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In viaggio con la lepre. L’opera dello scrittore #ArtoPaasilinna al festival I Boreali

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 22, 2016

Arto-Paasilinna

Arto-Paasilinna

Anticonformisti, timidi, sempre di spigolo con le convenzioni e i riti del vivere “civile”, i personaggi di del finlandese Arto Paasilinna hanno un fascino irresistibile. Che si fa strada a poco a poco. Pagina dopo pagina. Fino a farsi compagni di viaggio irrinunciabili, da cui alla fine della lettura ci si separa a malincuore. Accade così con i due protagonisti del nuovo romanzo tradotto in italiano dello scrittore finlandese Il liberatore dei popoli oppressi (Iperborea), il glottologo Viljo Surunen e la dolce maestra di musica Anneli Immonen  che, con disarmante idealismo,  scrivono lettere ai dittatori sparsi nel mondo per farli desistere dai loro intenti distruttivi. Accadeva così per Rauno Rämekorpi, l’ex boscaiolo e self made man protagonista de Le dieci donne del cavaliere, che per il suo sessantesimo compleanno decide di distribuire fiori, caviale e champagne che ha ricevuto dalle varie autorità, alle donne della sua vita.  Solo per fare due esempi, fra i moltissimi che potremmo fare ricordando Lo smemorato di Tapiola, Piccoli suicidi fra amici, L’allegra apocalisse (con il suo Asser Toropainer, vecchio comunista “bruciachiese”) e altri romanzi, già diventati dei classici della letteratura, firmati da questo originale ex tagliaboschi, ex giornalista, romanziere e poeta finlandese che si è guadagnato l’attenzione del pubblico internazionale nel 1975 con un libro cult, L’anno della lepre, che viene raccontato da Giuseppe Cederna al Teatro Franco Parenti,  il 22 Aprile al Festival I Boreali

Protagonista de L’anno della lepre è il giornalista Vatanen che, a quarant’anni è stanco del suo lavoro diventato sempre più razionale e meccanico, è stanco del cinismo che lo circonda  e dalla stolidità borghese della moglie, è stanco senza esserne consapevole. Finché una sera al tramonto, viaggiando in auto con un collega lungo una strada sterrata, investe accidentalmente una lepre. Sarà proprio quell’ animale ferito ad aprirgli un mondo di avventure, girovagando per boschi, piccoli paesi e riviere, in cui l’uomo ritrova la fantasia e la gioia di vivere. Il piccolo animale che fa ritrovare la tenerezza a Vatanen e  il gusto della libertà nella Lapponia a nord (terra dove Paasilinna è nato) si rivelerà anche un imprevedibile sovvertitore di regole sociali e  di gioghi religiosi, scorrazzando per chiese, brucando fiori sugli altari e disseminandoli allegramente di pallette di sterco. Con sottile, giocosa, ironia sarà proprio la lepre a guidare il protagonista del romanzo, insieme al lettore, alla scoperta di una nuova e imprevista visione della realtà, decisamente contagiosa.

l'anno“L’anno della lepre è stato un libro molto amato, quasi un romanzo simbolo, per la mia generazione”, dice  Giulio Scarpati che per Emons ha registrato un audiolibro de L’anno della lepre.”Mi incuriosiva rileggere il romanzo di Paasilinna oggi – racconta  Scarpati – per capire se ha ancora mantenuto il suo fascino”. E come lo ha trovato? “Ancora straordinario e  di grande attualità perché propone un percorso fuori dagli schemi, che mette a nudo i rapporti consunti, che si sono inariditi. Il viaggio  che si compie in questo romanzo è un viaggio  formativo, di scoperta del nuovo, di apertura alle possibilità, ad incontri imprevisti”.

E’ possibile cambiare vita? Sì sembra dirci Paasilinna, la vita può cambiare in un attimo. Certo ci vuole coraggio e un pizzico di follia.  “Ma anche ironia, per vedere il risvolto comico della burocrazia, dei meccanismi sociali che ci ingabbiano”, aggiunge l’attore. “Quella di Paasilinna è un tipo di ironia molto nordica, che si esprime con un certo understatement, non in modo sottolineato ed  immediatamente evidente come succede nella nostra tradizione”, precisa Scarpati.

“Sull’automobile viaggiavano due uomini depressi – recita l’incipit del romanzo – Il sole al tramonto, battendo sul parabrezza polveroso, infastidiva i loro occhi… Lungo la strada sterrata il paesaggio finlandese scorreva sotto il loro sguardo stanco, ma nessuno dei due prestava la minima attenzione alla bellezza della sera. Erano un giornalista e un fotografo in viaggio di lavoro, due persone ciniche, infelici. Prossimi alla quarantina, erano ormai lontani dalle illusioni e dai sogni della gioventù, che non erano mai riusciti a realizzare”. Il registro ironico di Paasilinna è seducente anche per la malinconia e la bonomia dei suoi personaggi? ” Non c’è cinismo, in loro – conclude Scarpati – anche quando Arto Paasilinna tratteggia personaggi negativi lo fa a tutto tondo, raccontando anche i loro lati nascosti, più umani, così come la sua fantasiae  l’elemento utopico non sono astratti, ma rivelano un legame profondissimo con la realtà”. @simonamaggiorel

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L’enigma del lago rosso. #FrankWesterman al Book Pride

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 3, 2016

Lago Nyos

Lago Nyos

Nel 1986, in una valle remota del Camerun, duemila persone morirono in silenzio durante la notte. Uomini, donne e bambini si erano spenti insieme alle loro mucche, ai loro polli, agli uccelli, ai babbuini e alle formiche. Intorno nessuna traccia di distruzione, nessun danno. Solo molti anni dopo gli scienziati arrivarono all’ipotesi che ad uccidere senza lasciare tracce visibili fosse stata una esalazione di anidride carbonica dal lago Nyos. Nel frattempo però molte leggende sono scaturite da quel tragico evento. Ne L’enigma del lago rosso  pubblicato da Iperborea, lo scrittore olandese Frank Westerman cerca di ricostruire cosa accadde ma, soprattutto, attraverso la voce di testimoni e studiosi si interroga sul processo di mitopoiesi e sui modi della trasmissione orale delle storie. Di questo in particolare parla  a Milano il 3 aprile intervenendo al Book Pride, nell’ex Ansaldo a Milano. Domenica 3 aprile alle ore 14, in particolate  l’autore presenta il suo libro insieme ad Alessandra Iadicicco e alle 16 partecipa a una tavola rotonda con il deputato Khalid Chaouki e la scrittrice somala Kaha Mohamed Aden sul tema dell’immigrazione.

Wasterman che cosa ha scoperto studiando le leggende della valle di Nyos?

All’inizio mi sono trovato davanti a un vero enigma. L’accaduto lasciava spazio alle ipotesi più varie, alle dietrologie e, sulle sponde del lago, ai canti, alle preghiere, ai racconti. Le storie trovano sempre dove fare il nido. Gli esseri umani creano un intero mondo intorno ai fatti, li alimentano di significati, di interpretazioni. Viviamo immersi in quel mondo fantastico che colora e trasforma la realtà.

frankAncora oggi le cause della strage non sono state del tutto chiarite?

A più di 25 anni di distanza la scienza non ha prodotto una spiegazione univoca e incontrastata. E l’esercito del Camerun sta ancora pattugliando un tratto di 18 km come zona vietata. Quando l’ho saputo ho immediatamente progettato di tornare là. Quel mistero mi ha colpito profondamente. Ho pensato che quella vicenda poteva essere un “laboratorio” per capire come nascono le storie che poi finiscono per diventare miti e leggende. Come è cresciuta quella selva di narrazioni? A cosa assomiglia quella proliferazione? E quale influenza esercita su di noi? Quando nel 1992 per la prima volta andai in Camerun ero un giovane reporter radiofonico e mi domandavo cosa fosse successo. Tornandoci poi da scrittore mi sono chiesto che cosa racconta la gente di ciò che è accaduto. Ciò che mi sembra sempre più evidente è che siamo più influenzati dalle costruzioni culturali che dalla natura intesa come ambiente fisico, correnti, uragani, terremoti. I nazisti credevano che la razza ariana fosse superiore alle altre. La schiavitù ha trovato “giustificazione” nella religione che parla di un ordine voluto da Dio. Parliamo di mitologie basate su una feroce ideologia. Più in generale, invece, la fantasia è il nostro habitat naturale. Mi affascina osservare come le storie mutino nel tempo, come si moltiplicano se vengono dette e ridette, come evolvono, si trasformano.

enigma-del-lago-rossoLa religione cattolica sostiene che il Male è in ogni essere umano come peccato originale. C’è bisogno di una nuova antropologia, più laica, per studiare e conoscere la realtà umana?

