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Nuove luci su Caravaggio. Per le celebrazioni del 2010

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 16, 2010

di Simona Maggiorelli

Caravaggio

Caravaggio

Fece clamore, tre anni fa, la scoperta di Sir Denis Mahon che, sotto le incrostazioni di una polverosa Chiamata dei Santi Pietro e Andrea attribuita a un seguace di Caravaggio e conservata nei magazzini della Royal Gallery di Hampton, riconobbe la mano geniale del Merisi.

E ancor più la querelle sul Narciso della Galleria Barberini lanciata da Vittorio Sgarbi dal salotto tv di “Porta a porta”: espungere la tela dal catalogo delle opere di Caravaggio era il diktat dell’attuale sindaco di Salemi. Alla quale rispose un’alzata di scudi da parte degli studiosi, da Strinati allo stesso Mahon. Ma se quella volta il Nostro aveva l’appoggio di un’autorevole allieva di Longhi, come Mina Gregori, fu invece unanimemente negativo il giudizio che nel 2006 fioccò sulla mostra firmata da Sgarbi Caravaggio e l’Europa a Palazzo Reale di Milano: brutta controfigura di quella che Longhi aveva realizzato nel 1951 nella stessa sede. Una mostra, quella di Sgarbi, talmente confusa nell’affastellare opere di pittori “caravaggeschi” e opere definitivamente attribuite a minori (e uscite definitivamente dal catalogo di Caravaggio) da avere un pregio: fermare la ridda delle esposizioni di Caravaggio ad alto tasso di spettacolarizzazione, ma affrettate e di scarso contenuto critico.

Una pausa di riflessione quanto mai utile, alla fine, ha connotato gli ultimi tre anni. Un silenzio laborioso ha accompagnato il percorso di avvicinamento alle celebrazioni del 2010 per il quarto centenario dalla morte di Michelangelo Merisi da Caravaggio (15711610).In questi anni e nei mesi recenti si è pensato soprattutto a studiare e a presentare il risultato di nuove ricerche in convegni e lezioni. E mentre alla Galleria Borghese ( dove è allestita la mostra Caravaggio-Bacon)e alla Galleria Corsini l’associazione Lo studiolo annuncia per novembre un ciclo d’incontri sul “nero come spazio dell’interiorità e massima ombra in Caravaggio”, alla Pinacoteca dell’Ambrosiana a Milano (dove è conservato il celebre Canestro dell’Ambrosiana) si è appena concluso un convegno dedicato alla formazione di Caravaggio, periodo ancora in larga parte oscuro della vita e dell’arte del Merisi. Così, mentre il catalogo delle opere autografe (senza quei grandi colpi di scena che piacciono ai mercanti d’arte) ha conosciuto assestamenti in base a nuovi fatti documentari, importanti, lavori di restauro hanno permesso di acquisire nuove o più approfondite conoscenze. E’ questo il caso del San Francesco in meditazione attribuito a Caravaggio da Cantalamessa agli inizi del Novecento e del quale è ben nota una copia. Nella versione conservata nella chiesa di Carpineto, con le indagini radiografiche, è stata scoperta la figura retrostante di un San Francesco di piccole dimensioni, che si suppone autografo, e che Caravaggio usò certamente come immagine guida nel dipingere il panneggio nella stesura definitiva del quadro. La scoperta e lo studio di questi ripensamenti dell’artista, insieme a particolari venuti alla luce durante il restauro (le orecchie rosse per il freddo, dettaglio che il copista non capì e non trascrisse), fanno pensare che l’autografo sia il quadro di Carpineto e non quello dei Cappuccini, come fin qui si era pensato.

Importanti risultati si aspettano anche dal restauro della Adorazione dei pastori, umanissimo racconto ed epifania di luce che appartiene all’ultima, tormentata, fase della parabola caravaggesca, a quei concitati anni di fuga a cui fu costretto dopo aver ammazzato Ranuccio Tomassoni. Fino al 31 gennaio i lavori dei restauratori si possono seguire in un “cantiere aperto” allestito alla Camera dei deputati. Poi la tela andrà alle Scuderie del Quirinale dove, il 18 febbraio, sarà inaugurata una grande e attesa retrospettiva di Caravaggio per il quarto centenario.
“In anni recenti l’abbondante messe di ricerche, studi e interventi sulle vicende biografiche e artistiche del Merisi – annota il curatore  Claudio Strinati- ha confermato il generale, costante e crescente interesse intorno alla tormentata leadership del pittore.Da qui la scelta di strutturare la mostra secondo un criterio espositivo filologicamente rigoroso, che dia luogo a un percorso sintetico, non antologico, pur tuttavia fondato sulla presentazione di opere “capitali”.Opere come il Bacco dagli Uffizi, Davide con la testa di Golia dalla Galleria Borghese, I musici dal Metropolitan, costituiranno, nella loro presentazione contestuale, una sorta di omaggio all’unicità di Caravaggio”.

dal quotidiano Terra del 3 novembre 2009

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Le rivoluzioni di Caravaggio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Il Merisi artista geniale, ribelle ma non maudit. Per le celebrazioni dei quattrocento anni dalla morte, nel 2010 escono importanti nuovi studi che mettono a punto il catalogo delle opere ( oberato di recenti nuove acquisizioni scientificamente poco fondate) ma anche importanti ricostruzioni, fra biografia, arte e storia, come quella firmata da Francesca Cappelletti per Electa

di Simona Maggiorelli

Caravaggio, Davide con la testa di Golia

L’ultimo decennio di studi caravaggeschi, come abbiamo ricordato anche in un’altra occasione, è stato contrassegnato da un can can di nuove attribuzioni che non di rado poi si sono rivelate affrettate e scarsamente fondate dal punto di vista scientifico. Tanto da far sospettare ingerenze dei mercanti d’arte.

Ma quello che sta per finire è stato anche il decennio delle biografie romanzate, dei film e delle fiction tagliate sulla mitologia maudit di un Caravaggio, genio scellerato e violento. Dal best seller L’enigma di Caravaggio di Peter Robb all’ultimo film di Derek Stonebarger,  Io sono Caravaggio, una cascata di stereotipi.

