondo variegato nato dall’incontro fra i primi conquistatori arabi e la straordinaria eredità mesopotamica, iranica, ma anche bizantina. Un universo complesso che trova espressione nella pittura, nell’architettura, nella calligrafia, nella ceramica, nei tappeti e che a nostri occhi occidentali, troppo spesso, risulta lontano, appiattito, alterato da pregiudizi. Come quello che vorrebbe l’arte islamica rigidamente aniconica  oppure la posizione dell’artista tout court schiacciata da quella del committente religioso, quando in realtà nell’Islam, come scrive Mozzati « non esistono chiesa, sacerdoti o sacramenti».
«Per cominciare – spiega il professore – va detto che nell’arte islamica il concetto di artista, come soggetto creatore, non esiste. Fino al Rinascimento non ci fu nemmeno da noi. Possiamo parlare di esplicita volontà individuale con artisti come Michelangelo. Non prima. Ma il fatto che uno si muova all’interno di canoni formali non pregiudica l’eventuale espressione di contenuti individuali, anche se nell’Islam per noi possono non essere immediatamente leggibili».
Così se la floridissima miniatura e la tradizione di libri illustrati che si sviluppò nell’impero ottomano, in Persia e in parte dell’Asia ci appare in certo modo più familiare, la scintillante cascata di stalattiti (muqarnas) che sovrasta moschee, madrase e tante architetture islamiche ci seduce sul piano emotivo, ma perlopiù ci lascia disarmati dal punto di vista della decodificazione del suo significato di rappresentazione della bellezza dell’infinito pulsare del cosmo. «Importanti apparati decorativi a carattere logico-matematico connotano l’arte islamica – approfondisce Mozzati -. Si presentano come una sorta di linguaggio cifrato. Chi è in grado di comprenderne la bellezza,  vi può cogliere quell’assoluto che nell’Islam pertiene all’ambito del divino». In capolavori come la ceramica a mosaico della moschea del venerdì a Yazsd, per esempio, l’ alternanza ritmica  di bianco turchese blu e marrone e la trama delicata del disegno floreale crescono su un rigoroso disegno geometrico. «Il senso lirico sovrapposto a quello razionale – prosegue Mozzati – sembra ricordare che per cogliere l’invisibile che si cela dietro quanto possiamo vedere bisogna fare appello alle facoltà intellettuali come a quelle emotive».
Professor Mozzati, nell’ Islam il divino è ritenuto non rappresentabile?
Certo non è rappresentabile in forma antropomorfa. Per i musulmani, così come per gli ebrei, sarebbe una bestemmia. Lo rappresentano in letteratura ma mai in pittura tranne rarissime eccezioni. Per trasmettere un messaggio che parli dell’esistenza di dio fanno ricorso a un tipo di bellezza che non è individuale e arbitraria ma astratto-geometrica. Rimanda alla legge che sottostà alla creazione. Come espressione di un’intelligenza divina che secondo la logica islamica permea tutto.
Dio creatore onnipotente  e insieme arbitrio umano. Come possono coesistere?
E una delle aporie dell’Islam. Nel Corano c’è l’assoluta necessità di obbedire a Dio, quanto la possibilità di agire secondo ciò che si sente. La lettura fondamentalista porta alla tragedia. Come è accaduto anche nel Cristianesimo. Le matrici delle due religioni sono simili: l’Islam, del resto, emerge dal  Cristianesimo orientale del  V e VI secolo.
Lei accennava al nesso fra bellezza e geometria.Quali rapporti ci furono fra Islam, Platonismo e poi con il neoplatonismo?
Il rapporto con tutta la filosofia greca antica fu molto forte. Nell’Islam c’è stata enorme attenzione per la scienza greca, almeno fino al XII e XIII secolo. Le più importanti personalità della matematica, della geometria, dell’astronomia nel X e XI secolo, non a caso, sono emerse in ambito islamico. La filosofia neoplatonica ipotizza un mondo superiore, un mondo altro, diverso da quello quotidiano. E in questo ci può essere un nesso. I musulmani credono che tutto accadrà nell’al di là, ma a differenza dei cristiani non hanno il senso drammatico del peccato, della colpa da espiare.