Io penso che l’antropologia si sia liberata dalla maggior parte dei pregiudizi cristiani, già da decenni. Ha fatto molta strada e altra ne farà. Riguardo all’Africa per esempio è partita considerando in modo positivistico e razzista la misura del cranio come indicatore di intelligenza ed è arrivata nel ‘900 ad essere la scienza sociale per eccellenza che continuamente ci rimanda indietro la nostra immagine di occidentali europei in maniera critica. Anch’io, in qualche modo, cerco di farlo ne L’enigma del lago rosso. Come? Dando ai superstiti del misterioso lago Nyos l’ultima parola. I cantastorie, i griot, non sono una realtà solo africana: tutti gli esseri umani hanno una dimensione di fantasia e ognuno di noi contribuisce alla narrazione collettiva.

Nel suo Ararat (Iperborea 2010) lo scienziato Salle Kroonenberg racconta che solo quando si è ammesso che il diluvio universale è n’allegoria si è sbloccata la ricerca nel campo della geologia. Questa credenza ha anche ritardato lo studio della storia della Mesopotamia e la scoperta dell’epopea di Gilgamesh. Che ne pensa?

Alla fine la leggenda dell’arca di Noè si è rivelata più tenace di storie avventurose come il viaggio sul brigantino Beegle che Darwin intraprese per fare ricerca. In effetti c’è un filo rosso che lega L’enigma del lago rosso e Ararat. Personalmente vorrei che mia figlia studiasse la teoria di Darwin a scuola e allo stesso tempo avesse la possibilità di godere della bellezza delle storie prendendole come tali. Oggi ha 13 anni e di recente le ho mostrato un video di you tube in cui fondamentalisti dell’Isis distruggano dei reperti antichi a Ninive. L’ha impressionata molto e mi ha detto: «Papa, non ti deprimere, è esattamente quello che loro vogliono».

Nel libro El Negro ed io (Iperborea, 2009) racconta di aver visto in un museo spagnolo il corpo imbalsamato di un africano senza nome. «Il modo in cui l’abbiamo guardato e lo guardiamo tradisce il nostro pensiero su razza e identità», lei scrive. Quanto di quello sguardo razzista c’è nelle politiche europee verso i migranti?

Molto direi. Ma fortunatamente la nostra visione dell’ “altro”, dello “straniero” non è sempre la stessa, cambia nel tempo. Ci sono state molte ondate di migrazioni in Olanda, ugonotti portoghesi, ebrei; gli stessi olandesi sono emigrati in massa nel “nuovo mondo” e in Australia, per centinaia di anni fino agli anni Cinquanta e Sessanta. Hanno sperimentato cosa significa essere stranieri L’identità di un popolo è anche definita da come lo vedono gli altri popoli. Ai tempi del conflitto in Jugoslavia ero corrispondente di guerra: serbi, croati e bosniaci avevano rapporti di interdipendenza, contava molto come si percepivano, differenze li definivano reciprocamente. Franz Fanon non a caso diceva: «Diventi un nero solo quando incontri un bianco». Gli incontri sono sempre “a doppio senso”. Si cresce in questa dialettica. In Bosnia ho visto villaggi con una millenaria storia multietnica diventare teatri di pulizia etnica. Solo i Serbi sono rimasti alla fine. E devo dire era una scena davvero pietosa. Come vedere qualcuno in pista che balla da solo il valzer, avendo perso il proprio partner. ( Simona Maggiorelli, Left)

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Come l’educato Sar diventò il feroce Pol Pot

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 25, 2014

Angkor-Wat-in-Siem-Reap

Angkor-Wat-in-Siem-Reap

Nella Cambogia anni Cinquanta, in fermento per le prime libere elezioni. Nel romanzo Canto della tempesta che verrà lo scrittore Peter Fröberg Idling racconta la giovinezza del futuro dittatore e quel suo “strano”, inquietante, sorriso

di Simona Maggiorelli

Chi era veramente Pol Pot, prima di diventare il dittatore khmer che si rese responsabile di uno dei più terribili genocidi del Novecento? Lo scrittore svedese Peter Fröberg Idling, che ha vissuto e lavorato in Cambogia e in Sud-est asiatico come cooperante, ha continuato a chiederselo per anni. Colpito da quello strano sorriso che affiorava sul volto di Saloth Sar (1925-1998) in foto d’epoca che lo ritraggono elegante studente a Parigi nei primi anni Sessanta e poi modesto e schivo insegnante in Cambogia mentre, segretamente, si dedicava a una organizzazione clandestina d’ispirazione comunista.

Apsaras in Angkor  Wat

Apsaras in Angkor Wat

Chi avrebbe mai detto, dalle tante testimonianze che Idling ha letto e raccolto direttamente, che quello schivo ragazzo sarebbe diventato il capo di quel regime che, tra il 1975 e il 1979, torturò e uccise due milioni di persone? Rendendosi colpevole di un massacro così sistematico e agghiacciante da lasciare ancora larga parte della popolazione cambogiana stordita, vittima di una abissale amnesia. Con questi pensieri e interrogativi che gli ronzavano in testa, una decina di anni fa Idling ha scritto un importante libro-inchiesta, Il sorriso di Pol Pot, basato su lunghe e minuziose ricerche. Ed è stato proprio durante quelle indagini sul campo che lo scrittore e giornalista svedese si è imbattuto in una sfuggente figura di donna, che negli anni Cinquanta fu miss Cambogia e, fin dai 18 anni, fidanzata del futuro Pol Pot.

Intorno alla seducente Somaly ha costruito il suo nuovo libro, Canto della tempesta che verrà, edito in Italia da Iperborea, come il precedente volume. Pur avendo alle spalle un grosso lavoro di documentazione, questa volta si tratta di un romanzo. Anche perché, dopo essere riuscito a scoprire che la ragazza, di estrazione aristocratica, lasciò Sar d’improvviso («spezzandogli il cuore») per scappare in Inghilterra con il suo amico (l’ambizioso Sary), Idling ammette di aver perso ogni traccia di lei. «Ho saputo di Somaly da un testimone speciale, il filosofo e linguista khmer Keng Vannsak, ma ho incontrato molte difficoltà nelle verifiche, i riscontri erano confusi e quando lui è morto nel 2008 ho smesso di cercare, pur continuando a tenere viva l’attenzione».
Fin dal poetico incipit di Canto della tempesta che verrà, tuttavia, si ha la sensazione che la scelta non sia stata casuale. Poiché il ricorso alla narrativa ha permesso allo scrittore di andare molto più in profondità, nello scavo psicologico dei personaggi e della storia.

Angor Wat

Angor Wat

Il risultato è un affascinante affresco della Cambogia all’indomani della liberazione dal dominio francese, quando il Paese si preparava alle prime libere elezioni del 1955, mentre gli oppositori del principe Sihanouk (fra i quali lo stesso Sar) cominciavano a metterne in discussione il potere. La scrittura giornalistica, certamente, non avrebbe permesso all’autore di esplorare al contempo tutti questi differenti piani, anche se lui un po’ minimizza. «Il genere per me non è importante. Ogni volta cerco solo il modo migliore per scrivere la storia che vorrei raccontare. In questo caso volevo che il lettore potesse immergersi nelle atmosfere di una Phnom Penh anni Cinquanta, quando non era ancora tutto già determinato. Volevo ricreare la quotidianità di quelle settimane in cui furono prese delle decisioni che avrebbero avuto enormi conseguenze. Come scrittore questa è stata la mia sfida». In quello scenario, di una città in fibrillazione, incontriamo Sar, persona “piacevole”, affabile. Nulla lascia trasparire quella fredda schizoidia che l’avrebbe portato a sterminare migliaia e migliaia di persone in nome di una astratta costruzione dell’uomo nuovo. «L’idea che mi sono fatto – commenta Idling – è che Pol Pot sia stato, per così dire, l’uomo sbagliato nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Penso che in quella determinata situazione, una granitica ideologia lo abbia spinto a prendere decisioni via via sempre più estreme, perdendo ogni rapporto con la realtà umana. Fino al punto di arrivare a pensare che, per ottenere certi traguardi di cambiamento sociale, fosse necessario sacrificare delle persone in carne e ossa». Armati da un simile determinismo «i Khmer rossi, come altri regimi comunisti, si sono spinti molto oltre nella violazione dei diritti umani», sottolinea con forza lo scrittore svedese. «La loro totale incapacità nel gestire la nuova situazione del Paese, insieme a una folle escalation di paranoia e brutalità, li fece arrivare fino al genocidio», racconta Idling.