Alla quale l’occasione dei quattrocento anni dalla morte di Caravaggio che nel 2010 porterà esposizioni e convegni speriamo possa metter freno. Lo diciamo pensando alla mostra ideata  da Claudio Strinati per le Scuderie del Quirinale e che da febbraio presenterà una serie di capolavori capaci di raccontare per “exempla” il rinnovamento stilistico e la continua ricerca di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) nella sua breve e folgorante attività di pittore. Ma anche pensando ai tre volumi editi dal Comitato nazionale per il quarto centenario della morte di Caravaggio guidato da Maurizio Calvesi. Tre tomi che, ripercorrendo criticamente il catalogo dell’artista, dovrebbero dirimere la questione delle opere di dubbia attribuzione.

Già in questo fine anno, comunque, a far chiarezza contribuisce anche bella e documentata monografia di Francesca Cappelletti, Caravaggio un ritratto somigliante, appena uscita per Electa. Un volume in cui la studiosa, sulla strada aperta negli anni Sessanta da Wittkower con libri come Nati sotto Saturno (Einaudi) e prima ancora da Roger  Fry, fa piazza pulita del ciarpame biografico che, incurante del contesto storico  seicentesco in cui Caravaggio visse, ne fa un artista “maledetto” alla maniera ottocentesca. Fry, in particolare, già agli inizi del Novecento parlava di Caravaggio come del «primo artista moderno, il primo a procedere non per evoluzioni ma per rivoluzioni» riconoscendogli di essere stato il primo realista, capace di portare in primo piano la verità umana perfino nel dramma sacro.

Con questa premessa Cappelletti legge in parallelo la vita e l’arte del Merisi, riportandone in luce la vasta cultura figurativa e la libertà con cui sottopose la tradizione a un costante vaglio critico, dissacrando di continuo i modelli consolidati alla ricerca di maggiore e più profonda espressività. Fin dagli anni in cui era a bottega da Peterzano con ogni probabilità Caravaggio ebbe modo di conoscere il “realismo” di Savoldo, la religiosità popolare ed eretica di Lotto, ma anche il segno nervoso e inquieto delle stampe di Dürer  e molto altro ancora.

Ogni volta Caravaggio ne ha tratto spunti per una elaborazione radicalmente originale. Basta pensare alla distanza che c’è fra il descrittivismo minuzioso di una lussureggiante natura morta di scuola nordica e quel chicco guasto, quel piccolo tarlo che si segnala sinistramente nel canestro dell’ambrosiana; un cesto stranamente in bilico, che getta un’ombra del tutto irreale sul tavolo. Ma si potrebbe pensare anche alla dirompente rilettura della religiosità umile e quotidiana dei pittori lombardi in opere come La morte della Madonna, che  per il suo crudo realismo fece gridare allo scandalo i carmelitani scalzi che l’avevano commissionata.

Se Lorenzo Lotto per la prima volta nel 1527  aveva rappresentato una Madonna umanamente spaventata dalla comparsa dell’arcangelo, quella di Caravaggio del 1605 è una povera annegata, intorno alla quale si accalca il compianto di una folla di diseredati.

Ogni opera di Caravaggio contiene un’invenzione, ci ricorda Cappelletti in questo suo appassionato lavoro. Invenzione che può riguardare l’iconografia come succede nel David con la testa di Golia (1607 ) che campeggia sulla copertina del libro Electa e in cui l’artista abbandona la tradizionale visione frontale per una inaspettata prospettiva obliqua che lascia in primo piano il volto provato del David.

Ma gli esempi potrebbero essere ancora tanti. Specie riguardo all’uso geniale della luce, del chiaroscuro, dell’ombra e del buio. Dalla luce radente che bagna paganamente La fuga in Egitto negli ultimi anni arriverà alla quasi stenografica visione  della Resurrezione di Lazzaro che emerge da un nero di pece, denso e oppressivo. Ed ogni volta è una vera rivoluzione.

dal settimnale Left-Avvenimenti del 18 dicembre 2009

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Il mondo dell’arte nel 2010: ritorno alla ricerca

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 15, 2010

Mentre Parigi e Londra puntano sulla cultura per battere la crisi, il Belpaese resta al palo. Nonostante l’apertura del MaXXI e alcune mostre di pregio. Ecco lo scenario che si prospetta per il nuovo anno

di Simona Maggiorelli

Kandinsky

Lasciati alle spalle gli anni zero dell’euforia dei mercati internazionali dell’arte e, specie per quanto riguarda l’Italia, gli anni di “mostrite” acuta (che nell’ultimo decennio ha prodotto una ridda di mostre già finite nel dimenticatoio) l’anno nuovo si apre all’insegna di esposizioni che tornano ad esplorare le avanguardie storiche e l’opera dei maestri che hanno segnato importanti svolte nei due secoli passati: da Goya a Van Gogh, da Gauguin a Kandinsky a Picasso. Ma il 2010 dell’arte, in molta parte d’Europa, si annuncia anche all’insegna di un concetto chiave come la valorizzazione dei beni culturali. Solo per fare un esempio basta dire che il presidente francese Sarkozy, anche per reagire alla crisi economica, nell’anno che si è appena aperto ha in programma di realizzare un grosso processo di riforma e di rilancio del Grand Palais e della Rmn (Réunion des musée nationaux) con l’obiettivo di “fare di Parigi una delle prime sedi di mostre a livello internazionale”. E mentre Londra, con un forte rilancio delle due sedi della Tate e con il ricco programma di esposizioni dedicate alle civiltà antiche della National gallery e del British punta a scippare a Berlino il primato di capitale dell’arte contemporanea e dell’archeologia, Barcellona e Amsterdam, investono su mostre scientifiche di studio e di approfondimento dell’opera di Picasso e Van Gogh.

E nel Belpaese?