Alle origini del Cristianesimo ci fu una fase di iconoclastia feroce. Si parla di aniconismo, invece, per l’arte islamica. è corretto?
La nostra iconoclastia fu contemporanea al sorgere dell’Islam che molto probabilmente ne fu influenzato. Il rischio dell’idolatria era molto sentito dagli intellettuali costantinopolitani. Ma i monaci erano iconolatri e ritenevano l’icona fondamentale per la trasmissione del messaggio. Nell’Islam, in realtà, la questione dell’aniconismo è più tarda:  nell VIII secolo troviamo i primi hadit che proibiscono le immagini nei luoghi sacri. (O meglio di preghiera dacché nell’Islam non esistono luoghi sacri eccezion fatta per la Mecca). Dipingere figure umane in una moschea sarebbe blasfemia perché ci si metterebbe in concorrenza con il creatore e si farebbe una brutta copia di ciò che lui ha realizzato. Non dimentichiamo che nella spiritualità orientale la figura umana rappresentata è pensata come animata e viva. Quando gli egizi facevano delle statue poi “ infondevano” loro la vita. In tutto l’Oriente si riscontra un  certo pudore nel rappresentare l’essere umano.
Ma a Damasco ci sono scene erotiche nelle case affrescate fatte costruire dai califfi. Come si spiega?
I primi Califfi vi trovarono chiese cristiane piene di affreschi e ne percepirono il significato propagandistico. Così si dettero a costruire splendide architetture per dare un senso identitario ai musulmani. Per le moschee scelgono decorazioni a dimensione astratta e atemporale ma nelle abitazioni profane aristocratiche si riscontra una assoluta libertà di rappresentazione: scene di caccia e di guerra, balli, donne nude, scene erotiche esplicite, ma confinate nella sfera privata. Non si ostentavano perché il popolo non avrebbe accettato questa libertà delle élite.
I califfi rifiutarono la condanna dell’architettura espressa da Maometto?
Gli Abbasidi, in particolare, ristabilirono un culto imperiale di tipo persiano: il califfo aveva un suo spazio a parte nella moschea, camminava sui tappeti, era una sorta di dio in terra, cosa del tutto inusuale nell’Islam che non conosce una gerarchia nel luogo di preghiera.  Di fatto gli arabi erano stati dei barboni nel deserto e dal deserto poi  partì la rivolta contro la corruzione di quelli arrivati al trono.  Nel mondo arabo è successo molte volte. Gli arabi, diversamente dai persiani, venivano dal deserto ed erano abituati a condizioni di vita estreme e avevano un radicalismo di pensiero altrettanto estremo. i Persiani, invece, avevano una cultura diversa, alta, millenaria.
L’influenza araba fu importante anche in Spagna e in Sicilia; come si configurò questo rapporto che oggi appare stranamente rimmegato negli studi e più ancora nella politica che ha parlato di radici cristiane dell’Europa?
Gli artigiani e gli artisti che i Normanni radunarono intorno a sé erano cristiani che avendo lavorato in ambito musulmano si erano islamizzati nello stile. Così in Sicilia troviamo opere dall’iconografia cristiana ma di “spirito” islamico, a sua volta sedimentato sul bizantino cristiano. Così nascono i padiglioni di caccia normanni. La zisa, la cuba, la cubola sono architetture islamico orientali, fatte per regnanti cristiani. Lo stesso vale per le cattedrali di Cefalù e Monreale. In Spagna c’è l’arte mozarabica, per la Sicilia parliamo di arte normanna ma bisognerebbe dire arte islamica in tempo cristiano. Non abbiamo una definizione corretta. Di certo ci fu un’osmosi continua fra le diverse culture.
da left-avvenimenti del 18 dicembre 2009
pondi
Inoltra