Iperborea

Iperborea

Il sorriso seduttivo di Sar in questo modo si tramutò nella maschera agghiacciante di Pol Pot? «Per tutta la vita lo hanno sempre descritto come un uomo “piacevole”, ma dopo gli anni Sessanta la sua personalità fu sempre più alterata e distorta, anche se appariva lucido, freddamente razionale nel prendere le decisioni». Anche le più terribili.
Eppure quando da giovane viveva in Francia, Sar sembrava avere molte passioni. Era affascinato dalla rivoluzione francese, frequentava intellettuali e filosofi (fra i quali Jean-Paul Sartre) ma anche e soprattutto giovani esuli provenienti dalle colonie francesi, che studiavano a Parigi e intanto lavoravano per l’indipendenza del loro Paese d’origine. «Sar era un nazionalista convinto ed era attratto dall’idea di una Cambogia indipendente», precisa Peter Fröberg Idling. «E la via più diretta per ottenerla era quella indicata da un’ideologia allora alla moda: la lotta armata. Nei primi anni Sessanta quei gruppi avevano pochi seguaci e assomigliavano piuttosto a una setta. Con alcune analogie con la tedesca Raf. Comunque Sar non fu mai un ideologo – nota lo scrittore – le sue conoscenze teoriche non erano molto avanzate. Per lui il nazionalismo fu sempre più importante del comunismo».

Ma al di là della vicenda personale di Pol Pot,resta un quesito irrisolto: che cosa determinò il precipitare degli eventi in Cambogia? Perché il Paese che si era ribellato ai colonizzatori finì nel terrore? «A mio avviso fu anche il risultato di una serie di fattori diversi – risponde Idling -. A cominciare dalla guerra fredda. Le grandi potenze usarono la Cambogia come una scacchiera. La guerra degli Stati Uniti in Vietnam ebbe un forte impatto sulla società cambogiana. L’esercito statunitense cominciò a bombardarla. Il governo cambogiano ebbe delle precise responsabilità in tutto questo e indirettamente spinse le posizioni dei Khmer a radicalizzarsi. Detto questo, io non credo, però, che la rivoluzione armata sia la soluzione, a meno che tu non sia disponibile a sacrificare un sacco di gente. Su questo Svetlana Alexieviech ha scritto pagine definitive, che invito a leggere».

dal settimanale Left

A conversation with  Peter Fröberg Idling, by Simona Maggiorelli (21 ottobre 2014)

 

Peter F. Idling

Peter F. Idling

After a powerful book like Pol Pot’s smilehow did you come to the decision to change literary genre and write a novel, going back to 1955, when Pol Pot was still an unknown man?

I don not pay much attention to genres. I merely try to find the best way to tell the story I want to tell. In this case I wanted the reader to enter into a world and a time when nothing yet had been decided. I wanted the reader not only to experience the atmosphere of Phnom Penh in the 50’s, I also wanted the reader to feel the ordinariness of these weeks and petty decisions that would have extraordinary consequences. Lastly, as a writer, I always have to challenge myself, I cannot do the same thing twice.
How can happen that a kind teacher, a man of culture, apparently democratic, become a dictator responsible for Cambodia’s 1975-79 genocide, in which as many as two million people died?
I think he was the wrong person at the wrong place at the wrong time. I think both his dictatorship and the genocide were the results of the circumstances. He tried to do what he thought was best for himself, his party and finally the nation, but every radical decision brought him further and further away from what we consider humane and reasonable. In order to obtain certain goals, you sometimes have to sacrifice people. If we take a trivial example, the Italian society accepts that almost 4000 people are killed in the traffic every year because these peoples lives are considered less important than to have a functioning traffic system in the country. The Khmer Rouge, and other Communists regimes, kept pushing that line of acceptance, being prepared to sacrifice more and more people in order to reform society. This – in combination with an extreme incompetence when it came to managing the country, escalating paranoia and built-in brutality – made the Khmer Rouge such a disaster. I think Pol Pot in many ways remained a likable man through his whole life, that is how he is described by people who met him, but I think he from the 60’s and onward became more and more distorted by the power he obtained, by the inhumane decisions he felt he was forced to make.

Generally in schizophrenics ( even if they seem calm, diligent and serious scholars) there is something strange or bizarre in their way of expressing themselves or move that, to a trained eye, sounds as an alarm bell. Nothing in Sar hinted a sick mind?

As I said in the previous answer, I don’t think Sar was insane. I think he, through ideology, the repression from the Cambodian police, the American bombings and the civil war, gradually entered a mind frame that we today perceive as lunatic. But entering this way of understanding the world step by step, it probably all seemed reasonable and in that context he took what he perceived as reasonable decisions. But to us, with hindsight, these decisions seem insane.

In the novel you suggest that the loss of Somaly, (who had been his fiancé from the age of 18) marked a caesura in his life. Did your research in Cambodia confirm your intuition? Which was the role of the magnetic Somaly?

I got the story about this illusive Somaly from Keng Vannsak (http://www.rfa.org/english/news/politics/cambodia_polpot-20060507.html). The story turned out to be very hard to research – Keng Vannsak passed away, some of the names and the order of events etc were confused. I spent a lot of time trying to find out what happened, but in the end it was not important for the novel. But I still keep an eye open.

Speaking of the Parisian formation of Pol Pot, which influence has had on him Sartre’s marxism ? How Sar became then a crystallised communist?

Sar was not a very political person when he arrived in Paris. There he kept to his compatriots, who happened to be influenced by the other young men from the French colonies who studied there and were struggling for independence. Being a nationalist, Sar was attracted by the idea of independence for Cambodia. And the best way to obtain this, was through the ideology à la mode – armed communism. In the first half of the 1960’s, the Khmer Rouge, which at the time had very few followers, turned into something rather sect-like. One could compare them with the RAF in West Germany. Sar was never a very profound ideologist, his theoretical knowledge does not seem to have been very advanced, and he also dropped communism in the 80’s when the Khmer Rouge was transformed into a nationalistic guerrilla fighting against the Vietnames occupation. Nationalism was always more important than communism.

The historical period in which the novel is set was a period of great and positive turmoil in Cambodia. How could it happen that the struggle for freedom and independence ended in the Khmer dictatorship? How was it possible that a dream of a New Humanity produced a chilling genocide?

It was the result of converging factors. Most importantly, I would say, was the Cold War, where the great powers were using Cambodia as a chess pawn. The American war in Vietnam also had a great impact on the Cambodian society, especially when the US started to bomb Cambodia. But it was of course also the responsibility of the Cambodian politicians and the radicalization of the Khmer Rouge. I do not think armed revolution ever is a good idea, unless you are ready to sacrifice a lot of people. I advice everyone who feel attracted by armed revolution to read Svetlana Alexieviech’s books.

In your previous book, The smile of Pol Pot you tell of a shipment of leading European intellectuals who during a trip to Cambodia (escorted by the Khmer) did not perceive the tragedy that was taking place. Was it for dishonesty? Why did they close their eyes?