Quanto a valorizzazione del patrimonio tutto procede, purtroppo, in ben altra direzione. Dopo un anno di fortissimi tagli al Fus alla tutela e alle soprintentendenze il responsabile della neonata direzione generale della valorizzazione dei beni culturali, il super manager ex Mc Donald’s Mario Resca ha appena varato una campagna pubblicitaria in cui il Colosseo appare smontato pezzo dopo pezzo mentre il David di Michelangelo, imbracato, si invola in cielo. Sotto scorre una minacciosa scritta: “se non lo visitate lo portiamo via”. Chi ha avuto modo di viaggiare durante queste festività ha visto senz’altro modo di notare questa geniale sortita del nostro ministero dei Beni culturali che circola on line nel circuito tv dei più importanti aeroporti nostrani. Ma tant’è. Continuando a sperare che gli italiani prima o poi si decidano a dare il ben servito a questa classe politica di centrodestra che, fra le altre pensate, ha concepito anche una Spa per la cartolarizzazione e la vendita di importanti pezzi del patrimonio nazionale, nell’anno che si apre gli amanti dell’arte antica e contemporanea avranno alcuni appuntamenti per rinfrancarsi, almeno un po’. Appuntamenti dovuti- è quasi pleonastico dirlo- alla tenacia di singoli studiosi non certo alle “ politiche” di questo governo.

Man Ray nudo di Meter Hoppenheim

Fra i vari eventi pensiamo in modo particolare dalla mostra ideata da Claudio Strinati per i quattrocento anni dalla morte di Caravaggio alle Scuderie del Quirinale a Roma, ma anche della duplice rassegna dedicata a Giotto e Assisi (marzo-settembre 2010) e al cantiere della Basilica e all’arte umbra tra il Duecento e il Trecento. Ma parliamo anche e soprattutto, della definitiva apertura del MaXXI, il museo del XXI secolo disegnato da Zaha Hadid, che dopo 11 anni di gestazione e 6 di costruzione aprirà a maggio con cinque mostre: da Spazio! dedicata alle collezioni permanenti di arte e architettura alla antologica dedicata a Gino De Dominicis curata da Bonito Oliva. Per il resto in Italia si produce poco e si importa molto. Seppur non di rado con profitto, come nel caso della grande mostra dedicata ai maestri dell’arte astratta che approderà al Guggenheim di Vercelli dal 20 febbraio sotto l’egida del curatore (nonché direttore del Macro di Roma) Luca Massimo Barbero. O anche come nel caso della mostra Utopia matters, che dal primo maggio, a cura di Vivien Greene, inaugura la nuova ala museale del museo Peggy Guggenheim di Venezia.Ma pensiamo anche alla mostra Goya e al mondo moderno che si aprirà il 5 marzo al palazzo Reale di Milano con la collaborazione di Skira. In questo quadro di collaborazione fra l’editore di origini svizzere e Palazzo Reale preceduta dalla rassegna Schiele e il suo tempo che si aprirà il 25 febbraio.

Su e giù per lo stivale

Mentre a Villa Manin a Passariano di Codroipo (Udine) prosegue con successo di pubblico fino al 7 marzo la mostra L’età di Courbet e Monet. La diffusione del realismo e dell’impressionismo nell’Europa centrale e orientale il prolifico e, comunque sia, bravissimo Marco Goldin con Linea d’ombra annuncia già la mostra Munch e lo spirito del Nord, in programma sempre a Villa Manin: 40 dipinti del pittore norvegese intercalati ad altri 80 dipinti che raccontano della pittura in Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca nel secondo Ottocento.

dalla mostra aristocratic

E ancora a Parma, dal 16 gennaio Novecento arte fotografia moda design, una grande mostra che indaga il secolo passato inseguendone tutti i rivoli, grazie alle molte donazioni che gli artisti stessi hanno fatto al centro di documentazione creato da Arturo Carlo Quintavalle e Gloria Bianchino. In mostra opere di Schifano, Burri, Boetti, Fabro, Ceroli, Guttuso, Fontana, Sironi e molti altri.

Hong Kong tradional trandy

E ancora celebrando il Novecento, a Venaria reale e al museo del cinema di Torino la mostra 400 anni di Cinema: dal film paint alle lanterne magiche, in co-produzione con la Cinémathèque frainçaise di Parigi. Per quanto riguarda la fotografia, dal 29 gennaio al 5 febbraio 2010, in veste di evento off di ArteFiera 2010 di Bologna segnaliamo la proposta della rassegna Aristocratic The new experience. Una mostra che racconta un’esperienza caratterizzata da un forte desiderio di interagire con la realtà e che tuttavia porta a una trasformazione delle immagini in chiave assolutamente personale, anche attraverso la sperimentazione di nuove tecniche, strumenti e materiali.

Spagna. Dal genio di Picasso in poi

Al museo Picasso di Barcellona si indaga l’influenza cruciale che l’artista catalano Santiago Rusiñol esercitò sul giovane Picasso comparando l’opera dei due artisti dal punto di vista biografico e iconografico. Dal 15 ottobre al 16 gennaio 2011 poi il museo Picasso di Barcellona organizzerà una mostra che esplora i rapporti fra Picasso e Degas affidandola alla cura di una delle maggiori studiose dell’artista spagnolo Elizabeth Cowling dell’ University of Edinburgh. Un confronto basato sul fascino che Degas esercitò su Picasso e sul diverso uso che i due artisti fecero di pastelli pittura, scultura stampe e fotografia. Una mostra che punta a esplorare le risposte esplicite di Picasso a Degas ma anche i nessi concettuali più nascosti fra i due artisti. Al Prado,invece, nel 2010 approderà la mostra dedicata all’esplorazione della luce del romantico Turner,già passata per il Grand Palais e che mette a confronto i suggestivi paesaggi del pittore inglese con opere del XVI e XVII firmate da Brill, Carracci, Lorraine e Poussin. Intanto si lavora già a una importante mostra dedicata all’ultimo Raffaello e che sarà esposta al Prado e al Louvre nel 2012. Nell’anno che si apre ricchissimo è anche il programma del museo Guggenheim di Bilbao dove per dicembre è attesa una retrospettiva del pittore americano Robert Rauschenberg scomparso nel 2008.Ma anche e soprattutto una importante antologica dell’artista indiano Anish Kapoor,una delle personalità più sensibili e interessanti della scultura contemporanea. La mostra ricalca in parte quella organizzata dalla Royal Academy of Arts di Londra lo scorso anno e che ha avuto un notevolissimo successo di pubblico e di critica.