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Le maghe di Babilonia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 6, 2009

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Ishtar

Alla scoperta dell’antica Mesopotamia dove la donna aveva una libertà che poi Cristianesimo e Islam le avrebbero negato. Una mostra al British Museum e nuove campagne di recupero delle rovine per ricostruire l’antico splendore della città di Hammurabi. «In Iraq c’è ancora la guerra civile. E’ impossibile per gli archeologi occidentali andare a visitare i siti» racconta l’archeologo Paolo Brusasco di Simona Maggiorelli

Babilonia “culla della civiltà” si studiava da piccolissimi. In questa area del mondo, si leggeva nei libri di scuola c’erano stati i primi grandi risultati nelle scienze umane, l’invenzione della scrittura cuneiforme, il primo codice di leggi di Hammurabi. Ma anche l’arte degli aruspici e degli interpreti di sogni. Un mondo favoloso, fino allo controriforma Moratti, sfuggito miracolosamente alle maglie della scuola gentiliana improntata sugli anatemi biblici contro la torre di Babele. Ma poi sul quel sogno infantile di civiltà antica fatto di giardini pensili su inespugnabili ziqqurrat sono piombate d’un tratto le agghiaccianti distruzioni della Guerra del Golfo. “Operazioni chirurgiche” come venivano raccontate dalla Cnn, dalla Bbc e dalla Rai nel 1991. A cui si sono sommate le missioni angloamericane contro le presunte armi atomiche del dittatore iracheno Saddam Hussein. Un’operazione pretestuosa, del tutto folle che “ha lascito sul campo più di 4mila soldati occidentali uccisi. E un numero ancora incalcolabile di morti fra i civili iracheni”, come ricorda l’archeologo e docente dell’Università di Genova Paolo Brusasco ad incipit del suo libro La Mesopotamia prima dell’Islam (Bruno Mondadori). Di pari passo, come è noto, sono stati distrutti centinaia di importanti siti archeologici, mentre dal museo di Bagdad sono andati dispersi- distrutti o trafugati -più di ventimila reperti importanti (che datano dal 7mila a. C al mille d. C) di arte dei Sumeri, degli Assiri e dei Babilonesi. an00404485_001-map-of-world-da-scontCome ricostruisce puntualmente l’archeologo Friederick Mario Fales nella recente riedizione del suo Saccheggio in Mesopotamia uscito nel 2003 per la casa editrice Forum di Udine. “Ancora oggi non abbiamo una stima esaustiva e definitiva, i danni potrebbero essere di molto superiori- rilancia Brusasco-. In Iraq è in corso una guerra civile ed è ancora impossibile per la maggior parte di noi occidentali andare a visitare i siti archeologici”. A cominciare da quello dell’antichissima città di Babilonia, la capitale del regno di Hammurabi del II millennio a. C, insieme a Uruk ,una delle città simbolo della Mesopotamia. Nonché una delle più segnate dalla presenza di soldati. “Del tutto incuranti delle raccomandazioni preventive dell’Unesco le truppe angloamericane – racconta a left Paolo Brusasco – hanno scavato trincee in siti archeologici di primaria importanza e buona parte dei danni causati, purtroppo, saranno purtroppo irrecuperabili”. Non solo è stata danneggiata la porta istoriata di Ishtar,installando una base di elicotteri a ridosso delle antiche e friabili mura in terra cruda, ma sono andate in rovina anche le ricostruzioni anni 70 che Saddam Hussein aveva fatto fare in mattoni cotti. “Certamente restauri che non avevano nulla di scientifico e confezionati a misura della propaganda di regime -sottolinea Brusasco – ma alcuni sostengono che almeno sommariamente potessero dare l’idea dello splendore antico di Babilonia”. Così dopo aver raso al suolo centinai di siti, dopo aver trafugato e rivenduto su internet reperti preziosissimi di arte sumera, assira e babilonese, oggi l’occidente sembra voler cercare di correre ai ripari. Per senso di colpa ma anche perché la ricostruzione può essere un buon business . Fatto è che da più parti. si annunciano campagne internazionali di scavo e di recupero dell’antica città della Mesopotamia. Una, dal titolo “Il futuro di Babilonia” e con la partecipazione economica di importanti organismi internazionali, secondo l’agenzia Reuters, partirà a giorni.oldest-lovers

Professore sarà davvero possibile un recupero delle rovine dell’antica Babilonia e in quanto tempo?
In realtà ancora siamo solo alle operazioni preventive di studio e di messa a punto organizzativa di possibili campagne. Il direttore del dipartimento del Vicino Oriente del British Museum, John Curtis, ha fatto già una serie di ispezioni portando alla luce alcuni danni, purtroppo irreversibili. Una base militare anglo americana è stata costruita, per esempio, proprio sulle rovine attigue al palazzo di Nabucodonosor, il sovrano della deportazione ebraica del 597 a. C. I soldati hanno coperto le rovine archeologiche di ghiaia e le hanno cosparse di spray chimico per non sollevare la polvere. S’immagini i danni che un esercito potrebbe fare se domani si installasi a Pompei. A Babilonia addirittura molti container sono stati riempiti di terra prelevando materiali da siti diversi, la stratigrafia è irreversibilmente danneggiata. Gesti che la popolazione irachena ha letto come una volontà di appropriarsi in modo neocolonialista del passato e della storia di queste aree. Se un giorno si faranno nuovi scavi in queste zone sempre bisognerà sempre tener presente che esiste uno strato dell’invasione anglo-americana. Hanno creato un disastro inimmaginabile dal punto di vista della lettura del sito.

La mostra londinese ora al British esplora il mito di Babilonia, quanto certo “orientalismo” ha oscurato il nostro sguardo occidentale? Babilonia è città delle prime leggi di Hammurabi, di questa città che poi fu governata Nabucodonosor ne hanno parlato in termini favolosi gli autori classici, ma soprattutto la Bibbia. Nell’immaginario occidentale è sempre stata una città simbolo di tirannia ma anche di meraviglia e di stupore. I racconti dei profeti ebrei che hanno scritto in cattività a Babilonia ce l’hanno sempre raffigurata in termini negativi e fino agli scavi del 1800 non si è mai conosciuta in Occidente la vera Babilonia.

Babilonia la grande meretrice, Babilonia che verrà distrutta dal castigo di dio sono le immagini anche dantesche…
Una parte della mostra ora al British Museum di Londra si occupa appunto del mito di Babilonia e punta a metterne in luce gli aspetti fasulli, quelli su cui si è basata la visione distorta dell’occidente. Basta pensare al mito della torre di Babele, alla minaccia della confusione delle lingue. Alle leggende che dipingevano la città come regno del vizio. In realtà la famigerata torre non era che lo ziqqurrat del dio Marduk a cui si rifacevano più colture diverse. Babilonia era una città dove convivano in modo pacifico diverse etnie. L’ interpretazione che ne ha dato l’Occidente non corrisponde in nulla ai reperti scavati.terracotta