There blindness can be explained by several reasons. Being invited by a revolutionary icon like Pol Pot was of course very flattering – three of the four were young, rather inexperienced and had never been to Cambodia before. They also had a different mind frame than we have today – for example they had accepted the idea of forcing the wealthy to surrender their wealth in order to reach a society without economic inequality. Furthermore, they did not trust the Western media and thus relied more on Cambodian and Chinese sources of information. They were confronted by a society recently destroyed by war, which of course explained some deficiencies. But perhaps most important, the Khmer Rouge cadre in the provinces could not show the real state of affairs to their own leaders (as they then would have been accused of sabotage and been executed) and were thus in a bizarre way rather experienced in staging this kind of visits. The Swedish delegations had some doubts, which they expressed in their reports after the trip, but the overall pattern was, according to them, positive. They did of course not see any terror, not even armed cadre.

 

 

 

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Il cielo lettone e il rosso di Rothko

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 13, 2014

Rothko No 14

Rothko No 14

Fuori dal finestrino dominano due colori: il rosso del cielo e il verde dei boschi. Il rosso diventa più rosso per la fascia inferiore più scura…Un quadro scorre fuori dal finestrino: un quadro che non finisce mai, forte e inquietante, tranquillo e profondo. Un quadro di Rothko». Che cosa affina lo sguardo del pittore? Si domanda Jan Brokken, autore di Anime baltiche (Iperborea), in pagine icastiche e suggestive nate viaggiando in Lettonia, verso Daugavpils e verso una città industriale grigia come Charleroi. Ovvero nelle terre dove trascorse l’infanzia e la giovinezza il pittore Mark Rothko, prima di emigrare negli Stati Uniti, per decisione del padre diventato un rigido ortodosso dopo la repressione zarista del 1905.
Lo scrittore e viaggiatore olandese (che il 15 novembre incontra il pubblico di Bookcity a Milano), con la sua prosa lirica e avvolgente, è capace di evocare i colori e il movimento che percorre le tele di Rothko, di “scavare” nel suo vissuto emotivo, indagando le radici di quel suo essere e voler riemanare un rivoluzionario, nonostante tutto. Nonostante la deriva bigotta della propria famiglia, nonostante l’American way of life e una vita borghese Oltreoceano (che al fondo non gli corrispondeva). Tanto che nel 1958 – racconta Brokken – quando l’elegante ristorante Four seasons di New York gli commissionò dei dipinti murali, accettò l’incarico ma con l’intenzione “maliziosa” di dipingere «qualcosa che rovini l’appetito a ogni figlio di puttana che mangerà in questa sala».
Rothko non è l’unico artista della diaspora lettone che incontriamo in questo singolare volume, che fonde narrazione, reportage, ricerca sul campo e critica d’arte. Camminando per le strade di Riga, città a lungo occupata e dove per alcuni periodi era persino proibito parlare lettone, Brokken ritrova le tracce della storica libreria di Janis Roze, chiusa dal regime comunista perché (dopo la diabolica spartizione di territori fra Hitler e Stalin) il librario Roze, come tanti altri lituani, lettoni ed estoni, fu additato come anti sovietico e deportato con tutta la sua famiglia.

Ian BrokkenMa la mappa di Riga rivela all’autore anche un altro importante tesoro: i resti del quartiere Jugendstil costruito tra il 1901 e il 1911 da un architetto esuberante e alla moda come Michail Ejzenstejn, papà di Sergej. Anche in questo caso la ribellione al padre, ( che il futuro regista chiamava «il pasticcere di panna montata») e l’esigenza di trovare una propria strada diversa da quella indicata dalla famiglia, s’intrecciano con gli accadimenti storici, con lo scoppio della Rivoluzione di ottobre, alla quale Sergej Ejzenstejn aderì senza nemmeno sapere chi fossero Marx ed Engles.

All’epoca, racconta Brokken,  si dedicava agli scritti di Leonardo da Vinci e, pur disprezzando il padre, studiava da ingegnere edile. Sarà proprio la rivoluzione a offrirgli l’occasione per separarsi dal passato, imboccando la strada dell’avanguardia e della ricerca artistica. Fu così che Ejzenstejn si dette al cinema, apparentemente, per raccontare le magnifiche sorti e progressive dei bolscevichi. Di fatto creando immagini nuove, senza appiattirsi sui fatti, in film geniali come La corazzata Potemkin.

Dal settimanale left

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L’incanto che viene dal Nord

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 10, 2013

Iceland

Iceland

Non solo giallo. La letteratura dei Paesi scandinavi e del nord Europa ci sta regalando narratori dalla vena originale, polifonica, potente: all’insegna della poesia (Stefánsson), dello humour (Niemi), dell’avventura (Larsoon, L’ultima avventura del pirata Long Jhon Silver) della riflessione filosofica (Noteboom, Lettere a Poseidon), solo per citare alcune fra le voci più interessanti ora in libreria. E accanto ad un impareggiabile narratore di storie finlandesi tragicomiche e fiabesche come Arto Paasillinna ( Sangue caldo, nervi d’acciaio è il suo ultimo titolo) crescono nuovi autori come Audur Ava Olafsdottir, critica d’arte e direttrice dell’University of Iceland’s Art Museum, che si è fatta notare con il delicato e disarmante Rosa Candida, e che ora, sempre con Einaudi, pubblica La donna è un’isola, affresco di vita di due amiche – una traduttrice poliglotta e una pianista incinta di due gemelli – dai temperamenti opposti anche nel rapporto con l’unverso maschile. Con apparente semplicità Olafsdottir tratteggia storie quotidiane nell’Islanda di oggi. Riuscendo però a far risplendere nel dettaglio, ciò che è l’universale. Raccontando l’invisibile dei rapporti umani, senza mai metterli del tutto a nudo.

Una capacità che ritroviamo, mutatis mutandis, anche in Jón Kalman Stefánsson, poeta e romanziere immaginifico e della suggestiva prosa lirica che gli permette di scavare con sensibilità nell’animo umano, nella trama cangiante dei desideri di personggi all’apparenza un po’ folli come il direttore del maglificio in Luce d’estate ed è subito notte (Iperborea) che sogna in latino e s’immerge negli studi di astronomia o come il suo deuteragonista, un avvocato convinto che tutto il mondo si regga sul calcolo, fino a quando scopre che non può contare i pesci del mare, né le sue lacrime.

cover_media Entrambi vivono in un piccolo villaggio, lontano da ogni cosa, dalla città e dal mondo occidentale. «E’ nella gente comune che si nasconde ciò che comune non è: i sogni più grandi e i dolori più profondi. Mi piace raccontare di uomini e donne semplici ma epici», dice Stefánsson a left. «A fine Ottocento in cui è ambientata la trilogia di Paradiso e inferno non c’erano delle vere e proprie classi da noi, c’era chi stava un po’ meglio di altri ma in genere erano tutti molto poveri. Ma amavano leggere. Non era affatto raro che un pescatore leggesse Milton o Shakespeare». Anche in Luce d’estate accade la stessa cosa anche se è ambientato ai giorni nostri. «In questo romanzo le persone lottano per sopravvivere, amano, soffrono, ma al tempo stesso vorrebbero, come l’astronomo, guardare il cielo e occuparsi dei grandi temi dell’universo. Quello che amo raccontare – confessa- è un mondo forse perduto ma, poetico, magnifico, pieno di grandezza umana». E’ questo, in fondo, sembra essere il filo rosso che lega la trilogia di Paradiso e inferno e Luce d’estate. «Non so cosa colleghi questi due mondi, a parte il fatto che sono stati entrambi creati da me- commenta Stefánsson -. Sembra però che in tutti e due ci siano  molte persone che hanno difficoltà a vivere la loro vita, a scoprire ciò che vogliono e verso quale direzione vorranno o dovranno andare. E si potrebbe trovare un nesso tra i personaggi femminili: Elisabet in Luce d’estate e Geirthrudur nella Trilogia sono due caratteri forti, due donne che cercano di ritagliarsi uno spazio in un mondo di uomini. Forse quando l’ho scritto nel 2001, dopo essermi occupato per molto tempo di tematiche più astratte e filosofiche, volevo scoprire cosa fosse la vita, la passione, la morte; e scrivere di quanto fosse difficile, a volte, vivere per un essere umano».

