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Emergenze di talento

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 20, 2011

Dopo aver firmato la Biennale di Berlino e quella della Corea del Sud, l’under 40 Massimiliano Gioni è il nuovo direttore associato del New Museum di New York. Ma lui assicura: «Non sono un cervello in fuga»

di Simona Maggiorelli

Massimiliano Gioni

Giovane curatore di fama internazionale e “cervello in fuga” – come qualcuno lo ha definito non senza una punta di invidia – Massimiliano Gioni è da una settimana il nuovo direttore associato del New Museum of Contemporary Art di New York, dove è responsabile anche della programma espositivo. Un incarico importante per un italiano non ancora quarantenne in uno dei musei più di tendenza nella Grande Mela, aperto com’è ai nuovi linguaggi e al lavoro di giovani e emergenti.

Nel luminoso edificio disegnato dall’architetto giapponese Sejima, Massimiliano Gioni (che a New York, anni fa, ha fondato la micro galleria no profit Wrong Gallery e una rivista) è già al lavoro per preparare Mental States una monografica sul pittore americano anni ‘80 George Condo e, soprattutto, per organizzare la retrospettiva che dal 9 febbraio il New Museum dedicherà a Lynda Benglis, «un’artista che ha rielaborato temi femministi, intendendo la scultura come gesto politico – racconta Gioni -. Inoltre Lynda ha sempre avuto il suo studio nella zona dove ora sorge il New Museum, un quartiere dove c’è sempre stata una comunità di artisti molto attiva. Quando era molto più degradato, qui, non a caso, sono iniziate le prime sperimentazioni artistiche con materiali di scarto e riciclati».

New Meuseum di New York

Ma il rapporto fra arte e territorio è il filo rosso che, potremmo dire, attraversa l’intera, rapidissima, carriera di Massimiliano Gioni, fin da quando ha mosso i primi passi con la Fondazione Trussardi di cui ancora oggi è direttore artistico. In una metropoli come il capoluogo lombardo che “curiosamente” non ha ancora un suo museo dell’arte contemporanea, «l’idea è stata quella di pensare a una sorta di museo nomade, che di volta in volta apra all’arte vecchi palazzi e zone impreviste del tessuto urbano» ricorda Gioni. E aggiunge: «Sotto molti punti di vista è un progetto di arte pubblica. Parliamo di un museo sostenibile che non comporta nuovo cemento, ma che restaura e riusa ambienti che ci sono già, come abbiamo fatto con Palazzo Litta, Palazzo Dugnani e Palazzo Citterio restaurandoli».

Una lezione di cui ha fatto tesoro quando, a soli 33 anni nel 2006, si è trovato a dirigere la Biennale di Berlino insieme a Maurizio Cattelan e alla giovane editrice Ali Subotnick. Allora, come un qualunque appassionato d’arte, prese ad andarsene in giro in treno, perlustrando la Germania a caccia di artisti che sapessero raccontare l’atmosfera eccitata ma anche carica di tensioni della capitale tedesca post riunificazione. Gettare radici anche se per poco tempo, provare a crescere sul posto, incontrando i talenti che ci vivono, aprirsi alla cultura locale senza perdere di vista l’orizzonte globale è la strategia che Gioni ha messo in campo, più di recente, anche quando è stato chiamato alla guida dell’edizione 2010 della Biennale di Gwangju nella Corea del Sud. La sua mostra mutuava il titolo da 10,000 Lives, il poema non finito Maninbo (alla lettera 10.000 vite) del poeta dissidente Ko Un che nel 1980 fu accusato di aver partecipato al movimento democratico sudcoreano e, per questo, fu arrestato. Con questa esposizione, che ha chiuso i battenti lo scorso novembre, il curatore lombardo si proponeva di sollevare domande su «come vengono fatte, distribuite e riciclate le immagini», spaziando dall’arte alla propaganda, alla fotografia commerciale. Con un lavoro di ricerca durato molti mesi, per questa importante Biennale del sud-est asiatico ha selezionato 134 artisti provenienti da 28 differenti Paesi. E alla fine sono state quasi novemila le opere in mostra. «E’ stata un’occasione unica, imperdibile, per capire dall’interno qualcosa di più di un continente sterminato, l’Asia, che sta cambiando drasticamente gli equilibri nello scenario internazionale dell’arte. Certo – prosegue Gioni – dirigere la Biennale di Gwangju ha voluto dire, per me, anche mettersi in discussione, trovare un linguaggio per comunicare con una cultura molto diversa e lontana». E, stando alle fitte presenze di pubblico alla fine pare l’operazione possa dirsi più che riuscita.