Il fatto che lo sguardo deformante della tradizione biblica si sia accanito soprattutto su figure femminili ( basta pensare a Semiramide) farebbe pensare che le donne in Mesopotamia godessero di una certa libertà. E’ così?
Io l’ho scritto, ma non sono il solo. In Mesopotamia la donna non aveva la posizione sociale che poi ritroviamo nella tradizione cristiana o nell’islam. Soprattutto nel terzo millennio, nel periodo sumerico, i codici di leggi trovati ci raccontano di tantissime regine, donne che avevano realmente potere. Poi nel codice di Hammurabi troviamo che la donna può intraprendere attività commerciali come imprenditrice e avere libero rapporto con l’esterno. C’era anche una specifica categoria di cosiddette sacerdotesse imprenditrici che avevano delle grandi proprietà fondiarie e le gestivano autonomamente. Ovviamente non c’era una vera parità fra uomo e donna, però possiamo dire che in Mesopotamia, dal III al I millennio a C. non c’è prova che esistessero degli Harem. Solo intorno al 900 a. C. fra gli Assiri compaiono, in concomitanza con l’emergere della propaganda maschile legata alla guerra e che determinò una serie di leggi che per la prima volta relegavano la donna in aree specifiche della casa e del palazzo.

La libertà sessuale della donna in Mesopotamia, lei scrive, “non è affatto associata a un’istintualità primitiva o animale”.
Sì la sessualità e la figura femminile non sono viste in accezione negativa. Il desiderio femminile non è represso ma è considerato un elemento di vita, un aspetto culturale. Per esempio nel mito di Gilgamesh, l’eroe di Uruk, che si narra sia vissuto intorno al 2675 a. C aveva un nemico, Enkidu, che viveva nella foresta ed detto un incivile. Prima di scontrarsi con Gilgamesh, però, Enkidu viene “civilizzato” da una prostituta. In Mesopotamia il fatto che le prostitute fossero immerse nella vita urbana ne faceva delle detentrici di cultura e conoscenza. Anche da altri testi antichi si comprende che la sessualità era un mezzo per conoscere i rapporti umani di cui la società viveva. Non si trova mai in questo contesto una caratterizzazione in negativo della donna come si trova nella Bibbia. E il desiderio non è qualcosa di immediato da sfogare o da reprimere. La sessualità viene inserita in un ordine di idee urbano e civile non animale.

Non c’è un senso del peccato come nella tradizione giudaico cristiana?
No in Mesopotamia non c’è qualcosa di simile.

VA Bab 4431In un modellino di un letto conservato al British Museum si coglie uno scambio di sguardi fortissimo fra un uomo e una donna. Una rappresentazione ben diversa dalle fredde anatomie di Pompei.
Nelle abitazioni in Mesopotamia si trovano placche sessuali come amuleti di fecondità. Si rifacevano a miti del matrimonio sacro fra due divinità. In Mesopotamia l’accoppiamento fra esseri umani e divinità era considerata all’origine del mondo. Anche per questo la sessualità veniva vista in modo positivo. Ma sessualità era anche l’intimità fra uomo e donna è vista in senso sentimentale, romantico. Questo abbraccio, questo letto che rappresenta il simbolo della vita di coppia, soprattutto in epoca sumerica, nel periodo più antico è molto legato a situazioni sentimentali più profonde.

Nella cultura della Mesopotamia il Logos, inteso come ragione non arriva a schiacciare un mondo di immagini e di passioni come accade a un certo punto nella Grecia antica?
La ragione in Mesopotamia è secondaria rispetto a una concezione del mondo e anche della scienza sempre divinatoria. Per l’uomo della Mesopotamia il rapporto con il mondo non è logico ma è in qualche modo illogico, talvolta legato ai presagi. Grande importanza aveva l’astronomia ma anche l’astrologia. La divinazione era considerata una scienza. C’erano indovini, esorcisti, scienziati, specializzati nella lettura dei pianeti e delle stelle, maghi, interpreti di sogni. C’è un approccio completamente diverso da quello della logica greca.

Lei scrive anche che è un pregiudizio pensare che solo la lingua e la scrittura siano sistemi altamente simbolici. Anche l’arte in Mesopotamia tende ad essere rappresentazione simbolica, talvolta quasi astratta?
In Mesopotamia l’arte non è mai mimetica della realtà alla maniera greca. Parte da un altro presupposto. Non c’è l’umanesimo greco. L’arte mesopotamica è un’arte sempre simbolica, tanto che anche quanto raffigura la realtà, come nelle stele o nei rilievi assiri che pur narrando di guerre, le traspongono sempre con elementi astratti su un piano simbolico. Si parte da un fatto, da un azione singola, ma si arriva poi a trasporla su un piano universale. Sono scene che non tendono a una prospettiva precisa, ma puntano a a un’evidenza viva, alla drammaticità del racconto. All’arte mesopotamica non interessa raffigurare la realtà per ciò che è.

da Left-Avvenimenti 7/2009 del 20 febbraio

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Quei supermaschi dei Romani

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

cantarella

eva cantarella

di Simona Maggiorelli

Dopo aver guidato il lettore in un viaggio colto e appassionato all’interno della polis raccontandoci come i greci vivevano i rapporti sessuali e le passioni, con il suo nuovo libro, Dammi mille baci (Feltrinelli, dal 23 aprile in libreria), Eva Cantarella ci fa scoprire i lati meno noti della vita dei Romani.