Come alcuni suoi personaggi Stefánsson ha fatto molti lavori diversi- il postino, il bibliotecario, il pescatore e perfino il macellaio- prima di trovare la sua strada. «Tutte queste esperienze sono entrate poi nei miei libri. E’ inevitabile – dice -. Specie quelle fatte durante la mia formazione». Ma fondamentale per la qualità della sua scrittura sembra essere stata soprattutto la sua esperienza di poeta. «Ho pubblicato tre raccolte di poesia anni fa e ancora penso come un poeta ma, – ammette Stefánsson – oggi non riuscirei più a scrivere in versi, non credo che fosse il genere a me più congeniale. Ma amo la poesia, è forse la forma più profonda d’espressione: porta una nuova e diversa complessità di senso, commuove e destabilizza il lettore, lo colpisce nel profondo forse più di ogni altra forma artistica, insieme alla musica. La letteratura è sempre stata importante in Islanda, e alla base della nostra stessa idea di nazione . Il nostro è un paese così piccolo e isolato che ha sempre fondato la propria identità sulla nostra lingua. In Islanda la letteratura può e deve fare quel che ha sempre fatto: farti capire che non sei solo e spingerti a farti domandar per capire chi veramente siamo».

a-piena Non senza però quell’ingrediente che si trova in molta letteratura nordica, ovvero l’umorismo. Che in Stefánsson vira al grottesco. «Luce d’estate in certo senso rappresenta la mia lotta contro il materialismo estremo che soffoca le nostre menti. Se il diavolo esiste – dice ridendo – è un maestro di marketing. E uno dei modi per combattere l’avidità dell’uomo è certamente l’umorismo».

E uno humour verace e imprevisto alimenta la prosa di Mikael Niemi, autore di Musica rock da Vittula, dicui Iperborea ha da poco pubblicato anche il suo nuovo La piena. Un romanzo pieno di tensione, cinematografico, che fa emergere la vera natura umana dei personaggi, catapultandoli crudelmente in una situazione di catastrofe naturale. Per molti di loro un orizzonte tragico di «death by water» come nella migliore tradizione shakespeariana, mentre l’acqua assurge ad elemento simbolico dominante insieme a un paesaggio selvaggio potente che sovrasta l’uomo. «Nel nord della Svezia dove sono nato e vivo, il clima è estremamente rigido e la vita è molto dura. Da noi l’umorismo è uno strumento essenziale di sopravvivenza», racconta Niemi a left. «Senza sarebbe impossibile vivere. Ma è un’umorismo a volte nasconto, sotterraneo che, per esempio, gli svedesi del Sud giudicano ruvido o incomprensibile». Al nostro sguardo quello di Niemi è un umorismo tagliante, è la lama con cui disegna magistralmente alcuni suoi personaggi. Che paiono vivere e parlare a ritmo di musica. «La musica e il ritmo per me sono fondamentali – sottolinea Niemi – non solo nella costruzione delle frasi, che qui hanno beat quasi da musica rap, ma anche la strutturazione dei capitoli pensati come una partitura». Ma  per quanto i personaggi si diano da fare, accelerando sul ritmo, sullo sfondo resta protagonista assoluta una natura possente e ingovernabile. Una natura bellissima anche nei suoi aspetti più pericolosi e in cui panteisticamente i personaggi di Neimi, talora, sembrano specchiarsi. «Bisognava navigare nell’odio, nella fenditura del ghiccio», dirà a se stesso uno dei protagonisti di fronte alla moglie presente fisicamente ma che sembra non avere alcun rapporto con lui.  (Simona Maggiorelli e Cristina Rendina)

dal settimanale left-Avvenimenti

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Mille e una Persia

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 9, 2012

Dopo aver raccontato la rivoluzione, lo scrittore Kader Abdolah torna a farsi cantastorie. Con l’urgenza etica di recuperare le memorie più antiche dell’Iran, fa rivivere la storia dello scià Naser e del suo visir che tra Ottocento e Novecento lottò per modernizzare il Paese

di Simona Maggiorelli

Isfahan, Iran

 

Lo scrittore iraniano Kader Abdolah torna a farsi cantastorie, come era nella antica tradizione persiana, per raccontare in una prosa lirica e densa di immagini, vicende che riemergono da un passato lontano e che l’Occidente fa finta di non conoscere quando si rapporta all’Iran di oggi.

Storie che nel suo nuovo libro Il re (Iperborea) ci riportano a quell’importante passaggio fra Ottocento e Novecento che vide la Persia al centro di una triangolazione di potere fra Russia, Francia e Inghilterra ma anche aprirsi alla modernizzazione, attraverso l’operato del visir Mirza Kabir che cercò di far comprendere allo scià Naser l’importanza della costruzione di strade e fabbriche per dar lavoro a una gran massa di diseredati, ma anche l’importanza di costruire scuole e ospedali a uno scià che ancora viveva immerso nella bambagia, circondato da uno sterminato harem, fra ricchezze da Mille e una notte e vicende familiari che lo legavano a un passato ancora medievale.

Così Kader Abdolah che, da giovanissimo, ha fatto la rivoluzione contro la scià Reza Pahlavi, e che poi è dovuto fuggire in Olanda per un aperto contrasto con  la teocrazia di  Khomeini, per esigenza letteraria ma anche per un imperativo etico di far conoscere la storia del proprio Paese e dei tanti amici e compagni che hanno perso la vita per la sua liberazione, si è dato a scrivere questo capitolo affascinate e ai più poco noto. In Europa, a dire il vero, i lettori del reporter polacco Ryszard Kapuscinski e del suo toccante Shah-in-Shah (Feltrinelli) in qualche modo avevano già incontrato questa storia fra gli antefatti di brucianti pagine sulla rivoluzione iraniana. Ma qui torna in veste letteraria alta e con il sapore di uno stile di scrittura che molto deve alla tradizione poetica e della letteratura araba persiana.

Kader Abdolah

Dopo La scrittura cuneiforme e dopo La casa nella Moschea (che raccontava appunto la rivoluzione giovanile in Iran nel ’79) Kader Abdolah ci regala così una nuova perla da aggiungere alla sua collana di racconti. In questi giorni è in Italia per presentarli: il primo settembre è a Genova per “I Dialoghi sulla rappresentazione”. E l’occasione è preziosa per conoscere più da vicino questo scrittore iraniano, il cui vero nome è Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, avendo scelto il nome de plume Kader Abdolah in ricordo di due amici uccisi dal regime komeinista e per sapere dei suoi nuovi progetti, fra i quali figura «un libro molto diverso dai miei precedenti – dice lui stesso – una raccolta di storie di inventori e persone di scienza che in Olanda stanno realizzando sogni di  progetti che sfidano l’impossibile». Ma anche per sapere da lui delle reazioni che ha suscitato una sua recente e libera traduzione del Corano in nederlandese. «Un libro che ho voluto tradurre e rendere fruibile ai miei concittadini olandesi per la sua bellezza letteraria, che ho scritto con piacere – dice sorridendo l’ateo Kader – sorseggiando del buon vino e che vorrei arrivasse al pubblico che non conosce in tutta la sua rcchezza poetica, come un capolavoro d’arte».

da left avvenimenti del 1 -7 settembre 2012

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Non sparate sul poeta

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 3, 2011

di Simona Maggiorelli

bjorn larsson

La poesia non può essere per finta. Perché cerca la verità. Una verità diversa da quella della logica. E più profonda. «Per riuscire ad esprimere un frammento di bellezza, una scheggia di verità, il poeta deve sapersi separare da tutto, rinunciare ad ogni compresso». Così nel suo nuovo romanzo I poeti morti non scrivono gialli (in uscita il 5 settembre per Iperborea), dopo avvincenti avventure come La vera storia del pirata Long John Silver e intense opere autobiografiche come La saggezza del mare, lo scrittore e viaggiatore svedese Björn Larsson tesse un inno alla poesia, un’arte apparentemente desueta in questo nostro scapicollato e distratto vivere quotidiano. Per di più, spiazzando, lo fa in una forma antitetica alla poesia: quella del romanzo giallo. Che nelle mani di Larsson diventa noir esistenziale, sovvertimento della narrazione di genere e un modo per attrarre il numeroso pubblico della letteratura di consumo e coinvolgerlo in riflessioni ben più interessanti.
«Lo spunto, in realtà, mi è venuto da discussioni di anni con un mio amico poeta – ci racconta Larsson al telefono dalla Svezia, in perfetto italiano-. Lui dice sempre che la poesia è verità. Non una verità specifica, ma la verità a lungo termine di cose che ci toccano intimamente. E fa questa differenza: il romanziere inventa una realtà, mentre il poeta non inventa, esprime una realtà profonda in parole condensate, vibranti». E a quale conclusione siete giunti? «Direi che la questione è ancora aperta», dice Larsson ridendo.

