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Zagrebelsky contro i rottamatori della cultura

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 5, 2014

Gustavo Zagrebelsky

Gustavo Zagrebelsky

«La cultura è libera. L’arte e la scienza sono libere» recita l’articolo 33 della Costituzione. Una solida base per rilanciare il pensiero critico.  ” La cultura abbia il coraggio di offrire una visione alla politica” dice Gustavo Zagrebelsky

di Simona Maggiorelli

Prende le mosse dalla splendida formulazione dell’articolo 33 della Costituzione il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura (Einaudi). Articolo, che al primo comma afferma: «La cultura è libera», «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Il diritto alla cultura appare così scolpito fra i fondamenti dello Stato. Tanto più se lo si legge in parallelo con l’articolo 9 che tutela l’arte, il paesaggio e la libertà di ricerca, con l’articolo 21 che garantisce la libertà di espressione e con l’articolo 2 che parla di pieno sviluppo della persona umana. Ma Zagrebelsky ci invita ad allargare lo sguardo per cogliere il nesso che, più profondamente, lega il diritto alla cultura ad un altro tema cardine, il lavoro, a cui il professore emerito di diritto costituzionale dell’Università di Torino ha dedicato, nel 2013, il libro Fondata sul lavoro. Questi due saggi formeranno un trittico insieme a un terzo volume dedicato al tema della politica. «Non si tratta di progetto costruito a tavolino», precisa il professore. «È stato il filo della riflessione, a poco a poco, a portarmi in questa direzione. Tuttavia l’idea che le società umane si organizzino intorno a tre funzioni principali ha radici profonde. Gli studi di Georges Dumézil ed Émile Benveniste l’hanno verificata nelle tradizioni culturali, nella mitologia, nell’arte, nella religione, nel diritto, riscontrando questo continuo ricorrere del numero tre, riferito alla funzione economica (per il procacciamento dei beni materiali per la vita), alla funzione politica (ovvero il governo) e alla funzione culturale. Che qui cito per terza ma che nella letteratura è addirittura messa per prima.

Professore che cosa s’intende per cultura?

Fondata sulla culturaDirei che è quella dimensione astratta (nel senso che astrae dagli individui) ma al tempo stesso molto concreta nella quale tutti noi ci riconosciamo. La cultura dà una risposta alla domanda: come riusciamo a costruire una società fra migliaia, fra milioni, di individui che non si sono mai incontrati in vita loro? Come si fa a “far società” senza neppure conoscersi? Formiamo una società perché, pur non “conoscendosi”, ci si “riconosce” in una dimensione ideale, simbolica, in qualche cosa di più generale che fa convergere le forze. Questo non vuol dire che la cultura sia olista: ci sono culture aperte e altre meno, oppure chiuse. La cultura esiste in quanto un certo numero di individui pensa che abbia un senso lavorare per una dimensione di vita comune. Che non esula dalla dialettica e dal conflitto.

In Italia c’è stato un progressivo depauperamento delle risorse pubbliche per la scuola, la ricerca, la tutela. C’è una discrasia fra l’articolo 33 e i tagli alla cultura?

Per ridurre gli sprechi non è scandaloso che si pensi a qualche taglio. Il problema semmai (ed è un problema culturale) nasce quando, dovendosi reperire risorse, la prima cosa che si fa si è tagliare la cultura. Seguendo il celebre motto di un ministro (Tremonti, ndr): «Con la cultura non si mangia». La cultura, non serve per mangiare, naturalmente. Ma serve a fare società e in questa vivere. E se non c’è società va a finire che non si mangia nemmeno più. I più ricchi e i più potenti hanno la meglio e tutti gli altri vengono spinti ai margini della vita sociale. La cultura è un fatto di durata e di profondità, è senso che crea comunanza di vita, solidarietà competitiva, dialettica. Insomma, con la cultura si fa ben più che mangiare. E quella umanistica, diversamente da quella scientifica sperimentale, non costa nulla: è fatta di pensiero, di rapporti, di studio; non c’è bisogno di un grandissimo spreco di risorse pubbliche. Pensi, per esempio, alla persecuzione della convegnistica. Qualche tempo fa mi ero messo in testa di raccogliere tutti gli inviti: impresa immane. Ne esce un quadro desolante di sottrazione di energia e di tempo che, invece, dovrebbe essere dedicato allo studio, all’elaborazione di idee. Nei convegni ritrovi sempre le stesse persone che ripetono a pappagallo…