E se in Passato prossimo (Feltrinelli) con personaggi come Tacita Muta aveva messo a fuoco l’assoluto silenzio a cui le donne erano condannate nei primi secoli della romanità, in questo nuovo lavoro racconta come le matrone apparentemente acquisirono nuovi diritti durante gli anni della Repubblica e dell’Impero, guadagnandosi un posto nella sfera pubblica. Ma pagando un prezzo altissimo. «Consapevoli dei premi, dei vantaggi e degli onori che sarebbero derivati loro dall’adempimento dei propri compiti – scrive la studiosa – le donne romane di regola condividevano i ruoli maschili. Esse accettavano, profondamente convinte della sua importanza, la costruzione maschile della loro immagine e del loro ruolo».

Tanto che, riempite di gioielli e onorate pubblicamente come matrone, mogli e madri modello, azzarderemmo, se la passavano perfino peggio delle donne greche, stigmatizzate dal sommo Aristotele come esseri inferiori, irrazionali, incapaci di ragionare. Pienamente sussunte nel modello maschile sulla scena pubblica e violentate in privato da mariti che concepivano solo una «sessualità per stupro» non facendo alcuna differenza fra uomini e donne, purché avessero un ruolo passivo, le donne dell’Urbe ci appaiono catturate in una situazione di annullamento totale della propria immagine e identità. Senza contare che presto sarebbe stato il Cristianesimo a dar loro il colpo finale. «Studiando la condizione femminile a Roma ci si trova davvero di fronte a un quadro agghiacciante – ammette Eva Canterella -. E la cosa ci tocca da vicino perché ha lasciato tracce durevoli e pesanti su di noi. La grande abilità politica dei Romani e la loro astuzia determinò questa situazione. A differenza dei Greci che discriminavano le donne tanto da costringerle a vivere appartate, le Romane stipularono questo tacito patto con gli uomini, che vige ancora oggi, nelle ricompense, nei piccoli vantaggi.

Purché fossero mogli e madri modello…

Solamente se diventavano delle madri modello, mogli o vedove potevano ottenere qualcosa. Quanto alla lunga durata di una certa mentalità mi impressiona quello che si sente dire oggi riguardo alla necessità di aumentare le pene nei casi di stupro. Per carità, aumentino pure gli anni di carcere, ma il punto è che molto spesso i responsabili non vengono nemmeno individuati perché gli stupri avvengono in famiglia. Soprattutto non si ferma con il mero istituto della pena un fatto psicologico culturale di questa portata che ha radici così profonde. Ci vuole veramente una rivoluzione culturale.

affresco_romano_-_pompei_-_eros_e_psiche2Nel saggio Essere diverse contenuto nel libro Donna m’apparve curato da Nicla Vassallo per Codice edizioni lei scrive che la diversità della donna è una teoria elaborata dai Greci.

Sì, ma il fatto è che i filosofi greci elaborano un’idea di differenza che significa inferiorità della donna. E Aristotele, lo sappiamo, ha avuto un peso enorme sulla cultura occidentale. Il suo pensiero ha resistito fino a quando le femministe hanno elaborato una nuova teoria della differenza. Che poi sia riuscita o  meno, questo è un altro discorso. Ma non c’è dubbio che fino a quel momento la “differenza” è stata solo una sciagura per le donne.

Fra i Romani, come fra i Greci, l’omosessualità era pratica comune. Ma quello che più colpisce è che per i primi essere uomini voleva dire avere un ruolo sessualmente attivo. Poco importava se poi il partner era una donna o un uomo.

Questo accadeva anche in Grecia. Con una differenza tuttavia: Aristofane usa tutta una serie di aggettivi per indicare gli omosessuali passivi, usa parole che poco si adattano a un’intervista. Ma se si trattava di un giovane da educare ai valori della polis, il rapporto omosessuale veniva considerato un mezzo nobilissimo, in ogni caso. I Romani erano portatori – per capirsi – di un “celodurismo” alla Bossi, si pensavano supermaschi, ma se certi ragazzi romani di buona famiglia erano intoccabili, gli adulti non esitavano a ficcarlo in quel posto ai nemici e agli schiavetti. Perfino il dolce Catullo rivendicava l’io te lo metto lì e lo scriveva nei messaggi che indirizzava ai giovani uomini.

A Pompei i fanciulli che si prostituivano erano più ricercati e pagati delle donne?

Accadeva anche a Roma dove c’erano molti ragazzini viziati che dagli uomini si facevano pagare moltissimo. L’etica cittadina diceva no a tutto questo, ma la pratica quotidiana era cosa diversa. Come sempre.

E il Cristianesimo che tipo di cesura segnò nella cultura romana?