Lei una volta ha detto che la letteratura non dovrebbe mai essere di genere, «perché deve saper interrogare e infrangere degli stereotipi», perché allora scrivere un giallo, per quanto in maniera assai originale? «La moda imperversante del thriller nordico, devo dire, mi ha un po’ annoiato – confessa lo scrittore -, ma mi ha anche spinto a mettere un punto di domanda sul modo di presentare la realtà che questa narrativa ci offre. Il giallo svedese, di fatto, ha preso il posto di quello che un tempo era il romanzo realistico. Ed è anche diventato, all’estero, il veicolo di un’immagine della Svezia assai distorta».
Nei mesi scorsi, dopo la strage di Oslo, i media europei hanno creduto di poter individuare proprio nei gialli scandinavi segnali di quel malessere profondo che starebbe cambiando il volto delle laiche e moderne socialdemocrazie del Nord Europa. Del resto sono molti i fatti che parlano di una emergente xenofobia.

Anche dal nuovo romanzo di Larsson emerge la figura di un ex attivista di sinistra che, in tempi di crisi, cade in retrivi movimenti di stampo “leghista” con tangenze addirittura neonaziste. «Non nego che abbiamo seri problemi. Sono comparsi gruppi di destra e anche neonazisti. Questa è una realtà. Ma va detto anche – aggiunge lo scrittore – che coinvolgono un migliaio di persone. Non di più. Leggendo i gialli nordici sembra che la società svedese sia tutta ammalata e in mano alla criminalità politica. E questo non è vero. Anche guardando al numero degli omicidi – prosegue Larsson-, si vede che statisticamente sono piuttosto rari. Nell’ottanta per cento dei casi chi commette questi crimini è affetto da gravi patologie mentali». Un fatto che, al di là dei numeri, sembra aver colpito profondamente la fantasia di Björn Larsson: nel romanzo I poeti morti non scrivono gialli (che l’autore, filologo e docente dell’Università di Lund presenterà il 7 settembre al Festivaletteratura di Mantova), per esempio, compare la figura del padre del protagonista Jan Y.Nilsson, un cristiano che, ligio a una ferrea ideologia protestante del lavoro, ha chiuso tutti i rapporti con il figlio quando questi ha cominciato a dedicarsi alla poesia; un predicatore che al poliziotto, che lo sospetta di aver ucciso il poeta, confessa di aver amato sua madre come tramite verso Dio.

Così, dopo aver “preconizzato” un tragico attentato da parte di un gruppo di estremisti musulmani nel romanzo L’occhio del male uscito poco prima dell’attacco alle Torri Gemelle, in questo suo ultimo lavoro Larsson accende la riflessione su quel fondamentalismo cristiano che molti media italiani hanno cercato di non vedere nella matrice della strage di Oslo. «Il punto è che le religioni, tutte le religioni, hanno un nucleo di fondamentalismo – chiosa Larsson -c’è sempre qualcosa di terribilmente violento quando uno pensa e dice di parlare in nome di Dio».

Ma c’è anche un altro personaggio in questo romanzo che si rivelerà assai inquietante. Intorno all’assassinio del poeta Jan Y. ruota anche la figura di un’irreprensibile infermiera, Tina, dalla bellezza algida, che dopo un casuale incontro in una libreria decide di dedicare tutta se stessa all’opera di questo solitario poeta che vive su una barca ormeggiata al porto, entrando nella sua vita come compagna, segretaria e fedele custode del suo lavoro. Una donna apparentemente normale, amante della letteratura ma che dietro a questo suo assoluto amore per la «purezza» della poesia nasconde una totale mancanza di affetti. Tina ha perso ogni rapporto con l’umano? «Sì al fondo c’è questa idea di perdita di umanità. Ricordo – dice Larsson – di aver letto alcuni articoli che parlavano di fenomeni che riguardano le star del mondo del cinema e della musica. Si parlava di un’ammirazione senza limite, che diventa del tutto irreale. Nessuno, neanche un poeta, ha diritto di essere ammirato così».

da left-avvenimenti

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Cees, uno, nessuno, centomila

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 11, 2011

Scrittore romantico e filosofo, ma anche viaggiatore e sottile polemista. I tanti volti dello scrittore olandese Cees Nooteboom nello speciale omaggio che gli offre, dal 12 marzo, il festival Dedica di Pordenone

di Simona Maggiorelli

Cees Nooteboom

Una serie di frammenti, distillati di pensiero e di arte del grande scrittore olandese Cees Nooteboon selezionati e raccolti dal filosofo tedesco Rudiger Safranski. Nasce così il nuovo libro dell'”Olandese volante” Avevo mille vite e ne ho persa una sola, pubblicato il 9 marzo da Iperborea.

Un’uscita che il festival Dedica di Pordenone festeggia con una importante personale di Nooteboom : dal 12 al 26 marzo una settimana di incontri e di tavole rotonde sul suo lavoro letterario, più che cinquantennale e cui parteciperanno Giovanni Sollima, Giuseppe Cederna, Goffredo Fofi, Piero Dorfles e Marco Aime e molti altri studiosi e scrittori. A cui si aggiungono tre mostre dei fotografi Eddy Posthuma De Boer e Simone Sassen, compagni di viaggio di Nooteboom anche nella vita, e diMax Neumann, a sua volta collaboratore di lunga data dello scrittore olandese.

Nato all’Aja nel 1933, Cees Nooteboom- che molti critici candidano al Nobel – è autore di romanzi in cui la passione romantica, il gusto per storie di amore e incontri con donne esotiche e misteriose (vedi Mokusei) si fonde con una riflessione esistenziale più profonda, segnata da una vena di malinconia, quando non da sottile ironia. Da qui l’idea del filosofo Safranski di «selezionare dalla ricca opera di Cees Nooteboom questa antologia che nasce come compendio delle sue pagine più evocative». Ne viene fuori così un inedito diario letterario in cui in filigrana si legge anche la passione politica dell’autore, intesa con impegno nello scrittore nel mondo, che non si lascia mai intrappolare nella torre d’avorio della sua arte. Tanto che quando gli viene fatto notare che leggendo i suoi libri sembra quasi che siano il perfetto amalgama della scrittura di due autori diversi lui non esita ad ammettere con un pizzico di humour: «Sì, mi piace dividermi almeno in due e scrivendo lo posso fare senza spargimento di sangue».

Nelle pagine di suoi romanzi giovanili e già classici come Philip e gli altri ma anche nella recente raccolta di racconti Le volpi vengono di notte (Iperborea) si incontrano una serie quasi infinita di suoi ideali eteronimi, un baule pieno di alter ego, che Nooteboom utilizza con una capacità funambolica che ricorda quella del portoghese Ferdinando Pessoa. «Lui è andato molto oltre quanto io aspiro a fare ed è un meraviglioso esempio – chiosa Nooteboom – anche se è noto che lui non abbia mai portato Bernardo Soares, Ricardo Reis o nessun altro dei suoi eteronimi a Brasilera, il bar dove era solito prendere il suo drink in solitudine».