Margherita Hack a scuola prendeva brutti voti perché si rifiutava ripetere a pappagallo. Einstein parlava di «gioia delle idee», del piacere della scoperta. Lei lo cita ricordando che la parola eidos collega le idee alle immagini che nascono nella mente. La cultura implica capacità di immaginare, di sviluppare un pensiero nuovo?

Ovviamente. La cultura è un mondo vivo, non un mondo anchilosato di stilemi, motti, acquisizioni che poi si cristallizzano in formule o formulette. Si sviluppa dal suo interno, in relazione ai problemi del presente. Deve avere una sua autonomia, come dice anche la Costituzione, senza chiudersi nella separatezza. Ma, come notava Montaigne, spesso ci riduciamo a fare glosse fra noi. Si parla di Don Chisciotte ma non lo si legge più. Si preferisce la letteratura secondaria e si stilano note su note. Finendo nel solipsismo, sfornando “idee” senza rapporto con la realtà. Ecco allora il saccente ridicolo, l’erudito che crede che il mondo sia fra le quattro pareti rivestite da libri dove lui è confinato. La cultura fatta solo di carta o di internet muore su se stessa.

Ma oggi quasi non si osa dire “intellettuale”. Sui media tutto deve essere fatuo, frivolo, pop. E sulla scena pubblica, come lei scrive, è tutto un proliferare di consulenti.

La figura del consulente è piuttosto inquietante. Non perché chi svolge una professione intellettuale non debba sentire il dovere di fornire ad altri competenze tecniche. Ma perché i consulenti preparano i loro interventi in attesa di una chiamata o dal mondo politico o da quello economico-tecnologico. I consulenti vendono le proprie conoscenze per promuovere “prodotti” politici o economici (oggi soprattutto finanziari).

L’ossequio al mercato è diventato così prevalente da imporre un modello di Homo Oeconomicus, povero di umanità e dotato di una razionalità solo strumentale?

Viviamo in un’epoca economica, senza dubbio. Ma una società ben organizzata è quella in cui le tre funzioni – politica, economica e culturale – godono di una relativa indipendenza. L’articolo 33, in questo senso è una spia. Nella Costituzione, peraltro, si trovano solide radici contro il conflitto di interessi. Il pericolo che si corre quando prevale l’economia è che le persone che si occupano di cultura siano portate a pensare che le idee siano dei beni economici come gli altri. E che possano essere messe sul mercato. Da qui l’orrida espressione il mercato delle idee.

«Il rapporto tra sapere critico e il potere è sempre più difficile quanto più il potere si riduce ad avventurismo senza idee», ha detto lo storico dell’arteTomaso Montanari (citando Barca) dopo il no dei renziani a un suo incarico come assessore alla Cultura in Toscana. In Italia oggi è questo lo scenario?

E’ anche questo. D’altro canto il mondo culturale ha forse espresso strutture autonome? Le accademie non incidono, il Cnr è stato una propaggine ministeriale e poi ci sono gli assessorati alla cultura… Gli organismi indipendenti non contano quasi più nulla. A riprova della forza assorbente che hanno la sfera economica e certa politica. Tornando a noi, la cultura per essere tale non può che essere libera. Essendo libera, la cultura non può che essere critica. Essendo critica, non può che essere plurale. Perciò occorrerebbe uno scatto di orgoglio del mondo intellettuale.