Una cesura radicale. Per il Cristianesimo l’unico rapporto secondo natura è quello che porta alla procreazione. E condannava ogni relazione omosessuale. Le conseguenze si possono leggere nelle costituzioni di epoca imperiale. Anche allora vigeva questo vizio dei politici di imporre a chicchessia quanto affermato dalle gerarchie ecclesiastiche. Gli imperatori cristiani cercarono di adeguare la legislazione, ma non potevano bruciare vivi gli omosessuali attivi che erano “approvati” dall’etica pagana. Quindi per secoli si punirono solo gli omosessuali passivi.

affresco-romanoLei scrive che nella società romana il parricidio era un’ossessione diffusa. E non di rado si passava all’atto.

Non lo dico solo io, ma anche un grande storico come Paul Veyne. E devo ammettere che se si vanno a leggere direttamente le fonti il fenomeno appare impressionante. A Roma, di fatto, non si smetteva mai di essere figli. Capitava così che un individuo a 40 oppure a 50 anni, sposato o console che fosse, dipendesse ancora dal padre, il quale poteva tagliargli i viveri o diseredarlo. L’usura, anche per questa causa, era molto praticata e c’era chi arrivava, per questo, ad uccidere il padre. E che non fosse un fatto straordinario, lo  si capisce dalle leggi ad hoc che furono emanate.

Dunque la famiglia romana produceva crimini e pazzia?

Di sicuro produceva rapporti difficili e contorti. Certo che il problema del parricidio era un affar serio, è documentato da molte fonti. Andrebbe ricordato a quanti ancora oggi esaltano la famiglia dipingendola in ogni epoca come un paradiso.

Il parricidio veniva punito con una pena efferata: la morte in un sacco con un cane, un gallo, una scimmia e una vipera

La pena del sacco, che a noi  sembra assolutamente primitiva, rimane in vigore anche nell’Impero. La si comminava anche agli adulteri, ma forse senza animali.

In questa romanità incentrata sul pater familias, in cui si imponevano modelli culturali anche attraverso la letteratura e la scelta dei miti e delle divinità, Apuleio come riuscì a introdurre la favola di Amore e Psiche?

In effetti fu un bel salto. Quello che sappiamo è che la favola di Amore e Psiche probabilmente era di origine orientale e arrivò in occidente attraverso percorsi sui quali si discute moltissimo.

Di questo lei si è occupata per una nuova edizione della favola di Apuleio che uscirà a giugno per Rizzoli. A che conclusione è giunta?

Ho scritto, appunto, che le radici della storia di Amore e Psiche affondano in luogo diverso da Roma e in un tempo probabilmente molto lontano da quello in cui visse Apuleio. Secondo alcuni studiosi il mito viene dalla Siria, secondo altri ancora sarebbe l’elaborazione greca di un mito iraniano. L’ipotesi sulle origini sono incerte. Ma quali che siano, la storia viene ripresa e rielaborata da Apuleio per adattarla alla società in cui viveva.

Da cosa lo deduce?

Apuleio, come sappiamo, era un avvocato e nel suo testo ci sono molti riferimenti ad istituti romani. Per esempio le donne a cui Psiche chiede aiuto le rispondono: non posso perché altrimenti sarei punita. La legge effettivamente sanzionava chi aiutava gli schiavi fuggitivi. Lo stesso Giove, a un certo punto dice: «Per colpa tua, io ho più volte violato la lex Iulia.

Il fatto che Apuleio fosse di origini berbere non potrebbe anche far pensare che la materia del mito provenisse proprio da quell’area dove le donne fin dalle epoche più antiche hanno sempre goduto di una certa libertà?

Non è da escludere, ma non abbiamo prove certe. Quello che possiamo dire è che il mito è sicuramente orientale, berbero o persiano che sia. Il mio lavoro su Amore e Psiche in realtà origina da alcune lezioni che tenni a New York con Karol Gilligan. Nel libro In a different voice, la Gilligan scrive che la favola di Amore e Psiche racconta una storia di resistenza femminile. Un’interpretazione affascinante, anche se mi convince fino a certo punto.  Il mito si offre a molte letture. In ogni caso particolarmente eversivo nella cultura classica romana, razionale, impostata sull’autorità paterna e la sottomissione totale della donna e dei figli.

Questo rapporto con l’Oriente è stato problematico. In Dammi mille baci, per esempio, lei racconta che la leggenda di Cleopatra con il naso lungo fu inventata da Pascal. Ma sono tante le storie di donne di culture mediorientali che la tradizione ebraico-cristiana ha deformato e alterato.

È comprensibile che Cleopatra fosse vista malissimo dai Romani, ma è vero che si potrebbero fare molti altri esempi di cattiveria occidentale. Uno dei pochi casi opposti è quello di Zenobia, la regina di Palmira. Di lei le fonti occidentali dicono che conosceva non so quante lingue e che cavalcava alla testa dei suoi soldati. Se ne parlava con rispetto. Se il nostro sguardo si fosse liberato dal pregiudizio si sarebbe accorto già molti secoli fa che nella storia e nella letteratura orientale emergono figure femminili veramente straordinarie.

da left-Avvenimenti 27 aprile 2009

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Nonostante Platone

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 27, 2009

2254752359_f3c00ba4ac_b1Il suo l’Amore è un dio uscito per Feltrinelli (dopo una fortunata serie radiofonica) è diventato rapidamente un best seller. Per la semplicità e il rigore con cui Eva Cantarella conduce i suoi lettori nell’universo della mitologia e nella vita della polis antica. Già al lavoro su un ideale seguito di quel libro, sulla vita nella Roma antica, fra un impegno accademico e l’altro, Eva Cantarella è a Firenze per il convegno Donne in rivolta,organizzato dal Maggio musicale.