Così lo scrittore, continuando a giocare fra realtà e finzione, risponde a Cristina Gerosa di Iperborea che lo ha intervistato in vista della rassegna di Pordenone. Diversamente da Pessoa, Nooteboom invece a un bar ideale con i lettori e i suoi personaggi si siede davvero, osservandoli durante i lunghi viaggi che da sempre ama fare, fin da quando, giovanissimo, zaino in spalla se ne andava alla scoperta dei posti più lontani del globo per aver la possibilità di conoscere culture e, soprattutto, persone lontane e diverse. « Io sono un viaggiatore curioso che tenta di scomparire – dice di sé lo scrittore olandese -, come se fossi un estraneo, per osservare gli altri e scrivere sulle loro vite. Per guardare gli altri a volte è meglio rendersi invisibili» . Ma di recente il suo progetto si è fatto ancora più ambizioso, assicura Nooteboom alla sua maniera sottilmente spiazzante: «Sto scrivendo delle lettere a una divinità greca -dice -. A Poseidone, che i romani chiamavano Nettuno». Lettere di che tipo? «Gli faccio domande, parliamo di mortalità e immortalità, ma soprattutto io gli racconto il mondo degli esseri umani».

da left-avvenimenti dell’11 marzo 2011

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C’è del marcio in Danimarca

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 24, 2011

Il Paese delle grandi conquiste democratiche è diventato il più chiuso d’Europa. Con una durissima legge sulla immigrazione. La denuncia dello scrittore Olav Hergel

di Simona Maggiorelli

Nyhavn, Copenhagen

La Danimarca delle grandi conquiste democratiche, dei diritti, del benessere, da qualche anno mostra un volto assai diverso e duro. Un volto fatto di intolleranza e ostracismo. Verso gli immigrati che guardano al ricco Nord con la speranza di potersi ricostruire una vita migliore. Ma anche verso i rifugiati. Che nella civilissima Danimarca, al 95 per cento, si vedono respingere la richiesta d’asilo. In media, dopo aver passato dai 2 ai 4 anni nel vuoto pnueumatico di centri di accoglienza che sono delle vere e proprie carceri: “non luoghi”, asettici e impersonali dove circa il 50 per cento dei richiedenti asilo, anche i minori, viene messo sotto psicofarmaci. Mentre crescono i tentativi di suicidio. A denunciarlo è un noto giornalista, Olav Hergel, oggi collaboratore del Politiken e vincitore del Premio Cavling.

«In meno di quindici anni la Danimarca è diventata una delle nazioni più chiuse d’Europa. Con una delle leggi sull’immigrazione più severe nella Unione Europea; una norma – ci ricorda – nata da un accordo fra il governo di centrodestra e il Partito del Popolo che gli ha dato sostegno esterno». Così, prosegue Hergel, «un popolo gentile e tollerante ha assorbito ciò che c’è di peggio in Occidente quanto a xenofobia, diventando capofila della negazione dei diritti umani».

Olav Hergel

Dopo essersi scontrato con la riluttanza dei maggiori media danesi, restii a dare spazio alla questione dei rifugiati, Hergel ha deciso di fare del suo lavoro di ricerca sul campo il nerbo di un romanzo d’inchiesta, Il fuggitivo, uscito nel 2006 in Danimarca e nel 2008 diventato film per la regia di Kathrine Windfeld (ma perdendo di mordente politico). Ora, finalmente, questo avvincente esperimento di reality-fiction esce anche in Italia nella collana Ombre di Iperborea.

Ambientato durante la prima guerra Usa in Iraq, racconta la storia di una giornalista che accetta di andare in Medioriente da embedded, al seguito dell’esercito danese. Ma il “mestiere” in Rikke Lyngdal (solare alter ego femminile dell’autore è più forte dell’obbedienza al direttore-manager della testata per cui lavora: i suoi reportage dal fronte portano in primo piano la crisi e la sfiducia dei soldati danesi verso una guerra fondata sul pregiudizio, in cui i civili iracheni muoiono come mosche. Così il direttore del Morgenavisen regolarmente li cestina. Finché un giorno Rikke viene rapita da un gruppo di ribelli iracheni e lui, d’un tratto, vede in tutta questa storia un mezzo per fare soldi.

bimbo rom in Danimarca

Intorno a questa trama scarna e fin troppo realistica, Hergel costruisce un potente affresco di storia danese recente, dai primi anni Novanta a oggi; anni in cui l’uso politico della paura da parte delle destre ha fatto breccia in una ricca Danimarca che teme di perdere i propri privilegi. Ma anche in quella parte più povera e religiosa del Paese che torna a vagheggiare il mito di Cristiania. Fondendo cronaca e narrazione, senza scadere mai nell’aridità letteraria di molti noir, Hergel ci mostra come i discorsi di pochi fanatici siano diventati legge in Danimarca. Agitando lo spauracchio di una immigrazione-invasione che non c’è mai stata nel Paese. «I centri di accoglienza danesi ospitano appena 2600 richiedenti asilo. Quelli olandesi 25mila. Benvenuti in una nazione che non ha problemi di immigrazione ma non se ne rende conto» scrive Hergel calandosi nei panni della protagonista femminile de Il fuggitivo. Poi l’amaro affondo: «Dopo l’assassinio di Theo van Gogh i media danesi hanno fatto di Ayaan Hirsi Ali un’icona. E sembra quasi che sperino nell’arrivo del terrorismo e dei crimini religiosi».

E ancora: difendendosi da accuse di filoterrorismo per aver nascosto il giovane rapitore iracheno che l’aveva liberata, Rikke annota: «Quando una nazione perde il rispetto per l’individuo e non si lascia turbare dal suo dolore…, nel suo orizzonte si profila il totalitarismo. E il fatto che qui si tratti di un totalitarismo fondato su un ampio sostegno popolare e democratico, non lo rende meno raccapricciante». Ma che cosa ha davvero innescato la miccia della xenofobia in Danimarca? «Siamo solo cinque milioni di abitanti e il passaggio alla multiculturalità è stato uno choc per molte persone – spiega Hergel – Siamo sempre stati una nazione “bianca”, solo negli ultimi trent’ anni siamo passati a una diversa composizione etnica. Molti danesi si sono spaventati e hanno reagito voltando le spalle ai principi democratici. Anche in Olanda, in Francia e in Italia – sottolinea lo scrittore – sta accadendo qualcosa di analogo stiamo assistendo a un vero cambiamento sociale, il vostro paese riceve ogni giorno via mare, sulle sue coste, un gran numero di immigrati. La xenofobia è la risposta che nasce dalla paura: ci si spaventa e si inizia a smettere di considerare gli individui in quanto tali». Ma non solo.

« Senza contare che le nostre classe dirigenti si “dimenticano” di considerare il ruolo sociale, indispensabile, che ormai i lavoratori stranieri hanno da noi». Una miscela esplosiva di ignoranza e paura che, peraltro, i maggiori media non aiutano a smascherare. Abdicando così al proprio ruolo. «Tv e giornali- stigmatizza Hergel- non raccontano quasi mai la ricchezza culturale che i migranti portano con sé dai paesi di origine. Per compiacere i pregiudizi e i gusti dei lettori i media descrivono più facilmente gli immigrati come un problema senza approfondire le loro storie, senza restituircene la complessità e le sfumature. Ho incontrato centinaia di Romeo e Giulietta come Fatima e Nazir (la giovane afgana e il ragazzo iracheno che nel romanzo s’incontrano in un centro danese per poi fuggire nella più democratica Svezia ndr), ragazzi, che sono in Europa, con fantastiche storie d’amore. Ma i media le trovano noiose e lasciano che un caso di cronaca nera caratterizzi tutta la comunità». Ne Il fuggitivo molti particolari, così come molti discorsi di politici, vengono dalla realtà e da 15 anni di articoli che Hergel ha scritto per vari giornali. Da lì viene anche la storia bruciante del ponte di Istanbul dal quale alcuni ragazzi si gettano per saltare in groppa a camion con targhe europee. «Anni fa ero negli slum di Casablanca cercando di capire perché alcuni gruppi di terroristi islamici vengono da lì. Mi sono ritrovato in una situazione di estrema povertà. Dei bambini mi hanno portato su un ponte poco lontano- ricorda Hergel – era pieno di scritte “mamma, ciao, vado a farmi una nuova vita a Berlino, a Londra, a Parigi, a Roma”. Da lì tanti ragazzini si buttano ogni mese sui camion in transito sulla sottostante autostrada: c’è un avvallamento e i guidatori sono costretti a rallentare, i bambini si tuffano giù dal ponte, con un coltello aprono il telo e si nascondono fino a Tangeri, e da lì sperano di riuscire a nascondersi per tutti il tragitto fino in Europa. Questi sono fatti, la storia de Il fuggitivo che si butta è fiction». (Ha collaborato Cristina Gerosa).

dal settimanale left-avvenimenti

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Lo strano sorriso di Pol Pot