La grande Francia

L’anno francese si apre all’insegna di una grande rassegna dedicata alle icone sacre dei territori della Russia cristiana (dal 3 maggio al Louvre) con una mostra che scandaglia la tradizione che va dal IX al XVIII secolo.Al Centre Pompidou, da aprile a luglio Attraversando nazioni e generazioni Crossing nations and generations, Promises from the past con cinquanta artisti dall’Europa centrale e dell’Est , a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino cercando di individuare continuità e punti di rottura nel lavoro delle generazioni di artisti più giovani.

E ancora, per quanto riguarda l’archeologia, in primavera al Louvre, Meroë, impero sul Nilo. Di fatto si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente alla capitale egizia, con più di duecento reperti che raccontano dell’influenza africana egizia e greco romana che si intrecciò in questa area di 200 chilomentri a nord dell’attuale Khartoum. La capitale reale Meroë è diventata famosa nei secoli per le piramidi dei re e delel regine che dominarono la regione tra il 270 a.C e 350 d.C. Un tema quello dell’esplorazione delle civiltà antiche che ritroviamo al centro anche della mostra Strade verso l’Arabia. Tesori archeologi dall’Arabia saudita. Una mostra che permette di conoscere più da vicino la storia artistica di questo paese che a causa del regime fondamentalista che lo governa rende difficile l’accesso agli occidentali.

Sua maestà la ricerca scientifica

Senza perdere troppo tempo con gli eventi da cassetta la National Gallery punta sulla ricerca scientifica ed il restauro. Così tra le mostre più interessanti proposte dai musei inglesi per il 2010 c’è a partire da fine giugno la rassegna dedicata alle recenti scoperte riguardo ad attribuzioni e nuovi studi su opere di grandi maestri conservate alla National Gallery. Un esempio abbastanza emblematico: nel 1845, il quadro dal titolo Uomo con teschio fu attribuito a Hans Holbein. Una recente analisi dell’opera con mezzi aggiornati e scientifici ha dimostrato che l’opera risale e a un periodo successivo alla morte dell’artista.

Esplorando un altro ambito poco sotto i riflettori come quello del disegnoo antico, dal 22 aprile, sempre alla National Gallery si apre una grande mostra dedicata al disegno rinascimentale italiano, da Verrocchio a Leonardo a Michelangelo e Raffaello. Per quanto riguarda le civiltà antiche e l’arte di altri continenti, dal 4 marzo, la National ospita una grande retrospettiva dedicata alla scultura africana nigeriana che conobbe una particolare fioritura tra il XII e il XV secolo. E poi con un salto di molti secoli ancora dando uno sguardo alla fitta programmazione della Tate si segnalano nel 2010 la mostra dedicata all’avanguardia europea di Theo van Doesburg (1883-1931) protagonista del movimento olandese di artisti, architetti e designers De Stijl. Ma anche e soprattutto la retrospettiva di Arshile Gorky (1904-1948) dal 10 febbraio, in un confronto serrato con la diversa ricerca di Rothko, Pollock e de Kooning. E ancora dal 30 settembre l’antologica dedicata a Gauguin con un centinaio di opere da collezioni pubbliche e private del mondo per uno sguardo nuovo su questo maestro della modernità.

dal quotidiano Terra del 2 gennaio 2010

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Il flop di Marinetti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su gennaio 16, 2009

boccioni-01-composizione-spiralica15cmNel 1914 il teorico della «guerra igiene del mondo» andò in Russia. E Majakovsky gli organizzò un’accoglienza ostile. Al Mart un “illuminante” confronto fra avanguardia nostrana ed europea di Simona Maggiorelli

Dopo il clamore che tre anni fa suscitò la sua Italia nova. Une aventure de l’art italien 1900-1950 al Grand Palais, mostra parigina che fu accusata dalla stampa d’oltralpe di revisionismo storico e di occultare i rapporti fra futurismo e fascismo, la direttrice del Mart di Rovereto Gabriella Belli torna a esplorare il primo ’900 italiano ma, questa volta, con uno sguardo allargato all’Europa e ai rapporti che i futuristi ebbero con “Der Sturm” e con gli artisti che parteciparono all’avanguardia tedesca: da Chagall a Kandinskij, da Klee a Macke a Marc, fino allo stesso Grosz e altri espressionisti. Ma soprattutto con la mostra Illuminazioni-Avanguardie a confronto. Italia, Germania, Russia (dal 17 gennaio al Mart, catalogo Electa) insieme alla curatrice Ester Coen, la Belli ora approfondisce i contatti che il futurismo ebbe con l’avanguardia russa. Argomentando così in maniera più ampia la tesi della osteggiata mostra francese, ovvero che il futurismo italiano fu un movimento complesso e magmatico in cui, specie nei primi anni, si trovarono a convivere una tradizione intellettual-sovversiva di stampo anarcoide, un certo ribellismo borghese e un montante spirito nazional-fascista. Nell’underground romano di Bragaglia e negli ambienti intellettuali di una Milano che agli inizi del secolo sorso si faceva teatro di un primo sviluppo capitalistico e di lotte operaie avvenne questo bizzarro incontro culturale. Una ossimorica koinè che Umberto Carpi ha puntualmente ricostruito già anni fa ne L’estrema avanguardia del Novecento (Editori riuniti) e in Bolscevico immaginista (Liguori). Quasi, verrebbe da dire, anticipando alcune contraddizioni del ’68: nel futurismo istanze diversissime, quando non del tutto opposte, si incontravano nell’idea di un avanguardismo «come metodo» e in una vitalistica «febbre di ricerca». popova_01E in un primo momento anche Antonio Gramsci guardò con simpatia a questo svecchiamento della cultura italiana promesso dal futurismo con un’apertura internazionale. Ma di lì a poco l’inconciliabilità delle diverse posizioni esplose in modo deflagrante. E se gli interessanti tentativi di creare una arte progressista che si saldasse a una sinistra politica del costruttivista Pannaggi e dell’immaginista Paladini (artisti che ebbero qualche risonanza internazionale e rapporti costanti con l’avanguardia russa) finirono per arenarsi e rimanere isolati, con l’accordo fra Mussolini e i futuristi ogni velleità di sperimentazione, anche di Marinetti, dovette cedere il passo alla trinità “ordine, gerarchia, tradizione” imposta da Prezzolini e dal gruppo dei vociani. Ma già molti anni prima della definitiva normalizzazione del movimento futurista che avvenne negli anni 30 (con il suo leader assurto ad accademico d’Italia e gli ultimi futuristi mutati in  picchiatori) durante il “leggendario” viaggio in Russia di Marinetti del 1914 si sarebbero potuti leggere segni di una fredda presa di distanza da parte di quella avanguardia russa che poi Lenin ingaggiò per dipingere i treni della rivoluzione del ’17. Pagine di storia che ora, in occasione della mostra al Mart, si possono leggere nel resoconto di uno storico dell’arte russo Vladimir Lapšin, pubblicato in catalogo. Di fatto i pittori cubo-futuristi russi snobbarono il tour marinettiano mentre artisti come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova a Olga Rozanova guardarono alla Francia non all’Italia. Senza dimenticare che fu soprattutto il poeta Majakovsky a organizzare un’accoglienza apertamente ostile alle conferenze di chi, come Marinetti, teorizzava la necessità della violenza e parlava della guerra come «sola igiene del mondo». Left 02/09