«Mi ha colpito moltissimo l’interesse che ha suscitato – chiosa il direttore artistico – ho trovato là una curiosità, un‘attenzione al contemporaneo e una voglia di conoscere che non ha eguali da noi. Senza contare – aggiunge – che sembra attraversare tutte le fasce sociali. In Biennale s’incontravano i ragazzi delle scuole, c’erano gli anziani e c’erano tanti adulti. A New York come a Venezia riconosci alla prima occhiata l’artista, lo studente, il collezionista, le varie tipologie di spettatori. Là non avevo questi parametri familiari per orientarmi e il pubblico ai miei occhi aveva tutto il fascino dello sconosciuto di una storia e di una tradizione tutte da studiare».

Così da questo Belpaese che lascia crollare il proprio passato e che non promuove i giovani talenti Massimiliano Gioni continuerà a tenersi debitamente alla larga? «In realtà- confessa- non avevo deciso di andarmene a vivere in altri Paesi. Il mio non è stato un rifiuto dell’Italia. E’ che avendo viaggiato molto e da solo fin da giovanissimo ho avuto la fortuna di incontrare altrove persone con la mia stessa passione per l’arte e con le quali fare progetti, poter lavorare. Sapere le lingue, mi ha facilitato, il resto è stato lavoro duro, anche rinunciando al tempo libero». Ma di persone con cui costruire progetti importanti, sostiene Gioni ce ne sono anche in Italia. «Per me è stato importantissimo l’incontro con la Fondazione e quello con Beatrice Trussardi in particolare. Insieme, per i cento anni dalla maison, abbiamo pensato a una mostra con tredici artisti internazionali che sono stati vicini alla Fondazione» . Da qui, in occasione di Pitti a Firenze è nata la mostra 8½ che resterà aperta fino al 6 febbraio negli spazi di archeologia industriale della stazione Leopolda. «Una mostra – conclude Gioni – in cui la moda supporta l’arte e non viceversa. Certo, molti artisti che sono cresciuti negli anni ‘90 sono stati molto influenzati da quel mondo, ma moda e arte sono e restano due linguaggi diversi; in questo ambito non credo nelle contaminazioni».

LA MOSTRA: OTTO E MEZZO IN PROVOCAZIONE

FischliWeiss

«Everything is going to be alright» (Andrà tutto bene) è l’ironica scritta al neon di Martin Creed che campeggia sulla facciata della Stazione Leopolda (in foto). Quasi un monito per chi varchi la soglia della ottocentesca stazione fiorentina per visitare la mostra 8½, curata da Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi in occasione di Pitti. Una collettiva (fino al 6 febbraio, ingresso libero) che squaderna le provocatorie visioni sul presente di tredici star dell’arte contemporanea. E che sotto le alte volte leopoldine fa comparire fantasmagorie, sogni e ossessioni assai poco tranquillizzanti. Come il peluche afflosciato del celebre Film con un orso e un ratto di Fischli and Weiss che compare nel vuoto di un sontuoso salone, evocando un agghiacciante ritratto di una famiglia in un interno. E quel filo di inquietudine non si stempera neanche quando- come nel caso del mastodontico autoritratto del polacco Pawel Althamer – l’opera è virata al carnevalesco. Oppure è cucinata in salsa grottesca come la riflessione sulla morte che Maurizio Cattelan ha realizzato ad hoc per questa mostra dell’amico e sodale Gioni. Provando ad uscire da questi universi di claustrofobico autobiografismo, più in là, ecco l’auto bianca con roulotte di Elmgreen & Dragset che si fa amara metafora del turismo globale. Corrosiva e insieme disperata ci appare anche la dissacrante rappresentazione di George W. Bush in Static (Pink) di Paul McCarthy, con il suo debordadante uso della materia che resta solo tale, ottusamente senza forma, senza sogni, senza utopie. Ed è una fiaba che non ha niente di fiabesco quella che racconta Urs Fischer con la sua casa di pane, mentre Paola Pivi cerca lo choc nello spettatore con le sue spiazzanti zebre fotografate in un paesaggio ghiacciato. In questa rilettura del celebre film di Fellini che rifletteva sul ruolo dell’artista tredici graffi d’autore, davvero al vetriolo. s.m.

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