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 8, 2010

Ha raccolto testimonianze dai sopravvissuti al genocidio dei Khmer ricostruendo come funzionava la disumana Organizzazione messa in piedi da Pol Pot. Ma non solo. Il sorriso di Pol Pot, uscito a inizio settembre per Iperborea ricostruisce le responsabilità egli intellettuali occidentali di sinistra che sulla Kampuchea democratica non volleroaprire gli occhi

di Simona Maggiorelli

Angkor wat

Nell’agosto del 1978 una delegazione di svedesi ottiene il permesso dai khmer rossi di atterrare a Phnom Penh. Per conto di associazioni umanitarie di sinistra ha il compito di verificare le politiche del governo di Pol Pot. Fra loro c’è anche uno dei più influenti intellettuali svedesi: Jan Myrdal, figlio dei premi Nobel per la Pace Alva e Gunnar Myrdal. Sulla strada della costruzione dell’“uomo nuovo”, Pol Pot e i suoi, fra il 1975 e il ’79, hanno ucciso quasi due milioni di persone. Freddamente derubricate come «ostacoli» alla rivoluzione. In questo clima la spedizione svedese viaggia scortata per la Kampuchea democratica. Distese di campagne, contadini al lavoro, alla vista degli stranieri si fermano, salutano, parlano, si fanno fotografare. Nei suoi reportage Mydal ne racconta le magnifiche sorti e progressive. Non lo sfiora il dubbio che la realtà sia ben diversa. E ancora quando Peter Fröberg Idling, ex cooperante e giornalista svedese, lo cerca per un’intervista, a trent’anni di distanza, Mydal risponde che non ha nulla da aggiungere a ciò che scrisse allora. Negli anni Duemila, finalmente, anche se con molto ritardo, viene processato lo scrupoloso professore di matematica “Duch” che ha torturato e ucciso almeno 17mila persone nel centro di detenzione S-21. Con lui, alla sbarra, una manciata di altri feroci sodali di Pol Pot che, nel frattempo, è morto senza aver mai fatto i conti con la giustizia. Ma ancora oggi il comunista Mydal si dice suo sostenitore non pentito. L’ ideologia gli impedisce di vedere la violenza cieca del regime. Da questo episodio Idling è partito per questo suo toccante libro inchiesta, Il sorriso di Pol Pot, appena uscito per Iperborea. Nato nel 1972, quando i socialdemocratici svedesi guardavano con interesse a quella che credevano essere “una rivoluzione contadina”, Idling compone questo suo bruciante puzzle di storia con tasselli sfaccettati e preziosi: testimonianze inedite di scampati al genocidio raccolte percorrendo in un lungo e in largo la Cambogia (Idling parla khmer e ha vissuto nel Sudest Asiatico), filmati e documenti d’epoca cercando di leggere al di là delle veline di regime. E poi interviste a quei partecipanti alla spedizione svedese che hanno accettato di parlare. Ma anche frammenti di memoria di quando l’autore, ancora bambino, veniva portato nel passeggino dalla madre alle manifestazioni pro Cambogia. Tutto si mescola e si integra nella prosa d Idling. La cosa importante è non «finire nei numeri». Cercare di ridare un volto e una voce a chi è stato gettato nelle fosse comuni, cancellato dai documenti ufficiali.
Idling, che significatoassumono oggi i processi ai khmer rossi sopravvissuti?
A mio avviso sono molto importanti. Almeno da almeno due punti di vista. Purtroppo la giustizia ancora oggi in Cambogia è una farsa. Chi ha soldi e amicizie altolocate gode di assoluta impunità. E questi processi rappresentano uno stop, inseriscono almeno una discontinuità in questo modo di procedere. è il primo passo per ricostruire la fiducia della gente nella giustizia. E poi la gran parte dei cambogiani non sa perché ha vissuto quell’inferno. A scuola fin qui il capitolo khmer rossi non è mai stato affrontato nei programmi di storia perché ancora troppo angosciante e doloroso. La conoscenza e la consapevolezza di ciò che è accaduto nel Paese sono scarsissime. I processi trasmessi in tv e per radio possono dare il la a un processo di elaborazione collettiva.
Cosa pensa dei molti intellettuali di sinistra che in Europa hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte al genocidio ?
Myrdal è un rivoluzionario di vecchia scuola, di quelli che dicono: bisogna rompere delle uova per fare una frittata. Sì, certo, in alcuni casi devi romperne proprio tante ma per quelli come Myrdal ne vale la pena se lo scopo è una società migliore.
Lei scrive che anche un intellettuale pacifista come  Noam Chomsky contribuì a mistificare la verità su Pol Pot. Come è accaduto?
Il caso di Chomsky è diverso da quello di Myrdal. Non si è fidato dei reportage che arrivavano dalla Cambogia perché in larga parte basati sul sentito dire. Di sicuro erano un esempio di cattivo giornalismo, ma nel corso del tempo è emerso che dicevano il vero.
Non crede che non aver creduto alle parole dei profughi che parlavano di genocidio sia stato un fatto gravissimo?
L’immagine della Kampuchea Democratica all’estero era stravolta. Il dramma è, però, che nel frattempo le violenze subite e la fame denunciate da quei pochi che riuscivano a fuggire dalla Cambogia, in Occidente venivano lette come esagerazioni per ottenere aiuti e uno status di rifugiati in Occidente.
Nel suo libro ricostruisce  la vicenda di Pol Pot fin dagli anni di formazione in Francia.  Che influenza ebbe su di lui quella cultura?
La Rivoluzione francese lo aveva colpito molto. Del resto anche andando a scuola nell’Indocina francese aveva studiato gli stessi programmi di storia di un suo coetano che fosse nato a Lione o a Nantes. Poi, nei primi anni Cinquanta, è andato all’università a Parigi, entrando in contatto con i comunisti francesi che erano molto vicini allo stalinismo. Ma a Parigi incontrò anche molti giovani provenienti dalle colonie francesi che volevano lottare per l’indipendenza dei propri Paesi di origine. E furono ancora più importanti nel suo percorso. In questa rete di rapporti diventò un comunista ma anche un ferreo nazionalista cambogiano.
Nel suo libro lei ricostruisce che da piccolo il futuro Pol Pot era «il timido Sar, la cui gentilezza sfiora l’autoannullamento». Ma anche Sar dallo strano sorriso seducente. Una maschera di normalità che nascondeva altro?
Io non saprei fare una diagnosi precisa, quello che ho ricavato dalle testimonianze che ho raccolto è che era una “charming person”, una persona che appariva piuttosto piacevole, addirittura seducente. Ma è un fatto che Pol Pot abbia costruito un sistema completamente pazzo, diventandone parte. Un sistema che univa una devastante incompetenza con una feroce brutalità.  Un sistema che in Cambogia era chiamato allora l’Organizzazione onnipotente e onnipresente quasi quanto la cospirazione antirivoluzionaria che Pol Pot vedeva ovunque. L’Organizzazione distorceva la percezione della società che Pol Pot aveva intorno e negava la reale sofferenza della gente.   Pol pot cercò di costruire una società razionale. Praticamente era il caos. Lui ci credeva ciecamente, ci aveva investito tutto se stesso, tanto da non poter più tornare indietro. Se qualcosa non funzionava cercava di farlo camminare a forza. I costi umani diventarono per lui del tutto secondari.  Certo, tutto questo può anche essere descritto come  pazzia.
In Italia il Pci non discusse mai veramente il caso Cambogia, dicendo che se Pol Pot era un pazzo, non per questo si poteva gettare l’idea di comunismo…
Non sono per niente d’accordo. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato nel marxismo-leninismo. Ogni volta che si è cercato di metterlo in pratica si è finiti in un bagno di sangue. La sinistra più radicale deve assumersi la responsabilità di riflettere su ciò che è accaduto in Cambogia, in Cina, in Urss, in Albania, nella Corea del Nord… Non possiamo ripetere sempre gli stessi errori. Io mi considero una persona di sinistra ma dopo aver vissuto in Cambogia per me la parola comunismo è morta. Il comunismo sembra la risposta più razionale , la risposta più semplice a questioni complesse. Ma la realtà non può essere cambiata da un giorno all’altro. A meno che tu non sia disponibile a sacrificare un sacco di persone. E anche in questo caso, come Pol Pot, Stalin e Mao ci hanno dimostrato, non funziona lo stesso.

da left-avvenimenti del 3 settembre 2010

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