carra

Quei semi di Futurismo

Con il manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti apparso il 20 febbraio del 1909 sul quotidiano parigino Le Figaro “l’Italia assume un ruolo di porta bandiera nel panorama delle avanguardie europee”. Così scrive Antonio Paolucci nel catalogo della mostra Futurismo avanguardia-avanguardie, dal 20 febbraio alle Scuderie del Quirinale di Roma, dopo l’anteprima al Centre Pompidou di Parigi ( vedi left del 16 gennaio 2009 e del 30 dicembre 2008). Ma il presidente della commissione scientifica delle Scuderie poi aggiunge: “Il movimento futurista è velocità, movimento, dissoluzione della forma tradizionale, contaminazione, simultaneità, rimescolamento e sovrapposizione dei codici. I suoi ideali sono il vitalismo, il modernismo, la rivoluzione radicale e permanente; valori guida delle grandi ideologie totalitarie del ‘900, dalla Russia dei Soviet all’Europa dei fascismi”. Affermazioni inaccettabili in così rozze equiparazioni che “dimenticano” che il comunismo, benché andato incontro a esiti disastrosi, aveva obiettivi del tutto opposti a quelli del fascismo. Ma se per un momento ci accontentassimo della disanima del Futurismo dovremmo dire che si tratta di affermazioni utilissime per valutare la complessa koinè di anarchismo ( nella foto I funerali dell’anarchico Galli di Carrà, 1911), interventismo, ribellismo borghese che dette vita al movimento marinettiano di inizi ‘900 a Milano. La straordinaria messe di documenti contenuti nel catalogo Futurismo 1909-2009 edito da Skira, che accompagna la mostra in corso in Palazzo Reale a Milano, offre argomentazioni ampie su quanto da un po’ di tempo cerchiamo di dire a proposito di un certo mix, di un micidiale corto circuito, fra istanze libertarie e violente, che poi avrebbe allungato un’ ombra ( con tutti i distinguo storici del caso) fino al Surrealismo e al ’68. Se ne rintracciano alcuni segni , per usare parole dello stesso Marinetti, nella “ travolgente e incendiaria” rivendicazione di un movimento aggressivo…insonne e febbrile”, che auspicava un “ salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. Pur mettendone fra parentisi molti altri aspetti, non è difficile intravedere in queste parole i prodromi di gesti surrealisti che prendevano ad esempio gli assurdi di Lautrémont incitando a spari a caso nella folla, come massimo gesto surrealista. Certo Breton e compagni non arrivavano con Marinetti a celebrare la” guerra igiene del mondo”.

Nei primi video e fotografie Man Ray , Max Ernst e altri facevano delle belle donne un’icona. Ma il”disprezzo della donna” invocato da Marinetti che è alla base del mascolino Manifesto delle donne futuriste del 1912 sembra sinistramente riverberarsi, in forma più nascosta e inconscia, negli scritti e affermazioni di Breton e sodali , mentre la bella Kiki de Montparnasse che aveva creduto alle loro fredde lusinghe, si suicidava fra alcol e droghe. s. maggiorelli

Da Left-Avvenimenti 20 febbraio 2009

Da Left-Avvenimenti 20 febbraio 2009


Amazzoni futuriste

di Simona Maggiorelli

Per Marinetti e co. la guerra era “l’igiene del mondo”. E l’enfasi sulla violenza, così come l’adorazione della macchina (“Un automobile da corsa è più bella della Venere di Samatrocia”) lasciava intendere un universo tutto al maschile. Del resto il Manifesto del Futurismo pubblicato nel 1909 su Le Figaro è esplicito: “il disprezzo della donna” era uno dei punti cardine dei futuristi – pittori, scultori, teatranti, paroliberisti e aeropittori- che ben presto sarebbero finiti sotto lo stivale di Mussolini. L’avversione al femminismo delle prime suffragette, ree di trascurare le faccende di casa, come il disprezzo per la femme fatale decadentista, sensuale sciupa-famiglie, ne sono una traccia concretissima. E se nel 1912 Boccioni e Marinetti sfilano a Londra “sottobraccio alle pochissime suffragette carine”, in quello stesso anno, nel Manifesto Tecnico Marinetti scrive: “il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante per noi del sorriso e delle lagrime di una donna”. Come documenta Giancarlo Carpi nel suo Futuriste, letteratura, arte e vita (Castelvecchi) “Linferiorità assoluta della donna” è teorizzata da Marinetti in più occasioni. Tanto che una voce di donna gli risponderà in Francia, quella di Valentine de Saint-Point, autrice del Manifesto della donna futurista, in cui – ahinoi- rivendica un ruolo di donna amazzone e guerriera. Nel centenario futurista, con il suo documentatissimo lavoro Carpi ci invita a leggere libri futuristi come L’uomo senza sesso di Fillìa accanto a quelli di Bruno Corra e del prode Marinetti. Testi che presentano una costante: “l’eroe- scrive Carpi- è avversato da donne sentimentali e portatrici di eros debilitante…”, che ostacolerebbero l’uomo proteso verso il futuro tecnologico. Ovvia conseguenza di tutto ciò, una ridda di rappresentazioni deformanti, grottesche della donna, nella pittura futurista come negli scritti. Ma il fatto tragico che Carpi racconta è l’adesione cieca che artiste oggi sconosciute ai più – come la pittrice Regina, come la danzatrice Giannina Censi e molte altre – manifestarono, facendo propria la violenza di queste immagini, assumendole come modelli.