 

Dal settimanale Left

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Il potere delle immagini

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2011

Il nuovo libro di Francesco Bonami confronta opere e icone quotidiane

di Simona Maggiorelli

Antonello da Messina, Madonna velata

C’è una  grande casa di vetro popolata di farfalle campeggia nell’ala del nuovo Macro di Roma che inaugurata il 4 dicembre scorso. Pensata come un grande incubatore, questa speciale serra riproduce in scala la Farnsworth House californiana dell’architetto Mies Van der Rohe. Nell’intenzione di Bik Van der Pol (Enel Award 2010) nasce come un invito a rispettare l’ambiente che ci circonda. Perché, come ci ricorda il direttore del Premio, Francesco Bonami «quando le farfalle scompaiono significa che l’ambiente è stato alterato in modo tragico».

Critico e curatore di fama internazionale (oggi vive e lavora perlopiù a New York) Bonami è anche un attento e pungente osservatore di ciò che accade nel panorama culturale nostrano su Il Riformista e in libri come Dopotutto non è brutto (Mondadori), come Irrazionalpopolare (con  Luca Mastrantonio, per Einaudi) e come il nuovissimo Dal Partenone al panettone da poco uscito per Electa.

teschio di Orozco

Anche per questo, e visti i ricenti crolli, la nostra conversazione non può che partire dal dramma che stanno vivendo Pompei e  molti altri siti archeologici nostrani. «Vede. il  fatto è che noi italiani viviamo una perenne contraddizione- fa notare Bonami -, ci vantiamo di essere il Paese con il più ampio patrimonio d’arte nel mondo e al tempo stesso non lo curiamo, ce ne freghiamo». Dunque  la mancata tutela di Pompei non sarebbe solo una questione di tagli ai finanziamenti alla cultura e di dissennate politiche di emergenza? «Il nostro problema è la mentalità. Come cittadini e come amministratori e ministri, a vari livelli rei di questo disastro. In questo- rincara il critico fiorentino- rientra anche il fatto che un ministro dei Beni culturali possa pensare che con un manager alla valorizzazione (l’ex manager McDonald’s Mario Resca ndr) si possa risolvere il problema di una generale mancanza di senso civico». Così un modello di gestione importato dagli Stati Uniti qui produce danni, più di quanti ne faccia Oltreoceano dove la volorizzazione dell’arte ha una storia breve e recente. «L’imprenditoria da noi in Italia  è diseducata a pensare cosa significhi partecipare collettivamente di una cultura. In America, invece – racconta Bonami – l’imprenditore investe, certo perché ne ha vantaggi fiscali, ma anche perché ha un senso dello spazio collettivo in cui vive. Io lo chiamo egoismo civico. Non è filantropia. Investe in cultura perché è convinto di fare bene anche a se stesso: perché una città dove i musei e le scuole funzionano dà valore anche a chi ci vive. Da noi, invece, chi investe lo fa solo per avere visibilità, non per una migliore immagine e qualità di vita collettiva. Un esempio? Guardi come è impacchettata di pubblicità Venezia».

Cristo morto di Mantegna

Proprio a proposito di arte e ricerca di visibilità personale, da ex direttore della Biennale di Venezia, Bonami  cosa pensa della decisione del ministro Sandro Bondi di affidare il Padiglione Italia a Vittorio Sgarbi, già sindaco di Salemi, soprintendente al Polo museale veneto, nonché supervisore degli acquisti del MAXXI? «Vede in Italia oggidì esistiamo solo se passiamo per il mezzo televisivo, quindi personaggi come Sgarbi, o come Philippe Daverio, si sentono insigniti di un potere superiore, quasi divino. I media danno loro la sensazione di poter far tutto. Quando invece si hanno competenze limitate. E questo – prosegue il critico – sta producendo un disastro nel mio settore, nella cultura, ma anche in altri campi. La notarietà mediatica in Italia è un lasciapassare per tutto. In questo quadro, dunque,  Sgarbi, con il suo padiglione Italia, ancora una volta ci farà apparire in modo molto imbarazzante agli occhi del mondo».