Il tema scelto dalla docente di diritto greco e romano dell’Università di Milano è una originale rilettura dell’Orestea e in particolare di Clitemnestra, figura tragica per antonomasia che, con la complicità di Egisto, diventa l’assassina di Agamennone.

Professoressa Cantarella perché questa scelta?

Fra tutti i personaggi tragici femminili è quello che più è stato oggetto di riletture interessanti. Da Dacia Maraini e Valeria Parrella. In lei colpisce la violenza terribile, anche psicologica, verso i figli Oreste e Elettra. Le femministe hanno scritto che non era cattiva, originariamente violenta. Ma vittima di quella che una volta si chiamava oppressione di genere. Nell’Orestea questo non è così chiaro, ma da altre fonti emerge cheha subito ingiustizie, che ha grande dignità, forza di carattere,consapevolezza della condizione di oppressione che grava sulle donne. Una condizione da cui secondo la Clitemnestra classica se ne può uscire solo “con la scure”. Ma più a fondo il personaggio pone la necessità di riflettere su come trasformare il rapporto con l’uomo.

Da studiosa di diritto antico che cosa l’ha interessata?

Sulla scia di riletture di antichisti e letterati sono tornata a esaminare l’ultima parte della storia. Clitemnestra è morta, c’è il processo a Oreste. La sua assoluzione contiene tutto il sensodell’Orestea. È la nascita deldiritto. Ma avviene con una sentenza che stabilisce la superiorità del padre e la conseguente subalternità della donna. Le Erinni che rappresentano la passione, le emozioni, la parte femminile del mondo, sono sconfitte dalla ragione. La nascita del diritto si lega alla fine di una fase che qualcuno, forse non del tutto impropriamente, ha voluto dire di matriarcato. Ma oggi, prendendo spunto da interessanti riletture del mito, c’è chi dice che il diritto non debba essere solo ragione. Per essere giusto, il diritto deve comprendere anche le emozioni.

00-3-ganymede-ferrara1Le donne, dice Aristotele, vanno messe sotto tutela. Perché non hanno il logos,non sono in grado di deliberare. In questo passaggio l’immagine e l’identità femminile vengono negate, deformate. Santippe, per esempio, è tramandata come la pestilenziale moglie di Socrate. Che fosse solo ribelle alla sua logica astratta del filosofo?

Tutto si può dire in tempi di revisionismo come quelli in cui viviamo, ma affermare che i Greci non fossero misogini è davvero difficile. Già Esiodo dice che Pandora, la prima donna, nasce perché Zeus deve mandare un castigo agli uomini. Così la dota di grazia e di desiderio struggente, e ne fa «una trappola da cui non si può sfuggire».

Esiodo dice che da quel momento gli uomini non vivranno più bene. Quali sono le radici di questa misoginia che fa distinguere Omero fra mogli obbedienti come Penelope e pericolose sirene?

Si radica nella necessità di controllare le donne. Dietro c’è la paura della sessualità femminile. Le donne sono sessualmente incontinenti, non si sanno controllare e, dal momento che fanno anche i figli, bisogna appropriarsi delle conseguenze dei rapporti. La teorizzazione della necessaria subalternità femminile cresce intorno a questa equazione. Donna uguale non razionale, materia, passività. Uomo, cioè spirito, logos

e tutto quanto.

Questo attacco all’identità femminile sarà ancora più forte nel passaggio dall’epoca pagana al cristianesimo?

Si compirà con l’identificazione fra donna-sesso-peccato, tipica della religione cristiana. Quanto al diritto, la libertà che le donne romane avevano avuto, sul piano sociale anche se solo nell’ambito del matrimonio, si riduce con gli imperatori cattolici. Giustiniano, per esempio, vieta il divorzio. E compare la punizione dell’aborto che primanon c’era. Con i Severi on era vietato perché si pensa che il feto abbia solo spes animantis. Homo non recte dicitur dicono i giuristi romani a proposito del feto. Andrebbe detto a Giuliano Ferrara. Però la donna che abortisce senza il consenso del marito viene punita. Ma se ha il suo consenso può continuare a farlo. Il cristianesimo, si sa, condannava l’aborto, ma gli imperatori cristiani non riuscirono subito ad adeguarsi fino in fondo alla sua morale perché era troppo in contrasto con la mentalità romana. Per esempio non riescono a vietare il divorzio consensuale. Oggi, insomma, con la legge 40 sulla fecondazione assistita, siamo regrediti perfino rispetto ad allora.

Riprendendo il titolo del convegno, “Donne in rivolta” che cosa pensa del pensiero femminista contemporaneo che, per esempio, con Judith Butler associa la liberazione delle donne alla cultura omosessuale e transgender?