dal quotidiano Terra

Regina, l’outsider futurista

Una mostra a Brescia riscopre il percorso originale della scultrice, dall’aeroplastica all’astrattismo

di Simona Maggiorelli

Regina

Urge un’arte nuova!” proclamava la scultrice Regina nel manifesto dell’aeroplastica futurista, stilato con Bruno Munari, Carlo Manzoni, Gelindo Furlan e Riccardo Ricas nel ’34 ( ora edito in Futuriste, Castelvecchi).”Naturalmente -scriveva l’artista – urge per noi sensibili ché tanto il pubblico se ne frega che si possa trasmettere una nuova sensibilità come non avrà certamente organizzato magnifici festeggiamenti al sig. Newton quando scoprì la forza di gravità”. Apertura ai nuovi linguaggi ( compreso quello della scienza),sperimentazione a tutto campo fra scultura, disegno, danza e musica connotano tutta l’opera di Regina, lungo un quarantennio di ricerca continua. La mostra Regina futurismo, arte concreta e oltre alla Fondazione Ambrosetti di Brescia, fino al 9 aprile 2010, invita a riscoprire il suo originale percorso dagli esordi negli anni Venti con sculture in lamina di latta e alluminio fino agli esperimenti di arte concreta con Gillo Dorfles e Munari nei primi anni Cinquanta e poi ai “divertimenti” in plexiglas colorato negli anni 60. Come emerge con tutta evidenza anche da questa personale curata da Paolo Campiglio, per Regina l’adesione al Futurismo nel 1931 non fu che una tappa. E non a caso che le sue frequentazioni in questo ambiente non riguardarono la marmaglia guerrafondaia del secondo futurismo. Piuttosto, come ricostruisce Luciano Caramel in una monografia Electa oggi pressoché introvabile, era stata la scultura di Boccioni ad interessare Regina,attratta in modo particolare dalla sua ricerca polimaterica e sulle forme in movimento. Diversamente dalle artiste che si dicevano tout court futuriste e figuravano nel movimento lanciato da Marinetti da gregarie, (quando non da mogli o fidanzate),lei seppe cogliere la spinta futurista verso un’arte nuova intuendo che si trattava di riempire quelle parole di nuovi contenuti che riguardavano l’arte astratta perché non rimanessero lettera morta.

da Left-Avvenimenti gennaio 2010

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Bellini e la sfida dell’invenzione

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 26, 2008


A sessant’anni dall’ultima monografica a Roma una grande mostra dedicata al maestro veneto

di Simona Maggiorelli

«Prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco», così in una pagina del Viatico Roberto Longhi ripercorreva l’inquieta parabola della pittura di Giovanni Bellini, mossa dal “rodimento” di una ricerca continua dell’invenzione nel confronto con i grandi della sua epoca. Un confronto – come quando nel 1475 arrivò a Venezia Antonello da Messina – che non mancò di risultare frustrante. Ma intanto nel gioco di emulazione della Crocifissione di Anversa del pittore siciliano Bellini creò forse il suo capolavoro assoluto: La Pietà di Brera, riuscendo a dare alla vena fiamminga e inquieta del Cristo di Antonello una nuova luce nei colori e uno sguardo aperto sul paesaggio. Fatto è che nell’arte veneta, prima ancora che altrove, si era rotto il culto delle immagini provenienti dall’Oriente, icone che nella loro pretesa di essere antichissimi ritratti autentici di santi, imponevano una cifra di immutabilità. Così se il padre Jacopo Bellini era stato un pittore di icone gotiche e il fratello più grande, Gentile, era l’abile ritrattista che Maometto II aveva invitato in Turchia (fu il primo occidentale a ritrarre l’Oriente musulmano) Giovanni – che era nato nel 1431 e morì nel 1516 – non potè più adagiarsi in una identità di bravo e stimato ritrattista. Nell’età di Leonardo da Vinci, il passaggio era epocale: i grandi pittori avevano perso lo status di artigiano per assumere quello di artista.

Un pittore di Urbino nato cinquant’anni dopo Giovanni Bellini sarebbe stato addirittura “il divino Raffaello”. Fu così che, come ci racconta la mostra Giovanni Bellini allestita nelle sale delle Scuderie del Quirinale, il pittore veneto dovette confrontarsi con il nascente mito dell’artista creatore. Mentre i dipinti su tavola, sempre più richiesti dai collezionisti privati, finalmente permettevano qualche libertà dal rigido canone imposto dalla committenza ecclesiastica. Mauro Lucco e Giovanni C.F. Villa, i due curatori della monografica che si apre il 30 settembre a Roma  alle Scuderie del Quirinale (a sessant’anni dalla storica mostra di Palazzo Ducale a Venezia) sono riusciti a riportarne in Italia alcuni esempi davvero straordinari, fra cui alcuni ritratti. Ma fra le sessanta opere di Bellini in mostra, che coprono i tre quarti della produzione certa del maestro veneziano, ci sono anche grandi e fragilissime pale d’altare, come il Battesimo di Cristo dipinto per la chiesa di Santa Corona a Vicenza e la Pala di Pesaro. E accanto alle Madonne illuminate e rese più carnali dal brillante colorismo veneto, accanto alla serie dei crocefissi spuntano allegorie e mitologie, fra le quali la Continenza di Scipione, un fregio di tre metri di cui la National Gallery di Washington non aveva mai concesso il prestito.