Da parte sua Vittorio Sgarbi, del resto già mesi fa, salutò il suo incarico in laguna stigmatizzando i suoi predecessori in modo non proprio gentile e dando allo stesso Bonami dello «spiritoso dilettante». Mentre Luca Beatrice, responsabile del padiglione Italia 2009 in chiave passatista, plaudiva al progetto sgarbiano “150 artisti per 150 anni dell’Unità d’Italia”, come occasione per mostrare e portare in primo piano l’iconografia di destra. Ma anche come un modo per fare fuori «la cricca dell’arte povera che si autocelebra come unica critica d’arte, in stile regime sovietico» Da parte sua Bonami fa spallucce alle punzecchiature del super Vittorio e nel suo ultimo libro Dal Partenone al panettone (Electa), fuori dalle polverose accademie, rivendica la possibilità di analizzare la forza comunicativa delle immagini in piena libertà, attraverso nessi inediti, talora anche “inauditi”.

Che Guevara, ucciso

Così il colpo di testa del calciatore Zidane campeggia accanto a un particolare di un affresco di Masaccio, la foto di Che Guevara morto è accostata al Cristo morto di Mantegna, la Madonna velata di Antonello da Messina è accanto a una libera reinterpretazione di Orozco, Anche nella critica d’arte, insomma, è tempo di rivalutare l’intelligenza che procede  per intuizioni. «L’arte oggi è uno dei tanti ambiti che usa le immagini. Lo fa anche la pubblicità, lo fanno le riviste. E a volte attraverso questi mezzi emergono delle icone che pur non essendo artistiche, acquistano quella notorietà e quella fama che compete alle grandi opere. Tanto che l’immagine di Che Guevara morto è più popolare del Cristo morto di Mantegna». Senza dimenticare però che l’arte è creazione di immagine, non solo comunicazione o documentazione. «L’arte- sottolinea Bonami – crea una soglia che noi attraversiamo. Nel mio libro non intendo dire che tutto sia arte. Parlo del potere delle immagini e le confronto con quelle che realizzano gli artisti. L’arte, insomma, è quel linguaggio che ci regala uno scarto, che ci fa capire in un mondo diverso, che ci dà la possibilità di vedere le cose in un modo più libero di quanto ci consentano la pubblicità o altri linguaggi. Anche perché – approfondisce – l’arte in realtà non ha nessuno scopo, mentre la pubblicità o il foto giornalismo ne hanno uno ben preciso e pragmatico» E a chi obietta che anche l’arte oggi deve fare i conti con il mercato? «Rispondo che in fondo non è vero perché gli artisti creano a prescindere, prima di avere un mercato, prima di esporre, per un’esigenza personale, per comunicare qualcosa di profondo». E non come piatta mimesi del reale. Nel suo nuovo libro Bonami, non a caso, parla del realismo come valore, ma anche come zavorra dell’arte italiana. «L’Italia è un Paese che ha dei bravi artisti ma non ne ha migliaia, ce ne sono pochi che possano dare il la a nuove tendenze. Questo accade nei vari ambiti della pittura, della letteratura eccetera. Perciò credo che l’operazione che fece Luca Beatrice e che sta facendo Sgarbi, ovvero dire che esistono centinaia, migliaia, di artisti che vanno mostrati sia deleterea: è un modo per infilare dentro ad operazioni molto dubbie personaggi amici, oppure beniamini dei critici. Non è – conclude Bonami – una selezione vera e oggettiva. Andare a chiedere come ha fatto Sgarbi per il suo Padiglione a Umberto Eco, a Massimo Cacciari, ad Arbasino e ad altri di fare dei nomi da portare a Venezia, è chiedere a vanvara, non è affatto una cosa democratica. Anche perché Eco stesso ammette di non intendersi di arte contemporanea e Massimo Cacciari dice sinceramente di essersi fermato a Mondrian e di non avere interesse per ciò che è accaduto dopo».

left-avvenimenti 26 novembre 2010

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