Una prospettiva di questo tipo, devo ammettere, mi lascia più che perplessa. Il pensiero femminista mi ha sempre interessato molto. Ma da un po’ di anni, confesso, non riesco più a seguirlo. Da quello che capisco di questa nuova stagione del femminismo di cui mi accenna, posso solo dire che non credo che la liberazione delle donne passi da una rinuncia di questo genere . Penso semmai che in ciascuno di noi ci possa essere, per così dire, “una parte femminile”, sensibile e una maschile intesa come capacità teorica, logica. Ma come fatto interiore, che è cosa ben diversa- da quel capisco- dalla cultura tansgender. Sul piano della vita pubblica, invece, mi pare sia da percorrere la strada a cui accennavamo di un diritto che possa comprendere ragione ed emozione, dunque un discorso di conciliazione dei sessi sul piano del diritto.

Per finire, tornando al tema della conferenza che terrà a Firenze, perché le eroine della letteratura, tutte le più belle, le più libere dell’Ottocento e Novecento vengono fatte morire dai loro autori? Come se dovessero espiare?

Forse perché sono storie scritte degli uomini. Ma a ben pensare, non proprio tutte muoiono. La protagonista di Casa di bambola di Ibsen, per esempio scappa dal marito. Quando facevo il ginnasio,ricordo, mi portarono a vedere Nora seconda di Cesare Giulio Viola. Io che allora avevo appena letto Ibsen, sono uscii furente: Nora seconda era la stessa Nora. Ma pentita.

Carmen e le altre

Sensuale, libera, fedele solo al proprio desiderio, incurante dei giudizi. Così Carlos Saura torna a pensare e immaginare Carmen, protagonista 25 anni fa di un suo storico film, Carmen story, realizzato a partire dalle coreografie di Antonio Gades e dalle musiche del chitarrista Paco de Lucia. Di fatto, ci voleva l’affascinante sigaraia di Mérimée per convincere il cineasta spagnolo a tornare a mettersi in gioco con la lirica. Galeotta la proposta che gli è arrivata dal Maggio musicale fiorentino di curare la regia di un’opera per questa settantunesima edizione del festival. Così, dal 30 aprile all’11 maggio 2007, al Comunale di Firenze la Carmen di Georges Bizet trova un nuovo allestimento. Sul podio, il maestro Zubin Metha a dirigere l’Orchestra del Maggio. A dare voce a Carmen sarà Julia Gertseva, mentre Marcelo Alvarez è Don Josè, il brigadiere innamorato e tradito che impazzisce di gelosia e la uccide davanti all’arena di Siviglia, dove l’amante di Carmen, Escamillo, sta toreando«Una vicenda – sottolinea Saura- tristemente attuale. Le cronache nere traboccano di delitti efferati in cui la vittima è quasi sempre la donna». Ma il regista spagnolo, che si dice convinto che la radice del problema stia, in primis, nella testa degli uomini che temono il desiderio e la libertà delle donne («gli uomini perdono sempre la testa per Carmen ma poi vogliono farla diventare moglie e madre») non ha scelto una chiave realistica per questa sua nuova Carmen. Al contrario. Invece della assolata Spagna che potremmo aspettarci, punta su una raffinata veste scenografica, fatta di chiaroscuri e ombre cinesi. Ricreando in teatro quei giochi di luce che ora va sperimentando al cinema con Vincenzo Storaro, in un nuovo film sul mito di Don Giovanni, visto attraverso le vicende del librettista Lorenzo Da Ponte. Da una tragica storia di passione e morte, tipicamente ottocentesca, la 71/a edizione del Maggio approda il 5 giugno alla Phaedra contemporanea del compositore Hans Werner Henze. Poi il 21 giugno, proseguendo in un viaggio alla riscoperta delle figure femminili meno convenzionali della tradizione lirica, al Comunale torna Lady Macbeth nel distretto di Mzensk di Sostakovic diretta da James Conlon. Due i monologhi teatrali quest’anno: Il dolore di Marguerite Duras, interpretato da Mariangela Melato e la controversa Erodias di Testori riproposta da Lombardi e Tiezzi al Museo del Bargello. Mentre l’apertura del festival, il 26 aprile, è affidata a Charlotte Rampling (in foto), voce recitante de Il sopravvissuto di Varsavia di Schönberg direttoda Zubin Metha e con Peter Greenway nell’insolita veste di video jokey.Ma è soprattutto il trittico di debutti operistici a connotare questa edizione del Maggio dal titolo “Donne contro”, come racconta il direttore artistico Paolo Arcà: «Carmen, Fedra, Lady Macbeth, pur diversissime fra loro, sono tre protagoniste del teatro in musica con una personalità nitida, che si rapportano al loro ambiente con una caratterizzazione forte, vibrante, mai asservita o subalterna». Donne contro, certamente, ma anche eroine fragili, tragiche, come Katerina che Sostakovic fa precipitare in un gorgo autodistruttivo di fronte alla violenza dell’ambiente circostante, rappresentato da un mondo di pupazzi.


da left-Avvenimenti maggio 2008

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