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Dürer, i colori dell’Italia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 2, 2007

Alle Scuderie del Quirinale,una grande mostra sull’artista tedesco. Oli, acquerelli, disegni e stampe originali: un ampio percorso espositivo indaga il rapporto del pittore con il mondo artistico italiano

di Simona Maggiorelli

albrecht_durer_008_autoritratto_a_28_anni_1500Prende le mosse da un affascinante confronto con la pittura italiana l’antologica di Albrecht Dürer e l’Italia (catalogo Electa) che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale, a Roma. Indagando la lunga influenza del pittore tedesco sul Rinascimento (specie su quello delle regioni del nord Italia) e poi sulla prima Maniera di Pontormo e Rosso, che dal maestro di Norimberga mutuarono il tratto nervoso e visionario. Ma non solo. La curatrice Kristina Hermann Fiore si è inserita nel filone della riscoperta di Dürer che da alcuni anni va crescendo in Europa (con ampie e importanti rassegne come quella di Vienna e di Praga), aggiungendo allo studio dell’opera del maestro tedesco tasselli importanti che riguardano l’influenza di Dürer sul Novecento italiano, ma anche un intrigante “dialogo a due” fra Dürer e Raffaello. Un capitolo in cui Hermann Fiore si muove con particolare perizia da curatrice della Galleria Borghese e attenta studiosa del pittore urbinate.
Si scopre così che il dialogo fra Dürer e Raffaello ebbe anche fruttuosi momenti privati, di scambio di omaggi e di opere. Raffaello, in particolare, diede a Dürer il disegno preparatorio di un gruppo di figure dell’affresco della Battaglia di Ostia, mentre il pittore tedesco gli fece avere una sua testa dipinta a guazzo. «Dürer stupì Raffaello per la sua arte di dipingere alla stregua di acquerello sfruttando il fondo bianco della tela, quasi un velo per le parti chiare, con un miracoloso effetto della visibilità dai due lati della piccola tela», ricostruisce la curatrice. Le tracce di quest’incontro con la pittura di Dürer si ritroveranno poi anche nell’autoritratto frontale di Raffaello che si ritraeva secondo i modi della “imitatio Christi”, particolare cifra che ritorna spesso nella pittura del maestro di Norimberga, basta pensare al celebre autoritratto. Il quale dal contatto con la pittura italiana, e con quella di Raffaello in modo particolare, derivò un sensibile ammorbimento delle forme, maggiore armonia e attenzione alle proporzioni classiche. Ma per il pittore tedesco – che scese in Italia in due occasioni, la prima volta nel 1494 e poi tra il 1505 e il 1507 – il contatto con gli artisti “italiani” non fu sempre così facile.

Fra invidia e ignoranza, dai colleghi a Venezia e nelle città d’arte della Penisola era considerato solo un buon incisore (le sue incisioni e stampe circolavano già ampiamente in Italia). Senza contare che nella laboriosa Norimberga i pittori – diversamente da Roma dove Raffaello era già “il divin pittore” – erano ancora considerati alla stregua di artigiani. Ma il viaggio in Italia cambiò molte cose per Dürer anche da questo punto di vista. Oltre all’acquisizione dell sfumato leonardesco, del colorismo veneto e delle forme e proporzioni classiche, in Italia Dürer – che pure era un uomo colto, amico di Erasmo – maturò anche un diverso e più consapevole status di artista.
La mostra che si apre oggi a Roma racconta anche questo aspetto, ricostruendo tutta la vicenda del pittore tedesco in Italia, che ebbe un momento di svolta nel 1506, quando a Venezia dipinse La festa del Rosario per il Fondaco dei Tedeschi.
Un’opera che riusciva a fondere l’ordine, l’armonia, la dilatazione delle forme del Rinascimento maturo con l’analisi minuziosa e realistica delle figure di matrice nordica.
Lo sfolgorante luccichìo dei gioielli del Quattrocento fiammingo con il luminoso sfumato di Leonardo e Giorgione. Un risultato che nasceva dalla fusione originale di due diverse e lontane culture pittoriche, quella rinascimentale e quella “gotica”. Fu lo stesso Giovanni Bellini a tesserne le lodi. E da quel momento per Dürer fioccarono ammirazione e sempre nuovi committenti. Di ogni genere e rango, perché Dürer aveva portato con sé anche molte stampe e per tutto il viaggio fece una gran messe di schizzi, disegni e acquerelli.
Opere che ancora oggi risultano di una freschezza straordinaria. Dürer, in realtà, fu il primo artista a usare l’acquerello per registrare dal vivo i paesaggi che lo colpivano. Si divertiva a ricopiare dal vivo, con fresco realismo, animali e piante, ma erano soprattutto le persone a suscitare la sua curiosità. Una curiosità vivace, appassionata, di cui resta testimonianza anche nel suo diario di viaggio in cui, accanto a note di spesa, regali, bevute con amici, Dürer annotava impressioni, giudizi fulminanti su cose e persone. Lasciando che la superficie delle contabilità quotidiane facesse spazio all’improvviso a descrizioni intense e poetiche oppure a stigmatizzanti caricature: una passione per l’umano che Dürer trasformava di volta in volta in scrittura o in immagini pittoriche.

Così l’immediatezza, lo scavo psicologico dei ritratti a olio, a penna, a carboncino, a gesso nero, a punta d’argento finiva poi per contaminare e animare anche le pitture sacre, dando alla raffigurazione di Madonne e Santi un movimento interiore del tutto nuovo e inaspettato. Come si può vedere, da oggi e fino al 9 giugno, nell’ampio percorso della mostra Albrecht Dürer e l’Italia che nelle sale delle Scuderie del Quirinale squaderna venti oli, undici acquerelli, trentatré disegni e cinquantotto stampe originali, intercalandoli con opere di artisti italiani, da Raffaello a Caravaggio.

da Europa,  2 marzo 2007

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Nacque in prigionia il genio di Burri

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 19, 2006

In mostra le opere che l’Italia provinciale denunciò all’Ufficio di igiene. Le famose tele di “sacchi” bucati e logorati erano i “materiali” dei campi di concentramento e insieme la trasfigurazione delle tragedie vissute in guerra. Solo l’arte poteva, se non sanare, almeno tentare di esprimere una protesta, che andasse al di là di un semplice grido di dolore

di Simona Maggiorelli

alberto-burriNel cortile di un campo per prigionieri di guerra, in una zona desertica del Texas, il medico Alberto Burri diventò artista.
Troppo angoscioso e atroce quello che gli era capitato di vedere sotto le bombe, nella distruzione di uomini e di cose che la guerra aveva prodotto. Lui, giovane ufficiale medico fatto prigioniero in Tunisia, si trovò, così, a provare ad elaborare quell’immenso dramma con quel che aveva sotto mano. Con pochissimo. Pezzi di corda, sacchi di juta, qualche resto di spazzatura.
Solo l’arte, in quella situazione poteva, se non sanare, almeno tentare di esprimere una protesta duratura, che andasse al di là di un semplice grido di dolore. Nacque così il primo Saccodi Burri, fatto di materie poverissime, tela logorata, bucata e consunta, muffe e materiali di rottamazione. Quel Sacco che esibendo una realtà lacera, ferita, ridotta a brandelli, fece scandalo alla sua prima apparizione nella Galleria di arte moderna di Roma, nel 1960 e alla Biennale di Venezia. Al punto da sollevare interpellanze parlamentari e, persino, denunce all’Ufficio di igiene. Quello che è certo e che l’arte italiana, che negli anni delle avanguardie storiche non aveva avuto un Picasso, ma solo qualche attardato futurista, si trovò davanti, per la prima volta, un modo di fare arte che non era più mimesi della realtà, ma composizioni astratte di buchi, strappi, improvvise bruciature che riuscivano a rappresentare il dramma di una generazione più di un qualunque ritratto. E con la sensazione che poi non si sarebbe più tornati indietro. Almeno non nel senso di ritornare a un figurativo rassicurante come lo intendeva l’ultimo Ottocento. La svolta di Burri e di alcuni altri artisti che, con mezzi diversi, stavano percorrendo le stesse strade (in primis Fontana, ma anche il francese Yves Klein e poi Beuys, Kounellis, Pistoletto e molti altri) apriva a un nuovo modo di concepire lo spazio, coinvolgendo direttamente lo spettatore, inviatandolo a diventare anche lui, con quadri specchianti e sculture da abitar la fondamentale triade artista, ambiente, spettatore. Di questo mutamento, che fu un terremoto per l’arte del dopoguerra, e che apriva alla sperimentazione di nuovi materiali (ferro, legno, catrame, feltro, vetro, ma anche vinavil, cellotex e molto altro) e, dal punto di vista dei contenuti apriva ai temi della pace, dell’ambiente, di un nuovo umanesimo, Alberto Burri fu protagonista schivo, ma assoluto.
La mostra che si apre il 17 novembre alle Scuderie del Quirinale a Roma lo racconta. Riscoprendo, a dieci anni dalla scomparsa dell’artista umbro, la centralità e dell’attualità di queste sue invenzioni creative, che poi sarebbero state riprese, sviluppate, trasformate e portate avanti da più di una generazione di artisti: dal gruppo dell’Arte povera in Italia, ma anche da artisti americani come Rauschenberg o Schnabel che, proprio grazie anche al rapporto diretto con Burri, riuscirono a sviluppare un proprio modo originale di fare arte, sfuggendo alla piattezza seriale della pop art, che negli anni Sessanta, Oltreoceano e non solo, era padrona assoluta della scena artistica. Maurizio Calvesi che è stato fin dagli anni Cinquanta uno dei primi studiosi dell’opera di Burri ma anche, appena qualche mese fa, artefice di una delle più complete retrospettive di Burri, nella sua terra di origine, Città di Castello, per questa nuova e importante esposizione romana, intitolata Burri, gli artisti e la materia 1945-2004, seleziona un nucleo forte di 21 opere, fra le più significative dell’opera di Burri, da Grande sacco e Rosso degli anni Cinquanta fino ai Cretti degli anni Settanta e all’ultimo Cretto nero e oro del 1994, costruendo a raggiera, tutt’intorno percorsi di assonanze e vicinanze con opere di artisti dell’Arte povera e della scena internazionale, coeva e successiva a Burri. Inedito il parallelo che Calvesi getta fra Burri e Klein, affiancando i sanguigni Rossi del maestro umbro, con i vibranti monocromi bluoltremare, con cui l’artista francese, scomparso a soli 34 anni, riusciva a cambiare, la qualità emotiva.
Celebre Immateriel in cui Klein utilizzava un procedimento simile di cartoni compressi e bruciati che poi andavano a formare, nel finito, aloni diafani e evanescenti, evocando l’idea di umani ridotti a flebili ombre. Più noto, invece, ma non meno affascinante da vedere finalmente dal vivo il confronto fra l’uso dei materiali poveri da parte di Burri e da parte dei cosiddetti artisti dell’arte povera: da Kounellis con opere fatte di acqua, fuoco e terra, da Zorio e Merz nei loro esperimenti con il neon e la luce, da Pistoletto che in questa mostra romana è rappresentato dalla sua opera simbolo, la Venere degli stracci del 1967. E ancora i primi cementarmati di Uncini e l’omaggio a Burri di Ceroli.
E poi guardando Oltralpe, gli assemblaggi dell’artista umbro in un confronto vivo con gli organismi di oggetti e le splendide composizioni di violini bianchi dell’appena scomparso Arman; i segreti richiami fra le terre scavate e scure di Burri e i marroni e gli arancio caldi dello spagnolo Tapies. E poi opere di Kiefer, Twombly, Canogar, Cesar, Millares, Nicholson, Beuys in una tentacolare diramarsi di proposte che scovano radici comuni fra le scoperte di Burri e quelle quelle di artisti, a volte, davvero a lui lontanissimi, non solo geograficamente. Trasformando, fino al 16 febbraio, le sale delle Scuderie del Quirinale in un percorso generosissimo di sorprese.

da Europa,  19 novembre 2006

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